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spesa pubblica

Bussano a Villa Pamphilj

Che immagine potente vedere la classe dirigente riunita in un consesso sull’economia nell’elegante Villa Pamphilj a decidere delle sorti post pandemia e fuori c’è un sindacalista, un sindacalista di quelli che viene dalla scuola di Di Vittorio, uno di quelli con il nerbo di chi tira fuori la testa anche se molte mani gliela schiacciano sotto terra, a reclamare i diritti degli invisibili. Aboubakar Soumahoro è stato ricevuto da Conte e da qualche ministro, gli hanno promesso che valuteranno le risposte, si sono addirittura lanciati a dirgli che la revisione dei decreti sicurezza di salviniana memoria sono nell’agenda di governo (sì, ciao) e sono stati costretti ad aprire il portone agli sfruttati che bussano.

Bussare alle porte del potere è considerato così maleducato, in questi tempi in cui la moderazione e la buona educazione sono i sinonimi di un invito perpetuo a restare tiepidi, che c’è da augurarsi che invece lo imparino in fretta i nostri ragazzi, quel buon sapore che c’è nel parteggiare, nell’odiare gli indifferenti, nell’insistere fino allo sfinimento a frugare tra i diritti seviziati e tra tutti i laterali che sembrano non entrare mai in partita.

Bussa a Villa Pamphilj anche la scuola, quella scuola che in questi giorni si è rabberciata ancora una volta per permettere lo svolgimento degli esami e che si merita un solo punto di studio nell’articolato piano in discussione durante questi Stati Generali. È la scuola a cui nelle intenzioni, in quel mare di soldi che arrivano per la pandemia, sono stati destinati 1 miliardo e 4oo milioni, nemmeno la metà di quello che si è speso per Alitalia. È la scuola figlia dei disastri di tutti i governi passati che ci hanno reso il Paese con il più basso tasso di laureati d’Europa (dopo la Romania) con strutture scolastiche spesso fatiscenti e con un 6,9% della spesa pubblica dedicato all’istruzione mentre negli Usa spendono quasi il doppio e in Cile addirittura il triplo.

Bussa a Villa Pamphilj un Paese che si accorgerà dei disastri del Covid a settembre, nell’economia e nel lavoro, e mai come ora è il momento di bussare, di esserci, di farsi sentire, di decidere fortissimamente da che parte stare, di non tacere. Il futuro si disegna decidendo i capitoli di spesa per gli anni a venire e questo è il momento.

Aboubakar ci è andato. Noi?

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«Nessun contenimento della spesa pubblica e corruzione devastante»: lo dice la Corte dei Conti

Tanto per imparare a pesare promesse e effettivi risultati leggetevi cosa dice la Corte dei Conti:

Nessun rientro della spesa, corruzione “devastante” e riforme pasticciate. È il giudizio tutt’altro che lusinghiero formulato dalla Corte dei Conti nella relazione sul rendiconto generale dello Stato 2016. Sul fronte della lotta alla corruzione – sostiene il procuratore generale Claudio Galtieri – il sistema dei controlli “si struttura in una serie di ‘sottosistemi’ a connessione estremamente debole fra di loro, tanto da correre il rischio di essere un ‘non sistema‘ al cui costo complessivo, non indifferente, non corrisponde una proporzionale utilità”. Tale sistema, dice ancora Galtieri, “è scarsamente efficace per contrastare quei comportamenti illeciti i cui effetti negativi sulle risorse pubbliche sono spesso devastanti”. Secondo il magistrato serve quindi “un ripensamento globale e senza pregiudizi di tutti i meccanismi di controllo” per “semplificare il quadro normativo eliminando interferenze e parziali sovrapposizioni”. In questo modo, conclude, sarebbe più facile raggiungere un duplice obiettivo: “Dare una spinta all’efficienza della spesa con effetti positivi anche sul mercato e contribuire ad aumentare concretamente il livello del contrasto a fenomeni di illecito e di corruzione”.

“Spending review non ha prodotto risultati” – Se la lotta alla corruzione arranca, allo stesso modo le risorse pubbliche soffrono per la mancata attuazione della spending review, parola d’ordine di ogni esecutivo dell’ultima legislatura. O quantomeno per il suo uso disinvolto nel finanziare, di volta in volta, le priorità del momento. Per la magistratura contabile, “le misure messe in atto sembrano avere salvaguardato l’operare di interventi di sostegno dei comparti produttivi”, ma “non hanno prodotto risultati di contenimento del livello complessivo della spesa”. Per questo, dice presidente delle sezioni riunite Angelo Buscema: “Resta ancora attuale la necessità di una revisione attenta di quanto può, o non può, essere a carico del bilancio dello Stato”.

“Occorre percorso rientro rigoroso” – Tradotto, i 29,9 miliardi che il commissario alla spesa pubblica Yoram Gutgeld sostiene di avere risparmiato nella relazione presentata la scorsa settimana, sono già spesi o già impegnati per sostenere le attività del governo. E così la spesa corrente – come sottolineato da tutti gli operatori – invece di diminuire, ha superato per la prima volta quota 700 miliardi di euro. La Corte, a suo modo consiglia di stringere la cinghia della flessibilità: il debito pubblico italiano è talmente elevato che serve un percorso di rientro più rigoroso di quanto chiesto dalla Ue. “L’elemento di maggiore vulnerabilità dell’economia italiana – vale a dire l’elevato livello del debito – impone alla politica economica, ben di più di quanto non derivi dai vincoli fissati con le regole europee sui conti pubblici, di proseguire lungo un percorso di rientro molto rigoroso”. Questo obiettivo, aggiunge Buscema, deve essere perseguito “attraverso un’attenta gestione dei conti pubblici che garantisca il raggiungimento, in tempi certi, degli obiettivi programmati di saldo e di debito, scongiurando inversioni di segno negativo delle aspettative dei mercati”.

L’incompiuta Madia – E se Gutgeld lo scorso 20 giugno si augurava “di leggere un po’ meno sulla stampa che in Italia la spending o non si è fatta o si è fatta male”, tanto che proprio questa mattina difendeva l’Italia virtuosa dalle colonne del Corriere della Sera, questa volta a dirlo non sono i giornali, ma la magistratura contabile. Che critica non solo i conti dello Stato, ma anche le riforme ritenute cruciali come quella della pubblica amministrazione e la politica economicadel governo, insufficiente a colmare il gap con il resto dell’Unione. “Il bilanciamento della politica economica e della gestione della finanza pubblica appare particolarmente complesso per l’Italia, dove il recupero della crescita del prodotto interno lordo, dopo la lunga crisi, appare ancora troppo modesto e, soprattutto, in ritardo rispetto alla ripresa in atto negli altri principali Paesi”, scrive ancora Buscema. Quanto all’opera del ministro Marianna Madia, più volte azzoppata dai rilievi della Consulta, “non si può fare a meno di notare” – aggiunge il procuratore Galtieri – che sembra “scontare una serie di incertezze di fondo su taluni temi cruciali e a valenza strategica quali quelli delle società partecipate e della dirigenza”. Una specie di incompiuta, a volte in contraddizione con se stessa, se è vero che le incertezze “hanno determinato un andamento non lineare non solo delle modalità e dei tempi del processo riformatore, ma anche, per taluni aspetti, della stessa filosofia innovativa su cui la riforma si deve fondare”.

“Consip centrale ma valutarne risultati” – Buscema dedica un passaggio della sua relazione anche alla Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione, che ha contenuto le spese ma i cui risultati devono passare da una verifica più approfondita. “Sul fronte degli acquisti – scrive il magistrato contabile-, si è confermata la centralità del programma di razionalizzazione delle procedure tramite Consip nelle politiche di contenimento della relativa spesa, anche se è emersa nel corso degli ultimi anni l’esigenza di una verifica dei risultati più rispondente a dati reali.  “Per lo Stato – continua poi Buscema – nonostante l’incremento della spesa mediata da Consip, l’acquisizione di beni e servizi risulta ancora in prevalenza effettuata con il ricorso alla procedure extra Consip”.

(fonte)

«L’austerity in Italia non è mai esistita»: lo dice Roberto Perotti, ex consigliere del presidente del Consiglio dei ministri per la spesa pubblica

La spesa pubblica è sulla bocca di tutti e sarà sempre peggio con l’avvicinarsi delle elezioni. Il debito pubblico invece, quello no, di quello non ne parla più nessuno perché lo “storytelling” prevede l’obbligo (politicamente amorale) di essere “positivi” come se la gestione del Paese sia una merce da vendere al pari di una confezione di biscottini o una nuova marca di shampoo. E allora vale la pena di leggersi attentamente tutta questa intervista a Roberto Perotti che proprio per i “tagli di Stato” era stato chiamato al fianco dell’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi. E poi allontanato. Eccola qui:

La spesa pubblica al netto degli interessi ha continuato a salire dal 2014, i numeri dello stesso Def sono chiari”. Peggio: “La revisione della spesa pubblica è morta, ma il debito pubblico è un problema reale non una fisima degli economisti”. Roberto Perotti, professore dell’Università Bocconi ed ex consigliere del presidente del Consiglio dei ministri per la spesa pubblica, non usa mezzi termini parlando a margine dell’incontro di presentazione del suo libro ‘Status quo: perché in Italia è così difficile cambiare le cose (e come cominciare a farlo)’, organizzato presso la sede di Arca Fondi Sgr dall’Associazione Civicum. “Per fare la revisione della spesa serve la volontà politica – dice Perotti – e l’iniziativa dovrebbe partire dai Ministri. Ma i direttori generali, i capi di gabinetto dei ministeri non hanno alcun interesse a toccare lo status quo, si tratta di persone che sono lì a volte da 20-30 anni, spesso trascorsi a guardare il proprio ombelico e senza esperienze di fuori dall’ambiente romano e a volte senza nessuna competenza“. I problemi sono molteplici, dalla “pigrizia intellettuale” alla mancanza di voglia “di mettersi a guardare e studiare i numeri”. A questo si aggiunga una buona dose di incompetenza nell’analizzare “i problemi e vedere quello che può andare storto” come accaduto per la riforma della Pubblica amministrazione “assegnata a un ministro (Marianna Madia, ndr) che non aveva le competenze necessarie per intervenire” o quella delle pensioni targata Fornero con il dramma degli esodati.

Il governo sostiene che più di così sia impossibile tagliare, ma è un’affermazione a cui è difficile credere a fronte di una spesa pubblica complessiva di oltre 800 miliardi di euro l’anno.

Capisco i problemi politici, ma ci sono ampi margini di tagli possibili senza dover toccare pensioni, sanità e stipendi pubblici che – tuttavia – non sono certo voci incomprimibili. Probabilmente al loro posto mi comporterei allo stesso modo, ma deve essere chiaro che sono le pubbliche amministrazioni il primo freno ai tagli. Insieme agli stessi politici che non hanno tempo e voglia di mettersi a capire le cose.

Cioè?

Non hanno una visione di insieme della spesa pubblica e nessun dirigente mostra loro i tanti capitoli di spesa che potrebbero essere ridotti. Quindi i politici si convincono che la spesa sia incomprimibile.

A parole le intenzioni del governo erano di ridurre la spesa.

Il vento è cambiato. Il segnale più chiaro è la frase che Renzi ha pronunciato recentemente su Padoan, che diceva pressapoco così: “E’ un bravissimo tecnico, ma non si rende conto che il mondo è diverso da quello che ha studiato sui libri”. Di fronte alle difficoltà di tagliare la spesa, i politici si sono auto-convinti che per ridurre le tasse non sia necessario ridurre la spesa: il modo migliore di ridurre la pressione fiscale, dicono i politici, è aumentare il Pil attraverso aumenti di spesa. Questa è una favola a cui i politici vogliono credere per evitare di fare scelte difficili. Così come vogliono credere alla favola che i tagli di tasse si autofinanzino con l’aumento del Pil che essi indurrebbero.

La revisione della spesa è davvero morta?

Non so se sia mai stata viva, ma oggi è sicuramente morta. Sia perché ormai siamo in campagna elettorale e si sentono più forti le pressioni per aumentare la spesa; sia perché c’è aria di proporzionale, e il proporzionale rende più difficile controllare la spesa; sia perché, oggettivamente, il governo deve respingere l’assalto di forse populiste all’opposizione, che unanimemente attaccano l’austerity, anche se da noi non è mai esistita.

Anche i tedeschi rinfacciano all’Italia di non aver fatto austerity.

Che l’austerità fiscale non ci sia mai stata è un fatto. L’unica forte riduzione del disavanzo c’è stata con Monti, che però agì quasi esclusivamente sul lato degli aumenti di tasse. Poi l’avanzo primario ha continuato a scendere e la spesa primaria ad aumentare. I numeri sono chiari, chi dice il contrario fa solo propaganda. Non suggerisco di tagliare la spesa in modo drastico: sarebbe rischioso, ma gli aggiustamenti graduali sono sempre possibili. Per esempio una revisione di 3-4 miliardi non avrebbe impatti sulla sanità o sulle pensioni. Ma è evidente che qualcosa in cambio bisogna dare.

Che cosa intende?

Intendo dire che bisogna far capire alle persone che non si vuole tagliare a caso, ma che l’obiettivo è quello di risanare il Paese. Serve un segnale forte soprattutto per rispondere alle pressioni populiste, che peraltro in alcuni casi sono perfettamente giustificate. Penso alla riduzione dei vitalizi dei politici e degli stipendi per le figure apicali della pubblica amministrazione: guadagnano molto più rispetto ai loro pari grado di altri Paesi, mentre ai livelli più bassi i dipendenti pubblici hanno stipendi inferiori ai colleghi europei. Ridurre il vitalizio ai senatori, per esempio, sarebbe stato un volano politico pazzesco. E contrariamente a quanto si vuole far credere, probabilmente questa volta la Corte Costituzionale non si sarebbe opposta. Se non tagli in alto diventa politicamente impossibile tagliare altrove, ed è comprensibile. E quando si arriva a parlare solo di patrimoniali e lotta all’evasione fiscale è evidente che le idee siano finite.

L’eccesso di debito pubblico è davvero un problema?

Lo ripeto, il taglio del debito non è una fisima degli economisti come sostengono i politici. Certo nessuno saprà mai se con il 133% di debito/pil si possa sopravvivere, ma è sicuramente vero che non si possono fare interventi straordinari quando si presenta un’emergenza. L’Irlanda è riuscita a salvare le sue banche dopo la crisi del 2008 perché partiva con un debito al 30% del Pil, l’Italia, al contrario, non aveva un euro. E questo al netto di tutti gli attacchi all’Europa che secondo i politici italiani avrebbe impedito l’intervento pubblico. Se avessimo avuto un debito come quello irlandese avremmo potuto affrontare prima il problema dei crediti deteriorati, invece di farlo diventare un bubbone. I crediti deteriorati restano uno dei principali problemi di questo paese: per anni abbiamo messo la testa sotto la sabbia e poi ci abbiamo messo altri anni per cominciare a gestirlo in modo non dilettantesco.

(fonte)

Lombardia, salute e il cuore dei cittadini

regione_lombardia_ansa-jpg-crop_displayChiedo al dott. Marco Zanobini, cardiochirurgo presso il Centro Cardiologico Monzino di Milano, se è vero che in Lombardia ci sono più cardiochirurgie che in tutta la Francia: “Se consideriamo che in Lombardia vi sono 20 centri di cardiochirurgia mentre  nella regione francese dell’Ile de France ve ne sono 14,  con una popolazione residente superiore del 15%, possiamo senz’altro dire che in Lombardia ve ne sono troppi. Il dato attuale tiene conto di una programmazione sanitaria effettuata negli anni addietro non troppo illuminata: si decise allora, vista la richiesta immediata di prestazioni cardiochirurgiche che causava lunghe liste di attesa anche superiori ad un anno, di autorizzare l’apertura di un elevato numero di centri, soprattutto privati”. […]

“Si dovrebbe garantire l’accesso di tutta la popolazione ad un elevato standard di cura e al tempo stesso lo si dovrebbe consentire in tempi ragionevoli; mentre la riduzione dei posti letto che si sta portando avanti costituisce un ostacolo. Inoltre si dovrebbe garantire l’appropriatezza delle cure erogate con una continua interazione e collaborazione tra Istituzioni ed operatori del settore, al fine di trovare dei chiari punti di intesa su cui sviluppare una implementazione ed un miglioramento del servizio offerto; a tal proposito ricordo ancora la necessità di un rigoroso controllo della qualità dei risultati clinici forniti soprattutto in un momento come quello attuale in cui si impone la necessità di un serio e razionale controllo della spesa pubblica”.

Domenico De Felice in un’intervista cardiaca che centra il “cuore” della meritocrazia e della programmazione sanitaria fallimentare nonostante la retorica dell’eccellenza.