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No, il Tapiro d’oro ad Ambra Angiolini non è satira, ma becero gossip sulla pelle di una donna tradita

La trasmissione Striscia la notizia con il suo inviato Valerio Staffelli ha deciso di consegnare il Tapiro d’oro ad Ambra Angiolini che se lo sarebbe meritato perché è stata lasciata dal suo compagno, l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri, e questa cosa deve aver fatto riderissimo Antonio Ricci e la sua truppa.

La figlia di Angiolini (siano benedetti questi ragazzi che stanno crescendo imponendo una modernità dei modi e dei diritti che può farci molto bene) non è stata zitta: «So bene che, in quanto personaggio pubblico, secondo alcuni è giusto che la sua vita, anche quella privata, venga sbandierata ai quattro venti. Ma è davvero necessario infierire?», ha scritto sul suo account Instagram.

Ma c’è un punto importante in tutta questa storia: che la relazione tra Angiolini e Allegri sia finita l’hanno riportato numerosi giornali di gossip raccontando di un tradimento del mister della Juventus che sarebbe stato una della cause della fine.

Ricapitolando: un uomo tradisce la sua compagna (entrambi personaggi pubblici) e la trasmissione Striscia la notizia decide di “premiare” scanzonando la tradita. La vedete la miseria? Dietro quel premio c’è una serie di punti che vanno osservati.

Primo, la satira. «Era per ridere, è satira», spiega qualcuno in queste ore utilizzando (a casaccio) il diritto di satira senza conoscerne la storia e il significato. La satira si realizza nel momento in cui attraverso la risata si mostrano debolezze e mancanze dei potenti che altrimenti sarebbe difficile mostrare.

Per questo la satira si fa contro i re: distruggere attraverso il sorriso la prepotenza di chi detiene un qualsiasi potere è lo spazio in cui i giullari riescono a prendersi delle libertà che difficilmente verrebbero concesse. Se Striscia la notizia avesse voluto fare satira avrebbe potuto consegnare il Tapiro a Massimiliano Allegri per il suo pisellino in fuori gioco: questa sarebbe stata satira. Non capire tra il traditore e la tradita chi dei due è il più debole appare un errore piuttosto grossolano. Fare satira sulle vittime rischia di essere semplicemente un’esposizione al pubblico ludibrio, qualcosa molto vicino alla rivittimizzazione.

Secondo, la donna. Guarda caso ancora una volta è la donna a essere messa sotto la lente. Che incredibile coincidenza, vero? Consegnare il Tapiro alla donna tradita veicola sotto traccia il messaggio che Ambra non sia stata in grado di “tenersi” il suo compagno.

In fondo la fedeltà maschile (questo lo dice anche l’evoluzione del codice penale) è qualcosa che le donne si devono meritare assolvendo tutti i propri doveri. Cosa c’è di meglio di un Tapiro per dire a Angiolini che fa molto ridere il fatto di non essere stata all’altezza del suo uomo stallone? Se è stata tradita significa che qualcosa avrà sbagliato, in qualcosa sarà stata deficitaria.

La fedeltà di un uomo bisogna guadagnarsela tutti i giorni mentre la fedeltà della donna è data per scontata (mica per niente era un reato fino a non molto tempo fa). Quel Tapiro dice “cara Ambra ci hai provato ad essere la compagna di quel figo di Allegri ma lui, si sa, sta in quel mondo dove i maschi proprio non riescono a tenere a bada il proprio pene. Peccato. Ridiamoci su”. E le battute di Staffelli su Allegri e il suo fuoriclasse Dybala confermano la modalità: troppi campioni, peccato.

Terzo, la televisione. Una televisione che ancora nel 2021 ritiene il sentimento un vezzo da sventolare per costruirci una notizia. Come se si giocasse alle figurine si mischiano le carte per immaginare gli accoppiamenti e per mettere in vetrina le prede e i cacciatori. Se qualcuno è un personaggio pubblico allora ci si sente in diritto di grufolare nel suo privato. Chi se ne fotte di tutti quelli che stanno intorno (i figli, ad esempio).

Una televisione che ancora nel 2021 trova simpatica l’idea di assediare una donna tradita per sbertucciarla di fronte alle telecamere. Una televisione che ancora usa il modello dell’esposizione della sfigata che è stata lasciata. Modelli che erano stupidi e vecchi 20 anni fa e che nella redazione di Striscia fanno ridere ancora quattro maschi invecchiati che sono scollegati dal tempo.

Ultimo, l’uomo. Il traditore ha potuto assistere bello tranquillo nella sua casa di Torino allo spot di sponda della sua mascolinità. Nessuno osi disturbare il mister, che ha cose troppo serie da fare. Chissà che pacche sulle spalle per avere mostrato indirettamente in prima serata la sua vorace mascolinità. Ben fatto, bravi, davvero.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Insorge il sole sulla Gkn

Il Tribunale del lavoro di Firenze ha accolto il ricorso della Fiom e ha revocato l’apertura dei licenziamenti collettivi. È una prima vittoria, ma che sia stato un giudice a ribadire alcuni diritti fondamentali dei lavoratori dà l’idea dell’assenza della politica e di una visione politica del mondo del lavoro

Intanto ci è arrivato il tribunale. Il Tribunale del Lavoro di Firenze ha revocato l’apertura dei licenziamenti collettivi dei 422 dipendenti della Gkn di Campi Bisenzio, la multinazionale controllata dal fondo finanziario Melrose. Il Tribunale certifica che l’azienda ha provato a scavalcare il sindacato tenendo all’oscuro i lavoratori delle reali intenzioni programmando una finta chiusura temporanea lo scorso 9 luglio adducendo inesistenti motivazioni legati alla produzione quando sapevano che i dipendenti non sarebbero più rientrati. Secondo il giudice la multinazionale ha violato l’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori mettendo in atto comportamenti anti sindacali e perfino l’accordo del giugno 2020 tra le Rsu e l’azienda. Dopo la sentenza l’azienda ha comunicato di aver dato «immediata esecuzione» a quanto stabilito dal giudice revocando la procedura «senza che ciò possa considerarsi acquiescenza» e «con ogni più ampia riserva di impugnazione».

Addirittura, secondo la ricostruzione del tribunale, la decisione sarebbe stata presa l’8 luglio in un consiglio di amministrazione in cui si era deciso di delocalizzare la produzione di assi e semiassi (l’attività che si svolgeva nel sito fiorentino) in Polonia. Per il giudice, nel comunicare i licenziamenti collettivi con una email, il 9 luglio scorso, la Gkn è venuta meno al «democratico e costruttivo confronto che dovrebbe caratterizzare le posizioni delle parti». «Pur non essendo in discussione la discrezionalità dell’imprenditore rispetto alla decisione di cessare l’attività di impresa (espressione della libertà garantita dall’art. 41 Cost. ), nondimeno la scelta imprenditoriale deve essere attuata con modalità  rispettose dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, nonché del ruolo e delle prerogative del sindacato», scrive il giudice del Lavoro di Firenze, Anita Maria Brigida Davia. Gkn «nel decidere l’immediata cessazione della produzione – si legge nel decreto –  ha contestualmente deciso di rifiutare la prestazione lavorativa dei 422 dipendenti (il cui rapporto di lavoro prosegue per legge fino alla chiusura della procedura di licenziamento collettivo), senza addurre una specifica ragione che imponesse o comunque rendesse opportuno il suddetto rifiuto, il che sicuramente contrario a buona fede e rende plausibile la volontà di limitare l’attività del sindacato». «Quanto al rispetto del ruolo del sindacato stesso – chiarisce il giudice – appare significativa la chiusura di 24 ore per “par collettivo” (permesso annuo retribuito), concordata con motivazione rivelatasi successivamente pretestuosa e artatamente programmata per il giorno successivo a quello fissato per decidere la cessazione di attività, in modo da poter comunicare la suddetta cessazione ai lavoratori e al sindacato con lo stabilimento già chiuso».

È una prima vittoria, certo, ma che sia stato un tribunale a ribadire alcuni diritti fondamentali dei lavoratori (grazie anche a quello Statuto dei lavoratori che molti vorrebbero smantellare) su un ricorso della Fiom dà l’idea dell’assenza della politica, di una visione politica del mondo del lavoro e di una chiara interpretazione del mondo. Enrico Letta ieri twittava: «Avevano ragione i lavoratori, avevano ragione i sindacati e avevamo ragione noi ad accusare la #GKN di aver violato ogni regola. Il Tribunale di Firenze l’ha sancito. Ora si fermino e si volti pagina». Benissimo certo ma per voltare pagina basterebbe che il partito di Letta (che sta al governo) decida di prendere in mano ad esempio il documento che proprio i lavoratori della Gkn con l’aiuto dei Giuristi democratici hanno scritto in otto punti per la stesura di una legge contro le delocalizzazioni. Un documento che parte dalla considerazione che «delocalizzare un’azienda in buona salute, trasferirne la produzione all’estero al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti, non costituisce libero esercizio dell’iniziativa economica privata, ma un atto in contrasto con il diritto al lavoro, tutelato dall’art. 4 della Costituzione».

Come scriveva ieri Deborah Lucchetti su Il Manifesto: «L’idea che la contesa si gioca sulle regole e sulla capacità dello Stato di tornare ad essere protagonista e regolatore dell’economia: la chiamata dei giuristi a scrivere la legge contro le delocalizzazioni selvagge davanti ai cancelli insieme agli operai, sovverte la prassi di un diritto sempre più ammorbidito, scritto per le imprese e il mercato sotto la pressione di migliaia di lobbisti, lontano dal dettato costituzionale e dal bene comune, secondo il fallimentare principio neoliberista dello Stato minimo in un mercato autoregolato».

In tutto questo tra l’altro, come fa notare Marta Fana, «il Fondo Melrose – i proprietari della Gkn- perde in meno di tre ore il 4,3%. A conferma che questi fondi non sono altro che entità finanziarie che speculano sulla morte dell’attività produttiva e sui licenziamenti di massa».

Per questo la lotta della Gkn riguarda tutti: si tratta di decidere che priorità dare ai diritti dei lavoratori, se davvero c’è la voglia di rimettere in equilibrio il lavoro inteso come diritto dei lavoratori e non solo fatturato e utili. Vale la pena leggere con attenzione il comunicato del collettivo di lavoratori del sito di Campi Bisenzio: «Ci dicono che abbiamo vinto il ricorso per condotta antisindacale. Vedremo le conseguenze pratiche. La palla ripassa ancora più pesante al governo. Non osate far ripartire quelle lettere. Cambiate la legge subito», scrivono i lavoratori su Facebook. «La mobilitazione continua perché non c’è salvezza fuori dalla mobilitazione. E perché ci sono trent’anni di attacchi al mondo del lavoro da cancellare. Stiamo imparando tante cose in questa lotta. Iniziamo anche a masticare qualcosa di finanza. E quindi, fossimo un azionista Plc Melrose, inizieremmo a pensare che forse i nostri soldi non sono proprio in buone mani. Inizieremmo a diversificare il portafoglio. È una semplice opinione, sia chiaro. Noi non siamo azionisti del resto. Siamo gli operai Gkn. E questo è quanto. Noi non giochiamo in Borsa. Facciamo semiassi. E insieme a tutti voi, noi #insorgiamo».

Buon martedì.

(foto di Andrea Sawyerr dalla pagina Fb del Collettivo di fabbrica lavoratori Gkn)

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SentenzaCC 921

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Il fondotinta sulla narrazione

Tommaso Claudi (persona dalle indubbie qualità morali per il coraggio e per la dedizione alla causa) viene definito “console” a Kabul. L’ambasciatore, intanto, a differenza di altri colleghi, se n’è andato dall’Afghanistan…

È iniziata la tipica fase in cui ci imbattiamo ogni volta che l’Occidente combina disastri in qualche Paese straniero e ha l’urgenza di apparire con la faccia del buono. Diceva Gino Strada (e lo ripete spesso e bene sua figlia Cecilia) che per fare bene la guerra bisogna imparare a usare bene le parole che servono per compiere la truffa in modo chirurgico: le missioni di pace che sono stracariche di armamenti ne sono un fulgido esempio ma anche le bombe che dovrebbero essere “intelligenti” o peggio i cosiddetti “danni collaterali” (che sono civili innocenti rimasti ammazzati per terra) rendono perfettamente l’idea di un’operazione di disinfestazione utile a fare apparire vero ciò che invece non lo è.

Le foto dei soldati che salvano i bambini, ad esempio, sono certamente funzionali per una superficiale impressione in cui i buoni sono talmente buoni da apparire salvifici e i bambini vengono tratti in salvo grazie all’attenzione dei soldati occidentali che con le loro mani li strappano dall’inferno: quei bambini vengono strappati dalle loro famiglie che non sanno mai se riusciranno a mettersi in salvo da una situazione in cui gli Stati che vorrebbero apparire come salvatori hanno responsabilità enormi. Non solo: sono gli stessi soldati che puntano i loro fucili contro quei bambini nei campi profughi in giro per il mondo. Non solo: sono gli stessi soldati che hanno addestrato quelli che ora sono diventati carnefici, sono gli stessi soldati che esportano la democrazia a suon di bombe.

Certo non è facile tenere la barra dritta e mantenere un equilibrio di osservazione, restando lucidi. Però, sia detto, questa insopportabile trasformazione in “buoni” è innocente e immorale. Ieri in Italia è esplosa la fiabesca narrazione di Tommaso Claudi, definito “console” su tutti i siti dei principali media mentre viene fotografato indaffarato a salvare bambini. Peppe Marici, portavoce del ministro degli affari esteri Di Maio, ha confezionato un zuccheroso tweet: «Oltre quel muro c’è la speranza. Grazie al nostro console a #Kabul Tommaso Claudi. Non si sta risparmiando, senza sosta, fino all’ultimo». Benissimo. Peccato che Claudi (persona dalle indubbie qualità morali per il coraggio e per la dedizione alla causa) non sia “console” ma semplice “secondo segretario generale” (come fa notare mazzetta su twitter) e questa morbida narrazione serve per non dire che l’ambasciatore Vittorio Sandalli se n’è andato dall’Afghanistan in fretta e furia. Non solo: la Farnesina nei giorni scorsi ha confezionato una nota esultante in cui ci dice che l’Ambasciata italiana a Kabul è stata ricostituita, udite udite, a Roma (sembra uno scherzo, lo so). Nella nota si dice che a Kabul è rimasto un “presidio diplomatico” che altro non è quel Tommaso Claudi facente funzioni di console ma che non lo è visto che non esiste nessun consolato italiano. Se a qualcuno viene il dubbio che tutti gli ambasciatori per motivi di sicurezza se ne siano andati allora vale la pena sapere che l’ambasciatore britannico è molto apprezzato in patria proprio perché è rimasto, l’ambasciatore tedesco incontra e tratta di persona con i talebani, l’ambasciatore francese a Kabul è indaffaratissimo, come quello dell’Unione, l’ambasciatore spagnolo a Kabul dice che non rientrerà fino a che l’ultimo spagnolo e l’ultimo collaboratore degli spagnoli non avranno lasciato l’Afghanishtan. E se vi è capitato di leggere giornali entusiasti per l’italiano Pontecorvo, definito “ambasciatore” si sono dimenticati che lavora per la Nato. 

Questo è solo un piccolo esempio eppure racconta moltissimo della comunicazione in tempo di guerra. E qui, se ci pensate bene, siamo sempre in guerra: pensate come sta messa la comunicazione.

Buon martedì.

(foto da Twitter)

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Conte sbugiarda Travaglio sulla caduta del governo: “Nessun complotto contro di me”

L’ex presidente del Consiglio Conte è molto più scaltro di quello ci vorrebbe sembrare, lui che ha goduto di questa allure del nuovismo che in questi ultimi anni è andata così di moda, quando bastava non essere mai stati politici per essere pregiudizialmente già migliori, e intervistato dal Corriere della Sera alla domanda «lei crede al “Conticidio” per mano di un complotto internazionale» replica rispondendo che «nessuno ha mai pensato a un complotto internazionale». Ed è una mezza risposta che come al solito serve per accontentare tutti e soprattutto non scontentare nessuno.

Sì, perché il “Conticidio” è l’ultima tesi travestita da inchiesta che il direttore de Il Fatto Quotidiano ha deciso di lanciare a tamburo battente per spiegare all’universo mondo che il suo Giuseppe Conte (il giocattolo più divertente che abbia mai potuto sognare di possedere) è stato fatto fuori dalle trame oscure di poteri forti che hanno voluto abbatterlo per misteriosi motivi. Del resto per Travaglio la politica è un agone in cui ciò che conta è che i fatti gli diano ragione e non il contrario. Essere ugualmente innamorato di un governo a trazione leghista e poi innamorarsi subito di nuovo di un governo che pendeva dalla parte opposta indica un’evidente culto per la persona (una, una sola, Giuseppe Conte) che è lo stesso che dalle parti de Il Fatto Quotidiano hanno ferocemente sbeffeggiato quando si trattava di avversari.

Caduta quindi l’ipotesi del complotto internazionale e di un’oscura massoneria mondiale che abbia voluto fare cadere Conte rimane lo scenario nazionale, ovvero Renzi e Salvini. Ed è pur vero che Renzi, Salvini e probabilmente anche Berlusconi abbiano avuto tutto l’interesse di fare cadere quel governo per conquistare un posto più centrale nel panorama politico. Si tratta di scelte consapevoli (tra l’altro direi anche piuttosto rivendicate, non c’era bisogno di fingere di farne materiale d’inchiesta) che piacciano o no (e badate bene, a chi scrive piacciono pochissimo quasi niente) che rientrano nelle dinamiche della politica. O forse dovrebbe scandalizzarci che Renzi abbia parlato con Salvini facendo finta di non sapere che Conte ci aveva addirittura governato? Insomma, pare proprio che manchi “la notizia”. Ma si sa che l’amore per se stessi trasforma in notizie le proprie opinioni. Il “Conticidio” è già diventato la solita guerra di bottega tipica italiana. O forse Conte si è permesso di saperne di se stesso più di quanto ne sappia Travaglio. Che irrispettoso maleducato.

L’articolo Conte sbugiarda Travaglio sulla caduta del governo: “Nessun complotto contro di me” proviene da Il Riformista.

Fonte

Sulla mafia fingono di non cogliere il punto

È il momento di tirare le somme sull’azione della politica nella lotta alla mafia e capire chi alle parole ha fatto seguire i fatti. Di questo sarebbe opportuno parlare. Indignarsi per Brusca e commemorare Falcone non basta. Serve fare politica, seriamente

Niente, continuano imperterriti. Salvini (che deve avere studiato la storia dell’antimafia fermandosi a qualche poster appeso in camera) ha continuato a tuonare contro Brusca che è inaccettabile che adesso possa «girare in strada e andare in palestra (giuro, ha proprio detto palestra)» dal momento che «il 90% degli italiani la pensa così». Tra l’altro tutto questo mentre presentava i referendum lanciati con i Radicali (i Radicali con Salvini sembra il titolo di un film dell’orrore rispetto all’ammirevole storia che si portano dietro) e quindi avrebbe dovuto fare il garantista. Poco male: in conferenza stampa ha anche promesso che non si fermeranno semplicemente alle 500mila firme che servono per i referendum ma, ha detto, «raggiungeremo il milione». Peccato che i quesiti referendari siano 6 e quindi di firme ne servano 3 milioni, qualcuno glielo bisbigli all’orecchio senza che se ne accorgano.

Comunque mentre si prosegue con questo indicibile reality show su Brusca (che intanto rilascia video messaggi in cui si dice pentito, poteva andarci peggio, avrebbe potuto aprirsi un account Instagram), Maria Falcone decide di parlare ancora e pone un punto che è invece tutto politico: «In questi giorni ho evitato sovraesposizioni mediatiche e dichiarazioni rabbiose rispettando una legge che è stata e continua a essere fondamentale nella guerra contro Cosa nostra, ma nessuno può essere più addolorato e indignato di noi davanti alla scarcerazione di uno degli individui peggiori che la storia del Paese abbia conosciuto. Ho ascoltato moltissime dichiarazioni di politici e assistito a un’ondata di indignazione dell’opinione pubblica che dimostra quanto la coscienza dei nostri concittadini sia mutata e maturata in questi 29 anni», dice la sorella del giudice Falcone. “«ggi – aggiunge – in un giorno tanto importante per la nostra Nazione in cui, come ha detto il capo dello Stato, Sergio Mattarella, rinnoviamo la gratitudine a chi ha sacrificato la vita per l’Italia, voglio lanciare un appello alla politica affinché traduca lo sdegno espresso per la liberazione di Giovanni Brusca in un impegno reale per un’approvazione veloce della riforma della legge sull’ergastolo ostativo sollecitata dalla Corte costituzionale».

Eccoci al nocciolo della questione: alcune forze politiche in questi giorni stanno ovviamente cavalcando l’indignazione della vicenda Brusca per chiedere una revisione della legge sui pentiti (uno dei grandi sogni dei boss di Cosa Nostra) e ovviamente ridurre gli sconti di pena significherebbe diminuire l’incentivo a pentirsi. Sia chiaro: ognuno legittimamente porta avanti le proprie idee ma eliminare i benefici ai pentiti è esattamente il contrario di ciò che avevano in testa Falcone e Borsellino. Basta saperlo. Ma intanto sarebbe anche il caso di capire come intendano muoversi i partiti sul “fine pena mai” dichiarato incostituzionale per i reati di mafia e terrorismo.

Allo stesso modo sull’ergastolo ostativo ritenuto incostituzionale dalla Corte costituzionale bisognerebbe avere il coraggio di prendere una decisione chiara (finora solo il M5s ha avanzato una proposta). Come ha detto Maria Falcone: «Voglio dire a tutti i nostri parlamentari e a tutte le forze politiche, molte delle quali peraltro votarono la legge sui pentiti voluta da mio fratello, che oggi hanno l’occasione per dimostrare che la lotta alla mafia resta una priorità del Paese e che possono, al di là delle parole, attraverso una normativa giusta, evitare scarcerazioni e permessi a boss che mai hanno interrotto il loro perverso legame con l’associazione mafiosa. Concedere benefici a chi neppure ha dato un contributo alla giustizia sarebbe inammissibile e determinerebbe una reazione della società civile ancora più forte di quella causata dalla liberazione, purtroppo inevitabile, del ‘macellaio’ di Capaci». È il momento in cui tirare le somme sull’azione della politica nella lotta alla mafia e capire chi alle parole ha fatto seguire i fatti.

Di questo sarebbe opportuno parlare. Ognuno ci dica legittimamente qual è la propria posizione e le soluzioni che propone. È questo che sarebbe opportuno “esternare”. Indignarsi per Brusca e commemorare Falcone non basta, non serve, no. Fate politica.

Buon giovedì

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Mille balle blu (sulla Libia)

Mentre il primo ministro libico viene accolto con tutti gli onori in Italia, si continua ancora a negare la realtà. Secondo l’Onu il numero dei migranti nei centri di detenzione in Libia è quintuplicato. E sono persone che fanno la fame, subiscono stupri e violenze, rinchiuse come animali

«È anche interesse della Libia assicurare il rispetto dei diritti dei rifugiati e dei migranti», dice Draghi in conferenza stampa mentre il primo ministro libico viene accolto con tutti gli onori del caso qui dalle nostre parti. La strategia del governo dei migliori è uguale a quella dei peggiori prima di loro: negare la realtà, negarla sempre, fingere che la Libia non sia il sacchetto dell’umido al servizio dell’Europa e dipingere un fatato mondo che non c’è.

Così siamo al punto di dovere ascoltare che «stabilizzare la Libia è cruciale», come se i principi di fondo ci dovessero andare bene e sia solo un problema di disordine politico. Tutto questo metre la Libia ha ricominciato a riempirsi di migranti detenuti illegalmente, raccolti in veri e propri lager e tenuti pronti per aprire i rubinetti quando i libici chiederanno ancora più soldi, ancora di più.

Fingono di non vedere i dati dell’Onu che raccontano di come i numeri dei detenuti (crollato nel 2019/20) nel giro di un anno sia quintuplicato (e parliamo dei dati ufficiali, quelli che si riescono a reperire). Fingono di non vedere che quei numeri siano solo una parte infinitesimale di persone che fanno la fame, che subiscono stupri e violenze, che sono rinchiuse come animali. Fanno finta di non sapere che quei centri di detenzione non abbiano nessuno scopo, nessuno, poiché i migranti rimangono chiusi fino a che non pagano i loro carcerieri (anche più di una volta) per uscire. Sono caselli autostradali criminali e illegali in cui viene chiesto un illecito pedaggio per riottenere la libertà. Non ci sono rimpatri da questi centri.

Il governo insiste nella rappresentazione di una Libia che possa essere “verificata” da Unhcr e dall’Oim che invece negano la possibilità di qualsiasi accesso ai centri di detenzione: «Non solo non c’è stato alcun progresso nella gestione di queste strutture, ma gli operatori Onu “attualmente hanno scarso o nessun accesso a questi centri e sono solo in grado di monitorare la situazione o fornire assistenza”», ha raccontato una fonte al giornalista Nello Scavo.

E intanto si prepara il terreno per votare il rifinanziamento alla cosiddetta guardia costiera libica (che finora ci è costata più di 800 milioni di euro). Tutto, come sempre, in nome di una narrazione falsa che copre i criminali. E non vedere un favoreggiamento politico è sempre più difficile.

Buon martedì.

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Dal bacio di Biancaneve a «è una vergogna signora mia…»

Era inevitabile ed è accaduto: a furia di moltiplicare iperboli per leccare anche l’ultimo clic indignato sul fondo della scatola perfino Enrico Mentana decide di dire la sua sulla “cancel culture” con due righe veloci, di passaggio, sui social paragonandola niente popò di meno che ai roghi dei libri del nazismo, con annessa foto di in bianco e nero di un rogo dell’epoca perché si sa, l’immagine aumenta a dismisura la potenza algoritmi del post.

Una polemica partita da un giornalino di San Francisco

La settimana delle “irreali realtà su cui pugnacemente dibattere” questa settimana in Italia parte dal bacio di Biancaneve cavalcato (in questo caso sì, con violenza amorale) da certa destra spasmodicamente in cerca di distrazioni e si conclude con gli editoriali intrisi di «è una vergogna, signora mia» di qualche bolso commentatore pagato per rimpiangere sempre il tempo passato. Fa niente che non ci sia mai stata nessuna polemica su quel bacio più o meno consenziente al di là di una riga di un paio di giornaliste su un quotidiano locale di San Francisco: certa intellighenzia Italiana si spreme da giorni sull’opinione di un articolo di un giornalino oltreoceano convinta di avere diagnosticato il male del secolo, con la stesa goffa sproporzione che ci sarebbe se domani un leader di partito dedicasse una conferenza stampa all’opinione di un avventore del vostro bar sotto casa. Un ballo intorno alle ceneri del senso di realtà per cui si son agghindati tutti a festa, soddisfatti di fare la morale a presunti moralisti di una morale distillata dall’eco dopata di una notizia locale.

Se la battaglia “progressista” si ispira a Trump

Chissà se i democraticissimi e presunti progressisti che si sono autoconvocati al fronte di questa battaglia sono consapevoli di avere come angelo ispiratore l’odiatissimo Donald Trump, il migliore in tempi recenti a utilizzare la strategia retorica del politicamente corretto per spostare il baricentro del dibattito dai problemi reali (disuguaglianze, diritti, povertà, discriminazioni) a un presunto problema utilissimo per polarizzare e distrarre. Nel 2015 Donald Trump, intervistato dalla giornalista di Fox Megyn Kelly su suoi insulti misogini via Twitter («You’ve called women you don’t like fat pigs, dogs, slobs and disgusting animals…») rispose secco: «I think the big problem this country has is being politically correct». Che un’arma di distrazione di massa venisse poi adottata dalle destre in Europa era facilmente immaginabile ma che si attaccassero a ruota anche disattenti commentatori e intellettuali (?) convinti di purificare il mondo era un malaugurio che nessuno avrebbe potuto prevedere. Così la convergenza di interessi diversi ha imbastito un fantasma che oggi dobbiamo sorbirci e forse vale la pena darsi la briga di provarne a smontarne pezzo per pezzo.

La banalizzazione delle lotte altrui è un modo per disinnescarle

C’è la politica, abbiamo detto, che utilizza la cancel culture per accusare gli avversari politici di essere ipocriti moralisti concentrati su inutili priorità: se io riesco a intossicare la richiesta di diritti di alcune minoranze con la loro presunta e feroce volontà di instaurare una presunta egemonia culturale posso facilmente trasformare gli afflitti in persecutori, la loro legittima difesa in un tentativo di sopraffazione e mettere sullo stesso piano il fastidio per un messaggio pubblicitario razzista con le pallottole che ammazzano i neri. La banalizzazione e la derisione delle lotte altrui è tutt’oggi il modo migliore per disinnescarle e il bacio di Biancaneve diventa la roncola con cui minimizzare le (giuste) lotte del femminismo come i cioccolatini sono stati utili per irridere i neri che si sono permessi di “esagerare” con il razzismo. Il politicamente corretto è l’arma con cui la destra (segnatevelo, perché sono le destre della Storia e del mondo) irride la rivendicazione di diritti.

Correttori del politicamente corretto a caccia di clic

Poi c’è una certa fetta di artisti e di intellettuali, quelli che hanno sguazzato per una vita nella confortevole bolla dei salottini frequentati solo dai loro “pari”, abituati a un applauso di fondo permanente e a confrontarsi con l’approvazione dei propri simili: hanno lavorato per anni a proiettare un’immagine di se stessi confezionata in atmosfera modificata e ora si ritrovano in un tempo che consente a chiunque di criticarli, confutarli e esprimere la propria disapprovazione. Questi trovano terribilmente volgare dover avere a che fare con il dissenso e rimpiangono i bei tempi andati, quando il loro editore o il loro direttore di rete erano gli unici a cui dover rendere conto. Benvenuti in questo tempo, lorsignori. Poi ci sono i giornalisti, quelli che passano tutto il giorno a leggere certi giornali americani traducendoli male con Google e il cui mestiere è riprendere qualche articolo di spalla per rivenderlo come il nuovo ultimo scandalo planetario: i politicamente correttori del politicamente corretto è un filone che garantisce interazioni e clic come tutti gli argomenti che scatenano tifo e ogni presunta polemica locale diventa una pepita per la pubblicità quotidiana. A questo aggiungeteci che c’è anche la possibilità di dare fiato a qualche trombone in naftalina e capirete che l’occasione è ghiottissima. Infine ci sono gli stolti fieri, quelli che da anni rivendicano il diritto di essere cretini e temono un mondo in cui scrivere una sciocchezza venga additato come sciocchezza. Questi sono banalissimi e sono sempre esistiti: poveri di argomenti e di pensiero utilizzano la provocazione come unico sistema per farsi notare e come bussola vanno semplicemente “contro”. Chiamano la stupidità “libertà” e pretendono addirittura di essere alfieri di un pensiero nuovo. Invece è così banale il disturbatore seriale. Tanti piccoli opportunismi che hanno trovato nobiltà nel finto dibattito della finta cancel culture.

L’articolo Dal bacio di Biancaneve a «è una vergogna signora mia…» proviene da Tag43.it.

La vigliaccheria fiscale

Aumento dei ricavi per Amazon Europa che nel 2020 è arrivata a 44 miliardi di euro. Ma zero tasse. Si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”… Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E una questione enorme politica che passa sottovoce

Complice la pandemia che è stata tutt’altro che una livella per sofferenza dei diversi lavoratori e per danni alle diverse aziende la ricchissima Amazon del ricchissimo Bezos è diventata ancora più ricca aumentando di 12 miliardi i ricavi rispetto all’anno precedente in Europa e arrivando a un totale di 44 miliardi di euro.

Poiché i numeri sono importanti vale la pena ricordare che sono 221 miliardi circa tutti i soldi che l’Italia ha a disposizione dall’Europa per risollevarsi. Giusto per fare un po’ di proporzioni. L’ultimo bilancio della divisione europea di Amazon (lo trovate qui) racconta della società con sede legale in quel meraviglioso paradiso per ricchi che è il Lussemburgo gestisce le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia. Ovviamente le tasse si pagano sui profitti, non certo sui ricavi, eppure le acrobazie fiscali di Amazon hanno permesso di risultare in perdita per 1,2 miliardi di euro nonostante un aumento del ricavo del 30%. «I nostri profitti sono rimasti bassi a causa dei massicci investimenti e del fatto che il nostro è un settore altamente competitivo e con margini ridotti», ha spiegato un dirigente di Amazon. Insomma, poveretti, lavorano per perderci. E infatti hanno accumulato 56 milioni di euro di credito d’imposta che potranno usare nei prossimi anni e che portano a 2,7 miliardi di euro il credito totale.

È incredibile che un’azienda che vale in Borsa quanto il prodotto interno lordo dell’Italia non riesca proprio a fare profitto o forse semplicemente i profitti vengono spostati altrove, complice la vigliaccheria fiscale di un’Europa che è sempre forte con i deboli ma è sempre piuttosto debole con i forti, come sempre. Attraverso compravendite fittizie infragruppo tra filiali dei diversi Paesi i guadagni vengono spostati da dove si realizzano a dove più conviene e le contromisure del Lussemburgo contro queste pratiche sono volutamente morbide.

In una nota la commissione Ue commenta: «Abbiamo visto quanto apparso sulla stampa, non entriamo nei dettagli, in linea generale la Commissione ha adottato un’agenda molto ambiziosa in materia di fiscalità e contro le frodi fiscali, nelle prossime settimane pubblicheremo una comunicazione e sul piano globale siamo impegnati con i partner internazionali nella discussione in corso» sull’equa tassazione delle imprese. Si tratta del negoziato per definire un’imposta minima globale per evitare la concorrenza fiscale al ribasso. Quanto agli aspetti di concorrenza, del caso Amazon/Lussemburgo il dossier resta in mano alla Corte di Giustizia Ue: il gruppo Usa e il Granducato hanno contestato la decisione comunitaria che nel 2017 concluse che il Lussemburgo aveva concesso ad Amazon vantaggi fiscali indebiti per circa 250 milioni di euro, un trattamento considerato illegale «ha permesso ad Amazon di versare molte meno imposte di altre imprese». Peccato che contro la decisione europea abbia ricorso Amazon (e questo ci sta) e perfino il Lussemburgo.

Sono numeri spaventosi che raccontano perfettamente come la guerra tra poveri e tra disperati non riesca mai a guardare in alto dove si consumano le ingiustizie peggiori. Vi ricordate quando si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”? Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E invece una questione politica enorme passa sottovoce mentre i nostri leader stanno litigando sul bacio a Biancaneve.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Caro Conte, anche tu hai tenuto i porti chiusi

La Mezzaluna Rossa libica (l’equivalente più o meno della nostra Croce Rossa) ieri ha annunciato altri 50 morti in un naufragio al largo della Libia. Poco prima l’Oim, l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, aveva riferito della morte di almeno 11 persone dopo che il gommone su cui viaggiavano era affondato. La Guardia Costiera libica come al solito dice di non esserne informata. Una cosa è certa: nel Mediterraneo si continua a morire ma la vicenda non sfiora la politica nazionale, merita qualche contrita pietà passeggera e poi scivola via.

L’importante, in fondo, è solo mantenere ognuno la propria narrazione: ci sono i “porti chiusi” di Salvini che rivendica di averlo fatto ma poi in tribunale frigna chiamando in causa anche i suoi ex compagni di governo, c’è il “blocco navale” evocato da Giorgia Meloni, c’è il PD che finge di avere dimenticato di essere il partito che con Minniti ha innescato l’onda narrativa e giuridica che ci ha portati fin qui e c’è il Movimento 5 Stelle che si barcamena tra una posizione e l’altra.

A proposito di M5S: il (prossimo) leader Conte è riuscito a dire in scioltezza “con me porti mai chiusi” provando a cancellare con un colpo di spugna quel suo sorriso tronfio mentre si faceva fotografare al fianco di Salvini con tanto di foglietto in mano per celebrare l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”.

Conte che sembra avere improvvisamente dimenticato le sue stesse parole su Sea Watch e sulla comandante Carola Rackete: “è stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone”. Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini.

Oltre le parole ci sono i fatti: l’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte nell’agosto 2019 è stato il “decreto sicurezza bis” che stringeva ancora più i lacci dell’immigrazione. Sempre ad agosto 2019, 159 migranti sulla nave Open Arms sono stati 19 giorni in mare senza la possibilità di attraccare nei porti italiani.

Insomma: partendo dal presupposto che i porti non si possano “chiudere” per il diritto internazionale è vero che Conte a braccetto con Salvini ha sposato l’idea dei “porti chiusi” nel senso più largo e più politico. Ed è pur vero che nessun governo, compreso questo, sembra avere nessun’altra idea politica che non sia quella di galleggiare tra dittature usate come rubinetto per frenare le migrazioni in un’Europa che galleggia appaltando i propri confini. Gli unici che non galleggiano sono i morti nel Mediterraneo.

Leggi anche: I poveri sono falliti e i ricchi sono radical chic: così Salvini non risponde mai nel merito a chi lo critica

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