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terremoto

Il progetto generazionale di Renzo Piano: «Ecco cosa possiamo fare. Parlare di fatalità è un torto all’intelletto umano»

(Renzo Piano può piacere o non piacere, per carità, ma intanto in questa marea di pessimi sciacalli e pessimi pacificatori propone una soluzione che può essere una base di discussione. Ecco cosa ha scritto oggi per Il Sole 24 Ore)

di Renzo Piano

Dobbiamo difenderci dal terremoto: ecco il mio progetto generazionale. C’è un intruso da allontanare una volta per tutte, una parola insidiosa che ricompare ogni volta che in Italia si verifica un terremoto. Parlo del fantasma sempre evocato della fatalità. Di fatale c’è solo che i terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Purtroppo. La terra trema. E la natura non è né buona né cattiva. È semplicemente, e brutalmente, indifferente alle nostre sofferenze. Non se ne cura. Ma noi abbiamo una grande forza, una forza che la stessa natura ci ha dato in dono: l’intelligenza.

Parlare di fatalità è fare un torto all’intelletto umano. La storia insegna: ci siamo sempre difesi, con porti, dighe, argini, case e con la medicina. Tocca a noi, al senso di responsabilità, investire la giusta energia nella messa in sicurezza delle nostre case. Che poi siamo noi stessi, perché se cerchi l’uomo trovi sempre una casa. La casa è il luogo della fiducia, il rifugio dalle paure e dalle insicurezze. Molto di più che un semplice riparo dal freddo e dalla pioggia.

Non possiamo più allargare le braccia invocando l’ineluttabilità del destino. Questo comportamento è un insulto alla natura stessa: quella dell’uomo. Che, per l’appunto, è homo sapiens.

Come disse Sandro Pertini, dopo il terremoto in Irpinia: il miglior modo di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi. Aveva ragione, quindi difendiamoci. Non possiamo tollerare che crollino interi paesi e centinaia di persone restino sepolte sotto le macerie. Il terremoto è un mostro, ma possediamo le tecniche e le conoscenze per proteggerci. Deve entrare in modo permanente nelle nostre coscienze ancora prima che nelle leggi, parlo del dovere di rendere antisismici gli edifici in cui viviamo, così come è obbligatorio per un’automobile avere i freni che funzionano. Nessuno si metterebbe in viaggio con una macchina che non frena, invece tantissime famiglie vivono incoscientemente in zone sismiche (lungo tutta la dorsale degli Appennini, la spina dorsale dell’Italia da Nord a Sud) in case insicure. C’è qualcosa che non torna.

Cosa fare? Rendiamo sicuro un patrimonio insicuro che sono le nostre case. Non mi riferisco alla ricostruzione di Amatrice e di Accumuli che si farà e va fatta presto. Credo si debba guardare lontano. Penso a un progetto di lungo respiro, a un piano generazionale che duri cinquant’anni. Bisogna intervenire con sgravi e incentivi nei passaggi generazionali, quando passa in eredità la casa dei nonni e la nuova generazione è più interessata a ristrutturarla. E in quel momento bisogna pensare alla sicurezza dell’edificio.

Per far partire questo grande cantiere si comincia applicando la scienza della diagnosi, che è precisa, oggettiva, per l’appunto scientifica. Come un bravo medico fa la diagnosi prima di prescrivere una cura o consigliare un’operazione, la diagnosi consente anche nelle case d’intervenire solo dove è necessario. Più la diagnosi è puntuale e meno l’intervento è invasivo e costoso, oggi abbiamo tutti gli strumenti per farlo. Ci sono apparecchiature sofisticatissime e strumentazioni d’avanguardia che produciamo in Italia, e d’altronde esportiamo negli altri continenti.

Non siamo un Paese del terzo mondo, anche se spesso facciamo di tutto per sembrarlo. Con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche. Ci vuole un cambiamento culturale che abbandoni l’oscurantismo dell’opinione, del “secondo me si fa così”, per abbracciare il mondo contemporaneo. Con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come un corpo vivente.

L’arte del conoscere e del sapere consente la massima efficacia senza accanirsi sugli abitanti, senza doverli allontanare durante il cantiere. Non si deve sradicare la gente da dove ha vissuto, è un atto crudele. C’è un legame indissolubile tra le pietre e le persone che le abitano. La casa è una protezione fisica e mentale, è il luogo del silenzio, tutti, proprio tutti, passiamo la vita a tornare a casa.

Per questo parlo di cantieri leggeri che permettano i lavori senza dover mandare via le famiglie. Certo i tempi del cantiere leggero sono più lunghi, questa è un’operazione sottile che implica pazienza, determinazione e continuità.

Non solo la popolazione deve restare negli edifici ma bisogna farla partecipare attivamente alle operazioni. Penso alla figura dell’architetto condotto, una sorta di medico che si preoccupa di curare non le persone malate ma gli edifici malandati e a rischio di crollo in caso di sisma. Essere architetto condotto insegna una cosa importantissima: l’arte di ascoltare e di trovare la soluzione. Per questo occorrono diagnostica e microchirugia e non la ruspa o il piccone. L’idea è quello di ricucire senza demolire, la leggerezza come dimensione tecnica e nel contempo umana.

Trent’anni fa a Otranto con Gianfranco Dioguardi abbiamo già lavorato a qualcosa di molto simile: il Laboratorio di quartiere, un progetto patrocinato dall’Unesco per rammendare il centro storico. Oggi la tecnica permette diagnosi molto più precise, ma la filosofia resta sempre la stessa: la casa è dove si trova il cuore, scriveva già duemila anni fa Plinio il Vecchio.

Dovete credermi. Quello che voglio fare per rendere più sicure le case degli italiani non è teoria, mi hanno nominato senatore a vita perché sono un architetto, un costruttore di città. Sono pratico. Con il mio gruppo di lavoro al Senato, G124 che già si occupa delle periferie, proponiamo di fare dieci prototipi che coprano tutte le tipologie costruttive, vecchie e recenti, dieci abitazioni che abbiano la funzione di modello per i futuri interventi. Case in pietra, in laterizio e in calcestruzzo, costruite prima o dopo la guerra. Si può fare, credetemi, e bisogna farlo.

Il nostro è un Paese bellissimo ma fragile. La nostra bellezza è un valore profondo al quale troppi di noi si sono assuefatti e non la colgono più. In Italia la bellezza è così straordinariamente diffusa che è diventata assuefazione, la gente la vive con distrazione, senza accorgersene.

Ma il mondo ci guarda come eredi scriteriati e ha ragione perché la fenomenale bellezza dell’Italia storica non appartiene solo a noi, è un patrimonio dell’umanità. Siamo eredi indegni perché non lo proteggiamo a dovere. Serve una svolta culturale, abbiamo il dovere di rendere meno fragile la bellezza dell’Italia ingentilita e antropizzata dai nostri antenati. Un bene comune la cui responsabilità è collettiva.

Hotel Rigopiano, le ore del disinganno

(il reportage di Gabriella Cerami per HP)

La giornata della disillusione. Si cammina nervosamente nella fredda sala d’attesa del pronto soccorso di Pescara. Si cammina, ci si abbraccia, si prega, ci si dispera. È proprio l’attesa, questa lunga ed estenuante attesa, che unisce ormai da oltre settantadue ore i parenti delle persone sommerse dalla slavina che ha colpito l’hotel Rigopiano. Il papà di Stefano Faniello, con un berretto blu in testa e circondato dagli amici, piange mentre varca la porta per incontrare i medici. Piange perché il nome del figlio ieri sera compariva nella lista ufficiale delle persone vive da estrarre dalle macerie. Oggi sarebbe stato il giorno dell’abbraccio e invece di Stefano non si hanno notizie. La fidanzata Francesca Bronzi, salvata ieri, dal suo lettino del reparto chiede di lui: “Mia figlia sta bene ma vuole sapere di Stefano”, racconta il papà Gaetano, felice di avere Francesca accanto sana e salva ma con questo senso di angoscia. L’angoscia di chi si era illuso e adesso si sente ingannato: “Com’è possibile che c’era stato detto che era vivo?”.

Lassù, a Rigopiano, si continua a scavare in condizioni avverse e con oltre cinque metri di neve. “Si continua a lavorare con grande determinazione, con grande forza, con grande professionalità e con ogni mezzo per trovare le persone che sono lì sotto. Noi continuiamo a coltivare speranza”, dice il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, dopo aver incontrato i familiari. “Arrabbiati? Hanno ragione ad essere arrabbiati, perché soffrono”, risponde. In realtà qualcosa non ha funzionato. Lo dice anche Francesca Bronzi che ha criticato, viene riferito dai parenti, “la mancanza di organizzazione e di informazioni ufficiali”. Stanca, provata, “non avevamo cibo, non avevamo acqua, mi trovavo in uno spazio piccolissimo e mangiavo la neve”, spera che sotto quella neve, diventata ghiaccio, ci sia ancora il suo Stefano, come le era stato promesso. Ma adesso, nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Pescara, dove vengono portati i sopravvissuti, lui non c’è.

Poco più in là sbuca da una porta scorrevole lo zio di Samuel: “Io devo dire qualcosa a mio nipote. Gliela devo dire”. Il bimbo di sette anni chiede di mamma e papà, che solo ieri erano stati considerati tra le persone sopravvissute e oggi invece sono di nuovo nella lista dei dispersi. Era stato il primo cittadino di Osimo, citando fonti della polizia e familiari a dare la notizia che l’intera famiglia Di Michelangelo ce l’aveva fatta. E invece si spera e si attende ancora, mentre sale la rabbia di chi non riesce ad avere notizie, e se ne ha sono poche e confuse: “Ogni quattro ore dovrebbero dirci qualcosa, e invece niente. Dov’è il prefetto?”, è arrabbiatissimo lo zio Alessandro.

Ricoverata c’è anche Giampaolo Matrone, lui è salvo, è vivo, è fuori dalle macerie. Lei, Valentina Cicioni, è ancora dispersa. Nessuno vuole dare voce al terrore che si avveri l’ipotesi peggiore. La speranza dà forza ad amici e parenti della coppia trentenne di Monterotondo, hinterland romano, che martedì scorso aveva lasciato la figlioletta ai nonni per cercare un po’ di relax tra i monti dell’Abruzzo.

Composti, silenziosi. Seduti sui gradini di questa enorme sala d’attesa ci sono una ventina di ragazzi. Circondano Piergiovanni Di Carlo, non lo hanno mai lasciano solo in questi tre giorni, ieri hanno gioito con lui, oggi sono di nuovo sconvolti e increduli. “Siamo compaesani, gli amici della piazza di Loreto Aprutino”, racconta uno di loro al bar mentre sorseggia una coca cola: “Ieri avevano detto che insieme al piccolo Edoardo si erano salvati anche la mamma e il papà, e invece…”. E invece oggi il fratello più grande ha dovuto riconoscere il corpo senza vita della mamma Nadia. Del papà Sebastiano non si hanno notizie.

E pensare che la zia Simona, ieri, aveva portato la pizza per tutti i parenti e gli amici in attesa: “Sono salvi, sono salvi, me lo hanno confermato”, ha detto a cronisti e telecamere. Il clima era diverso, gli stessi ragazzi ridevano e scherzavano, in una notte poi è cambiato di nuovo tutto e nessuno si aspettava questo epilogo. “Edoardo sta bene”, racconta ancora uno degli amici: “Ha chiesto al fratello grande, Riccardo, se può avere dei giocattoli. Vuole giocare, sta bene, forse lo ha capito, forse no”. È una barriera di protezione quella attorno a Piergiovanni, che abbassa lo sguardo a terra quando qualcuno si avvicina dicendo: “Speriamo per papà”. Gli amici si stringono tutti in un abbraccio, con al centro lui, pacche sulle spalle di incoraggiamento: “Dobbiamo aspettare domani”. Forse qualche giorno in più. Intanto tutti i parenti sono stati portati in un’altra sala dell’ospedale. Questa volta al caldo. Ancora ad attendere.

«Come è lassù?» «Non c’è più niente»: un reportage per capire di più su Rigopiano

(un reportage da incorniciare dell’Ansa)

Quando finalmente sono arrivati lassu’, a 1.200 metri, in molti sono scoppiati in lacrime: 20 ore di fatica bestiale arrancando tra muri di neve e un vento gelido per trovare un pugno di macerie. Vigili del fuoco, poliziotti, carabinieri, uomini del Soccorso Alpino e della Guardia di Finanza, medici, paramedici e volontari della Protezione Civile hanno impiegato una notte intera per raggiungere l’hotel Rigopiano, una notte infernale e assurda, fatta di dolore e ingegno per risolvere i problemi.
Il loro viaggio e’ cominciato verso le 18 di ieri, quando l’allarme lanciato da Giampiero Parete, uno dei due sopravvissuti, e’ arrivato nelle centrali operative. “C’e’ un hotel completamente isolato in una frazione di Penne”, e’ stata la prima comunicazione. Le colonne si sono mosse dall’Aquila e da Pescara, ma subito ci si e’ resi conto che salire i tornanti che da Penne portano nel cuore del Gran Sasso, sarebbe stata un’impresa. Da Penne all’hotel, infatti, sono meno di 25 chilometri, massimo mezz’ora di macchina in condizioni normali. Ma non oggi: usciti dal paese, ogni 500 metri la neve aumenta di 20 centimetri. Imboccato il bivio per Fivirola, l’ultimo paesino prima dell’hotel, il silenzio e’ totale, come il manto bianco che avvolge tutto e che raggiunge il metro d’altezza. I mezzi passano a fatica, alcuni con le catene montate a tutte e quattro le gomme, ma passano. Attorno alle 19 le avanguardie gia’ sono in contrada Cupoli, quattro case e un bar dove abitano anche alcuni dei dipendenti dell’albergo: mancano solo 11 km al Rigopiano ma la neve raggiunge i due metri e i telefoni cellulari non prendono: i soccorritori parlano tra loro e con le rispettive centrali soltanto via radio.
Ed e’ qui che inizia l’odissea, quella vera. Fatti i due primi tornanti, il muro di neve ai bordi della provinciale copre completamente i cartelli stradali; la strada e’ ridotta ad un’unica carreggiata: se passa qualcuno nel verso opposto bisogna fare centinaia di metri in retromarcia nella neve e, in diversi punti, gli alberi crollati per la troppa neve riducono ancora l’asfalto percorribile. Si decide cosi’ di fermare i mezzi pesanti, si va avanti solo con le campagnole. Ad aprire la strada e’ una turbina, una macchina che serve a strappare la neve dall’asfalto e spararla di lato.
Attorno alle 22 i mezzi imboccano l’ultimo tratto di strada, i 9 km dal bivio di Rigopiano all’albergo. E dietro la prima curva l’avanzata s’arresta: la macchina incontra alberi e rami sulla sua strada. Se prosegue, la fresa – che impiega un’ora per fare 700 metri – si rompe e addio hotel. Tocca ai vigili del fuoco con le motoseghe, aprire la strada. Sotto la neve che continua a cadere e con almeno 5 gradi sotto zero. Cosi’, non s’arriva. Quattro uomini del Soccorso Alpino della Guardia di Finanza e del Soccorso Alpino civile, a mezzanotte, si sganciano. Con gli sci con le pelli di foca ai piedi cominciano a salire, lentamente, tra la bufera di neve. Quattro ore d’inferno. “Siamo arrivati stamattina verso le 4 – racconta il maresciallo della Gdf Lorenzo Gagliardi – abbiamo dovuto utilizzare gli sci d’alpinismo per scavalcare i muri di neve. In alcuni punti non si vedeva neanche dove fosse la strada”. E quando arrivano su capiscono che la situazione e’ drammatica. Ma e’ ancora buio pesto e non possono rendersi conto di quel che li’ attendera’ poche ore dopo. Riescono, pero’, a raggiungere i due sopravvissuti, Fabio Salzetta e Giampiero Parete, che solo per un caso si trovavano fuori al momento dell’arrivo della slavina.


Qualche chilometro dietro, intanto, si continua ad avanzare lentamente. La luce dell’alba consente agli elicotteri di alzarsi in volo e finalmente si capiscono le dimensioni della tragedia e le difficolta’ di chi deve cercare di salvare piu’ vite possibili. Quelle auto incolonnate tra gli alberi, in un mare di neve, sembrano le vecchie carovane dei pionieri che attraversavano l’Alaska in cerca di oro. Attorno alle 8 del mattino la turbina si ferma: e’ finito il gasolio. Le riserve ci sono ma sono un paio di chilometri indietro. Cosi’ una ventina di vigili del fuoco prede una tanica a testa e torna indietro a piedi nella neve, fa rifornimento dagli altri mezzi e torna indietro, consentendo alla macchina di ripartire. E arriva anche ‘il bruco’, un mezzo cingolato che puo’ trasportare fino ad otto persone.
E’ quasi mezzogiorno quando la colonna imbocca l’ultimo chilometro, il piu’ difficile. Gli alberi crollati sono ovunque e una nuova slavina rallenta ancora l’avanzata. “Mai vista cosi’ tanta neve. Mai trovata una situazione cosi’ difficile” racconta esausto chi scende. Finalmente i mezzi riescono ad aprirsi il varco giusto, ma gli ultimi 300 metri vanno fatti a piedi. Per forza. Viene cosi’ creato un ‘parcheggio’ spazzando via centinaia di metri cubi di neve.
E, con la neve alle ginocchia, i soccorritori arrivano finalmente all’hotel e, 20 ore dopo aver cominciato, possono finalmente iniziare il loro lavoro. Verso le 15 qualche mezzo comincia a scendere dall’hotel, a breve arrivera’ il cambio. Dentro ci sono facce distrutte, stralunate, sconvolte. Come e’ lassu’? “Non c’e’ piu’ niente”.

Intanto i 28 milioni di euro di sms per i terremotati non si vedono ancora

(ne ha scritto Ilario Lombardo per La Stampa)

Nel giorno in cui la terra è tornata a tremare con forza nelle zone dell’Italia centrale, già fiaccate da uno sciame infinito, si viene a scoprire che i 28 milioni di euro donati dagli italiani per i terremotati di Marche, Lazio e Abruzzo sono ancora fermi nel conto aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto conto al governo di questi soldi raccolti attraverso sms e bonifici bancari durante il question time alla Camera, in un botta e risposta tra la deputata Laura Castelli e il neo-ministro dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro.

E così veniamo a sapere che, per una logica che appare puramente burocratica, i soldi ci sono ma non si possono toccare: il «protocollo d’intesa per l’attivazione e la diffusione dei numeri solidali», firmato con le società di telefonia che raccolgono gli sms solidali, e disponibile sul sito della Protezione civile, prevede un percorso preciso che sembra non tener conto del freddo, della neve, delle esigenze del territorio, dei bisogni della popolazione, del terrore delle nuove scosse. Come ricorda Finocchiaro in aula, prima si deve predisporre un’analisi dei danni nelle singole regioni e poi si sottopone a un comitato di garanti, che deve verificare il rispetto delle norme nell’utilizzo dei fondi.

Alla fine, i soldi dovrebbero arrivare. «Una procedura incredibilmente lenta che stride rispetto all’emergenza – spiega Castelli – il paradosso è che la solidarietà resta ostaggio della burocrazia». In effetti, la particolare conformazione montuosa del territorio, la prevedibilità della stagione rigida dalla quale non si scappa, avrebbe dovuto rendere la macchina della solidarietà più flessibile per mettere a disposizione i 19 milioni di euro raccolti (in due tranche, al 30 novembre 2016) via sms tramite il numero 45500, e i quasi 8 milioni arrivati con bonifico bancario al 10 gennaio 2017. Il primo terremoto, di questa lunga serie che ha sconvolto il cuore del Paese, è del 24 agosto. Se si tiene conto solo di questo evento, quello più indietro nel tempo, e delle prime donazioni via cellulare chiuse il 9 ottobre, si contano 15 milioni fermi da oltre tre mesi.

E tre mesi valgono come tre anni per chi non ha una casa e vede la neve sommergere le macerie senza che dia l’illusione di dimenticare. Per dire, altre forme di raccolta fondi, promosse da aziende private, hanno già prodotto risultati concreti e visibili. Il 29 gennaio, salvo proroghe, si chiuderà la terza donazione tramite sms, che, partita il 31 dicembre, ha già fruttato oltre un milione di euro. Sono 2 euro per ogni messaggio. Servono per ricostruire case, scuole, per salvare allevamenti e colture. L’importante è farli arrivare presto a chi sono destinati.

Le case ai terremotati? Si estraggono a sorte. Giuro.

(Ecco il comunicato di Pippo Civati e Beatrice Brignone:)

Abbiamo appreso con sconcerto dalla stampa che a Norcia l’amministrazione comunale ieri ha proceduto all’assegnazione di 20 casette tra gli sfollati che ne avevano diritto e avevano fatto richiesta, attraverso il metodo dell’estrazione a sorte. 14 casette da 40 mq, di cui 2 riservate a soggetti disabili, e 6 da 60 mq, di cui 1 per disabili. I nuclei familiari che hanno fatto richiesta sono in tutto 89.

Il metodo del sorteggio è stato il seguente: il nucleo familiare doveva essere rappresentato da una sola persona, il sorteggio è stato effettuato dividendo i richiedenti in due gruppi, in base alla superficie delle strutture abitative. Non sono stati presi in considerazione al momento dei sorteggiati i nuclei familiari con 5 o più componenti, in quanto non sono previsti in quest’area moduli da 80 mq.

Nel frattempo, la popolazione priva di moduli d’emergenza è costretta a ripararsi dal freddo nei container collettivi da 48 posti, con bagni e zona giorno in comune.

Ci pare un modo di procedere alquanto iniquo e improvvisato e per questo abbiamo presentato un’interrogazione urgente ai Ministri competenti, chiedendo anche un intervento in Parlamento del Commissario straordinario Vasco Errani.

Non è forse più opportuno intervenire nell’immediato per trovare soluzioni abitative ai nuclei familiari rimasti esclusi dal sorteggiodelle venti unità messe a sorteggio dall’Amministrazione comunale di Norcia tra gli aventi diritto? E’ giusto utilizzare il metodo dell’estrazione a sorte per risolvere l’emergenza abitativa dei terremotati?

In questi giorni le popolazioni colpite dal sisma stanno forse affrontando il momento più duro a causa dei disagi dovuti a neve e maltempo e per questo è necessario trovare soluzioni urgenti e indifferibili per consentire a tutti i cittadini di poter affrontare l’inverno rigido in corso. E questo diritto non può essere assolutamente affidato alla sorte.

Che schifo le nefandezze di Radio Maria

Radio Maria ha sparato la cazzata. Un’altra. Dice che il terremoto sarebbe la punizione di dio per la legge sulle unioni civili votate in Parlamento qualche mese fa. Quindi secondo Radio Maria dio, per logica, è omofobo. Ma non solo: dice Radio Maria che dio è vendicativo, assassino è un po’ vigliacchetto se davvero colpisce cittadini per farsi intendere dai politici. La cazzata, di per sé, sarebbe anche solo una delle tante che viene sparata nel mare magnum dell’informazione, buona al massimo per dare un colpetto di vitalità agli adinolfi di turno.

Ma c’è una cosa che mi turba: che Radio Maria poi non venga mai sconfessata dalla Chiesa. Non dico il Papa (anzi, sì, dico anche il Papa) ma un Cardinale con un minuto libero per dirci che hanno detto una boiata ci starebbe pure. (edit: il Vaticano ha risposto*) Anche la redazione di Radio Maria non ha sconfessato il suo conduttore; dice che abbiamo capito male noi. Eppure le parole hanno un senso e padre Livio Fanzaga ha testualmente detto:

“dal punto di vista teologico questi disastri sono una conseguenza del peccato originale, sono il castigo del peccato originale, anche se la parola non piace… Arrivo al dunque, castigo divino. Queste offese alla famiglia e alla dignità del matrimonio, le stesse unioni civili. Chiamiamolo castigo divino”.

Una cosa è certo: l’ignoranza, l’estremismo e la turboreligione genera mostri. E padre Livio Fanzaga, ancora una volta, sembra tenerci ad essere il loro pastore. Dei mostri. Chissà che ne pensa dio.

*(edit: hanno risposto. Ne scrive l’Ansa:
Il Vaticano condanna le affermazioni andate in onda su Radio Maria riguardo al terremoto come “castigo divino” dopo le unioni civili. “Sono affermazioni offensive per i credenti e scandalose per chi non crede”, deplora mons. Angelo Becciu, sostituto alla Segreteria di Stato, interpellato dall’ANSA. Becciu ha spiegato che si tratta di affermazioni “datate al periodo precristiano e non rispondono alla teologia della Chiesa perché contrarie alla visione di Dio offertaci da Cristo”. “I terremotati ci perdonino, a loro solidarietà del Papa”. “Cristo – ha aggiunto mons. Becciu – ci ha rivelato il volto di Dio amore non di un Dio capriccioso e vendicativo. Questa – spiega – è una visione pagana, non cristiana”.”Chi evoca il castigo divino ai microfoni di Radio Maria – afferma ancora mons. Becciu – offende lo stesso nome della Madonna che dai credenti è vista come la Madre misericordiosa che si china sui figli piangenti e terge le loro lacrime soprattutto in momenti terribili come quelli del terremoto”. “Radio Maria – aggiunge il prelato, tra i più stretti collaboratori del Papa – deve correggere i toni del suo linguaggio e conformarsi di più al Vangelo e al messaggio della misericordia e della solidarietà propugnato con passione da papa Francesco specie nell’anno giubilare. Non possiamo non chiedere perdono ai nostri fratelli colpiti dalla tragedia del terremoto per essere stati additati come vittime dell’ira di Dio. Sappiano invece che hanno la simpatia, la solidarietà e il sostegno del Papa, della Chiesa, di chi ha un briciolo di cuore”.
Bene. Ora rimane solo di ricacciare Fanzaga nel Medioevo.)

L’arte di curare la speranza

In un momento in cui la disperazione è diventata un’affilatissima arma politica costruire speranza è la vera sfida. Non proiettarla: costruirla, curarla, carpirne il senso e il valore e trattarla con misura. Misura: quella stessa misura che oggi sembra rara e fuori moda. La coltivazione onesta della speranza sta diventando una mia fissazione; conoscerne i metodi, imparare a valutarne i modi e provare ad uscire da questa corrente che vorrebbe sminuirla a ingenuità.

Come diceva Clara Boothe Luce non credo che esistano persone disperate ma che ci siano persone convinte di non potercela fare e questi sono il capitale umano da mobilitare per costruire davvero un diverso futuro. Qualche giorno fa mi scriveva un amico raccontandomi che i posti all’università di Milano per la presentazione di “La felicità al potere”, il libro di  José Mujica, si sono esauriti nel giro di poche ore. Abbiamo bisogno di contenuti positivi. Siamo sicuri di saperli riconoscere?

Su terremoto, speranza e responsabilità ne ho scritto per Fanpage qui. Sono curioso di sapere voi cosa ne pensate.

 

In ginocchio in mezzo alle macerie

Che si creda o no l’immagine dei cittadini di Norcia inginocchiati sulle macerie nella piazza cittadina è la moderna versione della Pietà di Buonarroti. È il cadere sulle ginocchia perché si spezzano le gambe sotto il peso degli eventi, la disperanza che diventa cemento nelle vene e la paura di alzare lo sguardo più lontano del luogo calpestato. Il terremoto di ieri non è terremoto misurabile per vittime e danni, non solo: il terremoto di ieri è il colpo di vento che ci abbatte appena rialzati, uno sgambetto che appare mostruosamente chirurgico e cronico oppure più banalmente l’insopportabile perseveranza del dolore quando perdura.

Quando questo Paese si ritrova ad affrontare dolori così grandi riesce sempre a spremere una compostezza commovente e l’aria intorno, appena si posa lo sbriciolio delle macerie, si fa greve ma comunitaria e responsabile.

Mi chiedevo ieri sera guardano le immagini e ascoltando i commenti e le voci se davvero serva sempre un lutto per riuscire a scalare pareti dell’umanità che poi inevitabilmente tornano ad essere disabitate e sbeffeggiate. Mi chiedo, e non ho la risposta, perché ormai la convergenza solidale avvenga solo quando si ha paura di morire o si ha contezza di esserne scampati per poco. Cosa diluisce la responsabilità poi cammin facendo? Domando, esclusi i Salvini e i complottisti, perché non si riescano a innescare questi stessi sensi corrispondenti sulle ingiustizie provocate dall’uomo, dalle persone sulle persone, senza bisogno di falde e smottamenti.

Forse conviene tenersele in tasca, come memorandum, le macerie prima di ricostruire.

Buon lunedì.

(il mio buongiorno per Left è qui)

La “bufala” della magnitudo e perché il dato cambia nel tempo.

(Daniele Vulpi fa chiarezza. Che fatica)

La bufala viene servita puntualmente sui feed dei social ad ogni scossa di terremoto che scuote il nostro paese. Un piatto particolarmente sgradevole (tanto per usare un eufemismo) considerando le circostanze spesso portano tanti lutti e tante sofferenze. Cambiano le forme ma la sostanza del messaggio che viraleggia in rete è sempre la stessa: il governo “aggiusta” al ribasso la stima dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia sui sismi in Italia per evitare di pagare tutti i danni per i fabbricati colpiti. E questo perché il risarcimento verrebbe calcolato sulla base della magnitudo. Tutto falso. Ma che sia falso non conta, basta un condividi, un retweet e le turbine del social regalano una porzione di credibilità a una storia che non ce l’ha. Vediamo perché.

L’articolo 2. Tutto nasce dal decreto legge n. 59 del 15 maggio del 2012 con il quale l’allora governo Monti tratteggiava la riorganizzazione della Protezione Civile, in particolare dall’articolo 2, nel quale si parlava di una “esclusione, anche parziale, dell’intervento statale per i danni subiti da fabbricati” allo scopo di favorire “l’avvio di un regime assicurativo per la copertura dei rischi derivanti da calamità naturali sui fabbricati, a qualunque uso destinati”. Un articolo cancellato qualche mese dopo quando, il 12 luglio 2013, il decreto venne convertito in legge. Quindi non c’è.

Questione di scale. Ancora: secondo i post dei complottisti i risarcimenti dei danni sarebbero calcolati in base alla magnitudo del sisma. E anche questo non è vero: il criterio scelto dal governo è semmai l’intensità del terremoto e non la magnitudo. Tanto per capirci, la prima da sempre si misura con la scala Mercalli (quella che valuta l’evento tellurico in base ai danni che produce, sull’uomo, sugli edifici dell’area colpita dal sisma, sull’ambiente) la seconda sulla scala pensata dal geofisico americano Charles Richter (che si basa sulla magnitudo, ovvero l’energia rilasciata da un terremoto nel suo ipocentro che è poi il punto in cui si è originato). Due scale diverse, come si vede.

Come si misura la magnitudo? E perché non c’è una stima unica? Resterebbe un ultimo argomento in mano a chi vede la longa manus del governo muoversi sui sismografi: perché le stime sulla magnitudo dei terremoti spesso differiscono? Vediamo allora, a grandi linee, come si misura un terremoto. Aiuta a capire perché nei momenti successivi al sisma spesso vi siano misurazioni diverse. A Norcia la prima stima dell’USGS (United States Geological Survey) è stata di magnitudo 7.1, seguite da quella dell’Ingv (Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia) prima di 6.1 poi di 6.5 e da una seconda dell’USGS di 6.6.
Terremoto in Centro Italia, direttore Cnr: “Possibili nuove scosse, anche più forti”

Allora, per misurare la magnitudo di un terremoto, ovvero la sua potenza, si possono utilizzare diversi modi, tutti validi ma basati su parametri differenti e disponibili in tempi diversi. Si tratta però sempre di stime soggette a un certo margine di incertezza, man mano che vengono affinate le stesse misurazioni. “La rete sismica è dell’Ingv ed è comprensibile che in un primo momento ci siano delle discrepanze”, spiega Paolo Messina, direttore dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria del Cnr. “Tra l’altro la rete sismica è anche sul luogo delle precendenti scosse quindi gli strumenti possono andare in saturazione. Il problema è come viene misurata: magnitudo momento o magnitudo locale. Nei primi momenti c’è stata differenza ma nel giro di poco la misura è stata aggiornata nel modo corretto”.

La scala di magnitudo del momento sismico (MMS), introdotta negli anni ’70, viene utilizzata dai sismologi per misurare le dimensioni dei terremoti in termini di energia liberata. E’ quella usata dall’USGS. La magnitudo locale (Ml), o magnitudo Richter, si esprime invece attraverso il logaritmo decimale del rapporto fra l’ampiezza registrata da un particolare strumento, il pendolo torsionale Wood-Anderson, e una ampiezza di riferimento. E’ più veloce da calcolare ma vale solo per un terremoto che avviene a meno di 600 km dalla stazione che l’ha registrato. E’ quella usata dall’Ingv.

“Per rapidità – spiega il sismologo Salvatore Massa, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) – utilizziamo la magnitudo Richter. L’Ingv utilizza inoltre un modello calibrato proprio per l’Italia centrale e basato sui dati che arrivano da una rete di stazioni sismiche con una densità decisamente maggiore rispetto a quella delle altre agenzie internazionali che utilizzano modelli diversi.

Continua Massa: “Lo stesso Richter, il sismologo che negli anni ’30 aveva elaborato la scala, non la considerava lo strumenti ideale. Per i terremoti più forti, come quelli di magnitudo superiore a 6,0, per esempio, la magnitudo Richter (o magnitudo locale) non è considerata attendibile al 100 per cento. Per questo motivo i sismologi si servono anche del calcolo della cosiddetta “magnitudo momento”. Questa, spiega Massa, “si basa sulla stima del momento sismico, si basa cioè su una durata più ampia del sismogramma, fino a 30 minuti”. Ma bisogna aspettare: se quel tempo non trascorre non è quindi possibile avere la misura. “In teoria – ha proseguito Massa – la stima della magnitudo Richter e quella della magnitudo momento dovrebbero essere analoghe. E’ comunque probabile che, a seconda dei criteri di misura, possano differire di qualche punto decimale”.

(fonte)

Questa è una senatrice, una maestra e una componente della commissione cultura. Per dire.

“Il Tg1 apre dichiarando una scossa di 7.1 e poi la declassa a 6.1, ancora menzogne per interessi economici di Governo!!! Anche il terremoto che ha distrutto L’Aquila fu ‘addomesticato’ a 5.8…Il tutto per non risarcire i danneggiati al 100” ha dichiarato la senatrice Enza Blundo (M5S) sul suo profilo Facebook. Ancora una volta la solita indegna bufala (basta leggere qui). Ancora. Da una senatrice. Da una maestra che dovrebbe insegnare ai nostri figli. Da una componente della Commissione Cultura che decide leggi e comportamenti degli operatori culturali in questo Paese.

Il M5S si dissocia. “Il post pubblicato dalla senatrice Enza Blundo non rappresenta in alcun modo il pensiero dei gruppi parlamentari M5S di Camera e Senato e dell’intero Movimento”. Lo affermano i capigruppo M5S di Camera e Senato Giulia Grillo e Luigi Gaetti. “A seguito del violento terremoto che stamane ha colpito nuovamente il centro Italia, ribadiamo la nostra vicinanza alle persone colpite e sentiamo con forza il senso di responsabilità a cui tutti siamo chiamati”, concludono. Ma questa è indegna di essere classe dirigente. Punto. Non servono dissociazioni.

E al primo che vi dice che per questo va eliminato il Senato rispondetegli che allora aboliamo anche le maestre, eh.