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USA

Ma vuoi vedere che salta il Ttip?

Dice il vice cancelliere e ministro dell’Economia tedesco, Sigmar Gabriel che il trattato di libero scambio Ttip (per saperne di più potete leggere qui) di fatto sia fallito: “Ritengo che i negoziati con gli Stati Uniti siano ‘de facto’ falliti, anche se nessuno lo vuole ammettere veramente” ha detto Gabriel sottolineando come nei primi 14 incontri non sia datato trovato l’accordo su nessuno dei 27 capitoli che lo compongono.

E sarebbe una gran bella notizia. Già.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)

Come sarà l’America di Trump. Satira. O forse no.

donaldtrump

Oggi 30 maggio 2020 a Washington il Presidente degli USA Donald Trump ha firmato la nuova legge sulla povertà: «è fatto divieto in territorio americano di essere indigenti e procurare perdita d’immagine allo Stato d’appartenenza. Per chi viene trovato povero è prevista una sanzione dai 5.000 ad un massimo di 20.000 dollari”. Trump, presentando alla Casa Bianca la sua ultima riforma prima della battaglia cruciale per la rielezione ha specificato che la povertà è uno dei peggiori freni all’economia americana (solo dopo all’impurità di razza) e che questa nuova norma sradicherà una volta per tutte la nullafacenza,  vero cancro della produttività.

A chi gli ha chiesto come sia possibile sperare di recuperare i soldi delle multe da persone dichiarate povere Trump ha risposto con una sonora risata: «non sono i soldi ad interessarci – ha dichiarato il Presidente – ma l’iscrizione a credito da parte dello Stato di denaro che servirà per ottenere finanziamenti dagli istituti bancari per la rincorsa agli armamenti che, da tempo, è uno dei punti principali del governo americano. Non solo potremmo finalmente rendere inoffensivi i poveri che oltre che poveri risulteranno formalmente indebitati ma così facendo si otterrà una solidità finanziaria (“mica economica, come interessa a quei quattro straccioni democratici” – ha specificato Trump nda) che ci permetterà di investire negli ambiti nevralgici di questo governo». Il discorso di Trump è stato accolto con un lungo e scrosciante applauso da parte del Direttivo Ristretto, il nuovo organo consultivo e deliberativo che ha sostituito il Congresso già nel 2018 per “snellire l’iter decisionale”.

(il mio racconto per Fanpage continua qui)

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

Michael Moore scrive a Donald Trump

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Caro Donald Trump,

forse ricorderà (è molto probabile dal momento che ha “una memoria di ferro”), che ci incontrammo nel novembre del 1998 dietro le quinte di un programma televisivo pomeridiano al quale fummo invitati. Tuttavia, un attimo prima di andare in onda, un produttore mi chiamò in disparte per dirmi che lei si sentiva un po’ “agitato” di apparire in onda con me. Mi ha detto che lei non voleva essere “fatto a pezzi” e voleva che l’assicurassi che non mi sarei scagliato contro di lei. “Non penserà mica che voglia aggredirlo e metterlo alle strette?”, chiesi perplesso. “No – rispose la produttrice – È solo un po’ nervoso”. “Eh? Non l’ho mai incontrato prima d’ora. Non ha alcun motivo di essere teso”, dissi. “Non so nemmeno molto sul suo conto, oltre il fatto che gli piace ribattezzare le cose sul suo nome. Se vuole posso parlarci io”. Come ricorderà, è quello che feci. Mi avvicinai e mi presentai. “La produttrice mi ha detto che è preoccupato per quello che potrei dire o fare durante il programma. Senza offesa, ma la conosco a malapena. Sono del Michigan. La prego di non preoccuparsi, andremo d’accordo!”.

Sembrava sollevato, poi si avvicinò a me e mi disse: “Non volevo avere rogne e volevo solo assicurarmi che noi due potessimo andare d’accordo, che non mi prendesse di mira per qualche assurdo motivo”. “Prenderla di mira”? Ho pensato, ma dove siamo, in terza elementare? Sono rimasto sconvolto da come un sedicente uomo duro del Queens si trasformasse in un gattino spaventato.Siamo andati in onda e non è successo nulla di sconveniente. Non le ho tirato i capelli, non le ho messo la gomma da masticare sulla sedia. “Che inetto”, pensai mentre lasciavo gli studi televisivi.

Eccoci qui nel 2015 e, come tante altre persone bianche arrabbiate, lei è spaventato da uno spauracchio; uno spauracchio costituito da tutti i musulmani. Non solo quelli che hanno ucciso, ma tutti i mussulmani. Fortunatamente, Donald, lei e i suoi sostenitori non assomigliate più al volto degli Stati Uniti moderni. Non siamo una nazione di bianchi arrabbiati. Ecco un dato statistico che le farà rizzare i capelli: l’ottantuno percento di coloro che andranno alle urne l’anno prossimo per eleggere il presidente è costituito da donne, cittadini di colore, ragazzi tra i 18 e i 35 anni. Ovvero, né da persone come lei, né da coloro che la vorrebbero a capo del Paese. Per questo, in preda alla disperazione e alla follia, può anche proporre il divieto d’accesso in questo Paese a tutti i musulmani. Sono cresciuto con l’idea che siamo tutti fratelli e sorelle, senza distinzione di razza, credo o colore della pelle, il che significa che, se deve essere imposto un divieto ai musulmani, lo stesso divieto deve essere imposto a me e a chiunque altro. Siamo tutti musulmani.

Così come siamo tutti messicani, siamo tutti cattolici ed ebrei, bianchi e neri e tutte le altre sfumature intermedie. Siamo tutti figli di Dio (o della natura o di qualsiasi altra cosa in cui creda), parte della famiglia umana e questo non può essere cambiato di una virgola per effetto di quello che dice o che fa. Se non le piacciono queste regole statunitensi, allora se ne può andare in castigo in uno dei suoi grattacieli a meditare su quello che ha detto. Poi ci lascia in pace, così eleggiamo un vero presidente, che sia forte e compassionevole allo stesso tempo, o abbastanza forte da non apparire lamentoso e spaventato da un tizio con un cappellino da baseball seduto accanto a lui sul divano di uno show televisivo.

Lei non è così forte, Donny, e sono contento di aver avuto modo di costatare la sua vera essenza tanti anni fa. Siamo tutti musulmani. Se ne faccia una ragione.

Distinti saluti,
Michael Moore

PS: chiedo a tutti di leggere questa lettera e di firmare la seguente dichiarazione: “Siamo tutti musulmani” e di condividere una foto con un cartello che dica “SIAMO TUTTI MUSULMANI” su Twitter, Facebook o Instagram utilizzando l’ hashtag #WeAreAllMuslim. Pubblicherò tutte le foto sul mio sito e poi gliele invierò, Sig. Trump. Si unisca a noi.

(Questo post è stato pubblicato per la prima volta su The Huffington Post U.S. ed è stato poi tradotto dall’inglese da Valentina Mecca)

La lezione del HP che funzionerebbe così bene anche da noi


L’Huffington Post ha deciso di cambiare registro a proposito della campagna elettorale di Trump negli USA. Ha scritto  Arianna Huffington:

Sì, commenti simili da parte sua non sono mancati fin dall’inizio, dal momento che ha inaugurato la sua campagna con delle dichiarazioni oltraggiose sui Messicani. Ma all’inizio questa xenofobia così esagerata, per quanto disgustosa, suonava più come il numero piccato di un cabarettista ormai alla fine. Ora che Trump, aiutato dai media, ha raddoppiato la dose di crudeltà e ignoranza che ha sempre contraddistinto la sua campagna, le parole “Ma l’ha detto davvero?” un tempo pronunciate con stupore, sono diventate qualcosa di disgustoso e minaccioso, mettendo a nudo un aspetto inquietante della politica americana.

Riteniamo che il modo in cui ci occupiamo della sua campagna debba riflettere questo cambiamento. Nel farlo, non dobbiamo mai smettere di ricordare ai nostri lettori chi è Trump e cosa rappresenta davvero la sua ascesa politica. Come ha osservato di recente Jay Rosen: “Mai come adesso, il ruolo della stampa nelle campagne elettorali si è basato su presupposti condivisi all’interno della classe politica e della macchina elettorale: le regole sono chiare ed infrangerle comporta una punizione. Queste idee condivise sono state sfidate raramente perché il rischio sembrava troppo alto e perché i responsabili delle campagne sono proprio i professionisti “del rischio”, i cosiddetti strateghi.

E sarebbe un’eventualità da valutare anche da noi. Forse.

La pistola sotto l’albero

I discorsi contro le armi in USA si sprecano. Eppure il mito americano resiste. Ogni tanto, allora, conviene far parlare i numeri e questa volta l’infografica è di Giorgia Furlan per Left:

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Gli spari, le scuole e la ciclicità del male (americano)

STELLEPISTOLE.CARLOTAncora una volta. Ancora Obama. Le inquadrature, le solite, quelle per i messaggi di cordoglio di Stato e le lacrime di sottofondo. Forse negli USA avranno un manuale di regia per le stragi da fuoco e forse un capitolo intero sulle stragi da fuoco e al college. Ci sono drammi come quello accaduto in Oregon che fiaccano per la loro imperturbabile ciclicità: come se fossero insiti nell’umanità di questo secolo, come se fossero il purgatorio che ci tocca e che possiamo solo raccontare o peggio come se fossero il simbolo dell’ineluttabilità del destino. Forse, invece, sono più banalmente le stigmate della pavidità politica di un Paese che non riesce a svincolarsi dalle sue lobby.

Era il 2002 quando il regista Michael Moore proiettò per la prima volta il proprio film documentario ‘Bowling a Columbine” in cui raccontava gli USA e quel suo smodato e dissennato amore per le armi. Fu celebre la scena in cui il documentarista mostra il fucile ottenuto “in omaggio” con l’apertura di un conto corrente bancario: armi come cadeaux promozionali. Con quel film Moore divenne Moore, il celebre regista vinse l’Oscar nell’anno successivo e ne seguì un dibattito accesissimo.

E poi? E poi siamo qui, oggi, tredici anni dopo a commentare la stessa notizia, con gli stessi toni, puntando sulle stesse colpe e snocciolando gli stessi numeri: quelli dei morti e quelli di una nazione che non impara dai propri errori. Ma se una critica rimane contemporanea per decenni di chi è la colpa? Il Presidente degli USA, Obama, ha dichiarato “siamo l’unico Paese moderno al mondo dove queste sparatorie sono diventate una routine” e ha accusato il Congresso e i governatori (quindi la politica, in fondo) di non averci messo troppo impegno. Colpa della politica, quindi. Certo. Ma più che di una legge che probabilmente andava già scritta dopo il massacro della Columbine High School in cui morirono 12 studenti (era il 20 aprile del 1999, nel secolo scorso) le vittime che oggi piangono gli Stati Uniti sono le stesse che stanno lì dove la politica non riesce ad essere più forte dei grumi economici.

(continua qui)

L’uguaglianza secondo Obama

Tanto per notare le differenze:

Obama va alla guerra delle tasse: imposte più alte sui ricchi (colpiti i «capital gain», non i redditi da lavoro) da redistribuire al ceto medio in difficoltà sotto forma di sgravi fiscali per le famiglie con figli e misure di sostegno sociale: soprattutto il college gratis per quasi tutti gli studenti e l’aspettativa di paternità pagata. Deciso a non passare alla storia come il presidente che ha stabilizzato e rilanciato l’economia Usa dopo una crisi gravissima, ma poi non è riuscito a evitare una frattura nella società col drammatico impoverimento del ceto medio, il leader democratico proporrà domani sera al Congresso e all’America una ricetta economica con la quale infrange il tabù dell’aumento dei tributi.

Lo farà nell’occasione più solenne: il discorso sullo Stato dell’Unione, che viene pronunciato ogni anno in diretta tv davanti alle Camere riunite. La sicurezza e la lotta al terrorismo saranno sicuramente temi centrali, ma, entrato nell’ultimo biennio alla Casa Bianca, la sua eredità politica Obama se la gioca soprattutto sulle questioni interne. In America, poi, è già iniziata la campagna per le presidenziali del 2016 al centro della quale ci sarà il malessere assai diffuso in un Paese che, pure, ha ripreso a creare molti posti di lavoro. Ma la globalizzazione dell’economia e i processi di automazione hanno favorito una progressiva polarizzazione dei redditi, mentre i nuovi lavori sono concentrati nella fascia alta delle professioni creative più remunerative o in quella bassa della manodopera non qualificata che spesso non arriva nemmeno a mettere insieme il reddito minimo di sopravvivenza del nucleo familiare. In mezzo, un ceto medio sempre più schiacciato.

E’ soprattutto per questo che Obama ha visto la sua popolarità declinare negli ultimi anni. Mentre la «sconfitta annunciata» alle elezioni di «mid term» di novembre si è trasformata in débâcle, nonostante Pil e occupazione in forte crescita. Col Congresso ora totalmente controllato dalla destra, la Casa Bianca ha pochi margini di manovra, ma il presidente ha deciso ugualmente di lanciare una controffensiva: «State of the Union» diventa così il punto d’arrivo di un percorso fatto di annunci di interventi sociali a sostegno del ceto medio.

Fino a ieri Obama aveva puntato soprattutto sull’istruzione e il welfare: asili nido, i primi anni dell’università pagati dallo Stato, i permessi di paternità retribuiti. Ma ora il team del presidente fa sapere che domani Obama romperà gli indugi anche sul fronte del Fisco. Tre le misure che dovrebbero essere proposte dal lato delle entrate: 1) l’aumento, dal 23 al 28 per cento, della tassa su dividendi e «capital gain» di chi ha un reddito superiore al mezzo milione di dollari l’anno. 2) L’estensione del prelievo fiscale ai «trust» che oggi vengono usati dalle famiglie più facoltose per trasmettere la loro ricchezza agli eredi evitando ogni tributo. 3) Un maggior prelievo su banche e finanziarie di grandi dimensioni (oltre 50 miliardi di dollari di patrimonio) concepito in modo da colpire chi fa un ricorso maggiore all’indebitamento. Una manovra consistente ma non gigantesca né radicale: 320 miliardi di dollari in dieci anni (parliamo di circa 27 miliardi di euro l’anno) senza aumenti delle aliquote sui redditi da lavoro o riduzione di sgravi oggi molto generosi come quelli sui mutui-casa. Un gettito, comunque, più che sufficiente a coprire i costi del piano di interventi sociali che Obama si accinge a proporre. 60 miliardi serviranno per il college gratis. Poi ci sono da coprire i costi dell’aspettativa pagata per i padri, ma il grosso della manovra (235 miliardi, sempre in dieci anni), andrà ai sostegni economici alle famiglie. Qui il presidente vuole aumentare a 3 mila dollari il contributo annuo erogato per ogni figlio fino all’età di 5 anni, più 500 dollari versati a ogni famiglia con un reddito inferiore ai 210 mila dollari nella quale entrambe i coniugi lavorano.

E’ improbabile che tutte queste misure entrino in vigore: Obama può realizzare solo alcuni interventi marginali utilizzando i poteri presidenziali. Per il resto dovrà affidarsi al voto del Congresso dove alcuni repubblicani hanno già bocciato le sue proposte. Ma la destra deve stare attenta: Obama punta su misure condivise in passato anche da esponenti conservatori e le inserirà nel bilancio che presenterà il 2 febbraio. A dire no su tutto i repubblicani rischiano di finire in rotta di collisione col ceto medio.

(clic)

Eravamo stranieri anche noi, un tempo.

Miei concittadini americani, questa sera, vorrei parlare con voi di immigrazione.

Per più di 200 anni, la nostra tradizione di accoglienza a immigrati provenienti da tutto il mondo ci ha garantito un enorme vantaggio sulle altre nazioni. E ci ha tenuti giovani, dinamici e dalla mentalità imprenditoriale. Ha formato il nostro carattere come popolo con possibilità illimitate – un popolo non intrappolato nel passato, ma in grado di rimodellare se stesso come noi crediamo.

Però, oggi, il nostro sistema di immigrazione non funziona più – e tutti lo sanno.

Le famiglie che entrano nel nostro Paese nel modo giusto e si comportano secondo le regole vedono altri non rispettare le regole. Proprietari di aziende che offrono ai loro lavoratori buoni salari e benefici vedono la concorrenza sfruttare gli immigrati senza documenti, pagando molto meno di loro. Tutti noi ci indigniamo di fronte a chi raccoglie i frutti della vita in America senza assumersi le responsabilità della vita in America. E gli immigrati privi di documenti che disperatamente vogliono abbracciare queste responsabilità vedono altra scelta che rimanere nell’ombra, o il rischio di vedere lacerate le loro famiglie.

E andata così per decenni. E per decenni, non abbiamo fatto molto a riguardo.

Quando ho assunto l’incarico, mi sono impegnato a rimettere in sesto il malfuzionante sistema di immigrazione. E ho cominciato facendo quello che ho potuto, per proteggere i nostri confini. Oggi, utilizziamo più agenti e tecnologia per garantire il nostro confine meridionale che in qualsiasi altro momento della nostra storia. E nel corso degli ultimi sei anni, gli attraversamenti di frontiera illegali sono stati ridotti di oltre la metà. Anche se questa estate si è verificato un breve picco di minori non accompagnati fermati al nostro confine, il numero di questi bambini è ora effettivamente inferiore a quello che è stato in quasi due anni. Nel complesso, il numero di persone che cercano di attraversare illegalmente il nostro confine è al suo livello più basso dal 1970. Questi sono i fatti.

Nel frattempo, ho lavorato con il Congresso su una completa riforma, e l’anno scorso, 68 democratici, repubblicani e indipendenti si sono riuniti per approvare una legge bipartisan al Senato. Non è stato un accordo perfetto. E ‘stato un compromesso. Ma rifletteva il senso comune. Sarebbe raddoppiato il numero di agenti di pattugliamento delle frontiere dando agli immigrati clandestini un percorso alla cittadinanza se avessero pagato una multa, cominciando a pagare le tasse, e ricominciando daccapo. E gli esperti indipendenti hanno detto che avrebbe fatto crescere la nostra economia e ridurre il nostro deficit.

Qualora la Camera dei Rappresentanti avesse concesso questo tipo di disegno di legge un semplice voto sì-o-no, sarebbe passato con il supporto di entrambe le parti, e oggi sarebbe legge. Ma per un anno e mezzo ormai, leader repubblicani alla Camera hanno rifiutato di permettere quel semplice voto.

Ora, io continuo a credere che il modo migliore per risolvere questo problema sia quello di lavorare insieme per superare questo tipo di diritto del senso comune. Ma finché questo non accade, ci sono azioni che ho l’autorità legale di prendere come presidente – lo stesso tipo di azioni intraprese da presidenti democratici e repubblicani prima di me – che contribuiranno a rendere il nostro sistema di immigrazione più equo e più giusto.

Stasera, annuncio quelle azioni.

In primo luogo, noi continueremo a costruire il nostro progresso al confine con risorse aggiuntive per le nostre forze dell’ordine in modo che possano arginare il flusso di attraversamenti illegali, e accelerare il ritorno di coloro che attraversano.

In secondo luogo, per gli immigrati altamente qualificati, laureati e imprenditori renderò più semplice e veloce la possibilità di rimanere e contribuire alla nostra economia, come tanti imprenditori hanno proposto.

In terzo luogo, prenderemo provvedimenti per affrontare in modo responsabile il tema dei milioni di immigrati clandestini che già vivono nel nostro paese.

Voglio dire di più su questo terzo numero, perché genera più passione e polemiche. Anche se siamo una nazione di immigrati, siamo anche una nazione di leggi. Lavoratori privi di documenti hanno violato le nostre leggi sull’immigrazione, e credo che vadano essere ritenuti responsabili – in particolare quelli che possono essere pericolosi. Ecco perché, nel corso degli ultimi sei anni, deportazioni di criminali arrivano all’80 per cento. Ed è per questo che abbiamo intenzione di continuare a concentrare le risorse di polizia sulle minacce reali alla nostra sicurezza. Criminali, non le famiglie. I criminali, non i bambini. Membri delle gang, non una mamma che sta lavorando duramente per mantenere i suoi figli. La renderemo la priorità, così come l’applicazione della legge fa ogni giorno.

Ma anche se ci concentriamo su deportare i criminali, il fatto è che milioni di immigrati in ogni stato, di ogni razza e nazionalità vivono ancora qui illegalmente. E siamo onesti – rintracciare, arrotondando per eccesso, e deportando milioni di persone non è realistico. Chi suggerisce il contrario non è sincero con voi. Neanche rispecchia ciò che siamo in quanto americani. Dopo tutto, la maggior parte di questi immigrati vivono qui da molto tempo. Lavorano duro, spesso in posti di lavoro difficili e a bassa retribuzione. Sostengono le loro famiglie. Pregano nelle nostre chiese. Molti dei loro figli sono nati in America o hanno speso la maggior parte della vita qui, e le loro speranze, i sogni, e il patriottismo sono proprio come il nostro. Come il mio predecessore, il presidente Bush, una volta disse: “Sono una parte della vita americana.”

Dunque, ecco quanto: ci aspettiamo che le persone che vivono in questo paese si comportino secondo le regole. Ci aspettiamo che chi hanno passato il segno, non vengano ingiustamente premiati. Quindi, arriviamo a offrire il seguente accordo: se siete stati in America per più di cinque anni; se si hanno bambini che sono cittadini americani o residenti legali; se vi registrate, passate un controllo dei precedenti penali, e siete disposti a pagare la giusta quota di tasse – sarete in grado di applicare a rimanere in questo paese in modo temporaneo, senza timore di essere espulsi. È possibile uscire dall’ombra e mettersi a posto con la legge. Questa è la base dell’accordo.

Ora, cerchiamo di essere chiari su ciò che questo accordo non comprende. Questo accordo non si applica a chi è venuto in questo paese di recente. Non si applica a chiunque possa venire in America illegalmente in futuro. Esso non concede la cittadinanza, o il diritto di stare qui in modo permanente, o gli stessi vantaggi che i cittadini ricevano – solo il Congresso può farlo. Tutto quello che stiamo dicendo è che non abbiamo intenzione di rimandarvi indietro.

So che alcuni dei critici di questa azione la chiamino amnistia. Beh, non lo è. Amnistia è il sistema di immigrazione che abbiamo oggi – milioni di persone che vivono qui senza pagare le tasse o senza comportarsi secondo le regole, mentre i politici usano la questione per spaventare la gente e montare voti al momento delle elezioni.

Questo è il vero condono – lasciando questo sistema danneggiato così com’è. Un’amnistia di massa sarebbe ingiusta. Le espulsioni di massa sarebbero impossibili e contrarie al nostro carattere. Quello che sto descrivendo è la responsabilità – un buon senso, una via di mezzo: se soddisferai i criteri, potrai uscire dall’ombra e metterti a posto con la legge. Se sei un criminale, verrai espulso. Se avete intenzione di entrare negli Stati Uniti illegalmente, le vostre probabilità di essere scoperti e rispediti indietro sono aumentate.

Le azioni che sto prendendo non solo lecite, sono il tipo di azioni intraprese da ogni singolo presidente repubblicano e ogni presidente democratico per mezzo secolo. E a quei membri del Congresso che mettono in dubbio la mia autorità per rendere il nostro sistema di immigrazione più efficiente, oppure si interrogano sulla mia saggezza che agisce dove il Congresso non è riuscito, ho una risposta: approvate un disegno di legge.

Voglio lavorare con entrambe le parti a passare una soluzione legislativa più duratura. E il giorno in cui firmerò per tramutare quel disegno in legge, le azioni che prendo oggi non saranno più necessarie. Nel frattempo, non lasciate che un visioni diverse su una singola questione compromettano l’accordo nella sua totalità. Non è così che funziona la nostra democrazia, e il Congresso di certo non dovrebbe bloccare di nuovo il nostro governo solo perché non siamo d’accordo su questo. Gli americani sono stanchi dello stallo. Ciò che il nostro paese ha bisogno di noi in questo momento è uno scopo comune – uno scopo più alto.

La maggior parte degli americani sostengono il genere di riforme di cui ho parlato questa sera. Ma capisco il disaccordo di molti di voi a casa. Milioni di noi, me compreso, possono tornare indietro per generazioni in questo paese, con gli antenati che hanno messo nel lavoro scrupoloso di diventare cittadini. Quindi, non ci piace l’idea che chiunque possa ottenere un pass gratuito per la cittadinanza americana.

So che alcuni temono l’immigrazione cambierà il tessuto stesso di ciò che siamo, o ci farà perdere i nostri posti di lavoro, o un farlo pesare sulle famiglie della classe media in un momento in cui già si sentono di aver subito ingiustizie per oltre un decennio. Comprendo queste preoccupazioni. Ma non è quanto questi passi realizzeranno. La nostra storia ed i fatti dimostrano che gli immigrati sono un vantaggio per la nostra economia e la nostra società. E credo che sia importante che tutti noi abbiamo questo dibattito senza impugnare il personaggio di qualcun altro.

Perché per tutto l’andirivieni da Washington, dobbiamo ricordare che questo dibattito riguarda qualcosa di più grande. Si tratta di ciò che siamo come paese, e che vogliamo essere per le generazioni future.

Siamo una nazione che tollera l’ipocrisia di un sistema in cui i lavoratori che raccolgono la nostra frutta e rammendano i nostri letti non hanno la possibilità di mettersi a posto con la legge? O siamo una nazione che dà loro la possibilità di mettersi in regola, di assumersi le responsabilità, e dare ai loro figli un futuro migliore?

Siamo una nazione che accetta la crudeltà di strappare i bambini dalle braccia dei loro genitori? O siamo una nazione che valorizza le famiglie, e lavora insieme per tenerli insieme?

Siamo una nazione che educa i migliori e più brillanti del mondo nelle nostre università, solo per rimandarli a casa per creare imprese nei paesi che competono con noi? O siamo una nazione che li incoraggia a rimanere e creare posti di lavoro qui, creare imprese qui, creare industrie proprio qui in America?

Questo è tutto ciò che riguarda questo dibattito. Abbiamo bisogno di più di politica come al solito quando si tratta di immigrazione. Abbiamo bisogno di un motivato, premuroso, compassionevole dibattito che si concentri sulle nostre speranze, non le nostre paure. So che la politica di questo problema sono duri. Ma lasciate che vi dica il motivo per cui sono arrivato a convincermi così fortemente su di esso.

Nel corso degli ultimi anni, ho visto la determinazione dei padri immigrati che hanno lavorato due o tre posti di lavoro senza prendere un centesimo da parte del governo, e a rischio ogni momento di perdere tutto, solo per costruire una vita migliore per i propri figli. Ho visto il cuore spezzato e l’ansia dei bambini le cui madri potrebbero essere portate via da loro solo perché non possiedono le giuste carte. Ho visto il coraggio di studenti che, fatta eccezione per le circostanze della loro nascita, sono americani come Malia e Sasha; gli studenti che coraggiosamente escono allo scoperto senza documenti, nella speranza di poter fare la differenza nel paese che amano.

Queste persone – i nostri vicini, i nostri compagni di classe, i nostri amici – che non sono venuti qui in cerca di un giro gratis, o una vita facile. Sono venuti a lavorare, e studiare, e servire nel nostro esercito, e, soprattutto, a contribuire al successo degli Stati Uniti.

Domani, mi recherò a Las Vegas e incontrare alcuni di questi studenti, tra cui una giovane donna di nome Astrid Silva. Astrid è stata portata in America quando aveva quattro anni. I suoi unici beni erano una crocifisso, la sua bambola, e il vestito variopinto che aveva indosso. Quando ha iniziato la scuola, lei non parlava inglese. Si è legata ad altri ragazzi leggendo i giornali e guardando PBS, e divenne un bravo studente. Suo padre lavorava nel giardinaggio. Sua madre puliva case di altri. Non avrebbero lasciato Astrid fare domanda per una scuola di tecnologia dei magneti, non perché non l’amassero, ma perché avevano paura che gli impiegati dell’ufficio li avrebbero la avrebbero denunciata come immigrato senza documenti. Così ha applicato in segreto, riuscendo a entrare. Quindi, lei ha per lo più vissuto nell’ombra – finché sua nonna, che visitava ogni anno dal Messico, morì, e lei non poteva recarsi al funerale senza il rischio di essere scoperta ed espulsa. E ‘stato in quel periodo in cui prese la decisione di iniziare a difendere se stessa e gli altri come lei, e oggi, Astrid Silva è uno studente di college al lavoro per la sua terza laurea.

Siamo una nazione che butta fuori determinati, fiduciosi immigrati come Astrid, o siamo una nazione che trova il modo di accoglierla? La Scrittura ci dice che non dobbiamo opprimere un estraneo, perché conosciamo la vita del forestiero – anche noi eravamo stranieri, una volta.

Miei concittadini americani, siamo e saremo sempre una nazione di immigrati. Eravamo stranieri anche noi, un tempo. E se i nostri antenati erano forestieri che hanno attraversato l’Atlantico o il Pacifico, o il Rio Grande, siamo qui solo perché questo paese li ha accolti, insegnando loro che essere americano è di qualcosa di più di quello che sembriamo, o ciò che sono i nostri cognomi, o del modo in cui preghiamo. Ciò che rende noi americani è il nostro impegno comune per un ideale – che tutti noi siamo creati uguali, e tutti noi abbiamo la possibilità di fare della nostra vita ciò che vogliamo.

Questo è il paese che i nostri genitori e nonni e le generazioni prima di loro hanno costruito per noi. Questa è la tradizione che dobbiamo difendere. Questa è l’eredità che dobbiamo lasciare per coloro che verranno.

Grazie. Dio vi benedica. E Dio benedica questo paese che amiamo.