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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

In Iran il boia non si ferma mai, pure il rap finisce al patibolo

L’Iran continua la sua opera di repressione del dissenso all’interno del Paese. Ultimo a farne le spese, con la vita, sarà il rapper Toomaj Salehi. Il 32enne è stato condannato a morte per il suo coinvolgimento nelle proteste che hanno travolto l’Iran nel 2022 in seguito alla morte della 22enne Mahsa Amini, la giovane arrestata il 13 settembre 2022 dalla polizia religiosa nella capitale iraniana, dove si trovava con la sua famiglia in vacanza, a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo. Mahsa, condotta in un centro di detenzione, morì dopo tre giorni di coma all’ospedale Kasra di Teheran, presumibilmente dopo esser stata picchiata dagli agenti.

L’avvocato del cantante ha definito “senza precedenti” la decisione del tribunale rivoluzionario, che non ha dato attuazione alla sentenza della Corte Suprema iraniana. Quest’ultima infatti a novembre dello scorso anno ha bocciato la condanna a sei anni e tre mesi di carcere emessa appunto dal tribunale rivoluzionario, a cui aveva poi rimandato il caso per eliminare i vizi di forma riscontrati. Per questo Salehi era stato scarcerato su cauzione: dopo appena 12 giorni di libertà, per aver pubblicato un video su Internet con accuse alla magistratura iraniana e il racconto di torture subite in carcere, era stato nuovamente arrestato. In Iran nel 2023 sono stati giustiziate almeno 883 persone, due al giorno. Sette di loro erano minorenni. I giornalisti che raccontano le rivolte interne sono stati condannati a una media di più di 10 anni di carcere. Amnesty International in un report di agosto 2023 segnalava la morte di “centinaia di manifestanti”, migliaia di arresti, torture e violenze sessuali in stato di detenzione.

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Crosetto impallina Vannacci e Salvini

Ora finalmente il ministro della Difesa Guido Crosetto può liberamente dire ciò che pensa sul suo collega Matteo Salvini e sul suo ex generale Roberto Vannacci candidato di punta della Lega per le prossime elezioni europee.

“Era chiaro da mesi che lo avrebbe fatto. Sarà certamente eletto e le istituzioni europee potranno godere del suo contributo di idee e valori. Sono certo che la sua presenza aiuterà elettoralmente la Lega. Una scelta win-win, come si dice. Per lui, per la Lega e per l’esercito”, ha detto ad Affaritaliani.it il ministro FdI.

Replica del generale ad Un giorno da Pecora su Rai Radio Uno: “Crosetto con sarcasmo ha detto che sarebbe un bene per l’esercito se venissi eletto? Il sarcasmo lo lascio lui. In ogni caso è una sua opinione, se ritiene che sia così non vorrei deluderlo”.

La candidatura alle prossime europee del generale Vannacci fotografa un Salvini sempre più solo

La candidatura del generale fotografa un Salvini sempre più solo, isolato e disperato nel suo partito e con i suoi alleati. Scorrere le agenzie per trovare qualche dichiarazione di benvenuto al neo candidato da parte degli altri componenti della Lega è un’opera di microchirurgia. Ieri solo la ministra alla Disabilità Alessandra Locatelli e l’ex sottosegretario Rossano Sasso hanno impugnato carta e penna per salutare l’ingresso del generale. Per il resto rimbomba un silenzio che non ha bisogno di spiegazioni.

Anche Molinari e Romeo avevano già espresso dubbi su un candidato esterno con posizioni xenofobe e omofobe

Nelle scorse settimane i capogruppo leghisti alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, avevano pubblicamente evidenziato i dubbi su un candidato esterno con posizioni xenofobe e omofobe. La scelta di metterlo capolista in tutti i collegi ha aggravato la crisi. “Il mio entusiasmo per l’ipotesi di candidatura di Vannacci è meno 2 mila, io non lo voterò”, ha detto nei giorni scorsi il sottosegretario all’Agricoltura Marco Centinaio. Così il generale assume la forma dell’ultimo disperato colpo di coda. 

AGGIORNATO ALLE 17:00

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Ponte sullo Stretto: Salvini smentito dalle carte del suo ministero

“Il futuro di Matteo Salvini è appeso alla costruzione di un ponte”, titola Politico, testata internazionale che si occupa di cose europee. Ma c’è un piccolo problema: il ministro delle Infrastrutture dimostra di non leggere nemmeno i documenti del suo ministero. 

La stampa internazionale deride Salvini smentito dai documenti del suo ministero relativi al Ponte sullo Stretto

“All’inizio di marzo Matteo Salvini è salito su una ruspa per aprire il terreno per un nuovo ponte”, scrive Politico, in “un cantiere benedetto da un prete” e promettendo che in caso di ritardi “sarà lui stesso a piantare una tenda per protestare contro i ritardi”. Il leader italiano agli occhi della stampa europea viene descritto come “l’Orbán italiano” che “spera di poter avere successo dove Benito Mussolini e Silvio Berlusconi hanno fallito lanciando il progetto di costruzione entro giugno, rinvigorendo la sua leadership politica sgretolata lungo la strada”. Segue nell’articolo l’elenco dei deludenti risultati elettorali raccolti fin qui. 

Il ministro deriso sul palcoscenico internazionale però rilancia. Ospite della trasmissione Cinque minuti su Rai Uno lo scorso 24 aprile ha annunciato che “gli studi della Società Stretto di Messina calcolano che dall’apertura del cantiere del ponte sullo Stretto saranno creati 120 mila posti di lavoro”. È falso, ovviamente. La difficoltà del leader leghista con la gestione dei numeri ormai è cronicizzata. I 120mila posti di lavoro erano una declamazione che risale a un anno fa. Poi i 120 mila sono diventati 100 mila, poi 50 mila, poi 40 mila, fino ad “alcune decine di migliaia”. Il 24 aprile siamo tornati al punto di partenza, 120 mila. Stamattina nell’intervista al Corriere della sera di nuovo a 100 mila.

Il leader italiano agli occhi della stampa europea viene descritto come “l’Orbán italiano”

Ma dove li prende i numeri il ministro Salvini? La risposta è peggio di quanto si possa immaginare. Come sottolinea Pagella Politica a marzo la Società Stretto di Messina ha presentato il progetto del ponte sullo Stretto in un’audizione alle Commissioni Ponte dei comuni di Messina (Sicilia) e Villa San Giovanni (Calabria). Tra le slide della presentazione, ce n’è una dedicata agli impatti che la realizzazione del “collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria” potrebbe avere sull’occupazione. La Società Stretto di Messina ha stimato che la costruzione del ponte richiederà 30 mila unità lavorative annue (abbreviate con la sigla “ULA”) per quanto riguarda il lavoro diretto e 90 mila ULA per quanto riguarda il lavoro indiretto e quello indotto. Salvini ha sommato le due cifre, sbagliando. 

Come spiega Pagella Politica le unità di lavoro annuo non corrispondono al numero di occupati: “un’unità di lavoro annuo rappresenta infatti la quantità di lavoro svolta da una persona impiegata a tempo pieno per un intero anno”. In base alle tempistiche stimate dalla Società Stretto di Messina, il cantiere del ponte durerà almeno sette anni. Da qui viene il numero dei “4.300 occupati in media nel periodo di costruzione del ponte” indicato dalla Società Stretto di Messina: bisogna dividere le 30 mila ULA per sette.

È falso che per realizzare il Ponte di Messina saranno creati 120 mila posti di lavoro

La stessa Società stima un picco di “7 mila occupati” durante la costruzione del ponte sullo stretto. Insomma, lo scrive la stessa società incaricata dal ministro: i lavoratori impiegati alla costruzione del ponte sono molti molti molti meno. Se riteniamo attendibili le cifre date dalla società che dovrebbe costruire l’opera i numeri sventolati dal ministro sono una panzana che non si ritrova da nessuna parte. Siamo nel campo della fantasia moltiplicata per questioni elettorali. Un terreno sdrucciolevole che non lascia ben sperare per la costruzione di un ponte lungo tre chilometri. Soprattutto se la carriera di Salvini è appesa lì. 

Leggi anche: Il Sud in default sulle infrastrutture. Ma il governo insiste ancora col Ponte sullo Stretto

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“Nessuno vuole la guerra”. Sicuri?

Ospite due giorni fa di una trasmissione televisiva mentre si discuteva della guerra in Ucraina mi sono ritrovato di fronte alla solita affermazione appoggiata come se fosse definitiva: «nessuno vorrebbe le guerre», mi hanno detto. È falso, falsissimo, da sempre. Le guerre sono il pane per l’industria bellica e per i suoi prodromi nelle istituzioni. 

Questa mattina su Repubblica Gianluca Di Feo smaschera l’Italia “al fianco dell’Ucraina” nelle dichiarazioni ufficiali della presidente del Consiglio, sempre concentrata a simulare un atlantismo e un europeismo che sono la negazione di tutto ciò che ha sempre detto fino a un minuto prima di salire a Palazzo Chigi. 

Per semplificare basta sapere che dal 2023 l’Italia ha fornito all’Ucraina solo armi vetuste, poco efficaci e in sensibile calo rispetto agli anni precedenti. Il governo Meloni è tra gli ultimi in Europa nell’invio di armi doppiato addirittura dalla Danimarca. 

In compenso l’Ucraina è diventato il secondo più importante cliente dell’industria bellica italiana. Nel 2023 ci sono state forniture per 400 milioni di euro verso Kiev (a pagamento, mica “solidali”) e le spedizioni comprendono anche armi offensive nonostante nessuno in Parlamento abbia mai annunciato il cambio di linea di quel famoso “solo armi difensive” pronunciato tempo fa. 

La “solidarietà al popolo ucraino” è quindi solo un ormone per gonfiare i bilanci delle industrie delle armi. È scritto nero su bianco. Con buona pace della litania ripetuta sui giornali, in radio e in tivù del “nessuno vuole la guerra”. 

Buon venerdì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Meloni e il presidente Zelensky, Kyiv, 21 febbraio 2023

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Quindi è fascista

Il quotidiano Il Tempo, diretto da quel Tommaso Cerno che è uno dei troppi abbagli del Partito democratico renziano, titola “Piazza rossa” con caratteri rossi e scrive “così hanno rovinato il 25 aprile”. Con l’abituale vigliaccheria che li contraddistingue manca il soggetto ma c’è un elenco: “l’allarme anarchici nel nome di Cospito” (roba che galleggia ormai solo nel cervello di qualche complottaste indomito), “l’antisemitismo e la paura della comunità ebraica”, “i testimonials: da Salis a Scurati fino a Landini” e la stentorea conclusione “oggi la Liberazione non è più la festa di tutti”. 

Daniele Capezzone su Libero diretto dall’ex portavoce della presidente del Consiglio Mario Sechi scrive “ci hanno letteralmente sfinito con l’uso politico del 25 aprile”. Sempre in prima pagina Francesco Storace scrive un pezzo intitolato “25 aprile, tutto pronto per lo show”. Uno show.

Su Il Giornale Alessandro Sallusti definisce la Festa della Liberazione “una baraccata” e titola il suo editoriale “perché oggi non posso dirmi antifascista”. 

Su La Verità in prima pagina titolano “La festa del 25 aprile forse è meglio abolirla”. Notate il “forse”, sinonimo della vigliaccheria di chi insegue la provocazione fine a se stessa consapevole di essere molto vicino al fare la figura del cretino. 

Il 25 aprile è divisivo solo per chi è fascista. Il 25 aprile è politicizzato solo per chi persegue una politica che non prevede l’antifascismo, e quindi è fascista. Il 25 aprile imbarazza solo chi non riesce a fare pace con la Liberazione e quindi è fascista. 

Buon 25 aprile.

foto di Marioluca Baronia

Turin, Italy. 24 April 2024. Torchlight procession before April 25th. Credits: M.BARIONA

 

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Muro delle destre, no a Corsini e Bortone in Vigilanza. Bocciata la richiesta di audizione che può imbarazzare Gasparri

Niente audizione in Commissione vigilanza Rai per il direttore Approfondimenti Rai Paolo Corsini e la giornalista Serena Bortone in merito alla partecipazione censurata dello scrittore Antonio Scurati con un monologo sul 25 aprile. La maggioranza ha votato contro la proposta di Stefano Graziano (Pd) sostenuta da tutta l’opposizione. “Meglio aspettare l’indagine interna”, dicono dai partiti della maggioranza, riferendosi all’atto ispettivo annunciato dall’ad Rai Roberto Sergio.

Bocciata anche la richiesta di audire Corsini e Bortone dopo l’audizione dei vertici Rai fissata per l’8 maggio. Corsini non può rispondere alle domande dei parlamentari, nonostante sia disponibile – secondo quanto ha riportato ieri Repubblica – a rispondere alle telefonate di capi di governo stranieri, come l’albanese Edi Rama. La giornalista Bortone invece agita la maggioranza che preferisce attaccarla via stampa come ha fatto il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Tommaso Foti evocandone addirittura le dimissioni.

Il retroscena

Tra i preoccupati di un’eventuale audizione della giornalista Rai spicca anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Su Gasparri e Bortone in Rai circola da settimane una storia tutt’altro che edificante per l’azienda pubblica. In occasione della puntata di Report che fece infuriare il senatore – tanto da scomodare la commissione per mettere sotto torchio Sigfrido Ranucci – si dice che la Rai avrebbe inviato a tutti i talk politici in onda sulla rete un invito (di quelli che sarebbe meglio non rifiutare) per concedere a Gasparri lo spazio per rispondere all’inchiesta.

Questione di riequilibrio, era la giustificazione usata con i conduttori. A ribellarsi a quel diktat fu proprio Serena Bortone con la sua trasmissione Chesarà. Una rapida osservazione delle puntate di quei giorni certifica la rumorosa assenza. La notizia non uscì dai corridoi di Viale Mazzini ma avrebbe potuto essere un’interessante domanda da porre a Bortone nella sua audizione in Vigilanza, anche per comprendere se il “caso Scurati” sia un inciampo oppure rientri in una più complessa e preoccupante strategia di occupazione del servizio pubblico.

Non se ne farà niente. Bortone è oggetto di una pubblica discussione che non può pubblicamente discutere. La maggioranza ha deciso così. Con il voto pure del senatore Gasparri.

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Lo stigma di Regeni sugli accordi con l’Egitto

Il ricercatore italiano Giulio Regeni è stato ucciso “tra le 22,00 del 31 gennaio e le 22,00 del 2 febbraio del 2016”. Le torture subite sono “provate e documentate” nonostante l’autopsia egiziana sia stata, forse volutamente, superficiale e incompleta. Per gli avvocati si tratterebbe di un’autopsia sotto gli standard minimi richiesti. Giulio Regeni è stato ucciso dopo le richieste di collaborazione all’Egitto formulate dall’ambasciatore italiano Maurizio Massari (il 25 gennaio 2016) e dall’ex presidente del consiglio Matteo Renzi e dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni (31 gennaio 2016), che chiedevano al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi notizie sul cittadino italiano scomparso. È stato torturato per sei giorni.

“Sul corpo di Giulio Regeni – dicono i consulenti – sono state trovate quasi tutte le lesività elencate nella letteratura sulla tortura tipica in Egitto”. È un elenco dell’orrore. Torture ricorrenti, quelle elencate negli studi. Pugni, calci, mazze, percosse, bruciature, l’utilizzo di un “pettine chiodato” e la “Falanga”: le bastonate sui piedi che provocano la rottura di tutte le ossa, “riscontrata ahimè sul corpo di Giulio Regeni”, conferma il medico. La causa di morte comunicata dai medici egiziani, ovvero la “lesione cranica subdurale” è incompatibile con i risultati degli esami effettuati dai periti. Questi sono gli elementi emersi ieri a Roma durante il processo ai quattro 007 egiziani. Queste sono le mani sporche di sangue del presidente egiziano al-Sisi che da anni insozzano stringendole quelle dei più importanti leader europei. Ogni accordo con l’Egitto ha questo colore, questo odore, questi frantumi.

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Ci vorrebbe un 25 aprile ogni giorno

Dal 22 ottobre del 2022, giorno di insediamento del governo Meloni, in Italia è accaduto che un ministro della Repubblica abbia detto durante una trasmissione televisiva pomeridiana che l’antifascismo è colpevole di molti morti nella storia d’Italia. In 550 giorni è accaduto che l’antifascismo sia divenuto la costola vincente del comunismo in una guerra tra fazioni, distorcendo le origini della nostra democrazia e dimostrando un’abissale ignoranza della nostra Costituzione e della nostra storia. In 550 giorni è accaduto che la seconda carica dello Stato esibisca i busti di Benito Mussolini nella sua abitazione con un sardonico sorriso.

Da fine 2022 a oggi l’Italia è diventato quel Paese in cui l’aborto viene definito delitto, i giornalisti rischiano il carcere, le torture sono sdoganate come metodo di pubblica sicurezza, la repressione delle manifestazioni di piazza viene segnalata dalle Ong nel mondo, gli scrittori entrano nel mirino del governo, gli ambientalisti sono considerati delinquenti, i pacifisti sono raccontati come sabotatori, l’economia di guerra è un culto, gli autocrati telefonano ai dirigenti della nostra televisione pubblica per chiedere di imbavagliare le inchieste, la capa del governo trascina in tribunale un intellettuale, i giornali vengono silenziati con querele molto spesso temerarie.

In 550 giorni si è sancito il reato di troppi salvataggi in mare, le presenze nelle carceri sono aumentate nonostante la diminuzione dei reati, più membri dell’esecutivo e della maggioranza hanno dipinto la povertà come una colpa. Anche gli studenti sono una categoria da tenere a bada. In 550 giorni in Italia sembra che siano passati 102 anni, tutti all’indietro. Se la liberazione italiana è una pace da costruire giorno per giorno – come ammonivano i padri costituenti – qui la strada sembra essersi fatta ancora più lunga. Chissà se ora è chiaro che non si tratta di una commemorazione: è la manutenzione di un meccanismo delicato e complesso che si chiama democrazia. Resistere deriva dal latino resistĕre e significa “fermare”. Buon 25 aprile, ma tutti i giorni.

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Per Amnesty c’è un allarme repressione in Italia

No, l’allarme repressione in Italia non è un’invenzione di qualche oppositore politico, “l’uso sproporzionato e non necessario della forza” per reprimere proteste di piazza “lo ha confermato anche la nostra Task Force osservatori, specializzata nel monitoraggio del corretto svolgimento delle proteste da parte delle forze dell’ordine, che abbiamo inviato in diverse manifestazioni”. A sancire la discesa di libertà di manifestazione è Amnesty International nello studio sull’Italia contenuto del ‘Rapporto 2023-2024 – La situazione dei diritti umani nel mondo‘, che prende in esame 155 Paesi. 

Ilaria Masinara, responsabile dell’Ufficio campagne di Amnesty International, fa riferimento recenti manifestazioni contro il G7 a Napoli oppure i tanti cortei organizzati in tutta Italia in solidarietà con la Striscia di Gaza dai movimenti filo-palestinesi, oppure per la giustizia climatica o i “no Tav”. “Non è ovviamente messo in discussione il diritto degli agenti alla loro sicurezza, – precisa Amnesty – che va sempre garantita. La polizia tuttavia dovrebbe trovare meccanismi di disengagement, facendo un uso proporzionato della forza” dice Masinara, avvertendo che “si registra spesso l’uso di armi meno letali, come i gas lacrimogeni – lanciati anche ad altezza persona – o i manganelli”. L’Ong sottolinea la mancanza di codici identificativi degli agenti in tenuta antisommossa che garantirebbe trasparenza. 

I segnali preoccupanti secondo Amnesty international

Nel nostro Paese, scrive Amnesty, si assiste anche “alll’arretramento sul reato di tortura”: preoccupano le proposte di revisione della legge e le notizie di violenze registrate nel carcere minorile ‘Beccaria’ di Milano”, uscite in questi giorni, “ce lo ricordano”. Masinara segnala anche una “crescente narrativa negativa, che presenta gli attivisti come criminali e facinorosi, mentre la disobbedienza civile viene inquadrata come un ostacolo. Penso agli ambientalisti che in questi mesi hanno bloccato le autostrade”. La responsabile continua: “In questi casi non viene quasi mai posta l’attenzione sulle richieste degli attivisti né lasciato a loro il compito di spiegare le istanze, che invece sono illustrate da altri”. 

C’è poi la storica carenza di diritti nella gestione delle migrazioni. “Cancellando la protezione internazionale, l’accoglienza e l’assistenza, nel nostro Paese è stata peggiorata la situazione; lo dimostrano tragedie come la strage di Cutro, in Calabria, ma anche gli accordi che il governo ha stretto con Libia, Tunisia e Albania, con cui l’Italia delocalizza la gestione delle persone”. Per quanto riguarda le questioni di genere”aspettiamo – dice Masinara – ancora la legge che adegui il reato di stupro alla Convenzione di Istanbul nonché la legge che tuteli le persone Lgbt dai crimini d’odio e dai discorsi odio”. Questo a fronte di una “crescente narrativa pubblica discriminante nei confronti di figli nati da coppie omosessuali e su persone con identità di genere non binaria nelle scuole”. Nel 2023 si sono poi “registrati 97 femminicidi, 67 dei quali commessi da partner o ex partner, mentre i servizi di aiuto sono sottofinanziati”. 

C’è infine la questione del diritto di aborto, messo in discussione proprio in questi giorni con l’emendamento inserito dalla maggioranza nel decreto Pnrr per aprire le porte dei consultori alle associazioni antiabortiste. La responsabile di Amnesty spiega che a causa del numero di medici obiettori di coscienza “in molte regioni le donne non hanno adeguato accesso all’aborto, mentre si moltiplicano le azioni regionali a tutela del feto”.  Infine la Ong segnala l’astensione dell’Italia nel voto Onu che chiedeva il cessate il fuoco a Gaza mentre il nostro Paese continua a vendere armi a Israele. 

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“L’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo”

(Ma siamo sicuri che il termometro del ritorno del fascismo stia nei busti di Mussolini di qualche nostalgico? Siamo sicuri che rileggere Calamandrei – solo per citarne uno – non sia spaventoso? Buon 25 aprile)

«Delle cause e degli aspetti del fascismo, storici di diverse tendenze hanno già dato svariate interpretazioni: e hanno messo in evidenza, secondo le premesse politiche o filosofiche da cui partivano, i fattori psicologici e morali e quelli sociali ed economici di questa crisi: L’esasperazione contingente del primo dopoguerra, o le lontane tare tradizionali di servaggio e di conformismo, che tenta di sbarrare il cammino alle nuove forze progressiste che avanzano. Forse in ognuna di queste concezioni c’è una parte di vero.

Ma ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è, secondo me, il significato morale: l’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo: l’umiliazione brutale, ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell’uomo degradato a cosa.

Un cammino di millenni, muovendo dalla filosofia e dalla poesia greca e dal Cristianesimo, era riuscito in Europa a porre a base della convivenza dei popoli civili il principio della uguaglianza di tutti gli uomini. Questa esigenza, che fu il fermento della Rivoluzione francese, era già viva e operante nell’illuminismo del ‘700: e il nostro Beccaria la enunciava in parole lapidarie, quando scriveva: “Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.

Ora il fascismo fu la rinnegazione di questa esigenza. Per la bestiale ferocia dello squadrismo fascista, l’uomo tornò ad essere una cosa: non solo oggetto di sfruttamento servile, come una bestia da tiro, per i padroni finanziatori delle spedizioni punitive, ma oggetto di beffa sanguinaria e di straziante dileggio da parte dei sicari. Il ritorno della tortura, la quale pareva ormai soltanto un fosco ricordo di età barbare felicemente superate, comincia da qui. Nel manganello e nell’olio di ricino c’erano già quei primi micidiali germi del flagello, che venti anni dopo, sviluppati fino alle loro spaventose conseguenze dalla gelida consequenziarietà teutonica, dovevano fatalmente portare allo sterminio scientifico delle camere a gas. Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a spezzare i denti di un sovversivo o a verniciargli la barba o a somministrargli, tra sconce risa, la purga ammonitrice, c’era già, ostentata come un programma di dominio, la negazione della persona umana. Il primo passo, la rottura di una conquista millenaria, fu quello: il resto doveva fatalmente venire.

[…]

Nella concezione fascista, come in quella di tutti i totalitarismi, viveva questo residuo di goffo e tracotante feudalesimo: il germe del razzismo è qui: l’idea di una classe eletta, composta di privilegiati, di gerarchi, di superuomini che hanno diritto di governare gli Stati perché la Provvidenza li ha fatti così, E perché questa distinzione tra poveri e ricchi, tra padroni e servitori sarebbe una fatale distinzione voluta da Dio. Contro questa concezione feudale e totalitaria della società, che il fascismo per vent’anni riportò in vigore tra noi, la Resistenza sorse a rivendicare per tutti gli uomini uguale dignità sociale. La libertà non è una merce di lusso riservata ai ricchi, la cultura non è una raffinata droga che cosiddetti intellettuali posso consumare nelle lussuose alcove delle loro torri d’Avorio. In realtà la cultura, ridotta sotto il fascismo ad uno sterile giuoco di cortigiani, non ha ragion d’essere se non è espressione di popolo, di una consapevolezza di questa condizione umana che è comune a tutti gli uomini: espressione di una comune solidarietà sociale ed umana».

(Piero Calamandrei, Forlì, 25 aprile 1955)

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