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Marzo 2012

Andreotti, un imputato troppo innocente: la prefazione di Gian Carlo Caselli per ‘L’innocenza di Giulio’

Pubblichiamo la prefazione di Gian Carlo Caselli al libro “L’innocenza di Giulio” di Giulio Cavalli, Chiarelettere, Milano 2012.

di Gian Carlo Caselli

Lo ammetto. Sono un mostro. Nel senso latino di monstrum: un essere fuori dell’ordine naturale. Eh sì, perché sono l’unico giudice in Italia (credo al mondo) che può «vantare» una legge scritta apposta per lui, contro di lui. Nel paese delle leggi ad personam, che hanno inquinato il sistema violando i principi fondamentali dell’ordinamento e la stessa regola di «buona fede legislativa», troviamo – tanto per non farci mancare nulla – anche una legge «contra personam», scritta apposta per impedirmi di partecipare alla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia dopo che Piero Luigi Vigna era scaduto dall’incarico.

Perché tutta questa attenzione? Detto e ripetuto pubblicamente da fior (si fa per dire) di uomini politici: dovevo pagare il processo al senatore Andreotti perché, come capo della Procura di Palermo – dove avevo chiesto di essere mandato dopo le stragi Falcone e Borsellino – avevo osato indagare e poi processare il Divo Giulio. La legge «contra personam» sarà poi dichiarata incostituzionale e cassata dal nostro ordinamento, ma frattanto i giochi erano ormai irreversibilmente fatti: io (il mostro) estromesso dal concorso, senza che nessuno trovasse nulla da ridire, né chi si vedeva tolto dai piedi un concorrente, né il Csm che aveva accettato disinvoltamente di concludere una procedura inquinata da un cambiamento delle regole a partita aperta e ormai quasi conclusa.

Peccato che da «pagare», per il processo Andreotti, non ci fosse un bel niente. Al contrario, la conclusione del processo dà sostanzialmente ragione all’accusa, che perciò non ha nulla da farsi perdonare, anzi. Vero è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani è convinta (in perfetta buona fede, perché questo le è stato fatto credere con l’inganno) che Andreotti sia innocente. Di più: vittima di una persecuzione che lo ha costretto a un doloroso calvario di una decina d’anni per l’accanimento giustizialista di un manipolo di manigoldi. Ma la realtà vera è ben diversa, come anche questo lavoro di Giulio Cavalli facilmente dimostra.

Per parte mia, cosa dire di più? Può essere utile una breve storia del processo. In primo grado l’imputato Andreotti viene effettivamente assolto. Di fatto per insufficienza di prove, ma assolto. Contro l’assoluzione ricorrono la Procura della repubblica e la Procura generale. La Corte d’appello di Palermo riforma la sentenza del tribunale. L’imputato è dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra per averlo «commesso» (sic) fino al 1980; il delitto è commesso ma prescritto, e solo per questo motivo all’affermazione di colpevolezza non segue la condanna. Dopo il 1980 la Corte conferma l’assoluzione.

Contro la sentenza d’appello ricorre in Cassazione l’accusa, perché vuole che la colpevolezza sia riconosciuta anche dopo il 1980. Ma in Cassazione (attenzione!) ricorre anche la difesa. È la prova provata che fino al 1980 non c’è stata assoluzione. Non esiste al mondo, infatti, che l’imputato assolto ricorra contro se stesso. Se lo fa, è per ottenere un’assoluzione vera (non spacciata come tale in favore di telecamere urlando «E vai!»). Ora, poiché la Suprema corte ha confermato definitivamente e irrevocabilmente la sentenza d’appello, è semplicemente falso sostenere che Andreotti è stato assolto. Fino al 1980 è stata provata la sua responsabilità per il delitto – ripeto – di associazione a delinquere con Cosa nostra. Fatti gravissimi, meticolosamente elencati e provati per pagine e pagine di motivazione, sfociano nel dispositivo finale. Dimenticavo: ricorrendo in Cassazione l’imputato avrebbe potuto rinunciare alla prescrizione, ma si è ben guardato dal farlo. Forse perché troppo… innocente.

La sentenza che pochi hanno letto

Andiamo a rileggere l’ultima pagina della sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003 (poi confermata in Cassazione) che, a quanto pare, in pochissimi hanno letto e moltissimi non hanno mai voluto o potuto conoscere.

I fatti che la Corte ha ritenuto provati in relazione al periodo precedente la primavera ’80 dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunziati; ha omesso di denunziare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza. […] Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi fatti, la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo. […] Si deve concludere che ricorrono le condizioni per ribaltare, sia pure nei limiti del periodo in considerazione [cioè prima della primavera del 1980, nda], il giudizio negativo espresso dal tribunale in ordine alla sussistenza del reato e che, conseguentemente, siano nel merito fondate le censure dei pubblici ministeri appellanti. Non resta, allora, che […] emettere, pertanto, la statuizione di non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del sen. Andreotti estinto per prescrizione.

All’università insegnavano (e forse ancora si insegna) che la pronuncia di Cassazione «facit de albo nigrum… aequat quadrata rotundis». Latino facile, evidentemente ignorato dai commentatori della sentenza Andreotti. Eppure, che le parole sono pietre e quelle della Cassazione addirittura macigni lo sanno tutti. Persino… er Monnezza. Mi riferisco a uno dei polizieschi anni Settanta interpretati da Tomas Milian. Per convincere un amico, il maresciallo Giraldi urla: «Aò, quello che te sto a di’ è Cassazione!». Come a dire, non puoi dubitarne. Evidentemente ciò che vale per er Monnezza non vale per il resto del nostro paese.

Dunque «è Cassazione» il fatto che, per un congruo periodo di tempo, il senatore Andreotti è stato colluso con Cosa nostra. Questa verità dovrebbe rimanere scolpita nella memoria del paese, specialmente se parliamo di una persona che per sette volte è stata presidente del Consiglio e per ventidue volte ministro. E invece no. Queste parole sono state sapientemente esorcizzate, stravolte, cancellate. Le sentenze (emesse in nome del popolo italiano) vanno motivate affinché il popolo possa sapere per quali motivi appunto si viene assolti o condannati, ma anche perché il popolo possa conoscere i fatti che stanno alla base dei motivi per cui una persona è chiamata a rispondere di determinate azioni di fronte a un tribunale. Qui il popolo è stato truffato.

Dalla motivazione di tutte le sentenze – anche da quella di primo grado, che assolve per insufficienza di prove – emerge una realtà sconvolgente: scambi di favori e, soprattutto, riunioni (per discutere di fatti criminali gravissimi) con capimafia del calibro di Stefano Bontate, provate dalle veridiche dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, testimone oculare di uno di questi incontri. Realtà sconvolgenti, consacrate (ribadisco) da una sentenza passata in giudicato.

Sarebbe lecito – almeno – attendersi riflessioni, dibattiti, confronti, analisi. Sarebbe opportuno chiedersi cosa mai sia successo davvero in quella stagione. Su che cosa si sia basato, almeno in parte, il meccanismo del consenso nel nostro paese. Niente di tutto questo. Tutto è stato cancellato, nascosto.

Se ne è parlato soltanto per stravolgere i fatti, da parte di tutti: autorevoli leader politici, illustri opinion maker, finanche vertici istituzionali. Dopo la cosiddetta «assoluzione» è stata una corsa alle telefonate di congratulazioni, alle pubbliche e stucchevoli attestazioni di stima. Il massimo dell’impudenza lo raggiunge il presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centaro che – all’indomani della sentenza della Corte d’appello – dichiara pubblicamente: «Il grande dibattito mediatico, che si è sovrapposto e ha sostituito il processo, ha seguito i ritmi dell’“analisi politica” (già sperimentata per la valutazione delle responsabilità per le stragi del 1992 e del 1993), pervenendo a un tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità malamente sbugiardato [corsivo mio, nda] dalle pronunce giurisdizionali. Ciò ha comportato, comunque, l’insinuarsi di ombre e veleni. L’unico risultato è stata una crescente confusione nei cittadini e un senso di sfiducia nelle istituzioni, a fronte di affermazioni perentorie poi rivelatesi infondate in corso d’opera». Centaro ha visto un altro processo, vive in un altro mondo.

La verità negata

La verità è fatta a brandelli. E la sinistra non è stata da meno. Una forza politica che ha sempre fatto della «questione morale» un punto (apparentemente) fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l’ha a dir poco rimossa. Anna Finocchiaro, ad esempio, ha liquidato come «inutile perdita di tempo la discussione sulle vicissitudini giudiziarie del senatore Andreotti».

Clemente Mastella, ineffabile ministro della Giustizia, ha dichiarato che «invece di parlare della sentenza di Palermo, ad Andreotti bisognerebbe fare un monumento». In questo Mastella è stato ampiamente soddisfatto. Sulla vicenda processuale si è innestato un processo di santificazione mediatica con la sapiente e sottile tessitura dello stesso Andreotti. Grazie alla connivenza di molta politica e di molta informazione egli è riuscito a far passare in secondo piano i gravi fatti evidenziati dal processo, fino a cancellarli.

Ha esibito se stesso in mille circostanze su un’infinità di media, cerimonie e manifestazioni, rivitalizzando così il profilo di un grande statista di prestigio internazionale, apprezzato da molti (Vaticano in primis). Fino a sfiorare la nomina alla presidenza del Senato, dopo essere stato designato per rappresentare l’Italia ai funerali di Boris Eltsin. Senza disdegnare, nel contempo, incursioni da star nel mondo della pubblicità, facendo il testimonial della famiglia per la Chiesa cattolica o prestandosi, al fianco di una procace attrice, a promuovere una marca di cellulari.

Il risultato è stato una sorta di dilagante giudizio parallelo, nel quale il senatore ha cercato – riuscendoci – di offrire di sé un’immagine di altissimo profilo incompatibile con le bassezze processuali rimestate da piccoli giudici. Anzi – verrebbe da dire – dentro le quali grufolavano piccoli giudici. Una strategia che ha pagato, perché ha trovato un’infinità di sponde, che hanno stravolto la verità, massacrando la logica e il buon senso.

Con una conseguenza che va ben oltre il perimetro del processo Andreotti. Parlare di assoluzione, anche a fronte delle gravissime responsabilità provate fino al 1980, non è solo uno strafalcione tecnico. Significa in realtà legittimare (per il passato, ma pure per il presente e il futuro) una politica che contempla anche rapporti organici con il malaffare, persino mafioso. Per poi stracciarsi le vesti se non si riesce – oibò! – a sconfiggere la mafia. Lo ha sottolineato il corrispondente dell’«Economist» David Lane in un’intervista rilasciata al «Venerdì di Repubblica»: premesso che «i politici e i media hanno raccontato un’altra storia, come se la Suprema corte avesse detto che [Andreotti] era innocente», Lane si chiede che cosa questo fatto comporti «sulla determinazione nella lotta al crimine», e risponde che si tratta di «un messaggio chiaro, che piace ai mafiosi».
Ovviamente non è con messaggi di questo tipo che si vince la guerra alla mafia.

L’intelligente ironia di Giulio Cavalli, dunque, ci offre non solo preziosi elementi di conoscenza di una verità dolosamente nascosta. È anche un antidoto potente contro una patologia che affligge pesantemente il nostro paese: la perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, l’irresponsabile sottovalutazione del pericolo che si corre quando si occulta il passato. In sostanza, una mancanza continuativa di coscienza etica, fino all’eclissi della questione morale.

Le convenzioni dell’amore

In un periodo di forte crisi economica, in Italia non c’è spazio per interrogarsi sui sentimenti e sui modelli di famiglia emergenti, mentre un legislatore ed un politico attento ai cambiamenti sociali partirebbe proprio da quei dati, perché la trasformazione economica investe anche il profilo culturale e sociale di un paese. Non si può modificare, infatti, ciò che ci circonda, se non si parte da un processo di cambiamento che coinvolge sé stessi, le proprie convinzioni e la modifica dei clichè tramandati dalle generazioni precedenti, tutti protesi alla criminalizzazione delle condotte che ledevano “la moralità pubblica e il buon costume”.
La Cassazione, con la sentenza n. 4184, si è espressa in tema di matrimoni tra omosessuali, con una soluzione che tenta di accontentare sia il mondo cattolico, arroccato su una posizione che vieta l’amore tra soggetti dello stesso sesso (che pure si annida sempre più negli ordini sacerdotali) e le richieste incalzanti di riconoscimento che arrivano dal mondo gay.
La Suprema Corte evidenzia come non sia possibile, per gli omosessuali, con l’attuale legislazione, «far valere il diritto a contrarre matrimonio, né il diritto alla trascrizione del matrimonio celebrato all’estero», specificando però che questa «intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende non più dalla loro ‘inesistenza’, e neppure dalla loro invalidità, ma dalla loro inidoneità a produrre quali atti di matrimonio, appunto, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano». Un’ escamotage, dunque, che riconosce le unioni omosessuali, non consentendone esplicitamente, tuttavia, l’applicazione nel nostro ordinamento. 

Ne scrive Manila sul sito di Non Mi Fermo.

Milano, presidio contro i fortini dei clan

Un elenco di novecento nomi, quelli delle vittime di mafia, letto a due passi da una delle enclavi della criminalità organizzata a Milano, lo stabile di viale Montello 6. L’iniziativa è dell’associazione Libera, che nella diciassettesima Giornata della memoria e dell’impegno antimafia ha raccolto i cittadini in un presidio a sostegno di Denise Cosco, la figlia ventenne di Lea Garofalo, rapita e sciolta nell’acido dopo aver deciso di testimoniare contro i Cosco, il clan che occupa lo stabile di viale Montello. Presenti all’iniziativa anche il sindaco Giuliano Pisapia e il consigliere regionale Giulio Cavalli (Sel), che ha ricordato la mozione votata ieri al Pirellone: “La Regione si farà carico degli studi di Denise Cosco”. “È molto significativo essere qui”, ha spiegato Ilaria Ramoni di Libera, anche avvocato di Denise Cosco, “ed è importante soprattutto che ci siano molti coetanei di Denise”. Ma nonostante la sentenza sull’omicidio di Lea Garofalo si avvicini, in viale Montello 6 i Cosco ci sono ancora. Più della metà dei 126 immobili dello stabile sono ancora occupati abusivamente. “Gli sfratti ci sono stati”, spiega il presidente della Commissione antimafia del Comune David Gentili, “ora la responsabilità è del prefetto” di Franz Baraggino

L’antimafia dal basso

Il progetto scomparso (E21), ne parla Arthur qui. In cosa consiste E21? In un portale accessibile gratuitamente da tutti che mette a disposizione spazio per discussioni ed elaborazione di proposte, ma anche segnalazioni o denunce. Il tutto con la possibilità di geolocalizzare su delle mappe interattive il lavoro che si sta elaborando. Cosa significa in concreto? Significa che se il mio Comune aderisce alla sperimentazione io posso entrare nel sito e dare il mio contributo. Gli esempi di come possa essere utilizzato sono molteplici: ho una proposta da fare su una determinata questione? Apro una discussione, inserisco i dati che servono, spiego la mia idea. Vedo nel mio Comune un fosso utilizzato come discarica abusiva? Lo fotografo e carico l’immagine localizzandola sulla mappa. Voglio segnalare un bel progetto? Posso scrivere un articolo e postarlo sul sito.

Nonmifermo non è stata solo l’occasione per parlare di E21 (qui il video), ma è stata soprattutto l’opportunità di tradurre l’idea in qualcosa di concreto: dopo solo pochi giorni, abbiamo in Regione un’interrogazione per conoscere l’attuale situazione riguardante il progetto. La proposta adesso è azione politica.

Regione Lombardia sosterrà gli studi della figlia di Lea Garofalo: Denise non sei sola

“Denise Cosco è la figlia di Lea Garofalo, rapita e sciolta nell’acido il 24 novembre del 2009 dai complici del marito ‘ndranghetista Carlo Cosco.

Da quando, con grande coraggio e dignità, si è costituita parte civile al processo contro il padre insieme alla nonna materna, alla zia e al Comune di Milano, Denise vive sotto protezione, condannata a sparire e a nascondersi per salvarsi.

E’ così che porta avanti la sua dignitosissima battaglia, in silenzio, lontana dall’antimafia televisiva per il grande pubblico.

Ed è per questo che ci rende orgogliosi aver ottenuto, con il voto unanime alla nostra mozione, un impegno concreto del Consiglio regionale sulla sua vicenda: Regione Lombardia, assicurandole almeno quella possibilità di studiare cui lei tiene così tanto, le restituisce un pezzettino di normalità.

Farsi carico in modo diretto delle vittime è la strada migliore per rivendicare la dignità e la civiltà delle istituzioni di fronte alle mafie.

Al di là dell’aspetto meramente economico di quello che sarà il sostegno regionale al percorso formativo di una giovane, coraggiosa testimone di giustizia, il vero significato di questo passaggio – come ha ben compreso la sorella di Lea, il cui ringraziamento ci commuove – è il messaggio fortemente simbolico: Denise non è sola”.

Milano, 20  marzo 2012

Razzismo e neonazismo travestiti

Queste cose, messe in fila, mi fanno pensare come il razzismo sia da combattere proprio sul terreno della politica, perché è in questa che si infiltrano i nuovi nazisti: in “innocenti” movimenti indipendentisti, regionalisti, addirittura “cattolici”. Ma la dimensione è straordinariamente europea. Se anni fa succedeva in Francia quello che potete vedere nel video e oggi accade la stessa cosa in Repubblica Ceca, forse è il caso che ci facciamo carico di una consapevolezza: lavorando nel “sottobosco” della politica, i razzisti di estrema destra hanno più penetrazione e più coesione “europea” di quanta non ne abbiano i partiti che cercano (o dicono di cercare) una direzione comunitaria che sia unica sul percorso della legalità.

Quello che possiamo fare noi, anti-razzisti per natura, è armarci per lavorare nell’estremamente piccolo, nel locale, per stanare ovunque si nascondano questi personaggi, soprattutto quando si nascondono nelle “amministrazioni dei piccoli Comuni”, senza paura di chiamarli per quello che sono: razzisti, neonazisti, neofascisti. Ricordare a loro e a chiunque li ascolti che essere razzisti è innanzitutto anticostituzionale (articolo 3, articolo 8, articolo 10), prima ancora che stupido.

Francesco ne scrive partendo dai documenti. Da leggere per non poter dire di non sapere.

La Regione ricorda Ambrosoli (ma senza figlio)

Il padre – ucciso dagli uomini di Sindona – ci sarà (seppur solo in video). Il figlio – che sulla legalità sta facendo una battaglia – invece no. La giornata regionale dell’impegno contro le mafie e in ricordo delle vittime (la cui cerimonia è stata istituita con la Legge regionale del 14 febbraio dell’anno scorso, si terrà il 21 marzo alle 10.30 al Pirellone, all’Auditorium Gaber. Secondo quanto può riferire Affaritaliani.it sulla lista degli ospiti da invitare c’è stato scontro tra le varie forze politiche. E sul nome di Ambrosoli in particolare. Questo il programma della giornata. Alle 10.15 verranno accolti gli studenti. Poi interverrà un componente dell’Ufficio di Presidenza, alle 10.30. E già qui, il primo intoppo. Chi farà il discorso di apertura sulla legalità? Il presidente del consiglio regionale Davide Boni, recentemente indagato? Il problema, posto dalle opposizioni, non è ancora stato risolto, ma pare praticamente certo il passo indietro dell’esponente leghista, che cederà il posto a uno dei colleghi in carica non toccati da inchieste in corso.

Dopo l’Ufficio di Presidenza interverrà Giulio Boscagli, assessore alla famiglia, integrazione, conciliazione e solidarietà sociale. Infine, a introdurre il film “Un eroe borghese”, incentrato proprio sulla figura di Giorgio Ambrosoli sarà Giuliano Turone, già magistrato e docente all’Università Cattolica di Milano. In un primo tempo, però, la scelta naturale sarebbe caduta sul figlio di Giorgio, Umberto Ambrosoli. Il problema è che Ambrosoli figlio ha usato parole molto dure, in un’intervista a Repubblica, proprio dopo il caso Boni.

Scrive bene Fabio Massa su Affari Italiani, in pratica Regione Lombardia decide di celebrare una giornata per onorare la memoria di un uomo che non ha accettato compromessi (come Giorgio Ambrosoli) e chiede di mediare (e le mediazioni morali troppo spericolate hanno l’odore del compromesso) sulle parole del figlio. Parole dette sulle recenti indagini che sembrano tutt’altro che smisurate: “In questi giorni stiamo vivendo una circostanza particolare, con i vertici regionali del centrodestra e del centrosinistra sotto indagine per fatti diversi tra loro. Credo sia giusto, allora, pretendere da tutti loro un passo indietro. O, ancor meglio, che il presidente Roberto Formigoni azzeri la giunta, perché in questa fase una titubanza potrebbe essere interpretata come assenza di autorità”, ha detto Umberto.

Oggi in questa Lombardia la banalità della propria onestà intellettuale è rivoluzionaria. Anzi, eversiva.

La violenza sulle donne (e il populismo)

Il fulcro del problema risiede nella mancata consapevolezza che non si sta parlando semplicemente di reati, bensì di violazioni di diritti umani, che si insinuano laddove non vi è un tessuto sociale in grado di respingerli.

Non è sufficiente un Ministero per le pari opportunità se queste istanze non sono inserite tra le priorità dell’agenda politica dei nostri amministratori e dei nostri partiti politici. Non è sufficiente una legge sullo stalking se non si sostengono le donne che trovano il coraggio di denunciare.

È, allora, necessaria una seria formazione per le forze dell’ordine che, spesso, sono il canale di denuncia delle vittime di violenza. È utile un reale aiuto psicologico ed economico, che non si perda nelle pieghe della burocrazia e della solidarietà.

Appare imprescindibile un serio lavoro sul tessuto sociale e questo deve essere compito delle associazioni, dei sindacati, dei partiti e di ogni singolo cittadino. Dobbiamo chiedere con forza che il problema della violenza sulle donne rientri in un serio programma politico e non possiamo attendere che, ancora una volta, forze reazionarie si impossessino strumentalmente di questa battaglia.

Avere lo spessore culturale per affrontare il problema: questo è il nodo. In Regione Lombardia seguiamo la legge anti violenza che abbiamo voluto con forza ma la strada è lunga. Ne parla Odetta Melazzini nel suo post sul sito di NonMiFermo.

Le parole sono importanti. Anche su twitter.

Ditelo al Presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, che ironizza su BR, volantini e il sindaco Pisapia riprendendo le parole de @ilsarcastico. Poi si scusa e (come sempre più spesso succede) parla di “errore tecnico”.

Fare rete è un bene comune

Mi ha colpito l’intervento di Cesare Del Frate sull’esperienza della Rete Ambientalista Pavese riportato da Claudio sul sito di NonMiFermo, per la chiarezza della finalità dello stare insieme. Dice Cesare la prima e più ovvia è quella di fare “massa critica”per avere maggiore potere negoziale nei confronti delle Istituzioni e maggiore visibilità presso l’opinione pubblica. Una seconda finalità è quella di condividere informazioni ed esperienze, per la crescita della consapevolezza, del know how e delle capacità di azione di ciascuno di noi imparando dagli esempi, dai successi e dagli errori degli altri. Il terzo ed ultimo obiettivo è quello di connettere le battaglie locali a una visione più ampia di sviluppo sostenibile (concetto spesso abusato o distorto): cosa ci aspettiamo per il nostro territorio e per il nostro Paese? Quale tipo di economia e di gestione di beni comuni preziosi quanto fragili? Per tutto questo la metafora da noi adottata della rete è da intendersi non in maniera statica bensì dinamica: è un “fare rete” perennemente in fieri che tesse relazioni fra associazioni, persone, idee, pratiche, esperienze, Istituzioni, conoscenze e progettualità. Il suo intervento completo lo trovate qui.