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2014

“L’amico degli eroi” al suo numero zero

A Monte Sant’Angelo (Foggia) il 30 dicembre per l’ottava edizione del Teatro Civile Festival organizzato da Legambiente, in collaborazione con Libera. Io, Cisco e la sua band al completo. Fossi in voi ci farei un pensierino. Se volete produrci la nostra produzione sociale è qui.

Il programma completo lo trovate qui.

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Finalmente: arrestato il bulgaro al soldo della ‘ndrangheta a Milano

mandevNell’ambito delle indagini, il criminale bulgaro, aka ‘il francese’ o ‘Pascal’, è emerso quale costante punto di riferimento per l’importazione dalla Bulgaria, la detenzione e lo spaccio di alcune centinaia di chilogrammi di cocaina, marijuana ed hashish. Lo straniero operava in Italia come terminale di un canale illecito di approvvigionamento ben collaudato.

Legge l’ordinanza di custodia cautelare della DDA di Milano, i due bulgari “Angelov Atanas e Ivanov Zdravko partecipano alla associazione, in qualità di stabili fornitori del sodalizio” e a differenza di altri fornitori i bulgari hanno operato come fornitori praticamente per l’intero periodo di operatività della associazione mafiosa, essendo pienamente consapevoli di avere a che fare con la ‘Ndrangheta e quindi “il loro apporto di fornitori si traduce in un contributo essenziale alla sussistenza ed al permanere in vita del gruppo stesso”.

Sia Angelov che Ivanov hanno – nell’accusa – l’aggravante della transnazionalità. Angelov e i fratelli Giulio e Vincenzo Martino, di cui abbiamo gia scritto, si erano conosciuti in carcere negli anni 90. Dice l’ordinanza “quindi la conoscenza che costoro fossero componenti di una associazione mafiosa che dal traffico di stupefacenti traeva utilità” era un dato di fatto sia per Angelov che per il suo ‘luogotenente’ Ivanov, l’arrestato di oggi.

I due bulgari, spiega il pm nell’ordinanza, non sono trafficanti individuali ma sono inseriti in contesti strutturati ed organizzati di narcotraffico internazionale, che consente loro di operare in più stati europei, anche Olanda e Spagna oltre a Bulgaria e Italia, ed extraeuropei, essendoci collegamenti operativi per il traffico di cocaina con fornitori sudamericani.

Secondo quanto riportato dal database ‘People of Interest’ di OCCRP, Angelov sarebbe a capo di un gruppo criminale bulgaro denominato ‘777’, attivo nel racketing, prostituzione e traffico di droga. Il gruppo prende il nome dal ‘club777′ di Sliven, citta’ del centro della Bulgaria e luogo di nascita di Angelov. L’uomo avrebbe anche concessioni di gestione del parco centrale della citta’, oltre che interessi nel settore delle costruzioni e del legname. Qui la visura camerale delle sue aziende.

Il provvedimento delle autorità bulgare segue l’internazionalizzazione delle ricerche, attivata presso il Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia dell’Interpol dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Milano ed il trafficante è ora in attesa dell’estradizione in Italia.

“Quella testa di cazzo del sindaco continua a fa’ lo stronzo”

ignazio-marino-il-sindaco-di-roma-in-bici-che-non-ci-fa-piu-sognareUno stage per il figlio nella “sua” Fondazione in cambio di una struttura a Castelnuovo di Porto, località alle porte di Roma, dove sistemare centinaia di immigrati. Il baratto per portare a dama l’ennesimo flusso di immigrati — uno degli introiti più grandi per Mafia Capitale — sarebbe avvenuto tra il prefetto Mario Morcone, vertice del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Viminale, e Luca Odevaine, l’uomo al libro paga del clan di Carminati («je do cinquemila euro al mese»), da ex vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni al Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo.

Il coinvolgimento del ministero dell’Interno è l’ultimo scandalo che salta fuori dalle carte dell’inchiesta “Mondo di mezzo”, diretta dai pm Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini. Emblematica un’intercettazione in cui Luca Odevaine, nel suo ufficio, parla con Mario Schina, consigliere della cooperativa sociale “Il percorso” che si occupa di campi rom.

È il 18 giugno del 2014, due giorni prima Morcone era stato nominato da Alfano nel suo nuovo incarico al Viminale. I due parlano di come riuscire ad aprire una struttura per immigrati a Castelnuovo di Porto. Il problema da risolvere è che in quella località esiste già un altro grosso centro. Odevaine spiega di aver contattato il prefetto Morcone. «Quando gli ho detto “dico guarda Mario c’è questa roba” dice “eh ma cazzo, l’hanno attaccati così”».

«Manco se ne accorgono », risponde Schina. Già. «Chi cazzo se ne accorge — replica Odevaine — che ce stanno 400 persone in più, lui (sempre Morcone, ndr) m’ha detto “sì effettivamente”, dico «eh, lì bisogna convincere Peppino Pecoraro (prefetto di Roma, ndr). Quando gli ho detto così mi fa “per carità io con Peppino non ci voglio avere niente a che fare”». Perché Pecoraro, a detta dei due, è una persona che le cose se le studia. «Per cui — conclude Odevaine — non so se Mario Morcone potrà forzare su Pecoraro, però se scrive al sindaco magari uno spazio c’è, però certo effettivamente 100 appartamenti davanti al Cara…».

L’ex capo della polizia Provinciale di Roma, ora in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, la cui scarcerazione ieri è stata discussa al tribunale del Riesame, così come quella di altri 8 arrestati, tra cui l’ex ad Ama Franco Panzironi, ha un rapporto intimo con Morcone. «Io le cose gliele posso dire proprio — dice sempre a Schina nell’intercettazione del 18 giugno — ora mi stava venendo in mente che oggi m’ha chiesto “mio figlio si sta laureando, non so in che cosa” dice “mi piacerebbe fargli fare uno stage”. Dico “guarda te lo prendo io in Fondazione, Mario, figurati, lo sai…”.

Io posso pure a un certo punto che ne so dirgli Mario, famme la cortesia, prendimi al centro le 70 persone a Tivoli. Ecco per i rapporti che ho con lui io posso anche dirgli una cosa del genere». Anche per l’apertura del Cara di San Giuliano in Puglia Odevaine bussa alla porta di Morcone. «Quella testa di cazzo del sindaco — spiega Odevaine — continua a fa’ lo stronzo. Ho detto a Mario “se tu te la senti la requisisci (la struttura di interesse del clan, ndr)”, m’ha detto “io non c’ho problemi, io gliela requisisco”. Però se la requisisce, poi la gara la fa la prefettura capito?».

I CONTANTI PER I FONDI NERI

Al centro dei pensieri di Odevaine c’è anche il modo di gestire al meglio il flusso del “nero” da ripulire. Il sistema è quello delle fatturazioni per operazioni inesistenti. «Chi ci deve pagare ci dà 20.000 euro in contanti e noi glieli diamo a un signor X il quale ci paga una fattura falsa. Ci paga coi soldi nostri però».

Resta solo da trovare i complici. E anche qui Odevaine ha la risposta pronta: «Si può chiedere a Pulcini (il costruttore amico di Carminati più volte citato nell’inchiesta, ndr ). Lui è un cliente del Monte dei Paschi, uno dei clienti più importanti, quindi il Monte non ha nessuna difficoltà».

Intanto ieri, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha accolto la richiesta della procura di Roma e ha disposto il regime di 41 bis per Massimo Carminati.

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Il modo migliore per stare vicino a Pino Maniaci

Dopo gli ultimi brutti avvertimenti mafiosi arrivati a Pino Maniaci, al di là della solidarietà pelosa, conviene ascoltare le sue parole su un argomento particolarmente “caldo” in cui ci sta l’antimafia oltre alla mafia. Eccolo qui:

loraquotidiano.it_2014-12-23_10-48-38-500x375“A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: DaraModica de MohacBenanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre.

Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”.

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Per la ricerca solo quando si è all’opposizione

Si può cambiare idea su un argomento politico rilevante, a seconda che si sia all’opposizione o al Governo? sembra proprio di sì, e abbiamo tanti esempi storici illustri. La storia italiana ce ne sta proponendo un altro in questi giorni, con il Partito democratico che tace sui tagli e le vessazioni operate dal governo, a guida democratica, sugli enti pubblici di ricerca e l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) in particolare.Per capire come mai si tratti di un cambio di atteggiamento così evidente, bisogna tornare indietro esattamente di cinque anni, a quando nel novembre del 2009 i ricercatori dell’istituto ambientale, in primis quelli precari, occuparono il tetto della loro sede di via Casalotti, a Roma, resistendo lì sopra per 59 giorni prima di firmare un protocollo d’intesa col ministro dell’Ambiente, all’epoca la berlusconiana Stefania Prestigiacomo. 

Infatti, gli scandali sessuali e non dell’allora premier erano ancora di la dal sortire i loro effetti, il governo Berlusconi nel novembre 2009 sembrava fortissimo, visto che il leader del centro-destra aveva vinto trionfalmente le elezioni poco più di anno prima, e all’opposizione c’erano sostanzialmente il Pd e l’Italia dei valori, visto che la sinistra “radicale” era rimasta fuori dal Parlamento. Proprio questi due partiti furono quelli che maggiormente sostennero nei 59 giorni la lotta dei lavoratori della ricerca pubblica, con i democratici in prima fila: basta sfogliare l’album delle foto di quella lotta, per vedere sul tetto Dario Franceschini (attuale ministro della Cultura), Marianna Madia (attuale ministro della Funzione pubblica), Ignazio Marino (attuale sindaco di Roma), Nicola Zingaretti (attuale presidente della Regione Lazio), Ermete Realacci (attuale Presidente della Commissione Ambiente della Camera), Cesare Damiano (Presidente della Commissione Lavoro) e molti altri esponenti dem.

Oggi, che a distanza di un lustro le lotte dei ricercatori e in particolare dei precari si ripropongono, essendo rimaste situazioni irrisolte nonostante la fine del berlusconismo e ben due premier consecutivi provenienti dal Pd, il Partito democratico brilla per il suo silenzio. Nonostante le tante sollecitazioni, nessuna parola è arrivata dal partito di maggioranza relativa sulla situazione dell’ISPRA in generale e su quella dei suoi lavoratori in particolare. Qualche mese fa il Governo guidato da Matteo Renzi ha bocciato un emendamento di SEL (votato dai 5 Stelle e perfino da molti di centrodestra) che avrebbe favorito le assunzioni di molti precari “storici” dell’ente di ricerca, e oggi nessun esponente democratico, nemmeno tra quelli citati sopra, si è sentito in dovere di dire una parola o ha sollecitato l’attuale ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti (Udc), a rispondere ai lavoratori.

Silenzio, silenzio assoluto, nonostante i 10 milioni di tagli al bilancio negli ultimi 5 anni, il rischio che oggi (o al massimo tra pochi mesi) vadano a casa oltre 60 lavoratori, e quello forse ancor più grave che non siano finanziate attività come quelle di prevenzione del dissesto idrogeologico o i controlli sul Ilva e Terra dei fuochi. Silenzio assordante (in questo caso condiviso finora coi 5 Stelle) anche quando in Commissione Ambiente il deputato Filiberto Zaratti ha interrogato sulla situazione (al minuto 37 del video) Galletti sulla situazione ISPRA: come si vede dalla registrazione, il titolare del dicastero che vigila sull’istituto ha semplicemente ignorato la questione, e nessuno degli altri deputati, nemmeno quelli del Pd, ha trovato che ci fosse niente da ridire.

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Il Capodanno del condannato a morte

Un gran pezzo di Saverio Lodato (e intanto potete continuare a firmare qui):

news_52039_nino_di_matteoNon sappiamo come passerà la notte di Capodanno un condannato a morte, a data da destinarsi, a causa del suo lavoro che non viene gradito, che addirittura risulta insopportabile, che viene considerato un intralcio per i manovratori grandi e piccoli di questo Paese. Non sappiamo quali pensieri gli passeranno per la testa mentre sarà circondato da moglie e figli nei cui sguardi indovinerà facilmente interrogativi pesanti come macigni; mentre immaginerà il 2015 che si spalanca davanti a lui come un ennesimo scenario di trappole, sgambetti, tradimenti, veleni; mentre sarà incerto sul destino di una grande inchiesta che, insieme a un manipolo di altri colleghi della sua stessa tempra, ha tenacemente voluto e spinto avanti nell’incrollabile certezza che per l’accertamento della verità i magistrati, se magistrati sono e non pagliacci che riempiono una toga, devono fare questo e altro.
Sappiamo una cosa, però. Ed è la prima che ci viene in mente. Che sono quattro le massime cariche dello Stato. Al primo posto, c’è il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Al secondo, il Presidente del Senato, Piero Grasso. Al terzo, il Presidente della Camera (in questo caso, se si preferisce, “la” Presidente), Laura Boldrini. Al quarto, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Direte: che c’entra questo elenco? C’entra, invece. Eccome, se c’entra!

Tutti e quattro – Napolitano, Grasso, Boldrini e Renzi – si sono sempre ben guardati dal pronunciare il nome del condannato a morte, non gli hanno mai fatto una telefonata di solidarietà umana, lo hanno accuratamente ignorato in ogni loro dichiarazione sull’argomento, e non è che le occasioni siano mancate.
E’ un caso? Quattro coincidenze in una? Difficile pensarlo. Da due anni ormai tutti gli italiani sanno che il condannato a morte risponde al nome di Nino Di Matteo, che non è, badate bene, carica dello Stato, né massima né minima, ma che per la dignità di ciò che resta del nostro Stato fa indiscutibilmente più di quanto fanno gli altri quattro messi insieme. E’ un punto sul quale vale la pensa insistere. Eppure i quattro lo ignorano. Non gli concedono neanche un minimo attestato di esistenza. Cerchiamo di capire perché.
Le massime cariche dello Stato, di norma, preferiscono indirizzare la loro solidarietà persino a personaggi della cosiddetta “antimafia”, ma questi personaggi hanno da essere un po’ tromboneschi, non protagonisti veri, semmai “figure” o “figurine” che possono rientrare, di solito per cognome illustre, in un teatrino allargato della politica in cui c’è posto anche per loro, e magari persino lauti finanziamenti, perché da loro le istituzioni non hanno proprio nulla da temere. Né vale l’obiezione: cosa hanno da temere i “politici” dai “magistrati antimafia”? Ché dopo le vicende romane simile obiezione sarebbe ultronea, nel senso di superflua.
Questa è una prima ragione del silenzio raggelante che da due anni circonda Di Matteo e gli altri come lui (i Teresi, i Tartaglia, i Del Bene, e valgano questi nomi per tutti). I magistrati antimafia, e quelli di Palermo in particolare, a Roma non sono mai andati giù. Questo loro interpretare la funzione, all’insegna di una indipendenza programmatica, a signori e signorotti della politica romana suona al pari di una bestemmia.
L’attuale Arrogantocrazia – questo governo, insomma – che di battutismo e annuncite, guanti di sfida lanciati a destra e a manca, dispregio pacchiano dei valori (ci viene in mente la ministra Boschi che tra Fanfani e Berlinguer rottamerebbe Berlinguer), pretesa di una longevità politica che rasenta le vette dell’eternità come accadeva nel Pantheon sovietico, in cui si moriva almeno un mese dopo essere morti, e dove lavorano al Cremlino, sin dai tempi di Stalin, equipe di “impagliatori” iperspecializzati nella conservazione dei “cadaveri illustri”, questa attuale Arrogantocrazia, dicevamo, detesta istintivamente i magistrati palermitani. Ma questa è solo una parte delle verità.
Il nome di Di Matteo, infatti, è diventato evocativo del processo sulla trattativa Stato-Mafia che si celebra a Palermo, nonostante non siano mancati fulmini e saette quirinalizi.
Il tacito teorema che accomuna i quattro che fanno orecchie da mercante possiamo spiegarlo così: Di Matteo è l’uomo di punta delle indagini sulla trattativa; ammettere che Di Matteo rischia la vita significa ammettere implicitamente che chi in Italia indaga su fili ad altissima tensione (e vivaddio se non lo sono i fili scoperti di uno Stato che trattò, trattava e tratta con la mafia) rischia di finire assassinato, significa ammettere che il processo di Palermo è cosa serissima e che il nostro Stato, se necessario, spara. Né sarebbe la prima volta.
Il teorema, anche se non verbalizzato, anche se i quattro non lo ammetteranno mai, è esattamente questo. Significherebbe insomma riconoscere addirittura centralità a un qualcosa che con le unghia e con i denti si intende negare, tenendola sin quando possibile fuori dalla porta.
E’ bene che per il 2015 Nino Di Matteo se ne faccia una ragione, anche se abbiamo motivo di ritenere che abbia già idee chiarissime in proposito. Un fatto di cronaca – strettamente mafiologico, se così si può dire – ci ha notevolmente rafforzato nella nostra convinzione. Ci riferiamo al “pentimento” di Vito Galatolo, il boss della borgata palermitana dell’ Acquasanta che ha iniziato a collaborare proprio con  Di Matteo. Intanto, stiamo parlando di una delle “famiglie” più feroci e ammanigliate con i livelli occulti del Potere della Cosa Nostra palermitana. Vito, cosa che anche molti addetti ai lavori tendono inspiegabilmente a dimenticare, è figlio di quel Vincenzo Galatolo attualmente all’ergastolo per la strage Dalla Chiesa, la strage Chinnici, l’uccisione di Pio La Torre e quella di Ninni Cassarà; nonché coinvolto, con tutta la famiglia, nel fallito attentato dinamitardo all’Addaura, nel quale poi la vittima designata, Giovanni Falcone, stigmatizzò la presenza di “menti raffinatissime”. Questo solo per dire che il Vito che si pente oggi non è l’ultimo arrivato quanto ad araldica criminale. Prova ne sia che con le sue dichiarazioni ha già provocato una slavina di arresti. Ma il fatto è che Vito ha vuotato il sacco proprio sulla recente preparazione di un attentato a Di Matteo, indicando nel dettaglio la quantità di tritolo che i mafiosi avrebbero in parte comprato dagli ‘ndranghetisti calabresi; in Vincenzo Graziano, reggente del “mandamento” delle borgata di Resuttana, recentemente catturato da polizia e carabinieri, il custode momentaneo dell’esplosivo; e nel trapanese Matteo Messina Denaro, primula rossa del momento, l’esplicito mandante di questa condanna a morte.
Il “caso Galatolo” è un’ottima cartina di tornasole ai fini del nostro ragionamento. I magistrati che parlano con Galatolo hanno dichiarato che esistono “formidabili riscontri” alle sue parole, pur essendo preoccupati perché il tritolo ancora non è saltato fuori. Ma questa collaborazione sta avendo scarsissima eco nei media, mentre a rigor di logica – in tempi di retorica sui successi antimafia – andrebbe enfatizzata. E qui non vale solo il teorema di prima: ché parlar di Galatolo significherebbe parlar di Di Matteo. La domanda che infatti sorge spontanea è: Messina Denaro ha chiesto alla mafia palermitana di uccidere Di Matteo, ma a Messina Denaro chi è che glielo ha chiesto? Un superlatitante, attorno al quale si stringe il cerchio con l’arresto di familiari stretti, fiancheggiatori, gregari, soci in affari, prestanome, non ha altro a cui pensare? Si sente minacciato dalle indagini di Di Matteo sulla trattativa Stato-Mafia? E perché mai?
Ognuno è libero di darsi le risposte che vuole, così come noi ce ne siamo data una.
Ci teniamo a un’ultima notazione in proposito: non è un mistero per nessuno che neanche all’interno del palazzo di Giustizia di Palermo Di Matteo goda – se così si può dire – di “buona stampa”. Sono molti i suoi colleghi che arricciano il naso di fronte al pentimento di Vito Galatolo. Sono gli stessi – lo diciamo per inciso – che si schierarono apertamente contro Antonio Ingroia quando Ingroia si trovò al centro di una violentissima tempesta istituzional – mediatica che alla fine si risolse con il suo abbandono della magistratura. Sarebbe bene che la deontologia professionale non risultasse mai sacrificata a ragioni di protagonismi e invidie che vorremmo fossero finite con le tragedie delle stragi di Capaci e via d’Amelio.
A tale proposito va detto che il nuovo procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, avrà subito il suo bel da fare. Sul modo in cui si è arrivati alla sua nomina è stato scritto parecchio, anche su AntimafiaDuemila. Tutto è nato – tanto per cambiare, verrebbe da dire – da un intervento a gamba tesa del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, volto a stoppare la candidatura di Guido Lo Forte “reo”, anche lui, di coinvolgimento nel processo sulla trattativa. A farne le spese sono stati – come è noto – sia Lo Forte, sia Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, entrambi molto più titolati di Lo Voi a ricoprire quell’incarico. Napolitano, quando ha voluto (e lo ha voluto spesso durante i suoi due mandati), ha fatto strame di regolamenti, criteri oggettivi, prassi consolidate, in materia di “gestione” della giustizia e della politica. Ma è pur vero che a uscirne con le ossa rotte da questa nomina è l’intero CSM, capace solo di ratificare il diktat di Napolitano, come è altrettanto vero che la presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, che si è sperticata in lodi della procedura adottata dal Csm, ha perduto una grande occasione per stare zitta su materia della quale, all’inizio del suo mandato, lei stessa ammise candidamente di non capirne nulla. E vada steso un velo pietoso su consiglieri laici di provenienza Pd e Movimento 5 Stelle, che a quei giochi si sono supinamente prestati.
Quanto a Lo Voi, dalla poltrona che adesso occupa, saprà cogliere tutte le occasioni possibili per dimostrare di non essere il “normalizzatore” voluto da Napolitano e che molti, invece, stanno paventando. E che se venne designato da Berlusconi in persona per occupare la carica di delegato italiano ad Eurojust, ciò non ha comportato il fatto di essersi legato le mani a vita in ossequio a un pregiudicato che Renzi e Napolitano hanno scelto per ridisegnare i poteri nella nostra Repubblica. Ma è sin troppo ovvio che sarà innanzitutto il processo sulla trattativa, in un senso o nell’altro, lo snodo principale dei futuri anni della Procura nel capoluogo siciliano. Lo Voi – è stato ricordato da più parti – si è distinto, in passato, per “non aver firmato” pagine della storia della Procura palermitana che invece andavano firmate e controfirmate: il processo Andreotti e la denuncia appello degli otto sostituti procuratori per cacciare il “capo” Giammanco, all’indomani delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Difficilmente, prendendo le distanze in un modo o nell’altro dall’inchiesta sulla trattativa, Lo Voi potrebbe rivendicare il “gesto” richiamandosi allo spirito volterriano. Lo Voi – di cui conosciamo l’intelligenza – questo lo capisce benissimo da solo, senza bisogno che qualcuno glielo ricordi.
E forse il condannato a morte, nella notte di Capodanno, su questo aspetto farà una riflessione analoga alla nostra.

Il nostro progetto #lamicodeglieroi è in bilico: ecco perché.

Berlu-cappellone-800-800x540-680x365Come vi avevo scritto qui (prendendolo un po’ alla larga) oggi si può ufficialmente dire che il presunto “benefattore” che aveva deciso di sottoscrivere un contratto di coproduzione con noi di 7500 euro per il nostro spettacolo (e libro) L’amico degli eroi è ufficialmente non rintracciabile (sono in qualche link sparso per la rete tipo questo). Per i molti che ci chiedono come abbiamo potuto fidarci ripetiamo che in realtà è stato sottoscritto un regolare contratto di partecipazione alla produzione.

Ora però lo spettacolo è in preparazione, ovviamente, nonostante la nostra impossibilità di regolarizzare tutti i pagamenti.

Qualcuno mi chiede anche se il “danno” sia causato “premeditatamente” o no: questo lo lasciamo decidere a chi di dovere.

Di certo continuo a credere che una produzione sociale per il nostro spettacolo sia la formula che meglio rispecchia il nostro modo d’intendere il “fare teatro”.

Come scrivevo già qualche mese fa:

Certo poi alla fine le storie che racconti le paghi e non le cicatrizzi come dovresti, ne soffri le conseguenze e ne acquisisci i benefici, succede così a tutti, in ogni lavoro possibile ma in questi quindici anni alla fine ho imparato che nonostante gli sforzi (più o meno riusciti) di tenere libere le parole ogni libro ed ogni spettacolo sono il risultato del percorso di condivisione. Niente di troppo filosofico, eh: ragionarci insieme, litigarsi una scena o un capitolo, aspettare un cenno di approvazione o banalmente applaudire.  Poi pubblicare o andare in scena sono semplicemente la fase ultima, l’emersione di uno spigolo di tutto il resto.
Fare cultura in questo tempo è un lavoro terribilmente politico, inutile fingere, soprattutto se raccontando storie si decide di dichiarare la propria posizione. Fa politica ciò che dici, come lo scrivi, il pubblico a cui decidi di rivolgerti,  la storia che scegli e l’editore e il produttore.

Per questo ci siamo rimboccati le maniche e siamo partiti. Se volete aiutarci potete farlo qui, oppure condividendo, scrivendone, parlandone.

Il prefetto imperfetto

Non so perché ci sia così tanta timidezza intorno al Prefetto di Roma. Perché le ultime uscite su Buzzi & co. cominciano ad essere imbarazzanti, mi pare:

La prefettura di Roma diede il via libera alla stipula di una convenzione con la cooperativa di Salvatore Buzzi per la gestione dell’emergenza legata all’arrivo dei profughi a Castelnuovo di Porto, paesino alle porte della capitale. Un documento datato 18 marzo 2014 – allegato agli atti dell’inchiesta sull’organizzazione mafiosa guidata, secondo i magistrati, dallo stesso Buzzi e dall’ex estremista dei Nar Massimo Carminati – sembra smentire la versione ufficiale fornita dal prefetto Giuseppe Pecoraro che aveva detto subito, e poi ribadito di fronte alla commissione parlamentare Antimafia, di aver rifiutato la proposta di Buzzi. E dimostra che subito dopo l’incontro avvenuto a Palazzo Valentini fu avviata la procedura per inviare i migranti nella struttura di accoglienza situata a Borgo del Grillo.

Si tratta di una missiva firmata dal dirigente Roberto Leone, spedita «al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore» che ha come oggetto «l’afflusso di cittadini stranieri richiedenti la protezione internazionale e l’individuazione delle strutture di accoglienza». Il testo è breve ma fornisce tutte le informazioni: «Facendo seguito alla circolare del ministero dell’Interno dell’8 gennaio scorso e alla luce delle manifestazioni di disponibilità ricevute, si chiede se sussistano motivi ostativi alla stipula di una convenzione con il soggetto sottoindicato: Eriches 29 consorzio di Cooperative Sociali. La sede proposta per l’accoglienza si trova in Borgo del Grillo. Si allega la documentazione relativa alla manifestazione di disponibilità ricevuta e si resta in attesa di cortesi urgenti notizie, rappresentando che in mancanza di elementi ostativi si procederà alla stipula della convenzione». La lettera risulta protocollata in uscita il 19 marzo 2014 e arrivata il giorno dopo al Comune di Castelnuovo.

Proprio il 18 marzo, alle ore 18, Buzzi, aveva incontrato Pecoraro. Sono le carte dell’inchiesta a ricostruire che cosa accadde in quei giorni. In una conversazione del 17 marzo Buzzi racconta a Carminati di aver perso il ricorso al Tar contro l’affidamento della gestione del Centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto a una società concorrente. Si capisce che sta cercando di concludere nuovi affari, di ottenere la gestione di altre strutture. Gli spiega che «domani c’ho appuntamento co’ Gianni Letta». Di questa riunione Buzzi parla anche con Luca Odevaine, all’epoca componente del Tavolo del Viminale che si occupava proprio dell’emergenza legata all’arrivo dei profughi e ora in carcere con l’accusa di aver fatto parte dell’associazione mafiosa. Vuole avere un consiglio su quali siano i temi da affrontare e Odevaine suggerisce: «Gli si può chiedere perché Pecoraro c’ha ferma un sacco de roba, c’ha fermo Castelnuovo di Porto, 100 appartamenti».

Il 18 marzo alle 10.30 i carabinieri del Ros vedono Buzzi entrare con uno dei suoi collaboratori nell’ufficio di Gianni Letta. Quando esce chiama Odevaine e annuncia: «È andata bene, alle 6 vedo il prefetto». Il pedinamento conferma che effettivamente alle 17.45 di quello stesso giorno Buzzi entra alla prefettura di Roma e rimane fino alle 18.35. Appena esce chiama nuovamente Odevaine: «Col prefetto è andata molto bene, gli abbiamo parlato di questo Cara di Castelnuovo di Porto… no del Cara, gli abbiamo parlato di questo immobile che c’è e lui m’ha detto: “Basta che il sindaco me dice di sì io non c’ho il minimo problema, anzi la cosa è interessante, lasciatemi tutto”».

Quando gli atti processuali diventano pubblici e infuria la polemica sugli appalti concessi dal Campidoglio alle Cooperative di Buzzi, la commissione Antimafia avvia una verifica e convoca tra gli altri proprio Pecoraro. In quella sede il prefetto dichiara: «È vero, ho ricevuto Salvatore Buzzi ma non sapevo nemmeno chi fosse: il problema vero è la facilità con cui si può arrivare alle istituzioni e l’assoluta mancanza di controlli. Buzzi è venuto da me dopo che il dottor Letta mi aveva chiamato, io l’ho ricevuto e ho detto di no alla sua proposta che consisteva nella disponibilità di cento appartamenti per gli immigrati a Castelnuovo di Porto. Gli ho spiegato che lì ho già il Cara, che gli immigrati in una città così piccola sarebbero stati troppi». In realtà la lettera spedita il 19 marzo scorso sembra raccontare una verità completamente diversa. Pecoraro adesso ammette che effettivamente ci fu un tentativo, ma spiega: «È un tipo di missiva che abbiamo mandato a tutti i sindaci della provincia chiedendo se c’era disponibilità di posti».

(fonte)

A proposito di Roma, di mafia, di contagio, di Pignatone

Mai come adesso varrebbe la pena leggersi il libro di Pignatone e Prestipino Il contagio: Come la ‘ndrangheta ha infettato l’Italia

Schermata 2014-12-21 alle 14.23.09Non c’è alcun pezzo di società che possa dirsi impermeabile al contagio mafioso. Tutti sono esposti al virus criminale, sia in Calabria che fuori dalla Calabria. Attenzione, questo non significa che tutta la società è contagiata, significa che è tutta esposta al rischio del contagio. Con un’esperienza maturata alla procura di Palermo, Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino sono i magistrati che hanno portato in Calabria i metodi investigativi messi a punto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino contro Cosa Nostra. Con le loro indagini hanno rivelato la faccia torbida delle relazioni tra la ‘ndrangheta e il Paese ufficiale: non soltanto imprenditori e politici, ma perfino ufficiali dei carabinieri, magistrati e collaboratori dei servizi segreti pronti al doppio gioco per favorire le latitanze dei boss e gli affari delle cosche. Un gioco pericoloso, dal quale la ‘ndrangheta è uscita spesso vincente, perché ha contagiato trasversalmente tutta la società. In queste pagine il racconto, curato da Gaetano Savatteri, preciso e puntuale, ricco di osservazioni, in presa diretta e con rivelazioni inedite, dei due magistrati, sulle ragioni per cui la ‘ndrangheta è riuscita a infiltrarsi anche nelle regioni più ricche d’Italia, come la Lombardia, il Piemonte e la Liguria, con un sistema di colonizzazione rigidamente regolato: a Milano si guadagna, in Aspromonte si decide. Un sistema antichissimo capace di stare al passo con i tempi. Forse la sfida più difficile dello Stato, che impegna tutta l’Italia sulla frontiera di Reggio Calabria.

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“i giudici devono fare le sentenze, ma le leggi le fa il Parlamento”

Chiudete gli occhi e pensate a quante volte avete sentito negli ultimi vent’anni questa frase. Tanto che ci siete pensate anche a quante volte si è pensato all’organizzazione di un grande evento per rilanciare (o meglio: distrarre) una città dopo un terremoto (fosse anche giudiziario). Bene ora siete pronti per leggere l’intervista del premier Renzi al Messaggero:

“Roma deve ripartire”. Matteo Renzi, intervistato da Il Messaggero, non ci sta a subire l’attacco dell’Anm sulle norme anti-corruzione e contrattacca, ricordando che “i giudici devono fare le sentenze, ma le leggi le fa il Parlamento”. Ma assicura “durezza senza fine” contro i responsabili di Mafia Capitale, perché “chi lucra sui poveracci mi fa schifo”.

ROMA E LA MAFIA. “Roma non è corruzione. Roma è meno che mai la mafia. Roma, insisto, deve ripartire” dice il premier. Quanto all’amministrazione capitolina, “Marino deve fare il sindaco. I romani gli hanno chiesto proprio questo: tenere pulita la città, sistemare le buche, efficientare la macchina, far funzionare le scuole con le mense e i servizi, disciplinare il traffico, investire in cultura e tutto quello che deve fare un buon sindaco”. Tuttavia “al Campidoglio sono comprensibilmente scossi per quanto è accaduto. Ma mi verrebbe da dir loro, in romanesco: ahò, dateve ‘na mossa, non state fermi là. Roma deve ripartire. Com’era lo slogan di Marino in campagna elettorale? Daje! Appunto”. Renzi ricorda che il Pd ha saputo reagire: “Il Pd ha fatto una scelta semplice: commissariare per dire che noi non abbiamo paura di niente e di nessuno. Se qualcuno dei nostri ha sbagliato è giusto che paghi tutto, fino all’ultimo centesimo, fino all’ultimo giorno. Gli sconti si fanno al supermercato, non in politica. Detto questo, siccome noi siamo garantisti, chiediamo, anzi pretendiamo, che si corra, il più veloce possibile, verso i processi e le sentenze”.

ANM E IL DDL ANTI-CORRUZIONE. “Provo il massimo rispetto per i magistrati quando giudicano e fanno le sentenze. Ma preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con comunicati stampa. Un magistrato deve scrivere le sentenze, le leggi le fa il Parlamento” afferma Matteo Renzi, secondo cui “gli strumenti per combattere la corruzione ci sono. Li abbiamo aumentati”.

ROMA E LE OLIMPIADI. “Io non lascio Roma a quelli che rubano. E le Olimpiadi sono una grande occasione” prosegue il premier, “un progetto a lunga scadenza, perché il Paese torni a progettare, a pensare al futuro, a discutere, riflettere, sognare. Ma in modo concreto. E con tutti i controlli del caso. Saremo inflessibili. Ma non possiamo rinunciare a un sogno solo perché qualcuno vorrebbe rubare anche quello”.

QUIRINALE. “Il patto del Nazareno è stato siglato un anno fa, quando le dimissioni di Napolitano non erano in agenda. Questo è il motivo per cui non c’è nessun patto preventivo tra Pd e Fi” sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Matteo Renzi auspica che “nella maggioranza ampia che dovrà eleggere il nuovo garante dell’unità nazionale ci siano più partiti possibili”. Anche Berlusconi, che d’altronde “è stato decisivo nel votare Ciampi nel 1999 e Napolitano nel 2013”. Per questo “al momento opportuno ci incontreremo”. “Spero”, dice ancora Renzi, che gli esponenti del Movimento 5 Stelle “non rimangano anche stavolta alla finestra”. Nessun nome, perché “oggi chi fa nomi li vuole solo bruciare”. Come Nichi Vendola, che spinge per Romano Prodi: “Si ricordi di quando nel ’98 mandò a casa il prof, ormai fa il gioco di M5S e Lega”. Renzi fa notare che “Sel fa ostruzionismo su tutto, seguendo i grillini e la Lega di Salvini e Calderoli. Ma davvero non vogliono provare a uscire da questa logica di scontro frontale? E dire che gli abbiamo anche mandato un bel segnale con l’abbassamento della soglia per la legge elettorale. Ma sembrano sordi al dialogo”.