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Gennaio 2015

‘Ndrangheta: trema l’Emilia Romagna

Sopraggiunta l’alba, in Emilia è arrivata la bufera. La grande retata antimafia ha fatto terra bruciata attorno alla ‘ndrangheta emiliana: 117 arresti e beni per svariati milioni di euro sequestrati. Così gli uomini del comando provinciale dei carabinieri di Modena, Reggio Emilia Parma e la Direzione investigativa antimafia bolognese, coordinati dalla procura antimafia di Bologna hanno inferto un duro colpo alla ‘ndrangheta emiliana. Già, la definizione che i pm utilizzano è proprio questa. E la utilizzano per descrivere una cellula semi autonoma della mafia calabrese nella ricca Emilia Romagna. I reati contestati vanno dall’associazione mafiosa all’usura al riciclaggio. Altri 46 fermi invece sono stati emessi dalle procure di Brescia e Catanzaro per gli stessi reati.

Mille i militati impegnati nell’operazione, che dopo l’operazione Crimine-Infinito sulle cosche lombardo-calabre (300 arresti nel luglio 2010) e Minotauro, sulla ‘ndrine piemontesi (142 fermi) è la seconda più ampia realizzata negli ultimi dieci anni. E per l’Emilia domani non sarà un giorno normale. Perché dai nomi degli arrestati e dalla qualità dei business in mano ai padrini si intuisce che l’organizzazione ha fatto il salto di qualità proprio in Emilia Romagna.

A essere finito sotto inchiesta è uno dei casati mafiosi più ricchi e potenti della Calabria, con ramificazioni in Germania e Francia: il clan Grande Aracri. Originario di Cutro, provincia di Crotone, da decenni la maggior parte dei suoi membri vivono tra Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Non solo. Perché nel tempo hanno allungato i loro tentacoli fino alla vicina provincia mantovana, cremonese e veronese. Insomma, hanno seguito l’autostrada del Brennero e oltrepassato il Po in direzione Nord Est.

In queste zone, spiegano gli inquirenti, la ‘ndrangheta ha assunto una nuova veste colloquiando con gli imprenditori locali.

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A cosa serve la Brebemi? Ad interrare rifiuti tossici.

xInaugurazione-Brebemi-765-x-420.jpg.pagespeed.ic.SdpQb_0pSLiqwnB7LCdv“La Brebemi è servita ad interrare rifiuti”.  E’ stata questa la clamorosa affermazione emersa durante l’audizione del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e del sostituto procuratore Roberto Pennisi  presso la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti il 4 novembre scorso.

Pennisi ha dhichiarato, infatti, che frequentemente si reca con il treno da Brescia a Napoli è, poiché la ferrovia corre parallelamente alla BreBeMi, ha avuto modo di costatare che è “sempre vuota”; in particolare il giudice ha precisato che l’autostrada è oggetto di una importante indagine della Dda di Brescia per traffico illecito di rifiuti. 

Nello stesso giorno lo stesso giorno dell’audizione di Roberti e Pennisi sono stati auditi anche il direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, Giuseppe Peleggi Rocco Antonio Burdo, Direttore dell’ufficio intelligence della Direzione centrale antifrode e controlli, ai quali il commissario Bartolomeo Pepe ha chiesto notizie in merito ad una indagine del procuratore di Brescia Pier Luigi Maria Dell’Osso, la quale ha per oggetto un traffico di rifiuti tossici ( cianuri, fluoruri, bauxite e altro) che arriverebbero in container trasportati dalle navi attraverso l’Oceano indiano e il canale di Suez provenienti addirittura dall’Australia o su dall’Est Europa.

Burdo ha confermato che ci sono tre  inchieste sul territorio nazionale al riguardo. Una di queste è partita da Brescia e da Bergamo e riguarda un monitoraggio di prodotti elettrodomestici rottamati (Raee), che inizialmente sembravano riferibili all’attività di migranti che avevano messo nei container frigoriferi e lavatrici usate, perché venissero utilizzati tal quali presso i Paesi di origine”. Dietro questo traffico ci sarebbero le mafie ed in particolare la Ndrangheta calabrese, la quale ha in Lombardia profonde ramificazioni.

La società che gestisce l’autostrada respinge al mittente le denunce che essa sia desolata, ma la verità è che, fino ad oggi, essa non ha havuto volumi di traffico tali da giustificare la sua costruzione.

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Alexis il greco. La politica. Appunto.

L’intervista di Matteo Nucci  ad Alexis Tsipras, leader della sinistra greca )l’unica concessa a un giornalista italiano alla vigilia delle elezioni politiche che si tengono in Grecia oggi, 25 gennaio) – è stata pubblicata dal Venerdì di Repubblica, ed è un evento che difficilmente si propone qui in Italia: parla di “politica”. Appunto.

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ATENE. Dietro alla scrivania dove Alexis Tsipras lavora, all’ultimo piano di un palazzo immerso nel centro più multiculturale di Atene, campeggia una grande tela. Su uno sfondo a tinte rosso fuoco, due tori selvaggi si osservano pronti alla carica. “Sono i negoziati fra noi e la Troika” dice lui e scoppia a ridere. “Scherzo, davvero scherzo” scuote la testa “Scherzo perché l’artista lì ha richiamato altre storie, fra cui quella di Europa rapita da Zeus nelle sembianze di un toro. Ma soprattutto, vede, se noi vinceremo le elezioni e riceveremo un mandato di governo chiaro, non ci sarà nessun negoziato con la Troika. Perché dovrei sedermi a un tavolo con questi funzionari a discutere del nostro futuro? Non si tratta di un’istituzione europea, che io sappia. Non ha ricevuto nessuna legittimazione dall’Europa. Io chiederò di incontrare i partner degli altri ventisette paesi dell’Unione, discuterò nelle sedi appropriate, presenterò il mio progetto e ascolterò quello che ciascuno ha da dire. Ma con la Troika no”.

È probabile che, se quel giorno verrà, come tutti i sondaggi sembrano anticipare, gli altri ventisette leader (fra cui una sola unità – Tsipras lo ha sempre ripetuto – una sola su ventotto è rappresentata da Frau Merkel) non saranno impreparati. Quel che Syriza – il partito della sinistra radicale di cui Tsipras è presidente – chiede, del resto, è noto da tempo e gira principalmente attorno a due mosse: la cancellazione della maggior parte del debito greco, esattamente come si fece per la Germania prostrata dalla guerra con la Conferenza di Londra del 1953, e una “clausola di sviluppo” per pagare la restante parte non indebitandosi ulteriormente ma in relazione alle entrate prodotte dalla crescita economica del Paese. È difficile immaginare oggi come potrebbero andare quei negoziati. Una cosa è certa: Alexis Tsipras non ha limitato la portata delle sue richieste a quella che potrebbe sembrare la mossa più semplice e vantaggiosa per il proprio Paese che, sessant’anni dopo la Germania, è a sua volta prostrato da cinque anni di austerità che assomigliano a una guerra. La sua idea si inscrive in un progetto ben più ampio, in cui – ne è sicuro – rientra il destino dell’Europa tutta, della sua autonomia, della sua esistenza come idea fin dalle origini. Perché sarà in quel momento, in quegli incontri da cui i funzionari della Troika saranno tenuti lontani, che sarà possibile capire se l’Europa ha un futuro, se si vuole continuare con “l’estremismo dell’austerità” o si vuole costruire un’unione fondata sulla solidarietà, la democrazia, la coesione sociale. Tsipras sembra avere pochi dubbi. Come chi sente di avere in mano il suo stesso destino.

“La parola “crisi” in cinese ha due facce” dice e forse è fiero di non ricorrere all’etimologia greca antica del termine “Da una parte c’è il pericolo, dall’altra la possibilità, la speranza. Finora abbiamo vissuto la crisi come un pericolo. Direi che è arrivato, per tutti, il momento della speranza. Dico per tutti e intendo per tutti in Europa. Perché è chiaro che fino al 2012 si è guardato alla crisi come un fenomeno soprattutto greco, ma poi è diventato evidente che la questione riguardava l’Europa in generale. Ora, la teoria economica prevede tre modi per affrontare la crisi del debito pubblico. Il primo è l’austerità e dopo quattro anni possiamo constatare che la medicina ha peggiorato la malattia del paziente: avevamo un debito del 120 per cento sul PIL e oggi è cresciuto fino a sfiorare il 180 per cento. Sarebbe grottesco continuare su questa strada. Il secondo è il contrario del primo e prevede una politica di espansione, di aumento della spesa pubblica. Il terzo è il taglio del debito. Ossia quel che proponiamo noi, ma attenzione: i risultati non li vedrà solo la Grecia o solo l’Italia che ha un debito del 132 per cento del PIL ma di gran lunga maggiore quantitativamente rispetto al nostro. Dei risultati godrà tutta l’Europa. Da qui infatti partirà finalmente l’effetto contagio che si è sempre temuto, ma il contagio stavolta andrà inteso in termini positivi, il famoso effetto domino, certo, ma che non porta caduta, al contrario. Quello di cui c’è bisogno infatti è fiducia, sviluppo, un nuovo clima anche sui mercati”. Gli avversari politici di Tsipras liquidano le sue parole come ingenuità, illusioni, vaneggiamenti che porteranno soltanto disastro. Lui non si lascia scalfire dalle accuse e le giudica alla stregua di reazioni disordinate e quasi disperate. Da una parte perché percepisce la fiducia che si è creata attorno a lui anche da parte di un elettorato che tradizionalmente gli era avverso e che – dice – “ha provato sulla sua pelle le menzogne di chi li ha governati in questi anni”. Dall’altra perché sta ricevendo dall’estero un sostegno più ampio di quanto si prevedesse. Giornali per natura lontani come il Financial Times non sembrano avere nessuna paura di un suo prossimo governo. Economisti più tradizionalmente vicini, come Thomas Piketty, autore del bestseller Il capitale nel XXI secolo, approvano, chiedendosi dove sarebbe andata a finire la Germania se invece di vedere il suo debito tagliato dal 200 al 30 per cento del PIL nel 1953 fosse stata costretta alle politiche di austerità che pretende di imporre ora.

“La paura” ripete oggi Alexis Tsipras “non è più dalla nostra parte. Nel 2012, una campagna selvaggia di ricatto aveva spinto la maggioranza dei Greci a credere al fantasma del cosiddetto Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro. Merkel e gli altri leader che intervennero pesantemente nella nostra campagna elettorale volevano che diventasse premier Samaras, uno su cui potevano contare perché erano certi che non avrebbe ostacolato le loro politiche. La paura sparsa a arte fu un’arma letale. Oggi questa paura ha cambiato fronte: è passata dalla loro parte. Perché sanno che noi non ne abbiamo più. E sanno che il giorno dopo le elezioni, quando sarà evidente che la nostra vittoria non porta terremoti né scenari apocalittici, un’onda positiva si libererà sui mercati e il cambiamento avrà inizio. Di quel cambiamento hanno paura. Perché, come ho già detto, le cose sono destinate a trasformarsi in tutta Europa”.

In Grecia, se Tsipras riuscisse a vincere e a conquistare una maggioranza salda (l’ipotesi più difficile da prevedere perché la legge elettorale qui è un complicato gioco di numeri), i primi passi del suo governo sono stabiliti da un programma presentato a Salonicco ben prima che l’ipotesi di andare al voto diventasse concreta. È un programma d’impatto, teso innanzitutto a cercare di porre rimedio al dramma umanitario che la Grecia sta vivendo. Di questi giorni è la notizia che tre famiglie su dieci vivono sotto la soglia di povertà, dove si intendono famiglie da due a quattro membri con meno di diecimila euro all’anno (gli altri dati che certificano il dramma greco a fine pagina). Elettricità, casa, buoni pasto, assistenza medica, trasporto pubblico, riscaldamento per i più colpiti dalle misure di austerità sono fra i primi punti del programma (dettagliatamente riportato nei libri di Synghellakis e Deliolanes in uscita in questi giorni), un programma che si estende poi ai primi investimenti per il rilancio dell’economia e dell’occupazione e si chiude sulla riforma della politica.

“Quello di cui abbiamo bisogno è una vera e propria rinascita” spiega Tsipras “E soprattutto la ricostruzione di un ponte ormai in macerie che unisca i cittadini e il sistema politico. Perché, vede, la Troika ha imposto tante riforme ma nessuna ha cercato di colpire, per esempio, i grandi evasori fiscali o chi porta i soldi in Svizzera. La Troika non ha mai cercato di spezzare quello che io chiamo “il triangolo del peccato”, ossia quel circolo vizioso che in Grecia ha portato rovina: il potere politico (lo stesso da quarant’anni, i due partiti che si sono alternati al governo: i socialisti del Pasok e i conservatori di Nea Demokratia), i banchieri (sempre gli stessi anche dopo la bancarotta), i massmedia. Con i politici che davano soldi ai banchieri e i banchieri che li davano ai media i quali a loro volta offrivano supporto a politici e bancarottieri. Questo triangolo la Troika non ha mai voluto spezzarlo. Ma ci penseremo noi. Per avere meritocrazia, giustizia, diritti democratici per tutti. È evidente che questo non ci distinguerà in nessun modo da Paesi in cui prevalgono politiche liberiste. Ma è necessario che le condizioni del nostro Paese tornino in uno stato di normalità per avviare la ricostruzione dei diritti del lavoratore, calpestati in questi ultimi anni, una ricostruzione che porteremo avanti all’interno delle organizzazioni europee per i diritti del lavoro. La Grecia non diventerà un soviet, insomma”.

Di strada ne ha fatta, Alexis Tsipras, quarantenne ateniese, ingegnere, da quando sei anni fa divenne Presidente di quella che era nata come l’alleanza di molte sigle della sinistra radicale e che faticava a superare la soglia di sbarramento fissata dalla legge elettorale al tre per cento. Le stanze dove nel 2009 lo incontrai per il Venerdì erano disseminate di scatoloni zeppi di volantini. Giovani si aggiravano frenetici interrompendolo in ogni momento e lui con pazienza già mi spiegava come le socialdemocrazie europee si stessero dissolvendo nel liberismo, mentre le élites politiche avevano perso il polso della realtà, rinchiudendosi in una vita asettica lontana dalla strada. Nessuno però dentro Syriza avrebbe mai pensato che il governo potesse diventare una prospettiva realistica in così pochi anni. Certi di un eterno lavoro di opposizione, si divertivano a leggere sondaggi che assegnavano al loro giovanissimo leader un consenso già allora strabiliante. Poi venne la crisi e con essa le politiche di austerità, la troika, un “protettorato che non siamo in nessun modo disposti a sopportare”. Oggi quelle stanze sono cambiate, ma il partito è sempre immerso nel turbinio di migranti che popolano piazza Koumoundourou, anche detta Piazza Eleftherias, ossia della Libertà.

Di nazionalizzazioni non si parla più, qui, ma quello su cui Tsipras è irremovibile è che le privatizzazioni devono finire: “Certi beni, come l’acqua e l’energia devono restare nelle mani dello Stato, senonaltro per garantire la sicurezza e la difesa dei cittadini. Dell’Ente voluto dalla Troika per vendere beni statali invece posso dire soltanto che è servito a un esperimento neoliberale estremo ma che faremo fallire: privare completamente un Paese delle sue proprietà pubbliche”. La vendita di isole, spiagge, litorali incontaminati che ha sconvolto l’opinione pubblica, sarà interrotta. “Anche perché finora non ha portato soldi ma solo svendite, semplici cambi dei titoli delle proprietà: da pubbliche a private. Come per l’immensa area di Ellinikò (il vecchio aeroporto cittadino dismesso) la cui vendita è stata trattata per quattro volte meno del prezzo di mercato”.

Quanto a mantenersi in contatto con la società civile, Syriza non può cambiare. Non ci si può rinchiudere nelle stanze di partito. C’è una dimensione personale e spirituale che non si deve mai abbandonare. Tsipras è reticente a parlarne. Le polemiche della campagna elettorale greca hanno puntato spesso il dito sul suo ateismo, lui che non è sposato e ha due figli non battezzati di cui uno di secondo nome fa addirittura Ernesto… Ma non c’è molto da rispondere a polemiche del genere, secondo lui. I fatti parlano da sé. E i fatti raccontano che in questi giorni in giro per la Grecia, Tispras ogni sera torna nel suo semplice appartamento del quartiere popolare di Kypseli, dalla sua famiglia. Su religione e spiritualità non si specula. “Innanzitutto perché in questi tempi in cui assistiamo a un’escalation di volenza del fondamentalismo è necessario un sereno confronto fra forze politiche e esponenti religiosi. Eppoi perché io ho i miei principi e il mio modo di vivere la spiritualità ma non lo metto sul tavolo della propaganda politica”. Gli sarebbe facile. È stato uno dei primi politici a incontrare il Papa, ha visitato il Monte Athos dove per tre giorni si è adeguato alla vita monastica e conosce molto bene l’attivismo della Chiesa che in Grecia, in questi anni, ha contribuito in maniera speciale a erigere un argine contro il dramma umanitario. “In periodi di crisi così acuta, la sinistra e la Chiesa inevitabilmente si incontrano e cooperano per essere vicini a chi soffre e per strutturare la solidarietà. Con Papa Francesco abbiamo parlato proprio di questo”. Di più, Tsipras non vuole dire. Insisto: “Ho letto che dopo il vostro incontro il Papa ha commentato: “le sue parole sono una melodia di speranza”. Tsipras apre le mani e solleva le sopracciglia in un gesto tipicamente greco, poi ripete: “Prevaleva la paura nel 2012. Adesso c’è solo la speranza. La speranza vincerà la paura. I problemi saranno enormi e difficili da affrontare, inutile negarlo, i numeri lo dicono chiaramente. Ma cambierà l’atteggiamento psicologico in Grecia eppoi cambierà anche in Europa. E quello che pochi vogliono ricordarsi è che l’economia per metà è psicologia. Dunque anche l’economia riceverà i frutti salutari di questo straordinario cambio di atteggiamento”.

NOTA:

2010-2015: I numeri della Grecia dall’inizio degli “aiuti” della Troika:

-Il debito pubblico è passato dal 124% al 175% del PIL.
-Il PIL è sceso del 20%.
-La disoccupazione è passata dal 15 al 27% (tra i giovani è al 62%).
-240.000 piccole e medie imprese hanno chiuso (erano 745.677).
-I senzatetto di Atene erano circa 3000. Ora sono circa 35000.
-La spesa sanitaria è scesa del 25% (3 milioni – sui quasi 11 milioni di abitanti – sono privi di copertura sanitaria).
-330.000 sono le case senza elettricità.
-150.000 i giovani che hanno lasciato il paese.
-I suicidi sono cresciuti del 43%.

“Chi delegittima i magistrati indebolisce la tutela dei diritti”

“Forse chi promuove le campagne di delegittimazione dei magistrati, o si lascia andare a infelici battute ad effetto sulla loro produttività, non si rende conto di indebolire complessivamente la tutela dei diritti. E mi chiedo se certi atteggiamenti siano davvero utili a chi nutre la sacrosanta ambizione di aprire una stagione di riforme”. Non usa mezzi termini il presidente della Commissione Riforme del Csm, Piergiorgio Morosini, che è intervenuto stamattina al palazzo di giustizia di Palermo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario.

“Da componente del Csm -ha detto- nel rivendicare la piena autonomia dalla politica, penso non si debba mai rinunciare a un dialogo franco ed equilibrato con Parlamento eGoverno. E sono consapevole del compito non facile del legislatore, perché non sfugge che nelle attuali società plurastiche multiculturali, con un quadro politico spesso frammentario, è difficile individuare valori condivisi. Ma di riforme organiche c’è grande bisogno sia nel civile sia nel penale.

Morosini, ha poi parlato di “darwinismo giudiziario”, riferendosi a quanti “provvisti di particolari risorse economiche e psicologiche”, possono superare il lunghissimo percorso a ostacoli di un processo. “La sproporzione di scala tra attese e realtà è il cuore della ‘questione Giustizia‘, qualcosa che riguarda la credibilità della giurisdizione di cui ogni attore istituzionale dotato di senso di responsabilità si deve fare carico, perché si tratta di un insidioso agente corrosivo delle basi democratiche del Paese, sopratutto in latitudini dove la presenza mafiosa fa sentire tutto il suo peso”.

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Numero zero

51dI0KzbquLSo che è molto “cool” disprezzare i libri più venduti e dovrei piuttosto limitarmi a segnalare solo qualche saggio di un autore semisconosciuto per dare sfoggio di lapalissiana diversità ma Numero zero (ovvero l’ultimo romanzo di Umberto Eco) per me è stata una bella sorpresa. Prima di tutto perché ho sempre invidiato questi scrittori con una testa zeppa di pensieri densi che riescono a scrivere con una freschezza adolescenziale pur non essendo romanzieri puri, e poi perché immaginare il quotidiano numero zero di una redazione tutta intenta ad affilarsi nel vizio della servitù è cronaca, più che profezia. Io non so se davvero ci salveremo soltanto prendendo coscienza di essere terzo mondo ma la natura di certi compromessi assomiglia molto a questo libro.

Potete comprarlo qui.

Quindi alla fine niente Palestina

Dopo mesi di silenzio e attese sembra ormai sicuro che Premier e Ministro della Difesa siano contrari al riconoscimento dello Stato della Palestina. E quindi alla fine a chi si vuole disegnare innovatore e coraggioso manca il coraggio base dei diritti umani. Ma costano parecchio, si sa, i diritti della Palestina. Soprattuto per la protervia degli ostili.

cosa è cambiato in meno di un anno?

Il Sole24Ore (tipico quotidiano comunista, eh) ripercorre i passaggi dal Governo Letta al Governo Renzi. E le domande che ci poniamo anche noi:

Quasi un anno fa la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Renzi sull’Italicum e sul Colle, votava in una direzione del Pd un documento per sfiduciare Enrico Letta e portare a Palazzo Chigi l’attuale premier. In meno di un anno l’ennesima virata.

Era il 14 febbraio di un anno fa quando Enrico Letta si dimise da premier dopo una direzione del Pd che lo aveva sfiduciato. Furono 136 i voti a favore dell’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, una staffetta – si disse – per avviare una nuova fase del Governo e del partito e affrontare le europee di maggio. In quella direzione Pd, di fatto, a favorire il cambio di premier fu la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Matteo Renzi sull’Italicum e sul Quirinale. Tra quei 136 voti c’era tutta la minoranza bersaniana, cuperliana e dei giovani turchi, solo i 16 di Civati votarono contro e in due si astennero, Stefano Fassina e la bindiana Margherita Miotto. Insomma, la stessa corrente che contribuì alla fine dell’Esecutivo Letta e all’arrivo di Renzi oggi lo accusa di essere anti-democratico sull’Italicum, di fare patti oscuri con Berlusconi, di aver varato provvedimenti economici di destra come il Jobs act. Ma allora perché ne favorirono l’ascesa a Palazzo Chigi senza nemmeno passare per le urne?

Non si può usare l’argomento di un cambiamento di personalità del segretario Pd in questi ultimi mesi: le bordate alla Cgil le aveva lanciate durante le primarie, i primi provvedimenti sul lavoro li ha fatti prima delle europee, la rottamazione l’aveva compiutamente spiegata e applicata e il patto del Nazareno era già nato quasi un mese prima di quella direzione di febbraio. Dunque, non c’era nulla che non si sapesse di Renzi, neppure l’accordo con l’ex Cavaliere è stata una sorpresa.

La domanda resta: cosa è cambiato in meno di un anno? E a questa se ne affianca una più profonda che non ha a che fare solo con il premier ma con il Pd nel suo complesso. E cioè un partito di maggioranza relativa – quale è oggi il Pd – si può permettere di fare inversione di marcia ogni nove, dodici mesi? Si può permettere un’assenza di strategia a medio termine e continuare a bruciare leader e Governi come se niente fosse? Perché non è solo Renzi che è finito nel tritacarne. Prima di lui è toccato a Pierluigi Bersani, poi a Letta e ora a lui. In meno di due anni il Partito democratico, il più votato dagli italiani, ha messo alla graticola tre leader ma quello che è più grave è l’improvvisazione con cui crea e distrugge posizioni politiche. Il Pd, minoranza inclusa, ha votato il pareggio di bilancio e poi l’ha messo all’indice, dal 2011 al 2012 ha votato insieme a Berlusconi il Governo Monti e poi lo ha rinnegato. E soprattutto nella primavera 2013 ha votato le larghe intese insieme al Pdl di Berlusconi – che era nella maggioranza di Governo – mentre ora vuole stracciare il patto del Nazareno che è sulle riforme. Il risultato è la confusione, una assenza totale di criteri politici che vivano più di sei mesi. Una continua navigazione a vista.

La questione non è solo come andrà a finire sull’Italicum e, la prossima settimana, sul Quirinale. Non è la sopravvivenza o no di Renzi ma se il partito di maggioranza relativa, il Pd, non cominci a essere la vera mina vagante per le istituzioni e per il Paese. Una mina non solo vagante ma incomprensibile. Questo continuo cambiare giudizio su punti strategici di una legislatura sta portando il Pd a trasformarsi da partito a “movida”. Senza una bussola e con identità multiple. Altro che primarie, il problema è a Roma e in Parlamento.

‘Ndrangheta a Reggio Emilia: 10 milioni sequestrati

La Guardia di finanza di Reggio Emilia ha sequestrato beni per oltre 10 milioni di euro a un imprenditore residente a Montecchio che si ritiene legato alla cosca della ‘ndrangheta dei Grande Aracri. Terreni, fabbricati, aziende, auto e conti corrente che dal cuore dell’Emilia arrivano fino al profondo sud della Calabria, tutti di proprietà di Palmo Vertinelli e della sua famiglia, anche se il 54enne di origine cutrese residente a Montecchio, nel reggiano, dichiarava redditi sulla soglia dell’indigenza. Il provvedimento, emesso ai sensi della normativa antimafia dal Tribunale di Reggio su proposta del procuratore capo Giorgio Grandinetti, riguarda l’imprenditore e i suoi famigliari. Dalle prime ore di mercoledì 21 gennaio i finanzieri del nucleo di polizia tributaria delle Fiamme gialle stanno mettendo sotto sequestro beni riconducibili all’uomo, che sono collocati nel territorio reggiano, parmense, e nella zona di Crotone.

Il sequestro è scattato dopo un’approfondita attività di indagine su Vertinelli da parte degli uomini della Guardia di Finanza, che hanno riscontrato una “conoscenza interessata” di ambienti associativi criminali. Il nome dell’imprenditore era già noto agli inquirenti per la sua vicinanza al clan dei Grande Aracri. Il 54enne era apparso in un’inchiesta antimafia nel 2003, anche se allora venne escluso un suo coinvolgimento con le organizzazioni criminali. A suo carico ci fu anche una denuncia per dichiarazione fraudolenta per un giro di false fatture e infine venne colpito da un’interdittiva della prefettura di Reggio per le sue frequentazioni con la famiglia Grande Aracri, ma anche con altri pericolosi esponenti di Cutro e di Isola di Capo Rizzuto.

Dagli accertamenti della Guardia di finanza è emerso come l’imprenditore dichiarasse redditi molto bassi, quasi sulla soglia dell’indigenza, che gli investigatori hanno definito “neppure sufficienti a coprire la spesa media annua individuata dall’Istat e quindi di far fronte alle normali necessità di sostentamento”, a fronte di un patrimonio personale che è risultato essere molto cospicuo. Da qui la decisione di far scattare il provvedimento. I finanzieri hanno sequestrato quote societarie dell’Impresa Venturelli srl, Edilizia Costruzioni Generali srl, Mille Fiori srl, Bar Tangenziale Nord-Est Sas. Numerosi anche i beni immobili sotto sequestro, tra cui un complesso immobiliare costituito da nove appartamenti e un’autorimessa a Isola di Capo Rizzuto, un terreno a Crotone. A Montecchio (Reggio Emilia) sono stati sequestrati un complesso immobiliare da dieci appartamenti, due autorimesse e un magazzino, due appartamenti e un complesso immobiliare di otto appartamenti e tre autorimesse. Sempre nel reggiano, a Gattatico, è stato posto sotto sequestro un complesso immobiliare costituito tra tre appartamenti e tre autorimesse. Altri sequestri hanno riguardato anche il parmense, dove i sigilli sono stati messi a un complesso immobiliare di tre appartamenti e tre autorimesse e un terreno a Montechiarugolo, a un complesso immobiliare costituito da un appartamento e tre autorimesse a Soragna, e a un appartamento a Busseto.