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2015

Sedriano, Alfredo Celeste e la mafia inosservata (la sentenza completa)

imageHa urlato per anni al complotto, insultando il prefetto di Milano, il ministro degli Interni, gli oppositori politici, la stampa e persino i commissari mandati da Roma a Sedriano, per ‘ripulire’ quel comune del Milanese che nell’ottobre del 2013, primo e unico caso in Lombardia, era stato sciolto per mafia.

Ieri però per l’ex sindaco Alfredo Celeste (Forza Italia) è arrivata la doccia fredda: il Tar del Lazio ha confermato tutto (qui la sentenza ), respingendo il ricorso degli ex amministratori e aggiungendo particolari agghiaccianti su una cittadina di 11 mila abitanti a nord di Milano, che viene descritta come un villaggio della Locride, dove gli appalti finiscono nelle mani di aziende in odor di mafia, dove gli assessori vengono affiancati da ‘tutor’ esterni decisi dal sindaco (in un caso la scelta cade su un personaggio accusato di vicinanza alle cosche), dove il primo cittadino promette favori a un ‘boss’ della ‘ndrangheta in cambio di aiuti per fare carriera politica, per diventare deputato. E sottomette ai suoi voleri pure i funzionari pubblici, compreso il segretario comunale che resta in silenzio di fronte ad atti amministrativi illegittimi. Un sindaco che, nel giro di quattro anni, affida al suo avvocato personale, divenuto l’unico consulente del comune in materia giuridica e urbanistica, incarichi per 430 mila euro. Uno scenario da tregenda, fino a ieri sconosciuto nei suoi dettagli più incresciosi.
“E’ tutto da dimostrare, sono innocente”, ripete Celeste. Che oggi è imputato a Milano per corruzione nel processo sui rapporti tra la politica e la ‘ndrangheta, assieme all’ex assessore regionale del Pdl, Domenico Zambetti, accusato di voto di scambio mafioso. Ma se sulle responsabilità individuali decideranno i magistrati, sulle ragioni dello scioglimento per mafia di Sedriano hanno già deciso tre diverse istituzioni: il prefetto che lo propose nel luglio del 2013, il governo di Enrico Letta che lo decise nell’ottobre dello stesso anno e, ieri, il Tar del Lazio che l’ha confermato: “Gli elementi – scrivono i giudici del Tribunale amministrativo – sono concreti, in quanti fondati su esame documentale, evidenze probatorie acquisite nelle indagini penali e audizione dei diretti interessati; (gli elementi sono) univoci, perché evidenziano che la direzione verso cui si muoveva l’organizzazione comunale (anche con le sue omissioni, parzialità e illegittimità diffuse) era stabile a beneficio, sia pure indiretto ma incontestabile, di esponenti della malavita stanziale di origine ‘mafiosa’; (gli elementi sono) rilevanti, dato che riguardavano la gestione dell’intreccio economico-finanziario che è particolarmente ambito dalla criminalità organizzata, anche ai fini di riciclaggio”.Una brutta storia, quella andata in scena a Sedriano. Comincia nella primavera del 2009, quando il centrodestra torna al potere dopo 13 anni di digiuno. Sindaco è Alfredo Celeste, nato in Puglia a Fasano nel 1953 e giunto al nord da ragazzo. Fa l’impiegato alle Poste del paese, dove viene accusato dal parroco di sbirciare nella sua corrispondenza. Ex socialista, Celeste si converte alla fede dopo l’incontro con l’esorcista monsignor Emmanuel Milingo. Così se ne va a Lugano e torna con un diploma in scienze teologiche. Nel 1994 una nuova conversione, stavolta al verbo di Forza Italia dopo aver ascoltato il discorso di Silvio Berlusconi sulla sua discesa in campo. In municipio la musica cambia. Fa il suo ingresso trionfale una statua della madonna di Medjugorje. Fra lo stupore di dipendenti e cittadini viene collocata nell’ufficio del sindaco, il quale si rifiuta di celebrare i matrimoni civili: “Insegno religione. Non posso dare certi insegnamenti in classe e poi non applicarli nella vita. Per me il matrimonio è quello davanti a Dio, punto”. Deve intervenire il prefetto, minacciando il commissariamento.

E’ un personaggio eccentrico e bizzarro, il primo cittadino. Ostenta fede e valori, vestendo i panni del moralizzatore. Ma le sue pubbliche ‘virtù’ nascondo i suoi ‘vizi’ privati. Secondo la relazione riservata del ministero degli Interni, richiamata nella sentenza del Tar, “il sindaco e altri membri dell’amministrazione frequentavano soggetti ‘controindicati’”. Uno di loro è Eugenio Costantino, imputato assieme a Celeste a Milano e detenuto in una clinica psichiatrica: “Soggetto che aveva assunto uno ruolo di rilievo nell’associazione criminale ‘ndrangheta, avendo rivestito una partecipazione nell’attività di riscontrato ‘voto di scambio’ per le elezioni regionali lombarde del 2010. (Costantino) era riuscito anche a ottenere l’elezione nel giugno 2009, nel corso di un patto ‘politico-mafioso’, di sua figlia a consigliere del comune di Sedriano”. Altro personaggio ‘pericoloso’ frequentato dal sindaco è “un medico chirurgo marito di consigliera comunale di Sedriano”. Si tratta di Marco Scalambra, anche lui imputato nel processo politica-mafia, esperto di urbanistica, edilizia e cooperative, nonché marito di Silvia Fagnani, già capogruppo di maggioranza a Sedriano. Famoso un sms che Scalambra invia a un candidato alle elezioni comunali di Rho nel 2011: “Ho cercato di portarti i voti della lobby calabrese ma purtroppo sono già impegnati. Ne rimangono circa 300, fai sapere entro domani se ti interessano come elettori”.

Secondo la relazione riservata Celeste non si limita a frequentare personaggi ‘oscuri’. Ma promette “di compiere una pluralità di atti contrari ai suoi doveri d’ufficio”. Come per esempio “la promessa, a sostegno degli interessi del sodalizio criminale operante sul territorio, dell’assegnazione di un appalto della manutenzione delle aree verdi comunali, pur se l’assegnazione risultava definitivamente in favore di altro soggetto, comunque imparentato con altra famiglia ‘mafiosa’; la promessa al suddetto medico chirurgo (Scalambra) di assegnazione di lavori di ristrutturazione di alcuni immobili”.

Il sindaco agiva inoltre da ‘dominus’ sui dipendenti del comune: “Generalizzata e illegittima ingerenza degli organi politici sull’operato di quelli burocratici, soprattutto in settori economici”. E ancora: “Risultavano tra le varie figure professionali ausiliarie del comune diversi soggetti con precedenti penali”. Inoltre: “Riorganizzazione uffici comunali nel 2009 e area tecnica divisa in due settori, di cui uno assegnato a soggetti vicini ad ambienti ‘controindicati’ (…) Lavori di messa in sicurezza di un manufatto comunale affidati a impresa i cui soci presentavano legami con criminalità”. L’elenco è lungo. Si legge anche di un “generale contesto di illegalità negli appalti”, di “affidamento lavori ad aziende prive di documentazione antimafia” e di una presenza inquietante: “Risultava operativa anche nel territorio di Sedriano un’organizzazione criminale facente capo a famiglia originaria di Platì, il cui ambito criminale riguardava il monopolio del movimento terra, il controllo dei cantieri, il settore dell’intermediazione immobiliare, con infiltrazioni negli appalti di servizi e opere pubbliche”.

Neppure gli assessori erano liberi di agire senza il permesso del sindaco. Al punto tale che alcuni di loro sono affiancati da un ‘tutor’, scelto dal primo cittadino in persona: “In particolare, risultava che all’assessore ai Servizi sociali era affiancata una consigliera comunale, moglie del medico chirurgo che esercitava notevole influenza sul Sindaco (il citato Marco Scalambra, oggi imputato a Milano nel processo mafia-politica, ndr); all’assessore ai Lavori pubblici risultava affiancato un geometra, all’epoca coordinatore del partito politico di appartenenza del sindaco; all’assessore all’urbanistica ed edilizia privata era affiancato proprio il detto medico chirurgo (…) Non si comprende per quale ragione il Sindaco aveva proceduto alla nomina dei componenti della giunta per poi avere l’intenzione di affiancare loro altri soggetti di supporto, salvo non ritenere una concezione personalistica e dirigistica della struttura comunale e di tutta l’amministrazione, finalizzata, più che al perseguimento degli interessi della collettività, al perseguimento di interessi personali e privatistici”.

A completare un quadro di sottomissione ai voleri di un sindaco amico (lui dice senza saperlo) dei ‘boss’, ci sono pure i silenzi complici dell’allora segretario comunale, Susanna Pecorella, colei che avrebbe dovuto esercitare il controllo sugli atti: “In riferimento alla figura del segretario comunale con funzioni di direttore generale (si rileva) la sua responsabilità per il silenzio serbato su alcune illegittimità da cui erano affetti provvedimenti emanati dall’amministrazione comunale (…) in ordine ad alcuni appalti assegnati, limitando la sua attività all’apposizione del ‘visto’ sotto un profilo meramente formale, risultando così evidente accondiscendenza ai voleri del sindaco e della giunta”.

E non finisce qui. In quello che è stato definito “il regno di Sua Maestà Alfredo Celeste”, c’è spazio pure per gli incarichi legali assegnati fra il 2009 e il 2013 a Giorgio Bonamassa. Si legge nella sentenza: “Il consulente legale del comune e avvocato difensore del sindaco in pregressi procedimenti penali a suo carico otteneva numerosi incarichi giudiziari e di consulenza extragiudiziale dal comune medesimo, di notevole rilievo e per consistenti importi totali, già dal 2009, a fronte di risultati non proporzionati agli importi ricevuti”. L’amico-avvocato di Celeste, per essere più precisi, ha incamerato in 4 anni la bellezza di 430 mila euro: una cifra surreale per una cittadina di 11 mila abitanti. A lui, che è un penalista, fu affidata addirittura la stesura dello strumento urbanistico comunale, una consulenza costata ai cittadini circa 100 mila euro e poi cestinata nel 2013, dopo lo scioglimento per mafia.

Sognava in grande, l’ex sindaco Celeste. Parola del ‘boss’ della ‘ndrangheta Costantino, che svela al telefono i suoi progetti per l’amico Alfredo: “Fare il sindaco non gli basta, ha attorno persone molto megalomani, vogliono portarlo a Roma come senatore”. Oggi è tutto finito. Eppure Celeste non si arrende: prepara il ricorso al Consiglio di Stato e annuncia la sua ricandidatura a sindaco per le elezioni di fine anno. Intanto, per volontà della Curia, può continuare sereno a insegnare religione ai ragazzi del liceo europeo di Arconate (Milano) e dell’istituto tecnico di Castellanza (Varese). Alla Diocesi, da mesi, insistono nell’affermare che, del caso Celeste, non ne sanno nulla. Aggiungono però che si informeranno.

(fonte)

Il Sultano e San Francesco (la risposta di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci, e a molti in queste ore)

di Tiziano Terzani

532948_10152902333161760_1228191903519466569_nOriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia’ grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e’ in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.

Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La’ morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso’ di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualita’.

Pensare quel che pensi e scriverlo e’ un tuo diritto. Il problema e’ pero’ che, grazie alla tua notorieta’, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

Il nostro di ora e’ un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile e’ appena cominciato, ma e’ ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita’ perche’ certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu’ bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita’ delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu’ difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finche’ l’uomo non si mettera’ di sua volonta’ all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara’ per lui alcuna salvezza”.

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e’ nella tua rabbia accalorata, ne’ nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu’ accettabile, “Liberta’ duratura”.

O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e’ mondo non c’e’ stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara’ nemmeno questa.

Quel che ci sta succedendo e’ nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita’ di nulla, tanto meno all’inevitabilita’ della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.

Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu’ tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu’ determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu’ terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira’ necessariamente una loro ancora piu’ orribile e poi un’altra nostra e cosi’ via.

Perche’ non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari “intelligente”, di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.

Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanita’ a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita’. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per se’ un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore e’ Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Universita’ di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e’ che la politica, nella sua espressione piu’ nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu’ profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessita’ di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta’.

Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che e’ anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima citta’. La vendetta non e’ degli uomini, spetta a Dio.

Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perche’ col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e’ servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita’ della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi’, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.

A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pieta’ sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perche’ vorrei capire che cosa li rende cosi’ disposti a quell’innaturale atto che e’ il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.

Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.

Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche’ io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera’ uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.

Niente nella storia umana e’ semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’e’ raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e’ il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle e’ uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e’ l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e’ neppure “un attacco alla liberta’ ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Universita’ di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”.

Cosi’ si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.

Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, e’ evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’e’, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e’ stata la trappola.

L’occasione per uscirne e’ ora.

Perche’ non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche’ non studiamo davvero, come avremmo potuto gia’ fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?

Ci eviteremmo cosi’ d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu’ disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.

Magari salviamo cosi’ anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa e’ stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e’ legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da li’ nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e’ impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.

E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita’ di proteggere la liberta’ e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta’ che rendono l’America cosi’ particolare.

Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi’ come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha gia’ sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare e’ una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e’ il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e’ come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.

In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’e’ stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse gia’ paura. Capita cosi’ di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e’ un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?

Per i politici – me ne rendo conto – e’ un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu’ l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta’ combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.

Ma questo ci impone anche grandi responsabilita’ come quella, non facile, di andare dietro alla verita’ e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.

Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e’ complicato. Ma non si puo’ esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita’ di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.

Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e’ l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che gia’ studiano l’inglese e magari il giapponese?

Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e’, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita piu’ lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu’ in la’ degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu’ di tutti gli altri messi assieme”.

Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo’ una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago’ e lui si salvo’ a malapena. Ci provo’ una seconda volta, ma si ammalo’ prima di arrivare e torno’ indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso’ le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perche’ sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perche’, dopo una chiacchierata che probabilmente ando’ avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio’ che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.

Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlo’ di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita’ e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.

Ma oggi? Non fermarla puo’ voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo piu’ umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”.

Ma non possiamo rinunciare alla speranza.

“Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi piu’ capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento piu’ civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.

Giusto in tempo la morte risparmio’ a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.

Non li risparmio’ invece ad Einstein, che divenne pero’ sempre piu’ convinto della necessita’ del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanita’ un ultimo appello per la sua sopravvivenza:

“Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto”.

Per difendersi, Oriana, non c’e’ bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’e’ bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.

M’e’ sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia’ i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.

Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta’ di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita’ commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?

“Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si’.

L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere e’ il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; e’ l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e’ il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero’ accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e’ piu’ conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu’ i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non e’ relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo’ esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara’ difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.

I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.

Molto meno convinti pero’ sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e’ diffuso cosi’ come e’ diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.

“Dateci qualcosa di piu’ carino del capitalismo”, diceva il cartello di un dimostrante in Germania.

“Un mondo giusto non e’ mai NATO”, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia’. Un mondo “piu’ giusto” e’ forse quel che noi tutti, ora piu’ che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita’ ed ispirato ad un po’ piu’ di moralita’.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche’ ora tornano comodi, e’ solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.

Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita’ internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu’ reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne’ il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne’ il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilita’ del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara’ presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi” di liquidare qua e la’ nel mondo le persone che la Cia stessa mettera’ sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovra’ ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.

A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta’ mi fa male e mi intristisce. Tutto e’ cambiato, tutto e’ involgarito. Ma la colpa non e’ dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta’ bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu’ piccola e piu’ povera. Ora e’ un obbrobrio, ma non perche’ i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche’ i filippini si riuniscono il giovedi’ in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.

E cosi’ perche’ anche Firenze s’e’ “globalizzata”, perche’ non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e’ scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo piu’.

Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle piu’ divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li’ maestose ed immobili, simbolo della piu’ grande stabilita’, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.

La natura e’ una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu’ grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu’. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passera’ anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.

Perche’ se quella non e’ dentro di noi non sara’ mai da nessuna parte.

(fonte)

Ciò che mi terrorizza del terrorismo (tra stupidi e avvoltoi)

Tanto per provare a capirsi in mezzo a tutto questo letamaio. Charlie Hebdo ha pubblicato anche copertine come questa:

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Io ho il terrore di chi sarebbe disposto a trasformare l’indignazione cristiana di fronte a questa immagine in violenza armata. Ho il terrore che poi siano le stesse persone che seminano odio in risposta all’odio, violenza contro la violenza, tradendo il Vangelo più di questa vignetta. Ho il terrore che non riusciremo a restare abbastanza umani per accorgersi che la differenza è tra i violenti e gli altri, non tra musulmani contro tutti.

E ho la pelle d’oca ogni volta che mi accorgo quanto sia subito pronta a scattare l’animalità più becera degli sciacalli che comunque, nonostante tutto, già oggi ci hanno guadagnato dai morti di Parigi.

Grazie, banda di imbecilli.

Dipingi un Maometto glorioso, e muori.

Disegna un Maometto divertente, e muori.

Scarabocchia un Maometto ignobile, e muori.

Gira un film di merda su Maometto, e muori.

Resisti al terrorismo religioso, e muori.

Lecca il culo agli integralisti, e muori.

Prendi un oscurantista per un coglione, e muori.

Cerca di discutere con un oscurantista, e muori. Non c’è niente da negoziare con i fascisti.

La libertà di ridere senza alcun ritegno la legge ce la dà già, la violenza sistematica degli estremisti ce la rinnova.

Grazie, banda di imbecilli.

(Charb, direttore di “Charlie Hebdo”, 15 ottobre 2012)

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Tsipras: ascoltare per capire

(Sempre a proposito di quello che si diceva qui)

Sull’edizione greca dell’Huffington Post ieri è stato pubblicato un intervento di Alexis Tsipras, il primo che potrebbe anche essere l’inaugurazione di una più lunga collaborazione, intitolato “Sull’orlo di un cambiamento di portata storica”.

Il leader di Syriza parla del suo movimento e del suo rapporto con l’Europa e con l’euro. In particolare, il cambiamento di cui parla nel titolo è quello che la Grecia affronterà, in positivo, dopo le elezioni del prossimo 25 gennaio, ed è un cambiamento che deve riguardare tutta l’Europa, infatti scrive:

“Il 25 gennaio il popolo greco verrà chiamato a cambiare la storia col proprio voto, a disegnare uno spazio di cambiamento e di speranza per tutti i popoli d’Europa, condannando i fallimentari memoranda dell’austerity, e dimostrando che quando la gente lo vuole, quando osa, e quando vince la propria paura, le cose possono cambiare”

Tsipras spiega che Syriza “non è l’orco, né la grande minaccia per l’Europa”, ma è la “voce della ragione” e una “sveglia” che tara svegliare l’Europa dal letargo e dal sonnambulismo. Non è dunque un pericolo, ma uno stimolo al cambiamento.

Poi ammette che c’è una minoranza che non la percepisce come tale, in particolare la leadership conservatrice del governo tedesco e una parte della stampa che “insiste nel riciclare vecchie storielle e leggende sul Grexit”. Poi si scaglia contro il premier attuale Antōnīs Samaras che, dice, “non offre alcun programma”, ma solo la prosecuzione dell’austerity e continuerà a tagliare gli dipendi e le pensioni mentre dall’altra parte aumenterà le tasse perché

“sta occultando il fatto che la Grecia, in quanto membro dell’Eurozona, si è impegnata nel raggiungimento di alcuni obiettivi, e non piuttosto nella valutazione degli strumenti politici necessari al loro raggiungimento”

Siryza, invece, applicherà il Programma di Salonicco, indipendentemente dal negoziato con i suoi finanziatori, e adotterà una serie di azioni mirate per contenere la crisi umanitaria, con la giustizia fiscale e un piano di rilancio dell’economia. Inoltre, Tsipras punta ad attuare riforme radicali del modus operandi dello Stato nel settore pubblico per “cambiare tutto ciò che ha spinto il Paese sull’orlo di una bancarotta economica, ma anche morale”.

Poi Tsipras passa a parlare dell’euro e dice che Syriza non ne vuole il crollo, ma il salvataggio, ma sarà impossibile salvarlo finché il debito pubblico dei suoi Stati Membri sarà fuori controllo. Spiega che il problema del debito pubblico non è solo greco, ma europeo e dunque è l’Europa nel suo insieme che è in debito e che deve cercare una soluzione sostenibile. Poi chiarisce:

“Syriza e la Sinistra Europea sostengono che nella cornice di un accordo europeo, la stragrande maggioranza del valore nominale del debito pubblico debba essere cancellata, bisognerà imporre una moratoria sulla sua restituzione, e bisognerà introdurre una clausola per la crescita che si occupi della parte rimanente del debito, così da poter impiegare le rimanenti risorse per la crescita”

Tsipras sostiene che davanti al futuro dell’Europa ci sono due strategie completamente diverse:

– quella del ministro dell’Economia tedesco Schäuble, secondo il quale, “indipendentemente dal fatto che leggi e i principi concordati funzionino, dovremmo continuare ad applicarli”
– quella del “costi quel che costi” per salvare l’euro (espressione usata nel 2012 da Mario Draghi, Presidente della BCE)

e queste due strategie si scontreranno proprio in occasione delle elezioni greche del 25 gennaio. Tsipras è convinto che la seconda prevarrà perché, scrive,

“la Grecia è il paese di Sofocle, che con l’Antigone ci ha insegnato che esistono momenti in cui la legge suprema è la giustizia

(fonte)

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(La vignetta è di Mauro Biani, of course)

La ‘ndrangheta a Milano: ecco chi comanda

Ama i casinò e i bei vestiti. Nasce a San Luca nel cuore dell’Aspromonte, ma è a Milano che tesse business e rapporti. Dalla Calabria però si porta in dote una relazione privilegiata con la cosca di Sebastiano Romeo detto u Staccu. In curriculum mette anche qualche anno di università. Da qui il soprannome di DutturicchiuGiuseppe Calabrò, classe ’50, è uno dei dieci uomini d’oro che sovraintendono gli affari nel capoluogo lombardo. Tutti hanno contatti e sanno come muoversi. Sulle spalle portano decenni di carcere. Oggi, però, sono uomini liberi, nonostante molti dei lori nomi compaiano nelle carte delle ultime inchieste dell’antimafia. Vivono da fantasmi e sfuggono agli arresti. Stanno lontani dai reati e utilizzano poco il telefono. S’incontrano per strada o negli uffici. I salotti buoni li accolgono a braccia aperte. La politica li invita a cena. Nei quartieri della mala il loro nome è sinonimo di rispetto. Mafiosi di rango, certificati dalle sentenze dei giudici e da recentissime informative della polizia giudiziaria. Siciliani, ma soprattutto calabresi perché come spiega il 59enne broker della coca Marcello Sgroi “A Milano comanda la ’ndrangheta”.

Kalashnikov e Uzi – Ore 15 del 25 maggio 2012 via Oldrado de Tresseno zona viale Monza. U Dutturicchiu attende in strada. Suona il cellulare. La telefonata dura nove secondi. Giusto il tempo perché l’interlocutore confermi l’appuntamento. Non è la prima volta, è già successo e sempre in questa strada privata non lontana dalla stazione Centrale, dove il cellulare di Calabrò viene agganciato diverse volte dagli investigatori. Chi chiama è Giulio Martino, uomo del clan Libri, gregario di lusso dell’ergastolano Mimmo Branca. I due discutono di armi e di droga da trafficare dal Sudamerica direttamente nel porto di Gioia Tauro. Calabrò ha una partita di Kalashnikov e Uzi. Li tiene ad Arma di Taggia e vuole portarli a Milano. Martino interessa il suo factotum Eddy Colangelo, ex trafficante oggi collaboratore di giustizia. È lui che fa il nome di Calabrò. Lui che con le sue confessioni svela i traffici del clan Martino coinvolto nell’operazione Rinnovamento del 16 dicembre scorso. Racconta Colangelo: “Giulio Martino mi dice che c’era da fare un favore al vecchio. Con tale soprannome noi ci riferivamo a Beppe Calabrò”. Spiega: “Io lo avevo conosciuto nel 1999 a San Vittore, me lo avevano presentato i fratelli Martino (…). In carcere si sentiva parlare di lui come di una persona importante. Lo rividi molti anni dopo nel 2011, in compagnia di Giulio Martino”. Uomini liberi si diceva. Tale è oggi Calabrò, il quale non risulta indagato nell’ultima inchiesta della Dda milanese. Prosegue Colangelo: “Giulio Martino mi parlava di costui come di una persona che era uno molto importante in Calabria”. Chi è realmente u Dutturicchiu lo mettono nero su bianco i carabinieri per i quali le parole di Colangelo “confermano lo spessore criminale di Giuseppe Calabrò (…) personaggio di spicco della ‘ndrangheta”. Il suo nome è collegato anche al malavitoso serbo Dragomir Petrovic detto Draga. Il serbo, intercettato dalla Guardia di Finanza nell’ottobre 2013, discute di un traffico di droga assieme a Roberto Mendolicchio, fratello di Luigi già luogotenente di Mimmo Branca e attuale ras della zona di piazza Prealpi. Per il carico i due fanno riferimento allo stesso Calabrò, il quale, ancora una volta, non risulta coinvolto penalmente nella vicenda.

Contatti e relazioni. Così se nel 2012 Calabrò incontra gli uomini di Mimmo Branca, il suo nome compare già in alcune informative del 1990. Si tratta dell’indagine Fior di Loto dove viene descritto “come personaggio dotato di una forte potenzialità criminale” in contatto con Santo Pasquale Morabito, altro boss alla milanese, originario di Africo e legato al padrino ergastolano Giuseppe Morabito alias u Tiradrittu. Dopo quasi 30 anni di galera, oggi Santo Pasquale è tornato in libertà. La sua scarcerazione risale al febbraio scorso. Attualmente abita in una zona residenziale della città e non risulta indagato in nessuna inchiesta. A metà degli anni Novanta ecco cosa scrive di lui la Criminalpol: “Santo Pasquale Morabito, per il suo modo di essere, di atteggiarsi e per i riguardi che gli sono riservati dai suoi interlocutori ha indubbiamente raggiunto una posizione di alto rango. E ciò anche in relazione alla sua capacità di penetrazione nel tessuto socioeconomico, con l’acquisizione di attività imprenditoriali, e negli organi istituzionali e rappresentativi”. Da quell’indagine emergono, netti, i legami con Calabrò. Più volte i due, intercettati, discutono di armi e di droga. Addirittura, ricostruiranno gli investigatori, progettano un agguato all’allora capo della polizia Arturo Parisi

Durante quei colloqui negli uffici della Loto Immobiliare, impresa mafiosa a due passi dal Tribunale, c’è Pietro Mollica, anche lui di Africo, cugino di Santo Pasquale Morabito. Mollica oggi è un cittadino libero. E nonostante questo mantiene stretti rapporti con la malavita. Tanto che nel marzo 2012, la Guardia di Finanza filma un incontro di altissimo livello ai tavolini del bar il Borgo di via San Bernardo 33 a Milano. Oltre al cugino di Morabito, i militari fotografano Mario Trovato, fratello dell’ergastolano Franco Coco Trovato. Oggi Santo Pasquale Morabito conduce una vita riservata, periodicamente si reca al commissariato per la firma di rito, s’incontra con i vecchi amici. Tra questi il cugino Pietro Mollica. Basso profilo, dunque, e la solita grande passione per gli orologi di lusso. E se Santo Pasquale Morabito è tornato in libertà, un altro uomo del clan è in fuga dal 1994. Rocco Morabito, detto u Tamunga, è inserito nella lista dei dieci latitanti più pericolosi. Ricercato per mafia, è considerato un broker della droga di altissimo spessore. Ultima residenza nota: via Bordighera 18 a Milano. Da sempre u Tamunga è considerato l’alter ego di Domenico Antonio Mollicatrafficante legato ai servizi segreti militari. In città, dunque, gli uomini della cosca Morabito tornano in pista. Il clan, infatti, non è stato coinvolto nelle recenti inchieste dell’antimafia. L’ultima indagine risale al 2006. Si tratta dell’operazione For a King che ha fotografato l’infiltrazione della ’ndrangheta di Africo all’interno dell’Ortomercato di Milano e i rapporti con l’attuale consigliere regionale del Nuovo centrodestra Alessandro Colucci (mai indagato).

Occhio al passato – E così per capire il presente bisogna conoscere il passato. Dal passato arriva Giuseppe Ferraro alias il professore. Classe ’47 da Africo Nuovo, il professore oggi gestisce una lavanderia in via Amadeo. Nel 1984 la squadra Mobile scrive come fosse “legato al fratello Santo Salvatore e ad altri pregiudicati calabresi in relazione a traffici illeciti, in particolare commercio di stupefacenti ed estorsioni”. Recentemente il suo nome, mai iscritto nel registro degli indagati, è emerso nell’inchiesta dei carabinieri che ha portato in carcere l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. In particolare Ferraro viene allertato da Pino d’Agostino, altra eminenza grigia della cosca in riva al Naviglio, per procurare voti certi al candidato di riferimento. La contabilità degli affari malavitosi passa anche e soprattutto per le zone a sud di Milano. Qui l’alto commissariato del crimine è rappresentato dagli uomini e dalle donne della cosca Barbaro-Papalia, il cui organico è tornato a ingrossarsi dopo che la maxi-inchiesta Parco sud è recentemente naufragata in Cassazione scagionando dall’accusa di mafia diversi personaggi. Su tutti: Salvatore BarbaroDomenico Papalia, figlio del boss ergastolano Antonio Papalia. Giovani leve sulle quali si accendono di nuovo i riflettori. E nonostante questo, attualmente equilibri, decisioni, affari sono in mano a due vecchi luogotenenti del clan. Il primo è Domenico Trimboli, detto Micu u Murruni, classe ’59 e una nobile parentela con il vecchio cda della ’ndrangheta al nord rappresentato dalla famiglia Papalia.

Il ruolo di primo piano di Trimboli emerge netto dall’indagine Rinnovamento, quando il reggente della cosca viene contattato dagli uomini del clan Libri, i quali chiedono un incontro. Il 16 luglio 2013 l’appuntamento è fissato ai tavolini del bar Clayton di via Volta a Corsico. A Trimboli, che non risulta indagato, viene chiesto di appoggiare l’azione di protezione nei confronti di un imprenditore milanese minacciato da un gruppo di siciliani. Trimboli, definito “personaggio di spicco della criminalità organizzata calabrese”, viene scarcerato nel 2009 e subito decide di tornare nella sua residenza di via Milano a Corsico. Nell’appartamento spesso alloggia Antonio Papalia, classe ’75, trafficante di droga, il quale, negli anni Novanta, aveva progettato di uccidere l’attuale procuratore aggiunto Alberto Nobili. Dopo Murruni, nel 2012 torna in libertà un altro pezzo da novanta. Si tratta di Rocco Barbaro, classe ’65, detto u Sparitu. Come il primo anche lui sceglie una residenza milanese in via Lecco a Buccinasco. Attualmente non risulta indagato. Le intercettazioni dell’indagine Platino ne tracciano la figura. Parla Agostino Catanzariti, reggente arrestato nel gennaio 2014 e recentemente condannato a 14anni. Dice: “Lui è capo di tutti i capi (…) di quelli che fanno parte di queste parti”. Per i carabinieri il senso è chiaro: Rocco Barbaro è l’attuale referente di tutta la ’ndrangheta lombarda. E lo è “per regola”, visto che è figlio di Francesco Barbaro detto Ciccio u Castanu, classe 1927, “una delle figure più importanti di tutte le ‘ndrine platiote”.

Arriva anche Cosa nostra – Milano capitale di ’ndrangheta, ma non solo. Attualmente, infatti, diversi esponenti di Cosa nostra sono tornati in libertà o stanno per essere scarcerati. Si tratta di nomi storici da sempre in affari con le ’ndrine. Tra questi Antonino e Carlo Zacco, padre e figlio. Il primo soprannominato Nino il bello, negli anni Novanta viene coinvolto nell’inchiesta Duomo connection mentre in Sicilia lavora nella grande raffineria di Alcamo. Da sempre è in contatto con la ’ndrangheta a sud di Milano. Suo figlio Carlo, non indagato, viene citato nell’ultima indagine sui fratelli Martino. In particolare viene coinvolto dal clan nella vicenda della protezione da dare a un imprenditore sotto scacco da un gruppo di catanesi. All’incontro Carlo Zacco, scrivono i carabinieri, si presenterà armato. In attesa di concludere una carcerazione trentennale è invece Antonino Guzzardi, broker della droga legato ai corleonesi Ciulla, in rapporto con i cartelli colombiani e in passato vicino a Pablo Escobar.

Giocano forte gli uomini d’oro del crimine alla milanese. Incrociano inchieste, ben attenti a non inciampare in reati penali. Liberi si muovono da fantasmi. Nella Milano dell’Expo e dei quartieri popolari: dal Corvetto a Quarto Oggiaro, fortino dello spaccio svuotato dalle inchieste e oggi controllato da personaggi storici come Luigi Giametta e Francesco Giordano detto don Nicola. Ultimi sopravvissuti dopo la mattanza dell’inverno 2013, quando Antonino Benfante ha sterminato il clan Tatone. Benfante lo chiamano Nino Palermo. Testa criminale e una sola strategia: “Bacia le mani a chi le merita tagliate”. Benvenuti in città.

da Il Fatto Quotidiano del 5 gennaio 2015

Le bugie su Tsipras e la grecia: i codardi seminano la paura

502090aaa141eeb6a7e9c96c891c3303bc976b1b8693e8f9024dc375Tanto per rimettere le cose a posto vale la pena riprendere tre articoli che (a differenza dei molti giornalai in giro) raccontano bene cosa succede (cosa potrebbe succedere, cosa succederà) in Grecia:

GIÚ LE MANI DAL VOTO GRECO
di Tommaso di Francesco


Sor­prende e allarma, in una parola pre­oc­cupa, il dispo­si­tivo di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico di massa che i governi euro­pei e i rap­pre­sen­tanti della stessa Com­mis­sione euro­pea hanno messo in campo. 

Quello che accade in que­sti giorni e in que­ste ore in Gre­cia ci riguarda diret­ta­mente, la crisi infatti non è greca ma dell’intero sistema finan­zia­rio del capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato. Sono sette anni che il mondo occi­den­tale è in aperta reces­sione e le sole timide uscite segna­late sono quelle di paesi che hanno la capa­cità di sca­ri­care su quelli più deboli con­trad­di­zioni e costi, come fanno la Ger­ma­nia con i neo­sa­tel­liti dell’est e gli Stati uniti con l’intera eco­no­mia euro­pea. Il fatto che la sini­stra rap­pre­sen­tata da Syriza sia riu­scita a sven­tare a fine anno la mano­vra del pre­mier Sama­ras di eleg­gere un “suo” pre­si­dente della repub­blica per negare e riman­dare la veri­fica elet­to­rale è un avve­ni­mento di por­tata continentale.

Tutta l’Europa in que­sto momento guarda ad Atene e, certo, non tutti con la stessa aspet­ta­tiva. I mer­cati, vale a dire la finanza inter­na­zio­nale occi­den­tale, teme che la rine­go­zia­zione dei ter­mini del debito greco metta in discus­sione i cri­teri con cui l’Unione euro­pea ha sal­va­guar­dato le ban­che invece degli inve­sti­menti per il lavoro, l’occupazione, le spese sociali; l’establishment dell’Ue ha paura che l’arrivo sulla scena del governo greco di una forza alter­na­tiva di sini­stra fac­cia sal­tare l’impianto dei dik­tat che hanno por­tato alla crisi uma­ni­ta­ria non solo la Gre­cia. Ad Atene invece si apre uno spi­ra­glio di luce, una grande pos­si­bi­lità. Noi che in Ita­lia lavo­riamo a rico­struire una sini­stra alter­na­tiva ita­liana, men­tre siamo alle prese con la scom­parsa della sini­stra e con le scelte neo­li­be­ri­ste di un governo come quello del lea­der Pd Mat­teo Renzi all’attacco dei diritti dei lavo­ra­tori e del wel­fare, vediamo l’occasione straor­di­na­ria di una svolta pos­si­bile anche in Ita­lia e in tutta Europa. È un’opportunità euro­pei­sta, per­ché l’Unione euro­pea invece che nemica, com’è stata finora, diventi il con­ti­nente dei diritti e della democrazia.

Sor­prende e allarma, in una parola pre­oc­cupa, il dispo­si­tivo — fin qui — di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico di massa che i governi euro­pei e i rap­pre­sen­tanti della stessa Com­mis­sione euro­pea hanno messo in campo. Dal pre­si­dente Junc­ker con le sue dichia­ra­zioni con­tro Syriza, al governo di ferro di Ber­lino, a quello di destra di Madrid alle prese con ele­zioni pro­prio nel 2015 e con la nuova for­ma­zione di sini­stra Pode­mos; con l’eccezione del pre­si­dente fran­cese Hol­lande che almeno invita Mer­kel e i governi Ue a rico­no­scere che alla fine «il popolo è sovrano». Que­sto attacco sub­dolo e scel­le­rato è con­tro il popolo greco che vuole deci­dere il pro­prio destino. Dopo tante chiac­chiere sulla demo­cra­zia, sco­priamo dun­que che i lea­der e i governi euro­pei la temono anzi­ché difen­derla e vor­reb­bero impe­dire che chi ha subìto i costi della crisi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio possa votare con­tro la vio­lenza isti­tu­zio­nale che i tagli rifor­mi­sti hanno rap­pre­sen­tato per la con­di­zione di vita di milioni e milioni di cit­ta­dini e lavo­ra­tori con l’aumento della mise­ria e delle dise­gua­glianze. Così si strappa un velo: il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato non ama la demo­cra­zia reale ma solo quella rituale e svuo­tata di senso — vista l’equivalenza dei par­titi — che allrga il bara­tro tra gover­nanti e gover­nati, ali­menta qua­lun­qui­smo e anti­po­li­tica, men­tre crol­lano le per­cen­tuali di voto e vince ovun­que l’astensionismo di massa e il con­flitto di tutti con­tro tutti. Fino a favo­rire una nuova destra estrema xeno­foba, raz­zi­sta, iper­na­zio­na­li­sta che difende nella crisi i più forti e usa i deboli con­tro i più deboli.

Allora, giù le mani dalle ele­zioni gre­che. Solo la demo­cra­zia reale sal­verà la Gre­cia e l’Europa dal disa­stro. Una demo­cra­zia reale che chiami il 25 gen­naio non ad un voto qual­siasi ma ad un impe­gno di pro­ta­go­ni­smo milioni di gio­vani, di donne, di lavo­ra­tori e disoc­cu­pati. Per­ché sosten­gano l’alternativa che Syriza e il suo pro­gramma già rap­pre­sen­tano, per­ché cre­sca la sua forza e si allar­ghi il suo soste­gno — nes­suno a sini­stra può restare solo a guar­dare. E per­ché il forte con­senso che avrà, e che noi auspi­chiamo, sia il primo passo per coin­vol­gere il popolo e i lavo­ra­tori nel governo della Gre­cia e nella svolta in Europa

L’EURO NON GREXIT
di Anna Maria Merlo

Europa. La Germania fa tremare i mercati. Ma Hollande frena Merkel: «Sarà la Grecia a decidere cosa fare». La Linke e i Verdi denunciano le «pressioni inappropriate» di Berlino sulle elezioni elleniche 

Con la gra­zia di un ele­fante in un nego­zio di cri­stal­le­ria, la Ger­ma­nia, minac­ciando Atene di Gre­xit – uscita dall’euro — in caso di vit­to­ria di Syriza alle legi­sla­tive anti­ci­pate del 25 gen­naio, ha squar­ciato un velo che rischia di avere un effetto boo­me­rang in tutta Europa: la demo­cra­zia sarebbe diven­tata sol­tanto un’operazione for­male nella Ue, ingab­biata dal rispetto del Fiscal Com­pact e delle regole di auste­rità? I cit­ta­dini non avreb­bero quindi più nes­suna libertà di scelta, dando cosi’ ragione a tutti gli euro­scet­tici (di estrema destra) che hanno ormai il vento in poppa nella mag­gior parte dei paesi dell’eurozona? Secondo Der Spie­gel, per Angela Mer­kel e il mini­stro delle finanze Wol­fgang Schäu­ble non c’è «nes­suna alter­na­tiva» all’applicazione del Memo­ran­dum, men­tre il Gre­xit sarebbe addi­rit­tura «quasi ine­vi­ta­bile» se Syriza al potere rifiu­terà di con­ti­nuare ad imporre le riforme impo­po­lari – e inef­fi­caci — che hanno ridotto gran parte dei cit­ta­dini greci alla povertà. Se Syriza chie­derà una mora­to­ria sul rim­borso del debito, la Gre­cia potrebbe venire costretta ad abban­do­nare la moneta unica, dice la Ger­ma­nia domi­nante. E que­sto non avrà con­se­guenze per la zona euro secondo Ber­lino, non ci sarà l’effetto domino, visto che a dif­fe­renza del 2011 e del 2012 ormai l’euro è pro­tetto dal para­ful­mine del Mes (il Mec­ca­ni­smo euro­peo di sta­bi­lità, dotato di 500 miliardi) e le sue ban­che sono a riparo della recente riforma del settore.

I grossi zoc­coli con cui Mer­kel e Schäu­ble sono entrati in cam­pa­gna elet­to­rale ad Atene non hanno nes­sun riscon­tro nei Trat­tati. La can­cel­le­ria ha smen­tito mol­le­mente le rive­la­zioni di Der Spie­gel. In effetti, l’obiettivo era solo di fare paura, di spa­ven­tare l’elettore greco: o sce­glie Sama­ras e l’euro, oppure Tsi­pras e il caos. Già Jean-Claude Junc­ker ci aveva pro­vato, il 12 dicem­bre scorso, spe­rando di influire sul voto par­la­men­tare per il pre­si­dente della repub­blica: in un’intervista alla tv austriaca, il pre­si­dente della Com­mis­sione aveva affer­mato di pre­fe­rire dei «volti fami­liari« (cioè Sta­vros Dimas) per­ché «non mi pia­ce­rebbe che delle forze estre­mi­ste pren­des­sero il potere». Il risul­tato di que­sto inter­vento è stato la non ele­zione del pre­si­dente e la con­se­guente con­vo­ca­zione di ele­zioni anti­ci­pate. Con un comu­ni­cato, è inter­ve­nuto nel fine set­ti­mana anche il com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici e mone­tari, Pierre Mosco­vici, invi­tando i greci a dare «un ampio soste­gno» al «neces­sa­rio pro­cesso di riforme» in corso (cioè votare per Nuova Demo­cra­zia e Pasok). Ma Ber­lino (e Mosco­vici) hanno esa­ge­rato. Ieri una por­ta­voce della Com­mis­sione, Annika Breid­thardt, ha cer­cato di spe­gnere l’incendio affer­mando che l’appartenenza all’euro è «irre­vo­ca­bile», stando ai Trat­tati. Il Trat­tato di Lisbona pre­vede la pos­si­bi­lità di un’uscita dalla Ue, su deci­sione del paese inte­res­sato (e non su impo­si­zione di altri), ma for­mal­mente un paese non Ue potrebbe con­ti­nuare ad uti­liz­zare l’euro (suc­cede con Kosovo e Mon­te­ne­gro, che usano l’euro senza essere nella Ue). Fra­nçois Hol­lande ha preso ieri mat­tina le distanze da Angela Mer­kel: «I greci sono liberi di deci­dere sovra­na­mente sul loro governo – ha affer­mato il pre­si­dente fran­cese in un’intervista a France Inter – e per quanto riguarda l’appartenenza della Gre­cia alla zona euro, tocca ad essa deci­dere». Però il governo, qua­lun­que esso sia, deve «rispet­tare gli impe­gni presi».

In Ger­ma­nia c’è imba­razzo per le rive­la­zioni dello Spie­gel. Solo gli euro­scet­tici dell’Afd hanno appro­vato l’intervento musco­lare di Ber­lino. Die Linke e i Verdi hanno denun­ciato le pres­sioni inap­pro­priate sugli elet­tori greci, il vice-cancelliere Spd, Sig­mar Gabriel, ha cer­cato di cor­reg­gere il tiro, indi­cando che «l’obiettivo del governo tede­sco, della Ue e anche del governo di Atene è di man­te­nere la Gre­cia nella zona euro». Dall’Europarlamento il gruppo S&D avverte: «La destra tede­sca deve smet­tere di com­por­tarsi come uno sce­riffo in Gre­cia» per­ché «non è solo inac­cet­ta­bile ma anche sba­gliato: atteg­gia­menti del genere pos­sono solo pro­durre rab­bia e rifiuto della Ue», con il rischio di «ero­sione demo­cra­tica» nella Ue.

Syriza vuole rine­go­ziare con la tro­jka i ter­mini del rim­borso del colos­sale debito (177 per cento del Pil). E ha ragione, per­sino stando alle prese di posi­zione di Bru­xel­les. L’Eurogruppo, nel novem­bre 2012, si era impe­gnato con Atene a rive­dere i ter­mini del rim­borso quando la Gre­cia avesse rag­giunto l’equilibrio di bilan­cio pri­ma­rio (esclusi cioè gli inte­ressi sul debito): Atene, al prezzo del rigore asso­luto, lo ha fatto già da fine 2013. Ma Mer­kel non vuole soprat­tutto che ven­gano ridi­scussi i ter­mini del Memo­ran­dum: Syriza pro­pone riforme diverse, con­cen­trate sul fun­zio­na­mento dello Stato, men­tre la troika insi­ste sui tagli ai salari e al numero di dipen­denti pub­blici. In Ger­ma­nia, anche la Cdu ha espresso pre­oc­cu­pa­zione per la mani­fe­sta­zione di arro­ganza tede­sca: in caso di default greco, a pagare sarebbe prima di tutto la banca pub­blica tede­sca Kfw, che ha in cassa una parte con­si­stente dei 260 miliardi di debito greco, assieme ai prin­ci­pali stati mem­bri della zona euro e alla Bce. La Ger­ma­nia si arroga un potere che non ha: solo la Bce, in linea di prin­ci­pio, potrebbe cau­sare il Gre­xit, tagliando i cre­diti alle ban­che gre­che. Ma così Dra­ghi met­te­rebbe fine alla difesa dell’euro «a qua­lun­que costo», aprendo il vaso di Pan­dora di un pos­si­bile effetto domino. A cui nep­pure la Ger­ma­nia potrebbe resi­stere: Ber­lino pensa di soprav­vi­vere senza la Gre­cia, ma l’economia tede­sca non ce la farebbe nel caso di uscita dall’euro dell’Italia e della Francia

SPERANZA CONTRO PAURA
di Pavlos Nerantzis

La spe­ranza per un avve­nire migliore in Gre­cia e nel resto dell’Europa, ma anche la volontà poli­tica di appli­care il pro­gramma eco­no­mico a favore degli strati sociali mag­gior­mente col­piti dalla crisi. È la rispo­sta di Syriza alla stra­te­gia della paura pro­mossa dai con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia e i loro soste­ni­tori, ter­ro­riz­zati dai son­daggi che con­ti­nuano a dare in testa la sini­stra radi­cale greca, tre set­ti­mane prima delle ele­zioni del 25 gennaio.

Syriza, secondo gli ultimi due son­daggi, si con­ferma in testa tra il 30,4 e il 29,4 per cento, con­tro il 22 per cento e il 27,3 di Nea Dimo­kra­tia del pre­mier Anto­nis Sama­ras. Al terzo posto si tro­vano i nazi­sti di Alba Dorata con il 5,7 per cento, secondo uno dei due son­daggi, men­tre secondo l’altro la terza forza sarebbe il Par­tito comu­ni­sta di Gre­cia (Kke) con il 4,8 per cento. I socia­li­sti del Pasok, invece, che hanno soste­nuto il governo di Sama­ras, rischiano di non essere eletti al par­la­mento (3–3,5 per cento). Alla domanda su chi sarebbe il miglior pre­mier al momento per il Paese, il 41 per cento si schiera a favore di Sama­ras con­tro il 33,4 per cento che pre­fe­ri­sce Tsi­pras. Il 74,2 per cento poi ha rispo­sto che la Gre­cia deve a ogni costo rima­nere nella zona euro.

La pro­spet­tiva della vit­to­ria di Syriza non piace, però, ai mer­cati come anche a una parte della stampa inter­na­zio­nale, che insi­ste sull’ even­tua­lità di un Gre­xit, nono­stante Ale­xis Tsi­pras non smetta di sot­to­li­neare che il suo par­tito non ha la minima inten­zione di uscire dalla zona euro. A que­sti timori è stato attri­buito il calo del 5,6 per cento, ieri, della Borsa di Atene e pure la ten­sione regi­strata sullo spread elle­nico, che è bal­zato a 876 punti, 21 in più rispetto al dato di partenza.

Pure la Grande coa­li­zione a Ber­lino, a leg­gere il set­ti­ma­nale Der Spie­gel, si pre­para a una uscita di Atene dall’euro, tenendo conto che «que­sto fatto non avrebbe riper­cus­sioni gravi al resto dell’ Ue». Ma Ber­lino per il momento smen­ti­sce. Ieri il por­ta­vove di Angela Mer­kel ha detto che il governo tede­sco non ha cam­biato posi­zione. Anzi, ha aggiunto, la can­cel­liera tede­sca «insieme ai suoi part­ner lavo­rano per raf­for­zare la zona euro nel suo insieme e per tutti i suoi mem­bri, Gre­cia inclusa».

L’ipotesi di un Gre­xit è stata respinta anche da Parigi e da Bru­xel­les che, oltre a far ricor­dare ad Atene che ci sono impe­gni che «vanno ovvia­mente rispet­tati», riba­di­scono che in base ai trat­tati dell’Ue non è pos­si­bile l’uscita di un paese mem­bro dalla zona euro. In altri ter­mini, come ha pre­ci­sato un por­ta­voce della Com­mis­sione euro­pea, la par­te­ci­pa­zione all’euro è irre­ver­si­bile, secondo l’articolo 140, para­grafo 3 del Trat­tato Ue. Quindi per un Gre­xit sarebbe prima neces­sa­ria una modi­fica del trat­tato, «la cui pro­ce­dura pre­vede l’ una­ni­mità dei paesi mem­bri, l’approvazione del par­la­mento euro­peo e ovvia­mente da parte dei par­la­menti nazionali».

Per il momento quindi i part­ner euro­pei, alleati di Anto­nis Sama­ras, fanno una mano­vra: sem­brano abban­do­nare la stra­te­gia della paura e le inter­fe­renze, come era suc­cesso durante le ele­zioni pre­si­den­ziali, lasciando Atene libera di deci­dere il pro­prio destino. Almeno appa­ren­te­mente, per­ché die­tro le quinte lavo­rano per affron­tare la que­stione prin­ci­pale, che il nuovo governo greco se sarà gui­dato da Ale­xis Tsi­pras met­terà sul tavolo dei col­lo­qui: il taglio del debito pub­blico greco. Una richie­sta che, nel caso venisse accet­tata da Ber­lino e ovvia­mente da Bru­xel­les — per­ché di fatto que­sti pre­stiti ad Atene non saranno mai rim­bor­sati per intero — rischie­rebbe un con­ta­gio poli­tico a Roma e a Madrid. Allora lo scon­tro tra un governo delle sini­stre e la can­cel­liera tede­sca sarebbe ine­vi­ta­bile e solo a quel punto si potrebbe par­lare del rischio di un Gre­xit pro­vo­cato da Berlino.

Intanto l’arresto ad Atene di Chri­sto­dou­los Xiros, espo­nente dell’organizzazione “17 Novem­bre”, con­dan­nato a sei erga­stoli e ulte­riori 25 anni di pri­gione ed evaso un anno fa dal car­cere di Kry­dal­los, è diven­tato un altro motivo di scon­tro tra Nea Dimo­kra­tia e Syriza. Il pre­mier Sama­ras, che pure nel pas­sato aveva accu­sato Tsi­pras di «andare a brac­cet­to­con i ter­ro­ri­sti» e di «rap­porti tra Syriza e orga­niz­za­zioni ter­ro­ri­sti­che», ieri ha accu­sato la sini­stra radi­cale di non aver emesso un comu­ni­cato stampa a favore degli agenti che hanno arre­stato il ricer­cato numero uno in Gre­cia. Xiros stava pre­pa­rando un attacco con­tro le car­ceri di Kory­dal­los per far eva­dere i dete­nuti dell’organizzazione “Cospi­ra­zione dei nuclei di fuoco”

(da Il Manifesto)

Quel verminaio a Barcellona Pozzo di Gotto (2)

cattafirosariopioC’è un personaggio potente e misterioso, forse un uomo delle istituzioni, che avrebbe guidato una loggia massonica occulta capace di condizionare le trame della politica e dei grandi affari, senza essere mai stato sfiorato dalle indagini, nel cuore di Barcellona Pozzo di Gotto. Il suo nome è contenuto in due verbali depositati agli atti del processo d’appello denominato ”Gotha tre”, che ha tra i suoi imputati l’avvocato Rosario Pio Cattafi, condannato a 12 anni in primo grado per associazione mafiosa, e che riprende oggi pomeriggio a Messina. In quei verbali, il neo-pentito Carmelo D’Amico, 43 anni, ex irriducibile delle cosche barcellonesi, racconta: ”Sam Di Salvo (boss condannato per associazione mafiosa, come uno dei capi del clan barcellonese, ndr) mi disse che Cattafiapparteneva, insieme a… omissis.., ad una loggia massonica occulta, di grandi dimensioni, che abbracciava le regioni della Sicilia e della Calabria. Sempre Di Salvo mi disse che Saro Cattafi insieme al… omissis….. erano fra i massimi responsabili di quella loggia massonica occulta”.

Chi è questo Mister x  potente e misterioso, il cui nome al momento è omissato, che a fianco a Cattafi, considerato l’uomo cerniera tra mafia e servizi, avrebbe gestito affari e potere sotto l’ombrello della massoneria? La risposta sta nelle nuove rivelazioni di D’Amico che ai pm della Dda Messina Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio ha fatto, fra gli altri, anche un altro nome pesante: quello di Giuseppe Gullotti, boss e mandante dell’uccisione del giornalista Beppe Alfano, nonché consegnatario (secondo il pentito Giovanni Brusca) del telecomando che nel ’92 servì ai corleonesi per commettere la strage di Capaci. ”Sam Di Salvo mi disse – racconta ancora D’Amico – che il ….omissis….che apparteneva a questa loggia massonica, era un amico di Gullotti ma non in senso mafioso. Era cioè un conoscente di Gullotti ma non un soggetto organico della famiglia barcellonese; ciò a differenza di Cattafi. Aggiungo che ….omissis… era un amico di Marchetta”.
A Barcellona, Maurizio Marchetta è un personaggio conosciutissimo. Architetto e titolare di un’impresa di costruzioni, dall’inizio del Duemila ha ricoperto la carica di vicepresidente del Consiglio comunale, quota An, sotto l’ala protettiva di Maurizio Gasparri. Nel 2003 fu coinvolto nell’indagine denominata “Omega”, per concorso in mafia, inchiesta poi archiviata dalla procura di Barcellona. Nel 2009 si trasformò in un ”dichiarante”, provocando l’apertura dell’indagine ”Sistema” e facendo rivelazioni sulla presunta loggia massonica ”Ausonia” che, secondo le sue accuse, sarebbe stata coinvolta in un sistema di controllo di tutti gli affari pubblici. Marchetta denunciò anche di essere vittima di estorsioni commesse, tra l’altro, dagli uomini d’onore Carmelo Bisognano e dallo stesso Carmelo D’Amico, entrambi oggi pentiti. Le accuse di estorsione nei confronti dei mafiosi, confluirono in un processo denominato ”Sistema”, concluso in primo grado con le condanne degli imputati,  poi assolti dalla Corte d’Appello di Messina in seguito alla collaborazione di Bisognano. Quest’ultimo dichiarò che Marchetta era associato al clan e che mai era stato vittima di estorsioni.

Ora la procura di Messina è al lavoro per contestualizzare le dichiarazioni di D’Amico e fare i dovuti accertamenti sull’intreccio di personaggi citati dal pentito: l’obiettivo è verificare l’esistenza di eventuali legami tra i protagonisti di una catena a compartimenti stagni che dalla borghesia imprenditoriale farebbe transitare interessi affaristici alla massoneria deviata, sostenuta da solide coperture tra gli apparati, e da qui alla mafia: lo stesso intreccio criminale che avrebbe costruito a Barcellona carriere istituzionali di altissimo profilo.

D’Amico ha parlato di 45 omicidi, a molti dei quali avrebbe partecipato in prima persona. Ma non solo. Tra le nuove e clamorose carte raccolte dalla Dda di Messina ci sarebbero i verbali che riscrivono l’omicidio del giornalista Beppe Alfano, ammazzato l’8 gennaio del 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto. Una storia ancora per molti versi oscura, piena di depistaggi e buchi neri. Un fascicolo, denominato ”Alfano ter”, è ancora aperto sulla scrivania del sostituto della Dda Vito Di Giorgio con la storia singolare di una pistola calibro 22, invischiata tra vari proprietari e passaggi di mano che potrebbe essere proprio quella che ha sparato al giornalista. Il pentito avrebbe parlato diffusamente dell’uccisione di Alfano e dell’esecuzione dell’editore Antonio Mazza, autoaccusandosi di quest’ultimo delitto, e, a quanto pare, contraddicendo addirittura la sentenza della Corte di Cassazione, che ha indicato Antonino Merlino quale killer di Alfano.

Ma la parte più ”blindata” delle dichiarazioni del pentito barcellonese riguarderebbe proprio il patto tra mafia e massoneria, con tutte le coperture istituzionali fornite al sistema criminale, che finora è stato solo sfiorato dalle indagini. Nelle passate settimane, i sostituti Cavallo e Di Giorgio si sono incontrati con i colleghi palermitani che indagano sulla Trattativa: il vertice, sembra, sarebbe servito per fare il punto sulle possibili cointeressenze criminali tra mafia e ambienti deviati delle istituzioni. Adesso siamo in attesa di conoscere i retroscena del “suicidio” eccellente dell’urologo barcellonese Attilio Manca, che potrebbe essere collegato all’operazione di cancro alla prostata che il boss Bernardo Provenzano subì nel 2003 a Marsiglia. Anche in questo caso, c’è l’inquietante presenza della mafia, della politica, della massoneria e dei servizi segreti deviati.

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Stanati a Rosarno: Cacciola e Albanese in manette

arresto-gregorio-cacciola-vincenzo-albanese-01Due latitanti sono stati arrestati dai Carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria e del Ros che li hanno rintracciati rispettivamente in due distinti covi nel centro di Rosarno (nel reggino). Gli arresti, secondo quanto reso noto dagli investigatori, sono avvenuti grazie alle indagini condotte dalla compagnia dell’Arma di Gioia Tauro.

In manette sono così finiti Gregorio Cacciola, 34 anni, di Rosarno (RC), ricercato nell’ambito dell’operazione coordinata dalla Dda “Mauser-Scacco Matto” del Luglio 2014 e per i reati di traffico di droga e riduzione in schiavitù; e Vincenzo Albanese, 37 anni, pure di Rosarno (RC), ricercato dal 4 dicembre scorso per evasione dagli arresti domiciliari dopo l’arresto in flagranza per reati di droga.

Cacciola, fratello di Antonio, entrambi considerati i capi dell’omonima cosca di ‘ndrangheta, era nascosto in un’azienda per la lavorazione di agrumi, in contrada Testa d’acqua. Insieme a lui sono state arrestate anche tre persone di etnia rom e considerate come presunti fiancheggiatori della sua latitanza: si stratta di due donne, Natalia e Hanna Yakinchuk e un uomo, Seryi ChibruVincenzo Albanese, è stato invece intercettato e fermato mentre era in una casolare tra Gioia Tauro e Rosarno.

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“Mafia Capitale”: le armi nascoste nel cimitero o nei battiscopa

Nascondendo le armi dentro il cimitero monumentale del Verano, gli uomini ritenuti essere il trait de union tra le ’ndrine calabresi e l’organizzazione «Mafia Capitale», pensavano di essere al sicuro. Invece i militari del Ros, durante una perquisizione effettuata lo scorso 11 dicembre negli spogliatoi a disposizione degli impiegati dello storico cimitero romano, avevano trovato alcuni documenti relativi ad armi, munizioni e anche un «serbatoio monofilare per pistola». Il caricatore era custodito nell’armadietto personale di Salvatore Ruggiero. L’uomo, secondo gli inquirenti, insieme a Rocco Rotolo, assicurava il collegamento tra la cosche calabresi e le cooperative gestite da Salvatore Buzzi. Un legame che garantiva ai romani una certa «protezione», una sicurezza ricambiata da Buzzi e Carminati che «avrebbero creato – scrivono gli inquirenti – la Cooperativa Santo Stefano Onlus, che nella progettualità dello stesso Buzzi sarebbe stata una “Cooperativa di ‘ndranghetisti”». Inoltre, a bordo della Citroen di proprietà di Ruggero, gli investigatori avevano anche trovato l’occorrente per la pulizia e manutenzione delle armi. Il Verano non era l’unico posto dove, secondo la procura di Roma, venivano custoditi gli armamenti. Rotolo, durante una conversazione intercettata successivamente all’arresto del «Cecato», spiegava al suo interlocutore di aver approntato, nei pressi della sua abitazione, un nascondiglio: «Ce l’ho a casa…mo’ poi ho preso la mezza panchina di queste..l’ho scavata dentro… gli ho fatto la vaschetta… e mo’ la monto…li scavo dentro… gli faccio il posto… poi ci metto un filo di silicone nel contorno…e chiudo…e la metto a mo’ di gradino». Ma le armi possono deteriorarsi a causa dell’umidità perché «il marmo è maledetto», quindi occorre celarle in un luogo dove sia possibile estrarle con facilità: «Basta togliere una mattonella del battiscopa per fare nu’ buco – continua l’indagato – incolli il battiscopa con la calamita… metti… u’ ferru… e il battiscopa..e la calamita nel buco». Così è possibile prelevare velocemente l’arma: «Quando ti serve…tiri avanti la calamita…tiri la mattonella….e stacchi la calamita…co’ la colla speciale… iu adesso quando ho tempo u facci…» continua l’uomo specificando che tale operazione risultava essere di sicura efficacia contro eventuali controlli delle forze dell’ordine: «Non mi’ ’i trovano mai…a me…a casa mia….u sistema è questo qua…ce l’ho dietro a cucina…e a stufa a pellet…o dietro l’armadio…non vanno mai col metaldetector basso capito…?». Effettivamente, presso la casa di Rotolo non è stata trovata neanche una pistola.

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