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2015

è la buona cultura che forse può essere madre di una buona politica

La mia intervista per L’ORA QUOTIDIANO:

Schermata 2015-01-02 alle 16.56.35La storia di Marcello Dell’Utri, raccontata direttamente dall’ex senatore, in un monologo a metà tra la cronaca giudiziaria e la letteratura. S’intitola L’Amico degli Eroied è l’ultimo lavoro di Giulio Cavalli, il regista teatrale milanese già autore di un libro e di uno spettacolo su Giulio Andreotti (L’innocenza di Giulio, Chiarelettere, 2012). “Andreotti – spiega Cavalli – ha creato la politica come padrona della mafia. Dell’Utri invece ha inventato la mafia che si fa politica”.

In pratica è questa la differenza tra prima e seconda Repubblica?
Si. Anche la differenza tra la gestione del processo Andreotti e quello Dell’Utri cambia in questo senso.

Ovvero?
Con Andreotti i giornali tendevano a smentire la sentenza, con Dell’Utri invece l’obbiettivo era addebitare tutte le condotte soltanto all’ex senatore. E’ a questo che serve il mio  spettacolo: a ricordare che oggi il governo è sostenuto anche da quel partito creato proprio da Dell’Utri, l’uomo che fa da tramite tra Berlusconi e Cosa Nostra. Ed è proprio così che finisce in un certo senso lo spettacolo.

Come?
Con Dell’Utri che il giorno prima della fuga in Libano incontra Berlusconi in un ristorante. L’ex premier dice, rivolto ai giornali: “Volevate il politico mafioso, prendetevi Marcello ma adesso basta”. E Dell’Utri ribatte: “la mia fedeltà ti è ancora più utile adesso che finisco in galera”. E’ il concetto del servitore del potere, dell’uomo che cerca un padrone su cui puntare e che fa del servilismo la sua icona. L’incipit dello spettacolo racconta proprio gli albori del servo Dell’Utri.

Che sarebbero quali?
C’è questa scena in cui un giovane Dell’Utri si mette per la prima volta la cravatta e vede la città di Palermo divisa in due: da una parte persone da abbattere, dall’altra tanti pioli, gente a cui aggrapparsi per salire i gradini sociali. Se ci pensiamo, presi singolarmente personaggi come Dell’Utri, Mangano e Berlusconi sono anche comici in un certo senso. Uniti insieme, a Milano, diventano la miscela perfetta della politica per legittima difesa.Che arriva a creare il prototipo di Berlusconi che diventa addirittura premier per legittima difesa.

Hai avuto problemi nella produzione di questo spettacolo?
Si, c’era un strano tizio che si era impegnato a produrlo, firmando anche un contratto. Ma poi è svanito: ovviamente l’ho denunciato, vedremo le indagini a cosa porteranno. Di certo però ci ha causato un rallentamento, dovevamo essere pronti per ottobre, e invece credo che una data ipotetica per il debutto possa essere marzo. Certo adesso mi serve il sostegno del pubblico: per questo motivo ho lanciato una campagna di produzione sociale.

Una sorta di crowdfunding.
Si, l’ho chiamata così perché non mi piacciono gli inglesismi. Semplicemente credo che per essere liberi dobbiamo lavorare soltanto con il sostegno del pubblico. Per questo chiedo un sostegno a chiunque pensi che la storia di Dell’Utri non sia da derubricare semplicemente a uno dei tanti berlusconismi, insieme alle prostitute e al resto, ma sia da ricordare come atto fondamentale di questa seconda repubblica. Penso che il cosiddetto teatro civile serva a questo. Anche se la parola teatro civile non significa nulla: come dire che esiste un teatro incivile.

Mi ricorda la famosa frase scritta sul teatro Massimo a Palermo: vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire. Credi ancora che la cultura possa avere un valore sociale così importante oggi?
Assolutamente si. Io ho fatto il consigliere regionale in Lombardia, durante l’ultimo mandato di Formigoni. Erano anni in cui ero l’unico ad arrivare in Regione scortato dai carabinieri, mentre gli altri venivano portati via in manette dalle forza dell’ordine. Nonostante quell’esperienza penso di poter fare di più con i miei spettacoli.

Non pensi che anche a livello culturale questo paese sia ormai ridotto in macerie?
Certo. Questo perché si continua a pensare che, come vent’anni fa, ci vuole una buona politica che faccia da matrigna ad una buona cultura. Il rapporto si è invertito da anni: è la buona cultura che forse può essere madre di una buona politica. D’altra parte in questi anni la cultura è arrivata prima della magistratura su molte cose.

Hai parlato della prima e della seconda Repubblica: e la terza invece? Che cos’è cambiato oggi?
Fino a pochi giorni fa pensavo che fossero cambiati gli interpreti mantenendo identiche le modalità. Dopo Mafia Capitale credo che non siano cambiati nemmeno gli interpreti: viviamo di un ritorno dell’attività criminale.

Nessuna differenza col recente passato quindi?
Assolutamente no. La terza Repubblica non riesce neanche a nominare Nino Di Matteo nei discorsi di fine anno delle alte cariche. E’ una Repubblica identica a quella di Andreotti. E’ una Repubblica in cui il non detto vale sempre di più rispetto al resto.

Clicca qui per leggere un’estratto dello spettacolo

Puoi contribuire alla produzione dello spettacolo cliccando qui 

Il feticcio della meritocrazia (avvelenata)

«Voglio sgon­fiare il mito della meri­to­cra­zia come la via da seguire per tutti. E credo che in una certa misura si stia già sgon­fiando da sé: le per­sone sanno che non esi­ste più la mobi­lità sociale di un tempo. Come disse Ray­mond Wil­liams anni fa, la meri­to­cra­zia ino­cula l’idea vele­nosa della legit­ti­mità delle gerar­chie. Che sulla ’scala’ sociale pos­sano salire solo alcuni». Così Jo Lit­tler, senior lec­tu­rer in cul­tu­ral stu­dies alla City Uni­ver­sity di Lon­dra, incon­trata a Soho nei giorni scorsi. Lit­tler sta lavo­rando a un libro, titolo prov­vi­so­rio Against Meri­to­cracy, che Rou­tledge pub­bli­cherà verso la fine del 2015. Quell’against, lascia poco spa­zio alle inter­pre­ta­zioni: è un libro con­tro una meri­to­cra­zia vista come volano di dar­wi­ni­smo sociale. Basti pen­sare a certe scelte les­si­cali di Mat­teo Renzi per capire quanto la meta­fora sub spe­cie finan­zia­ria della «sca­lata» sia ormai iscritta nella dia­let­tica poli­tica delle post-sinistre euro­pee. Per que­sto è urgente esplo­rarne l’ambiguità e sma­sche­rarne l’uso ideologico.

Nel dibat­tito poli­tico con­tem­po­ra­neo la meri­to­cra­zia, infatti, imper­versa. Sban­die­ran­dola enfa­ti­ca­mente come pana­cea della disu­gua­glianza – quando in realtà può esserne altret­tanto tran­quil­la­mente anno­ve­rata tra le cause – la cul­tura d’impresa si fa spa­zio nel corpo sociale, sosti­tuendo le pro­prie logi­che di pro­fitto a quelle su cui si è retto l’assetto wel­fa­ri­sta euro­peo del secondo dopo­guerra. E poi, come si fa a sca­gliarsi con­tro il merito? Nel les­sico poli­tico da ricrea­zione sco­la­stica ora vigente, una pun­tuale accusa di «gufi» è pres­so­ché assi­cu­rata. Peg­gio che met­tere l’iPhone den­tro a un gettone.

Elite sem­pre in testa
Sì, per­ché il merito è il cavallo di Troia con il quale il neo­li­be­ri­smo ha fatto un’etica irru­zione nella cit­ta­della post-socialdemocratica della sini­stra euro­pea. In que­sto cavallo Mat­teo Renzi – un tar­divo epi­gono blai­ri­sta quando Blair in patria è ormai ple­bi­sci­ta­ria­mente un paria – non ha certo biso­gno di nascon­dersi: anzi, lo cavalca come Tex Wil­ler, strap­pando ova­zioni al gio­vane eser­cito di riserva, plu­ri­ti­to­lato e sot­toc­cu­pato, che di Renzi è entu­sia­sta soste­ni­tore. Ma il conio del ter­mine è natu­ral­mente avve­nuto nella sfera anglo­li­be­rale, ed è qui che si è avviata una discus­sione inte­res­sante sull’uso ideo­lo­gico a tap­peto che ne fanno i media anglosassoni.

«Comin­cia a dif­fon­dersi un sano scet­ti­ci­smo sulla meri­to­cra­zia, nono­stante la piog­gia media­tica che ci pro­pi­nano i talent shows – spiega ancora Lit­tler – Sto inda­gando sulle moda­lità con le quali le élite dram­ma­tiz­zano e sen­sa­zio­na­liz­zano le pro­prie vicende bio­gra­fi­che per pro­pa­gan­darle. Come cer­cano di pre­sen­tarsi in qua­lità di indi­vi­dui ordi­nari per dis­si­mu­lare il pro­prio pri­vi­le­gio e dif­fon­dere l’idea che si tro­vano lì per­ché se lo sono meri­tato. La fami­glia reale, in que­sto senso, è molto inte­res­sante: è riu­scita a ria­bi­li­tarsi come appunto ’nor­male’. Oppure basti pen­sare al suc­cesso di serie tele­vi­sive come Dawn­ton Abbey, dove le dif­fe­renze sociali sono rese gla­mour e legit­ti­mate attra­verso l’espediente nar­ra­tivo».

È ovvio che il merito abbia anche molti aspetti posi­tivi, come ad esem­pio la crea­ti­vità, che vanno senz’altro sot­to­li­neati. Per que­sto Lit­tler intende ricrearne la tra­iet­to­ria sto­rica e ideo­lo­gica. «M’interessa rico­struirne lo svi­luppo nella teo­ria sociale, nel dibat­tito poli­tico, nella cul­tura. Que­sti tre fili sono molto intrec­ciati e troppe volte uti­liz­zati in modo da sot­trarre ter­reno morale all’indignazione nei con­fronti della disu­gua­glianza». Il libro è un ten­ta­tivo di rico­struire la nascita e la cir­co­la­zione del ter­mine nei suoi rivoli seman­tici, «giac­ché tal­volta è usato in modo addi­rit­tura sprez­zante, cosa secondo me peri­co­losa. Natu­ral­mente il rischio è che mi si possa scam­biare per autocratica».

Vista ini­zial­mente con sospetto dalla socio­lo­gia d’ispirazione Labour, la meri­to­cra­zia è stata poi sdo­ga­nata dai think tank con­ser­va­tori bri­tan­nici che, dagli anni Ottanta in poi, sono diven­tati i labo­ra­tori – ege­mo­nici e paneu­ro­pei loro mal­grado – di poli­ti­che bipar­ti­san di riforma del wel­fare e ten­denti a una sem­pre mag­giore inva­denza del pri­vato nel pub­blico. Il ter­mine meri­to­cracy viene con­ven­zio­nal­mente fatto risa­lire al socio­logo di area Labour Michael Young (1915–2002), che nel 1958 scrisse il sag­gio sati­rico The Rise of the Meri­to­cracy, anche se era stato usato due anni prima da un altro socio­logo, Alan Fox, per poi pas­sare nel reper­to­rio «anti-ideologico» di Daniel Bell. In Young il ter­mine ha una con­no­ta­zione nega­tiva. È una visione disto­pica, che paven­tava ciò che sostan­zial­mente sta acca­dendo oggi: una cre­scente distanza e imper­mea­bi­lità tra l’élite dei meri­te­voli e la stra­grande mag­gio­ranza dei «non meri­te­voli», ai quali si tol­gono gli ammor­tiz­za­tori sociali pro­prio in quanto tali.

È uno di quei casi iro­nici della sto­ria che il figlio di Young, l’assai più noto Toby, sia un gior­na­li­sta pati­nato in forza al Daily Tele­graph. «È stato il padre di Toby a scri­vere il libro, è vero, un’ironia che viene spesso evi­den­ziata – afferma Lit­tler – Ma lo stesso Young padre pre­sen­tava delle ambi­guità. Michael era più inte­res­sato alle poli­ti­che dell’istruzione e alla stra­ti­fi­ca­zione sociale, ed è lì che il ter­mine assume una con­no­ta­zione più sfo­cata. Anche se lo usa in modo sati­rico o come per rife­rirsi sfron­ta­ta­mente alle divi­sioni sociali, in ultima ana­lisi la sua cri­tica del capi­ta­li­smo è a dire poco ambi­gua. A rileg­gere i suoi scritti, Young emerge come figura dav­vero inte­res­sante. Era uno stu­dioso inno­va­tivo, ma non privo di una certa ambi­guità: come per esem­pio quando disse di non essere del tutto a favore delle com­pre­hen­sive schools, una strana dichia­ra­zione. Se poi si con­si­de­rano gli ambienti sociali che fre­quen­tava, era vicino all’assai più libe­rale Daniel Bell».

Indi­vi­duo pri­gio­niero
Pro­prio l’autore del topico La fine dell’ideologia, un libro-chiave nell’allineamento della sini­stra mode­rata in difesa del capi­ta­li­smo in cui sono rav­vi­sa­bili i pro­dromi dell’uso del con­cetto da parte del neo­li­be­ri­smo nella sua decli­na­zione that­che­riana. «That­cher è stata senz’altro una figura chiave nella dif­fu­sione delle idee neo­li­be­ri­ste, ma pen­sando a lei va ricor­data soprat­tutto la part­ner­ship fon­da­men­tale con Ronald Rea­gan: tanto per ricor­dare che non era sol­tanto ’una mal­va­gia donna, una strega’, come spesso l’apostrofavano i suoi detrat­tori, l’unica respon­sa­bile di un pro­cesso sto­rico com­plesso. È utile pen­sare anche a cosa abbia rap­pre­sen­tato, al modo in cui ha imma­gi­nato la poli­tica».

Eppure, dai media main­stream, That­cher è costan­te­mente addi­tata a sim­bolo di pos­si­bili con­qui­ste fem­mi­nili, quasi una forza eman­ci­pa­trice. «È inte­res­sante l’aspetto ’fem­mi­ni­sta’ attri­buito alla sua figura. Era tutt’altro che fem­mi­ni­sta ovvia­mente, e cercò di distan­ziarsi il più pos­si­bile da qual­siasi acco­sta­mento a obiet­tivi fem­mi­ni­sti: ne è riprova la demo­niz­za­zione sociale e cul­tu­rale delle madri sin­gle ope­rata dal suo governo, la cui stra­te­gia sem­bra tut­tora quella di incol­pare le vit­time di pri­va­tiz­za­zioni e disoc­cu­pa­zione per il pro­prio males­sere sociale».

È con That­cher che si sostan­zia per la prima volta il con­cetto nel senso della con­trap­po­si­zione fra l’individuo e le sue chance di rispon­dere alle sfide del mer­cato. Nel suo pre­sen­tarsi come matrona della nazione, That­cher ha fatto uso di par­ti­co­lari ele­menti del fem­mi­ni­smo e deli­be­ra­ta­mente a meno di altri. «La sua è una fem­mi­ni­lità quasi astratta, deses­sua­liz­zata: per esem­pio, non faceva mai rife­ri­menti alla pro­pria fami­glia. Ci sono molti studi che al momento affron­tano il ripo­si­zio­na­mento della fem­mi­ni­lità in una vera e pro­pria cul­tura d’impresa, dove la donna è inco­rag­giata a pen­sare a sé in quanto pro­getto indi­vi­duale, a miglio­rare il pro­prio sta­tus e mobi­lità sociale attra­verso l’autopromozione. L’individuo è inco­rag­giato a pen­sarsi come pro­getto: una sorta di ’impren­di­to­ria­liz­za­zione’ del sé».

(Il manifesto, 3 dicembre 2015)

A proposito del “Prinicipe” Giannini

Ne avevo scritto in tempi non sospetti (qui) e ora è rinviato a giudizio:

Giannini9192C’è anche Giuseppe Giannini, ex calciatore della Roma e della Nazionale e oggi ct della Nazionale libanese, tra le 104 persone rinviate a giudizio ieri nell’ambito dell’operazione Aracne: l’inchiesta è quella dei pm Francesco Curcio e Marco Del Gaudio, che nel gennaio dello scorso anno rivelò quanto massicci fossero gli interessi del clan Contini su Roma. La decisione del gup Rosa De Ruggiero è arrivata appena in tempo per evitare che scadessero i termini di custodia cautelare per numerosi imputati: proprio per questo udienze straordinarie erano state fissate il 31 dicembre e il 2 gennaio.
I reati, contestati agli imputati a vario titolo, sono associazione di stampo mafioso, estorsione, riciclaggio di denaro sporco, intestazione fittizia di beni e frode nelle competizioni sportive. Proprio quest’ultimo reato è contestato a Giuseppe Giannini; l’aggravante della matrice camorristica, contetsata in un primo momento dai pm, è caduta dopo l’avviso di chiusura delle indagini preliminari. Il processo comincerà il 17 febbraio prossimo davanti alla III sezione del Tribunale, collegio B. L’ex calciatore della Nazionale è stato in rapporti di amicizia Salvatore Righi, considerato un prestanome del boss Eduardo Contini, potentissimo capoclan del Vasto: il figlio Ivano è stato infatti fidanzato con Francesca Giannini. Nel campionato 2008 – 2009 Giannini allenava la squadra del Gallipoli, militante nel campionato di Lega Pro, Prima Divisione, girone B. Per consentire la promozione della squadra, i Righi, secondo l’accusa, in concorso con Giannini e con il direttore sportivo del Gallipoli, Luigi Dimitri, corruppero con 50.000 euro alcuni giocatori del Real Marcianise. La penultima partita di campionato, giocata a Lanciano, si era conclusa per il Gallipoli con la sconfitta di 2 a 1. Per ottenere la promozione era dunque decisiva l’ultima gara: si giocò il 17 maggio e la squadra salentina si impose per 3 a 2 su quella casertana. Il Gallipoli ottenne con 63 punti la promozione in serie B e il risultato fu definito «storico». «I calciatori del real Marcianise coinvolti nella frode — scriveva nell’ordinanza di custodia cautelare il gip Raffaele Piccirillo — sono tutti originari della zona del Buvero (cioè del Borgo Sant’Antonio Abate, ndr) e sono tutti legati a Tommaso Cristiano, il figlio del boss continiano della zona».
La vicenda della gara truccata era stata definita emblematica dal gip: «Seppure non direttamente attinente al compito riciclatorio dei Righi, colora la prova dei saldi legami di Salvatore e Ivano Righi con il clan Contini e in particolare con la famiglia Cristiano, che coordina le attività di quel clan nel Borgo di Sant’Antonio». Giuseppe Giannini, che ha 51 anni, nella sua quasi ventennale carriera di calciatore, come recita Wikipedia, ha vestito per quindici anni la maglia della Roma, diventando anche suo capitano, e per 47 volte quella della Nazionale A. Ha militato nelle file di Sturm Graz, Napoli e Lecce. Dal 2004 è allenatore. Il 28 giugno 2013 è stato nominato nuovo selezionatore della Nazionale libanese.

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Gianni Morandi al posto dei gattini

Un Paese in cui hai successo se riesci ad essere “neutro” su tutto. Mi è capitato di odiare la mia parte intollerante (con quelle che io ritengo le inaccettabili povertà o soprusi o illegalità) ogni volta che ho incrociato uno di quei placidi esemplari di miei colleghi che riescono a non prendere posizione su nulla e per questo vengono recepiti come “ottimi per il largo pubblico”: chi riesce a raccontare una storia come uno storico con la sola differenza del palco o coloro che riescono a teatrare sulle miserie talmente lontane da non suscitare nessuna paura, solo fremore scenico. Ed ha ragione Alessandro quando scrive che in fondo il successo di Gianni Morandi su Facebook è proprio questo:

Beh, credo che lui piaccia perché è esattamente il contrario: o almeno l’apparenza mediatica-feisbucchiana dell’esatto contrario.

Vuol bene a tutti: tutti. Sorride sempre: sempre. Non polemizza mai con nessuno: nessuno.

L’apoteosi l’ha probabilmente raggiunta il giorno in cui a un utente che cercava la rissa e gli contestava la buona riuscita di una battuta, ha risposto serafico: “hai ragione, è per questo che invece ho fatto il cantante”. Maestria assoluta nello spegnere qualsiasi polemica sul nascere. Zero conflitti.

Da noi i neutrali vengono scambiati per mediatori, pensa te, mi è venuto da pensare stamattina.

Maroni che cura i gay

Aiutano «giovani e meno giovani, feriti nella propria identità sessuale, in particolare per tendenze di natura omosessuale» e sono impegnati nella «ricerca delle cause (spirituali, psicologiche, culturali, storiche) che contribuiscono alla diffusione di atteggiamenti contrari alla legge naturale, riconoscibile dalla ragione rettamente formata». L’associazione che considera l’omosessualità una malattia da curare si chiama Obiettivo Chaire e insieme con un altro gruppo tradizionalista come Alleanza Cattolica ha organizzato un convegno in occasione della Giornata per la famiglia, il 17 gennaio, con la Regione; al quale parteciperà (anzi, ne concluderà i lavori, all’auditorium Testori di piazza città di Lombardia) anche il governatore Roberto Maroni.

Non solo, nel manifesto dell’iniziativa compare in bella vista il logo di Expo. «Cosa c’entra con Expo questo evento? Quella della Regione è una deriva omofoba che ci preoccupa e ci chiediamo chi ha permesso l’utilizzo del logo dell’esposizione», spiega Fabio Galantucci dell’Arcigay. «È sconcertante — dice il consigliere comunale del Pd Ruggero Gabbai — perché oltre a negare l’evidenza dei fatti e dell’evoluzione della società, ci si ostina a sostenere e propagandare tesi oscurantiste e omofobe. L’Expo, che si appresta ad essere la vetrina d’Italia e di Milano nel mondo, non può e non deve essere associata a iniziative che promuovono una cultura superata».

I Giovani democratici hanno già annunciato un presidio fuori dall’auditorium durante il convegno: «Andiamo a ricordare a Maroni che di famiglia non ce n’è una sola». Al presidio si uniranno anche i militanti dell’associazionismo gay e dell’Altra Europa con Tsipras. «Da una parte c’è la Milano dei diritti estesi a tutti e che riconosce le unioni tra persone dello stesso sesso e dall’altra chi crede sia normale discriminare con spirito medievale. Contenti di stare dalla parte giusta e confidiamo che Expo si sottragga», commenta Luca Gibillini (Sel).

Nello specifico, il titolo dato all’incontro è “Difendere la famiglia per difendere la comunità” e avrà tra i partecipanti la giornalista Costanza Miriano, autrice del libro Sposati e sii sottomessa. Poi ci sarà l’ex deputato del Pd Mario Adinolfi, fondatore del quotidiano La Croce (debutto in edicola il 13 gennaio). E infine Luigi Amicone, direttore del ciellino Tempi. Secondo la fondazione organizzatrice «nella persona umana c’è un design anche rispetto all’esercizio della sessualità, un design che richiama l’esistenza di un ordine che rende a rischio ogni sua distorsione».

Per questo — è la teoria di fondo che ha dato vita alla stessa Obiettivo Chaire — sarebbe possibile riparare le tendenze gay di chi «chiede di essere accompagnato ad articolare e a superare il proprio disagio». Il capogruppo della Lega al Pirellone Massimiliano Romeo respinge le accuse: «Non c’è niente di male a parlare di difesa della famiglia. E chi protesta non sa che tutti i convegni organizzati dalla Regione devono per convenzione portare il logo Expo».

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Le mani della mafia su Perugia

Sotto l’ala del Grifo si nasconde la mano della ‘ndrangheta calabrese. Una spaventosa “holding del malaffare” quella scoperta due settimane fa dai carabinieri di Perugia, che ha portato a 54 arresti e un sequestro di beni per 30 milioni di euro. Così viene definito il sistema messo in piedi dalla criminalità organizzata nella insospettabile Umbria. Un sistema costruito ad arte su minacce, estorsioni e usura con tassi al 10 e al 20% e che si serviva «della copertura garantita dalle imprese sottoposte a estorsione per acquisire appalti e/o sub appalti nel settore edile e del fotovoltaico».

Gli atti di intimidazione sono quelli “classici”. Dalle auto incendiate fino alla testa di agnello davanti casa. «Mi hanno detto – si legge in una delle tante dichiarazioni raccolte nell’ordinanza – che era meglio aderire alle loro richieste per evitare che potesse accadermi qualcosa di brutto, come succede in Calabria. Mi facevano presente che giù in Calabria è accaduto tante volte che qualcuno sparisce e i familiari lo cercano e non lo trovano più. Mi parlavano con un linguaggio mafioso». Si presentano così i malavitosi perugini, dai forti legami con le famiglie di origine, con un linguaggio che rievoca colate di cemento e pallottole sparate. Ma accanto alle intimidazioni c’è pure lo spaccio.

Non poteva essere altrimenti, d’altronde, nella città che già da tempo la Dia ha definito “crocevia” del traffico di stupefacenti. Eppure un aspetto che finora non emerso è proprio il massiccio controllo e la capillare gestione del mercato di droga che partiva da Ponte San Giovanni per ramificarsi appunto a Perugia e nelle regioni circostanti. Il tutto condito da una strettissima alleanza. Quello che infatti emerge dalle carte è un vero e proprio sodalizio che si era creato tra famiglie calabresi e clan albanesi.

IL SISTEMA – La cocaina a Perugia c’è, si spaccia e si consuma. E non è dunque solo appannaggio dei nordafricani, il cui canale preferito è quello camorrista, che viaggia sulla E45, giungendo da Napoli, da Cesena o dagli aeroporti internazionali vicini. Nelle intercettazioni i calabresi la chiamano “neve”, “schioppo”, “ragazzetti” da portare a cena e da dividere prima di smerciarla. La nascondono nel riso, «perché si mantiene meglio». A capo del sistema Cataldo Ceravolo, ritenuto dagli inquirenti il “boss” della criminalità perugina, insieme a Cataldo De Dio e Vincenzo Martino. Ma non è tutto. Secondo quanto appurato dagli inquirenti, infatti, spunta una «una sinergia fra il sodalizio indagato e cittadini albanesi stanziati sul territorio perugino».

Il rifornimento avveniva sulla linea direttrice Napoli-Umbria. In un’intercettazione è lo stesso Ceravolo ad affermare: «andiamo a Napoli e la carichiamo». Né è un caso che tra gli arrestati anche Bledy, «un tizio che veniva chiamato ‘lo zio’». Un «albanese di Napoli», come lo si definisce in un’intercettazione, per il lungo periodo passato in Campania. Un periodo che gli aveva permesso, ora, di fare da collante tra le vecchie e le nuove amicizie. Il centro di raccordo era il bar “Apollo 4” di Ponte San Giovanni, gestito da Salvatore Facente e da Letizia Gennari (compagna di Cataldo De Dio). Tutti potevano tranquillamente recarsi lì e fare “compere”. L’importante, per calabresi e albanesi, era vendere.

Le cose cambiavano quando uno non pagava. Si poteva aspettare qualche tempo (ma ovviamente gli interessi crescevano), finchè poi non cominciavano – anche qui – le vere e proprie minacce. Come capitato a uno degli acquirenti, Vladimiro Cesarini, che aveva accumulato un debito di 6mila euro. Avrebbe avuto bisogno di più tempo. Ma gli albanesi non glielo consentono tanto che, come risulta dalle intercettazioni, si barrica in casa «chiuso» perché «teme per la sua incolumità». Alla fine Cesarini riesce a pagare. Prendendo spunto dai suoi stessi strozzini: estorcendo a sua volta il datore di lavoro, dicendogli che «lo avrebbe sparato con il fucile».

“PERCHÉ NON FACCIAMO UN LABORATORIO?” – Un sistema, dunque, vasto e articolato. Talmente vaso che l’idea, stando alle intercettazioni, era quella di ampliarsi ulteriormente. Di tecnologizzarsi. In un’intercettazione, infatti, altri due affiliati, il cirotano Natalino Paletta e il crotonese Francesco Manica (entrambi impiantati da anni a Perugia) dialogano della possibilità di organizzare un laboratorio per la preparazione di cocaina chimica con l’ausilio di un terzo, un “amico” colombiano: «chimicamente, hai capito qual è il discorso? – dice Manica – la vendiamo a 80 euro Nata (Natalino Paletta, ndr)… allora ti vuoi fare il laboratorio?».

L’idea, insomma, è quella di espandersi. Soprattutto per meglio fornire il mondo dabbene del perugino che si riforniva da calabresi e albanesi (spuntano tra le dichiarazioni anche proprietari di alberghi, piccoli imprenditori, uomini d’affari). Senza, ovviamente, dimenticare la rete di pusher minori che arrivava fino al mondo universitario.

L’OMICIDIO POLIZZI – Non solo. Nelle intercettazioni compaiono anche due nomi già tristemente noti alla cronaca perugina e italiana: sono Julia Tosti e Valerio Menenti, rispettivamente la fidanzata e il tatuatore presunto mandante dell’omicidio di Alessandro Polizzi, ucciso nell’appartamento di Via Ricci mentre era con la sua ragazza. I loro nomi spuntano proprio in riferimento al traffico di droga nel perugino gestito da Ceravolo.

La stessa Tosti, in una sua dichiarazione del luglio 2013, dichiara: «posso dire che a volte ho acquistato la cocaina da un tale Cataldo (Ceravolo, ndr), un uomo calabrese, che abita a Ponte San Giovanni (…). Ho conosciuto Cataldo perché me lo ha presentato Valerio. In alcune circostanze, in periodo compreso fra l’estate scorsa e l’ottobre-novembre scorsi, mentre avevo una relazione con Valerio, (i due ragazzi infatti convivevano, ndr) sia io che Valerio abbiamo acquistato cocaina da lui». Julia racconta anche del loro consumo di cocaina, dai 2 ai 5 grammi la volta, per un prezzo di 80 o 90 euro al grammo. E parla anche delle intimidazioni che Valerio riceveva, con l’auto rigata per i debiti accumulati nel tempo.

LA RETE PARALLELA E IL TRAFFICO DI ARMI – Ma non è finita qui. «L’attività di indagine – scrivono gli inquirenti – ha altresì consentito di individuare una diversa organizzazione», composta da albanesi e dagli italiani Simone Verducci e Michaela Cavalieri (che peraltro veniva sistematicamente picchiata da Verducci – le aveva rotto anche il naso – il quale in alcune circostante l’aveva letteralmente “imprigionata” in casa). Questa rete parallela, si legge ancora nell’ordinanza, «riforniva di droga e di armi l’organizzazione di matrice ‘ndranghetista riconducibile a Ceravolo Cataldo, Martino Vincenzo Mario, De Dio Cataldo ed altri sodali, dall’altro risultava effettuare per proprio conto attività di cessione di cocaina a terzi».

Insomma, accanto al traffico “ufficiale”, ce n’era anche un altro parallelo messo in piedi in prima linea da albanesi e calabresi insieme. Non è un caso che in una delle tante dichiarazioni rilasciate da coloro che si rifornivano dai calabresi, si legge che Verducci «dalla fine del 2012 si era messo in affari con alcuni albanesi che trafficavano con lui nella droga». «Personaggi pericolosi», vengono definiti. Ma questo non spaventa Verducci, tanto che diceva in giro di averceli in pugno. Tutti sotto il suo controllo, dunque. Il che non era cosa da poco dato che gli albanesi avevano un potere enorme in mano.

Uno degli arrestati, Ervis Lyte, in una conversazione telefonica con Ceravolo, dice addirittura che, quando era stato in carcere, riusciva a procurarsi la droga anche lì, tramite un afgano. Che Ervis fosse un tipo pericoloso, d’altronde, lo si capisce anche dall’arsenale a sua disposizione. Un arsenale che gli permetteva di fare soldi anche con il traffico di armi. C’è, nell’ordinanza, un intero capitolo sulla disponibilità di armi in mano ai clan. In un’intercettazione è Vincenzo Martino ad affermare di avere nella sua disponibilità (e in quella dell’organizzazione) numerose armi da fuoco e munizioni. E la trattativa di acquisto veniva intavolata sempre con Lyte per l’enorme possibilità di acquisto che offriva. Non solo pistole o fucili. Ma anche lo “sniper” o la TT-33 Tokarev, arma da guerra prodotta nell’ex Unione Sovietica e oggi disponibile solo in Albania e Russia. Tutte armi utili e indispensabili per la ‘ndrangheta. Soprattutto in Calabria. Martino lo dice chiaramente: «servono veramente giù, giù mi servono veramente».

I RAPPORTI CON LA CASA MADRE – Uno degli aspetti maggiormente di peso che emerge dalle carte perugine, però, è l’autonomia di gestione assicurata alla consorteria ‘ndranghetista installatasi in Umbria. Ovviamente, però, i rapporti con la Calabria erano più che frequenti: «è stato documentato nel corso dell’indagine – scrivono gli inquirenti – come la consorteria di tipo ‘ndranghetista operante in Umbria mantenga contatti qualificati, specie attraverso Paletta Natalino e Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr), con autorevoli esponenti della ‘ndrangheta di Cirò». Parliamo soprattutto della famiglia dei Farao, il cui esponente di vertice, Giuseppe, è condannato all’ergastolo ed attualmente detenuto in regime di 41 bis.

Non è un caso allora che «ogni qualvolta Farao Vittorio si reca a Perugia, e ciò avviene con costante periodicità, è spesso in compagnia o del fratello Vincenzo o degli omonimi cugini Farao Vittorio e Farao Vincenzo (entrambi figli di Farao Giuseppe) e si incontra con Paletta Natalino, Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr) ed altri componenti dell’associazione operante in Perugia». In un’intercettazione, d’altronde, è Cataldo Ceravolo stesso a parlar chiaro: i Farao salgono per «riscuotere». E, anche in questo caso, c’era il luogo apposito, di rito. Un pub in pieno centro a Perugia. In una traversa del famoso Corso Vannucci. Un pub spesso popolato da studenti. Mentre a un tavolo, in silenzio, la locale di ‘ndrangheta faceva affari, vendeva armi, smerciava droga.

(fonte)

“Il tritolo per Di Matteo cercatelo nei piani alti”

loraquotidiano.it_2014-12-16_07-22-43-454x500”L’esplosivo per Di Matteo dovete cercarlo nei piani alti”: così  ha detto ai finanzieri della Valutaria che lo stavano accompagnando in carcere  il boss Vincenzo Graziano, capomandamento di Resuttana, fermato con l’accusa di essere l’organizzatore del piano di morte per il pm Nino Di Matteo, e in particolare l’uomo che avrebbe nascosto i 200 chili di tritolo nascosti a Palermo e ancora non ritrovati, nonostante le numerose perlustrazioni ordinate dalla procura di Palermo. Cosa voleva dire il boss ai finanzieri con quella frase sibillina?  E’ quello che si domandano in questo giorni gli investigatori alle prese con la ricerca dell’esplosivo che secondo il pentito Vito Galatolo ”è ancora a Palermo, e rende sempre attuale il rischio di un attentato” al pm della trattativa Stato-mafia. Era una battuta quella di Graziano? Era un riferimento ai ”piani alti” della mafia o ai vertici delle istituzioni? I pm lo hanno chiesto direttamente al boss, tirato in ballo dalle dichiarazioni di Galatolo, nell’interrogatorio di garanzia effettuato davanti al gip Luigi Petrucci. Il costruttore ora smentisce di aver pronunciato quella frase. E le domande su quella frase enigmatica restano tutte aperte.

Galatolo racconta che nel dicembre  del 2012 il boss Graziano, insieme a Alessandro D’Ambrogio(capomafia di Porta Nuova) e Girolamo Biondino (fratello dell’autista di Totò Riina) fu protagonista di alcune riunioni nelle quali fu letta una lettera di Matteo Messina Denaro, con l’ordine di uccidere Di Matteo. Dal boss latitante di Castelvetrano infatti era arrivato l’input di organizzare l’attentato nei confronti del magistrato palermitano, che andava eliminato perché’ ”era andato troppo oltre”.

Galatolo ha poi riferito che i boss fecero una colletta per comprare il tritolo, raccogliendo circa 600 mila euro. E che proprio Graziano si sarebbe occupato di  procurare dalla Calabria il tritolo per poi conservarlo in previsione dell’attentato.

Già nelle scorse settimane, subito dopo l’inizio della collaborazione di Galatolo, le forze dell’ordine avevano fatto scattare numerose perquisizioni e scavi con i cani anti-bomba ed i metal detector nelle borgate palermitane e nelle campagne circostanti, a caccia dell’esplosivo: le ricerche  si erano concentrate, in particolare, nella zona di Monreale, dove ha una casa di campagna, con un terreno agricolo, proprio Graziano, arrestato il 23 giugno scorso, assieme a Galatolo, nel blitz Apocalisse, e tornato in libertà a luglio, dopo che il tribunale del riesame lo scarcerò per mancanza di gravi indizi di colpevolezza.
Al boss di Resuttana veniva contestato, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustiziaSergio Flamia, anche di avere affiliato altri uomini d’onore mentre si trovava  in carcere.

Galatolo, in realtà, non ha mai fornito certezze sull’ubicazione e sul nascondiglio del tritolo: la perquisizione nel terreno e nella villetta di Graziano era stata disposta dagli inquirenti in base al calibro mafioso del personaggio e al suo ruolo nei summit mafiosi del dicembre 2012 durante la preparazione della strage per Di Matteo.

Vincenzo Graziano, ritenuto specializzato nella gestione delle slot machines,  era già stato condannato per mafia, e aveva finito di scontare la pena nel 2012, poco prima di finire in manette nel blitz Apocalisse. Per gli inquirenti, il boss di Resuttana sarebbe stato regista del monopolio delle macchinette mangiasoldi e delle scommesse online, che avrebbe imposto nei bar di mezza città, proprio lavorando in società con Galatolo. Un business che è diventato negli ultimi anni una cospicua fonte di finanziamento per le famiglie mafiose.  Secondo gli inquirenti, Graziano avrebbe preso il posto di Galatolo nell’organigramma palermitano di Cosa nostra.

(fonte)

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Adesso è il momento di fare ciò che ti piace.

Adesso è il momento di fare ciò che ti piace. Non aspettare lunedì, non aspettare domani. Non fare allungare davanti a te la carovana di sogni calpestati. Non aspettare.
Non frenarti per paura o viltà. Non posporre la vita con altra morte, e non aspettare niente dalla sorte che non sia più della tua tenacia e della tua energia.
Se il tuo sogno è bello, dagli forma come il torrente scava le sponde; come il vento che vive e si trasforma.
E perché tutto risulti come tu vuoi, detta tu stesso le tue regole e converti il tuo autunno in primavera.

(Ivan Malinowski) (clic)

A proposito del giornalismo d’inchiesta

C’è una bella intervista a Maurizio Torrealta che vale la pena leggere:

E oltre alle fonti interne ci vuole anche un direttore che ti sostenga, che ti stia accanto e che ti garantisca la copertura legale se sei accusato di diffamazione , perché quando fai giornalismo investigativo vero allora puoi stare sicuro che prima o poi incontrerai una reazione articolata in modo tale da massacrarti. 

Anche nella redazione che giudichi la più piccolina, c’è sempre un buon giornalista che sta cercando di fare bene il proprio lavoro. Bisogna aiutarlo, sostenerlo, ci vogliono direttori e caporedattori che abbiano la consapevolezza che per il loro stesso giornale non c’è valore più prezioso, e che abbiano la voglia di fare del buon giornalismo.