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Giulio Cavalli

Tutta colpa dei giovani: torna il giochetto sporco della vecchia politica – Lettera43

Sono terroristi che occupano le università, fannulloni, delinquenti ambientalisti. Da raddrizzare e punire. I ragazzi tornano con prepotenza nella schiera dei nemici di un Paese gerontocratico e patriarcale che da sempre li sbeffeggia e li esclude da ogni dibattito pubblico. Forse è arrivato il momento di dire basta.

Tutta colpa dei giovani: riecco il giochetto sporco della vecchia politica

I giovani che sono terroristi perché occupano le università. I giovani che sono fannulloni perché vorrebbero il reddito di cittadinanza per stare sul divano. I giovani che manifestano per il clima perché pretendono che si ritorni nel Medioevo. I giovani che stanno rammollendo la nazione perché vogliono essere fluidi. I giovani che pretendono uno stipendio perché non hanno voglia di lavorare. Poi c’è quella frase divenuta famosa di un ex presidente del Consiglio che disse che i giovani devono faticare, spaccarsi la schiena come i loro nonni. Poi ci sono i giovani che vogliono la liberalizzazione delle droghe leggere perché sono sempre sballati. Poi ci sono i giovani che non sanno cosa sia la disciplina. E così via. Benvenuti nell’irruzione della gerontocrazia.

I giovani sono considerati colpevoli di ogni malanno di un Paese che da sempre li esclude

Nella schiera di nemici da cui si abbevera la politica sono ritornati prepotentemente i giovani. I giovani come entità indefinita che sarebbero colpevoli di qualsiasi malanno presente e futuro di un Paese che storicamente e strutturalmente non permette loro di entrare nel vivo del suo dibattito è la barzelletta di questi mesi. Il primo e principale campo di scontro è l’ambientalismo. L’industria del carbone e i suoi sostenitori politici e finanziari fanno di tutto per apparire un potere sempre più gerontocratico e patriarcale. I giovani preoccupati del loro futuro sono i nemici giurati, colpevoli di non accettare il famoso comandamento conservatore del “there is no alternative”. È normale che se arrivano ragazzi che ad alta voce denunciano le informazioni false e soprattutto elencano0 le alternative possibili allora il gioco rischia di incagliarsi. Se poi – come spesso accade – hanno dalla loro parte anche i fatti e la scienza allora diventano un nemico da punire per ammansire. Assistiamo quindi a schiere di 60enni che vorrebbero insegnare ai giovani come manifestare, nonostante non abbiano mai provato in vita la paura di non avere un welfare dignitoso (banalmente una pensione) e di non avere un Pianeta vivibile su cui poggiare i piedi. Gli stessi che hanno consegnato ai giovani un mondo allo sbando li sbeffeggiano. Eppure è stato il voto degli anziani (che preferiscono farsi chiamare maturi) a spingere Donald Trump alla Casa Bianca, secondo le statistiche è stato il voto degli anziani a soffiare sulla Brexit. Soltanto il 37 per cento degli under 30 ha votato per Trump, mentre nel Regno Unito, nella fascia tra i 18 e i 24 anni, il 73 per cento ha votato per rimanere nell’Ue.

Tutta colpa dei giovani: riecco il giochetto sporco della vecchia politica
La protesta di Ultima generazione alla Scala di Milano (Getty Images).

Quel vizio millenario di puntare il dito contro le nuove generazioni

Il sociologo Karl Mannheim, in merito all’avvento delle nuove generazioni, diceva che «l’emergere di nuovi uomini comporta la necessità inconsapevole di una nuova selezione, di una revisione nel campo del presente, ci insegna a dimenticare ciò di cui non abbiamo più bisogno, a desiderare ciò che non è stato ancora ottenuto». I vecchi borbottanti si sentono novità ma esistono da sempre. Aristotele nella sua Retorica (IV secolo a.C.) scrive «i giovani sono magnanimi; poiché non sono ancora stati umiliati dalla vita, anzi sono inesperti delle ineluttabilità, e il ritenersi degni di grandi cose è magnanimità: e ciò è proprio di chi è facile a sperare (…). Essi credono di sapere tutto e si ostinano al proposito; questa è appunto la causa del loro eccesso in tutto». Nel I secolo a. C., Orazio lamentava: «Questa gioventù di sbarbati…non prevede ciò che è utile, sperperando i suoi soldi». Secoli dopo, sono arrivati i giornali. Il sito Quartzy ha raccolto alcuni articoli. 1925: «Sfidiamo chiunque tenga gli occhi bene aperti a negare che vi sia, come mai prima, un’attitudine da parte dei giovani a comportarsi in modo grossolano, sprezzante, rude e assolutamente egoista». 1936: «Probabilmente non c’è un periodo nella storia in cui i giovani abbiano dato una tale enfasi alla tendenza a rifiutare ciò che è vecchio e desiderare ciò che è nuovo». Anni 90: «Ciò che distingue davvero questa generazione dalle precedenti è che è la prima generazione della storia americana a vivere così bene e a lamentarsi con tanta amarezza». Anni 2000: «Hanno difficoltà a prendere decisioni. Preferiscono scalare l’Himalaya piuttosto che salire una scala aziendale. Hanno pochi eroi, niente inni, nessuno stile. Desiderano l’intrattenimento, ma la loro capacità di attenzione è pari a uno zapping tv». Fino ai giorni nostri.

Tutta colpa dei giovani: riecco il giochetto sporco della vecchia politica
Scontri alla Sapienza di Roma (Ansa).

Una scuola punitiva, il carcere come metodo educativo, nuovi reati: così l’appello di Mattarella è stato ignorato

«Facciamo sì», ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, «che il futuro delle giovani generazioni non sia soltanto quel che resta del presente ma sia il frutto di un esercizio di coscienza da parte nostra. Sfuggendo la pretesa di scegliere per loro, di condizionarne il percorso». Missione fallita. I giovani sono lo strumento utile per il lamento degli anziani. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara studia riforme per nuove punizioni. Con il decreto Caivano il governo aumenta sensibilmente l’uso del carcere come metodo educativo. Gli ambientalisti si sono meritai una legge ad hoc per il reato di attivismo ambientale. La gioventù sventolata come simbolo della bancarotta morale è un giochetto infame che non si può fare a meno di denunciare.

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Da Vespa a parlare d’aborto mancava solo il prete

Quel furbacchione di Bruno Vespa ha deciso di regalarci un colpo d’occhio che conferma come in Italia siano gli uomini a decidere sui corpi delle donne invitando nella sua trasmissione a Porta a Porta ben sette uomini (7!) e zero donne (0!) per discutere di aborto. I maschietti presenti (invitati probabilmente per le loro considerevoli esperienze con il proprio utero) hanno amabilmente discusso dei recenti attacchi alla legge 194 da parte della maggioranza di governo.

La redazione di Porta a Porta ha spiegato di aver invitato tre donne del Pd (sostituite poi dal deputato Zan per loro indisponibilità) e una direttrice di giornale anch’essa indisponibile (leggi articolo a pagina 5). Ma che ne è stato dei protocolli circa il “No women no panel”, che impongono la presenza femminile nei parterre televisivi, che la presidente della Rai Marinella Soldi (che incidentalmente è anche una donna e che ieri ha richiamato Vespa con una lettera) ha firmato più volte? Le donne che non si occupano di donne e pretendono di rappresentarle semplicemente con il loro genere senza disturbarsi a proteggerne i diritti sono l’emblema di questo governo.

Giorgia Meloni è l’esempio della donna più maschilista che potesse capitare. A differenza di altre non è una donna eterodiretta da uomini messa lì per evitare problemi: è una donna eterodiretta dalla proiezione del maschio che avrebbe voluto essere. Inevitabile che un governo guidato da una donna maschilista sdogani maschi (intesi naturalmente come classe dirigente) a discutere di temi che non conoscono. A pensarci bene forse ci mancava un bel cardinale per completare il quadretto.

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Per i Cpr italiani in Albania 138mila euro al giorno solo di trasferte

Ma quanto costa lo spot dell’accoglienza dei migranti in Albania fortemente voluto e rivendicato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni? Solo un esempio: tra le spese che non sarebbero state sostenute se i centri fossero stati costruiti in Italia si trovano 252 milioni di euro per le trasferte dei funzionari ministeriali.

Il protocollo firmato tra Roma e Tirana per la costruzione di centri in Albania ha costi enormi per i viaggi del personale

Openpolis ha scufrugliato tra i numeri del protocollo Italia-Albania firmato a Roma il 6 novembre 2023 per il “rafforzamento della collaborazione in materia migratoria“, ratificato poi dal parlamento italiano lo scorso febbraio. L’accordo prevede l’istituzione di due centri in Albania, uno per la primissima accoglienza (nella località di Shengjin) e l’altro con funzioni di Hotspot e centro di permanenza e rimpatrio (Cpr), a Gjader. I centri si trovano a circa 20 chilometri l’uno dall’altro, nel nord del paese. Secondo le promesse del governo i due centri dovrebbero essere operativi, seppur in modalità ridotta, tra un mese circa. Una relazione tecnica ricostruisce le spese a preventivo ipotizzando un costo di circa 650 milioni di euro in 5 anni, di cui solo una piccola parte riguarda però la gestione dei centri. È evidente – sottolinea Openpolis –  che si tratti di una spesa considerevole che tuttavia non sembra utile né per favorire i rimpatri, né per migliorare la logistica dell’accoglienza o l’integrazione di coloro che vedranno riconosciuta la loro richiesta di protezione internazionale.

I costi di gestione dei Cpr si aggirano intorno ai 30 milioni di euro circa in 5 anni

Il governo sostiene che in Albania saranno accolte 3mila persone al mese, per un totale di 36mila persone l’anno. In effetti anche il protocollo fa riferimento a questa cifra, indicandola però come limite massimo e non come la presenza media. Le cifre sollevano dubbi. Nella manifestazione d’interesse pubblicata dal ministero dell’interno per la gestione delle strutture, si parla di una capienza massima poco superiore a mille persone, di cui 880 nell’hotspot e 144 nel Cpr. In quel documento si stima un costo massimo di 34 milioni di euro l’anno per la gestione delle due strutture: una cifra molto alta, anche se distante dai 650 milioni di costi complessivi. Secondo la relazione tecnica però la spesa effettiva, calcolata sui costi storici per la gestione di strutture di questo tipo, dovrebbe aggirarsi interno ai 30 milioni di euro circa in 5 anni (4,4 milioni di euro nel 2024 e 6,5 milioni l’anno tra 2025 e 2028).

252 milioni servono solo per le trasferte dei funzionari dei ministeri coinvolti

Openpolis sottolinea come rimangano oltre 600 milioni di euro che non riguarderebbero spese di gestione. Alcune di queste voci di costo – scrive Openpolis – sarebbero state forse simili se i centri fossero stati costruiti in Italia. Parliamo ad esempio dei costi per la realizzazione e la manutenzione delle strutture. La dislocazione in Albania prevede 95 milioni di euro per il noleggio delle navi, di quasi 8 milioni di euro di assicurazioni sanitarie per operatori italiani in missione all’estero e di ben 252 milioni di costi per le trasferte dei funzionari del ministero dell’interno, della giustizia e della salute. Una cifra enorme, circa 138mila euro al giorno, è infatti necessaria a pagare viaggi, diarie, vitto e alloggio del personale interforze, dei funzionari prefettizi, di quelli del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), del personale sanitario di frontiera (Usmaf) e di quello dell’istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti (Inmp). 

A questo si aggiunge l’illogicità delle identificazioni che dovranno avvenire sulle navi, oltre ai trasbordi tra Albania e Italia nel caso in cui le richieste dei richiedenti asilo vengano accettato. E le complicazioni sugli eventuali rimpatri. 

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In fondo le odiano, le autonomie

Nel turbine delle notizie di giornata colpisce la decisione del governo di Giorgia Meloni di impugnare un provvedimento amministrativo della Regione Emilia Romagna che dava le linee di indirizzo alle Ausl, istruzioni tecniche su come dare seguito alle eventuali richieste di suicidio assistito.

Il ricorso presentato dall’Avvocatura dello Stato si basa sulla “carenza assoluta di potere in capo alla Regione Emilia-Romagna all’adozione dei provvedimenti impugnati”, il fatto che questi provvedimenti siano in contraddizione con le “previsioni statali di legge in materia di programmazione sanitaria” e anche il fatto che la verifica dei requisiti sia in capo al Comitato regionale per l’etica nella clinica e da commissioni di area vasta, enti “diversi da quelli espressamente chiamati dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 2019 ad operare in attesa dell’intervento del legislatore nazionale”.

Più banalmente Meloni e la sua truppa vogliono imporre il loro oscurantismo perché ancora una volta sono incapaci di colmare un vuoto legislativo in Parlamento. Incapaci di inventarsi nuovi diritti distruggono gli esistenti per dare l’impressione di un’azione politica. Un’altra evidenza dell’ipocrisia è il fatto che – come sottolinea l’associazione Luca Coscioni – l’aiuto medico alla morte volontaria – che è un diritto stabilito, a determinate condizioni, dalla Corte costituzionale – la competenza delle Regioni è evidente. Un ulteriore particolare è che un governo che professa l’autonomia sia da mesi impegnato a imporre decisioni all’autonomia scolastica, all’autonomia regionale, all’autonomia delle persone. 

Buon venerdì. 

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La scuola di Valditara, tutta ordine e disciplina

Che il ministro della Scuola Valditara sia interessato più all’ideologia che all’istruzione è evidente fin dal suo insediamento. Nella riforma che ha in mente il ministro scompaiono i temi della precarietà, dell’edilizia scolastica, del supporto ai disabili e ci si concentra nel voto in condotta. Il quadro è chiaro. 

Ma per toccare con mano la scuola che ha in mente Valditara basta ascoltare i racconti di coloro che hanno assistito a una sua visita in una scuola di Potenza, dove a giorni si vota per le elezioni regionali. Il rappresentante del governo è stato accolto nel piazzale d’ingresso alla scuola dagli alunni che sventolavano bandierine tricolore mentre Valditara si è fermato a salutare qualcuno di loro. “Potrebbe sembrare un filmato dell’Istituto Luce, se solo le immagini fossero in bianco e nero”, ha detto Paolo Laguardia della Cgil di Potenza. Dall’Anpi locale scopriamo anche della “presenza di un animatore che, dotato di microfono e altoparlante, ha dapprima presentato il ministro e la delegazione che lo accompagnava e poi ha invitato tutti a cantare ‘Supereroi’”: “sembrava più di assistere a una parata militare, – scrive Anpi – senza però il presentatàrm, piuttosto che all’accoglienza di un servitore dello Stato. Si tratta di una modalità da tempo estranea alle scuole italiane; purtroppo, però, ieri è stata riprodotta a Potenza, tra l’altro in piena campagna elettorale”. 

In Abruzzo il ridimensionamento scolastico taglierà 26 autonomie scolastiche, con una riduzione di quasi il 30%. Ma di questo il ministro non ha parlato. Si è goduto la passerella e siamo sicuri avrebbe dato 10 a tutti per l’ordine e la disciplina. 

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Marano, il cavallo (Rai) della Lega

Il bilancio è approvato, le candidature sono già quasi tutte consegnate e tutto è pronto a Viale Mazzini in vista della formazione del nuovo Consiglio d’amministrazione Rai. Domani è l’ultimo giorno per presentare le candidature e tra i candidati in quota Lega gira con insistenza il nome di Antonio Marano, spinto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio e responsabile editoria del partito, Alessandro Morelli.

Da Silvio ai Giochi

Ex sottosegretario di Silvio Berlusconi, Marano in Rai ha coperto diversi incarichi. Tra i corridoi di Viale Mazzini si vocifera che punti addirittura alla presidenza, ma i suoi conflitti di interessi rischiano di rivelarsi un ostacolo insormontabile. Il primo più pesante inciampo è il suo ruolo di direttore commerciale della Fondazione Milano-Cortina 2026 con delega ai media partner. Detto in soldoni Marano è colui che vende e acquista spazi pubblicitari in tv e sui giornali.

Proprio in quella veste ha presentato in persona a Viale Mazzini, il bouquet degli spazi pubblicitari da comprare sui Canali Rai e Social, con un preventivo che porterà nella casse dell’Azienda pubblica tra gli 8 e i 12 milioni di euro. Inoltre, in veste di amministratore Rai, Marano dovrebbe giustificare anche al Collegio dei Sindaci e alla Corte dei Conti l’incentivo incassato tre anni fa (in tutto due anni di stipendi) per lasciare la rete pubblica e poi rientrarci con tutti gli onori.

Sulla sua candidatura al Cda della Rai (senza perdere il ruolo nella fondazione olimpica) peserebbe poi il suo ingombrante curriculum. Di Marano in Rai ci si ricorda per la condanna del 16 dicembre del 2010, insieme all’allora direttore generale Saccà, della Corte dei Conti per avere sospeso la trasmissione di Michele Santoro Sciuscià che all’epoca andava in onda su Rai2. Nel novembre del 2012 viene condannato in primo grado per la falsa testimonianza sulle ragioni dell’espulsione del giornalista Massimo Fini dalla Rai con relativa soppressione, ancora prima della partenza, del suo programma Cyrano.

Il processo si chiuse per prescrizione in secondo grado. Fini raccontò che lo stesso Marano gli parlò in quell’occasione di “gravi interferenze berlusconiane” e rese pubbliche le registrazioni di quella conversazione. Marano risulta essere quindi il perfetto coacervo di conflitti di interessi della nuova Rai al servizio degli interessi della politica molto di più di quelli del servizio pubblico. Rimane da capire perché sul sito della Fondazione Milano-Cortina, sostenuta da lauti finanziamenti pubblici, non sia possibile recuperare le informazioni sui compensi dei suoi componenti come prescrive la legge. Chissà se l’Anac se n’è mai accorta.

Per il cumulo di incarichi, Marano sarebbe in perfetta continuità nel prossimo Cda della Rai, con il consigliere in quota Lega, Igor De Biasio, presidente di Terna e ad di Arexpo che era costretto a uscire dalla stanza quando venivano trattati temi in conflitto. Una scena che potrebbe ripetersi con la nomina di Marano. Forte, no? Una Rai svuotata e silenziata nelle sue competenze migliori con un Consiglio di amministrazione tentacolare negli interessi parapolitici.

Gli altri pretendenti in Rai

Intanto, restano in tribuna gli altri candidati. In primis Francesco Storace conduttore de Il Rosso e Nero su radio Uno; Alessandro Casarin, direttore Tgr in scadenza a novembre, Federica Zanella ex parlamentare di Forza Italia e Lega, non rieletta alle Politiche 2022 ed ora nel Consiglio di amministrazione di Trenitalia. Domani scade il termine per depositare alle Camere le candidature in attesa dei due membri del Cda designati dal Mef.

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La bugie della ministra Calderone sui morti sul lavoro

Il 13 aprile in un’intervista a La Stampa la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone ha detto che sul numero di morti sul lavoro “prima della pandemia eravamo al di sotto della media europea”. Non è vero. 

Secondo la ministra Calderone l’Italia sarebbe sotto la media dei morti sul lavoro tra i Paesi Ue. È falso: siamo tra i peggiori

Commentando i sette lavoratori morti alla centrale idroelettrica di Bargi, cavalcando la ciclica indignazione di morti che meritano di occupare per qualche ora il dibattito politico, la ministra ha detto: “I numeri vanno letti con attenzione”. Secondo la ministra, infatti, l’Italia ha più morti sul lavoro rispetto alla media europea solo perché ha inserito la Covid-19 “tra le cause di infortunio sul lavoro”. Secondo la ministra addirittura l’Italia sarebbe stata sotto la media europea prima della pandemia. 

Come spiega Pagella politica le statistiche sulle morti sul lavoro nei 27 Paesi membri dell’Unione europea sono raccolte periodicamente da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue. I dati più aggiornati sono stati pubblicati a ottobre e fanno riferimento al 2021. Per confrontarli però bisogna tenere conto almeno di due fattori, ovvero che Paesi più grandi, più popolosi e con più occupati hanno un numero di morti sul lavoro più alto in valori assoluti e che la diversa pericolosità”dei settori lavorativi non è intesta allo stesso modo. Entrambi questi fattori – spiega Pagella politica stanno alla base di uno specifico indicatore calcolato da Eurostat: il cosiddetto “tasso standardizzato di incidenza”. Questo tasso indica il numero di morti sul lavoro ogni 100 mila lavoratori, aggiustato per le dimensioni dei singoli settori economici. 

Tenendo conto di questo metodo nel 2021 l’Italia ha registrato un tasso standardizzato di incidenza pari a 3,17 morti ogni 100 mila lavoratori, l’ottavo dato più alto tra i Paesi Ue, contro una media europea pari a 2,23 (Grafico 1). Tra gli altri grandi Paesi Ue, la Francia ha un dato più alto di quello italiano (4,45), mentre Germania (1,08) e Spagna (2,49) hanno numeri più bassi. Al primo posto c’è la Lituania (5,45), all’ultimo i Paesi Bassi (0,43).

È vero che con la pandemia, dal 2020 in poi, gli stati Ue hanno adottato criteri diversi per catalogare le morti di persone che hanno contratto la malattia sui luoghi di lavoro. L’Italia, a differenza di altri Paesi, ha riconosciuto l’infezione contratta sul luogo di lavoro come infortunio sul lavoro. Negli anni Covid tra l’altro i numeri sono stati sensibilmente condizionati dall’arresto di alcune attività professionali e dall’accelerazione di altre (come i lavoratori in ambito sanitario). Per questo i dati del 2020 e del 2021 sono considerati anomali quando si tratta di analizzare gli incidenti professionali mortali. La tesi della ministra Calderone è però sconfessata dai numeri.

Nel 2019 l’Italia ha registrato un tasso di 2,61 morti sul lavoro, contro una media europea di 2,17

Nel 2019, spiega Pagella politica , l’Italia ha registrato un tasso standardizzato di incidenza di 2,61 morti sul lavoro, contro una media europea di 2,17. In generale, dal 2008 in poi (ossia da quando sono disponibili i dati Eurostat), il tasso italiano è sempre stato superiore a quello europeo. Dunque non è vero che l’Italia è sopra alla media Ue solo per colpa della Covid-19. La ministra Calderone cita numeri che non esistono. Nel frattempo l’indignazione per i morti nell’incidente del 9 aprile sono scivolati nelle retrovie delle notizie. La sicurezza sul lavoro in Italia è un sottotesto da sventolare in occasione delle consuete tragedie proponendo ogni volta un maggiore impegno che poi non si realizza. L’importante è apparire credibili nel lutto e nei numeri. Anche se i numeri sono falsi. 

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Ogni 28 ore in Italia un amministratore pubblico viene minacciato

Ogni 28 ore un sindaco, un amministratore pubblico o un dipendente della pubblica amministrazione viene minacciato. Sono 315 gli atti intimidatori censiti da Avviso Pubblico nel 2023 con un importante incremento al Nord dove si verificano il 39% degli episodi totali. 

Telefonate, incendi e microspie

A Lonate Pozzolo la sindaca Elena Carraro – era ancora in campagna elettorale – ha ricevuto una telefonata sul luogo di lavoro. Dall’altra parte della cornetta si sentiva la colonna sonora del film Profondo rosso. Un consigliere della sua lista nel 2019 aveva ricevuto misteriosi spari sotto casa. Aveva denunciato la Ndrangheta potentissima in quel territorio, dove la cosca dei Farao-Marincola spadroneggia da tempo. A Chivasso, in provincia di Torino, il sindaco Claudio Castello per due anni è stato protetto da un servizio di vigilanza dinamica dei carabinieri: due lettere anonime minacciavano lui e i componenti della sua famiglia. A Pisa è finita sotto scorta l’assessora al Sociale Veronica Poli per le minacce ricevute a Follonica (Grosseto) sono finiti sotto attacco l’assessora Mirjam Giorgieri e altri componenti della Giunta.

Il sindaco di Ceccano (Frosinone) Roberto Caligiore ha ritrovato una microspia nel vano porta oggetti della sua auto. A Caivano, comune sciolto per mafia, un consigliere comunale era stato avvicinato “da due persone a bordo di uno scooter e colpito con un violento pugno al volto, poco prima del Consiglio comunale al quale avrebbe partecipato con la faccia gonfia e livida”. Bombe invece nei pressi delle abitazioni dei sindaci di Roccapiemonte e Castel San Giorgio, nel salernitano. A Terlizzi (Bari) il dirigente del settore urbanistica e sportello attività produttive del Comune ha ricevuto un proiettile in un pacco postale. A Corigliano Rossano, in provincia di Cosenza, bruciano le auto della presidente del Consiglio comunale e di un imprenditore mentre finisce in arresto un uomo che ha minacciato un funzionario del Comune. 

Nel rapporto di Avviso Pubblico censiti 315 atti intimidatori con un importante incremento al Nord dove si verificano il 39% degli episodi totali

L’associazione Avviso Pubblico presentando il nuovo rapporto “Amministratori sotto tiro” ha evidenziato come il 55% dei casi di aggressione e minacce si registra nei comuni al di sotto dei 20mila abitanti; mentre il 21% avvengono in Comuni che in un passato più o meno recente sono stati sciolti per infiltrazioni mafiosa. È il caso di ben 42 Comuni. Ancora una volta si registra un’alta percentuale di minacce e aggressioni alle amministratrici: il 17% del totale. Ma a cambiare è la modalità di intimidazione: le lettere minatorie cedono il passo ad azioni più violente come gli incendi.

“Per queste ragioni Avviso Pubblico conferma la propria disponibilità a portare esperienza, conoscenza e proposte all’interno dell’Osservatorio costituito presso il Ministero dell’Interno, manifestando al Parlamento e al Governo la necessità di confermare per l’anno 2025 e seguenti gli stanziamenti del fondo a beneficio degli amministratori e di chi è oggetto di atti di intimidazione. La vicinanza di tutti i cittadini e il sostegno a chi è in prima linea sul territorio si manifesta con gesti concreti e con la cooperazione delle forze dell’ordine e della magistratura a tutela di chi rappresenta le istituzioni repubblicane», ha spiegato il presidente di Avviso Pubblico Roberto Montà.

“I dati – spiega – confermano quantitativamente un fenomeno inaccettabile, che in alcuni luoghi d’Italia ha una pervasività tale da diventare quasi “ordinaria” modalità di relazione con le istituzioni. Atti concreti come violenza fisica, incendi e attentati dinamitardi – non solo lettere minatorie, offese, fake news e ingiurie sui social – si concentrano soprattutto al Centro-Sud”. 

Un fenomeno costante negli anni. Nel 2023, si registra una lieve flessione del 3,5% rispetto al 2022 (315 casi invece di 326), lontani dai numeri del 2018 (574). Per la prima volta dal 2016 la maglia nera delle intimidazioni va alla Calabria (con 51 casi censiti, +21% sul 2022), soprattutto nel Cosentino dove – a Corigliano e in altri comuni – si sono registrati 15 episodi. Poi vengono Campania (39 vicende, -20%), Sicilia (35, -30%) e Puglia (32, -33%). Il 21% dei 315 atti intimidatori (fra cui vanno segnalati 14 in terra campana, 10 sia in Calabria che in Sicilia e 5 in territorio pugliese) avvengono in comuni sciolti per mafia. Marche e Friuli Venezia Giulia (3 episodi ciascuna), Basilicata e Molise (4) sono le regione con meno segnalazioni. 

Il sindaco di Corigliano-Rossano: “molti cittadini ti spiegano che, per fare il sindaco, bisogna essere una sorta di super eroe”

Flavio Stasi, sindaco di Corigliano-Rossano spiega che ”le minacce arrivano quando si mette mano ad ambiti delicati come gli abusi sul demanio, gli spazi cimiteriali, i posteggi commerciali e altro ancora”. Il risultato finale, spiega Stasi, è che “molti cittadini ti spiegano che, per fare il sindaco, bisogna essere una sorta di super eroe, cosa che io contesto perché in realtà certi ruoli dovrebbero essere appannaggio di tutte le persone per bene”. 

L’Italia primeggia tra i Paesi dell’Ue. Solo quest’anno è stata scalzata dalla Francia, dopo avere detenuto il primato dal 2020 al 2022. Ma al contrario di Avviso Pubblico, l’indagine ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project) non censisce alcune tipologie di minacce.

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I garantisti a orologeria

I garantisti a orologeria che denunciano la magistratura a orologeria sono uno dei tanti mali di questo Paese, scosso solo per qualche minuto da notizie che attraversano la politica giusto il tempo di ritagliare qualche comunicato stampa in attesa della polemica successiva. I garantisti a orologeria li riconosci perché solitamente se ne fottono del carcere ma denunciano i malanni fisici e le scarse condizioni di vivibilità dell’unica cella in cui sta il loro amico – spesso il loro compagno di partito – incappando nell’errore degli stupidi: leggere il mondo con l’ottica della sola esperienza personale.

I garantisti a orologeria li riconosci perché i giudici e i magistrati vengono valutati in base all’affinità con le loro idee. Se convergono negli interessi politici sono quindi degli ottimi uomini di legge, se applicano leggi che smontano la loro propaganda allora sono dei sabotatori. I garantisti a orologeria li riconosci perché sono benevoli con i colletti bianchi e contemporaneamente sono prefetti di ferro con i disperati. Tra le righe il messaggio è “abbiamo già troppi problemi con gli straccioni, lasciamo in pace le brave persone”. 

I garantisti a orologeria li riconosci perché fino a ieri mattina chiedevano lo scioglimento del comune di Bari e se possibile della Puglia intera. Ci dicevano che l’indagata che prima era nella destra ormai apparteneva alla sinistra, quindi colpa della sinistra. Poi ieri hanno indagato un politico che da sinistra si è spostato a destra e ripetono che sia colpa della sinistra. Ma la Regione Sicilia non vogliono scioglierla, niente di niente. 

Buon giovedì. 

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Pochi Rave e meno Party. Altro flop delle destre

Ve la ricordate la legge contro i rave party? Fu il primo discusso provvedimento del governo Meloni appena insediato, con la presidente del Consiglio e il suo vice Matteo Salvini – all’epoca alleato più mansueto – che bramavano l’essere indicati fin da subito come uomini forti al comando. Proprio in quei giorni si discuteva di un rave party dalle parti di Modena, presentato come la più grave minaccia per la democrazia italiana.

Ve la ricordate la legge contro i rave party? Fu il primo discusso provvedimento del governo Meloni appena insediato

Meloni e Salvini si intestarono un decreto uscito dal Consiglio dei ministri che conteneva nuove norme per evitare l’organizzazione di eventi simili. Che la guerra ai rave party fosse la prima ossessiva urgenza del governo lo dimostra anche lo strumento usato, il decreto legge che secondo l’articolo 77 della Costituzione andrebbe adottato solo in casi di necessità e urgenza. Il decreto straordinariamente necessario e urgente oggi dimostra tutto il suo nanismo politico di fronte alle impellenze contemporanee con la terza guerra mondiale a pezzi alle porte dell’Europa.

È il primo di una lunga serie di provvedimenti che inseguono il sensazionalismo del momento senza avvicinarsi lontanamente alla dignità e alla durabilità delle riforme che sarebbero richieste a un governo credibile. Ma c’è di più. Quella norma – lo scrive il ministro della Giustizia Carlo Nordio – ha prodotto finora solo 8 persone imputate e nessuna condanna. Il sedicente pugno duro non era altro che una manata contro il vento, utile alla politica percepita che alimenta il giornalismo d’allarme. Per questo andrebbe ricordata molto bene la legge contro i rave party: per osservare il pugno vuoto due anni dopo. È il lascito politico di questo governo.

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