Vai al contenuto

Giulio Cavalli

Il coraggio di denunciare, finalmente: Stefano Rizzo

Un articolo da incorniciare del solito Davide Milosa per una Lombardia che lancia segnali confortanti: una notizia che è il punto di partenza per immaginare davvero un’altra storia, un’altra normalità e una quotidianità di schiene diritte non spacciate per eroismo. Una buona novella domenicale.

la-mafia-non-esisteNovate Milanese la nebbia rimonta velocemente dai campi. Le 13 del 25 gennaio 2012. In via Francesco Baracca già i contorni delle case scompaiono. La strada scappa via, mentre il giallo dei lampioni rimbalza sulla calotta grigia di acqua e smog. In questo lembo di periferia, Stefano Rizzo ci arriva a bordo della sua auto. Pugliese di Trinitapoli, in riva al Naviglio sale da ragazzino. Vita dura la sua, a faticare e vivere tra le strade di Quarto Oggiaro. Rizzo, però, è un pugliese tosto. Sotto al Duomo, vuole arrivare. Arriverà. Perché in quell’inverno, quando la sua auto si ferma davanti allacarrozzeria Veneta, Rizzo è un imprenditore affermato nel campo dell’edilizia. Ha 48 anni, una moglie e due figli. La sua è una storia esemplare. Che, però, da lì a pochi minuti andrà a sbattere contro il muro della ‘ndrangheta. Sì perché in quel pomeriggio di fine gennaio, l’imprenditore ha un appuntamento con Maurizio Massè, luogotenente di Enrico Flachi, fratello di Giuseppe, boss alla milanese e volto storico delle cosche calabresi che da tempo hanno lanciato un’opa mafiosa alla politica e all’impresa lombarda. In quel periodo, però, il padrino si trova in carcere. Arrestato nella primavera del 2011 assieme a una manciata di presunti boss, picciotti e colletti bianchi. E’ l’indagine Caposaldo. Una storia di mafia, politica e violenza che da tempo va in scena alla settima sezione del tribunale di Milano, rappresentando un quadro inedito per l’ex capitale morale d’Italia:la paura e l’omertà delle vittime nel denunciare i propri estortori mafiosi. Capita così che davanti ai magistrati i commercianti raccontino una verità, dopodiché in aula, con i boss dentro al gabbione, ritrattino, inciampando in esplicite reticenze. Altra pasta per Rizzo che, incassata la minaccia della ‘ndrangheta, non ci pensa due volte, denuncia tutto e fa arrestare sia Massè che il fratello di don Pepè Flachi. Una vicenda a lieto fine. Ma coraggiosa come mai la cronaca ha registrato in questi ultimi anni in terra di Lombardia.

AMBASCIATE MAFIOSE E LA MINACCIA AI FIGLI
Ecco, allora, cosa mette a verbale l’imprenditore. “Massè mi disse che loro, inteso i Flachi, non ragionano, che avevano già fatto i sopralluoghi, sapevano dove abitavo, dove andavano a giocare i miei figli”. Perché una tale minaccia? Per capire bisogna tornare indietro di qualche settimana, quando Rizzo, parlando con un suo operaio infedele, viene a sapere che la ‘ndrangheta è entrata in prima persona nella gestione di un credito che lo stesso imprenditore vanta nei confronti diDomenico Di Lorenzo, proprietario del ristorante 1958 in via Amoretti a Milano. Tempo prima, infatti, Rizzo ha ristrutturato il locale per 300mila euro. Lavori sui quali il titolare ha avuto da ridire. La discussione finisce in tribunale. I giudici danno ragione a Rizzo. Di Lorenzo deve pagare. Lo farà, ma solo in parte. All’appello, infatti, mancano 55mila euro. E’ su questa cifra che interviene il clan. I boss inviano messaggi. E lo fanno attraverso Antonino Benfante, pregiudicato siciliano, assunto dallo stesso Rizzo.

L’ambasciata è chiara: il ristorante 1958 è diventato in parte di proprietà di don Pepè e dunque, l’imprenditore deve rinunciare a quel denaro. “Altrimenti sarebbe stato difficile continuare a lavorare con le sue società sul territorio”. Con il passare dei giorni la situazione si chiarisce ulteriormente. Ancora prima di iniziare i lavori, Di Lorenzo aveva chiesto ai Flachi un prestito da 200mila euro. Un bel tesoretto che però il ristoratore non era stato in grado di onorare. Motivo: il debito contratto con Rizzo. Annota il gip Alessandro Santangelo nelle 24 pagine di ordinanza di arresto: “Di Lorenzo di fatto aveva chiesto un loro (dei Flachi,ndr) intervento finalizzato alla risoluzione dei debiti di Rizzo”.

IL CORAGGIO DELLA DENUNCIA
Per giorni, gli uomini del clan fanno la posta davanti all’impresa di Rizzo. Massè, addirittura, entra e chiede di parlare con il titolare che però non si fa trovare. L’appuntamento, però, è solo rinviato al 25 gennaio davanti alla carrozzeria Veneta di Novate Milanese. Durante quel colloquio e davanti alle esplicite minacce ai suoi bambini, Stefano Rizzo vacilla e fa capire al suo interlocutore di voler rinunciare al denaro. Il travaglio psicologico dell’imprenditore è enorme. Il giorno dopo, su insistenza di Massè, l’incontro con Enrico Flachi. L’appuntamento è fissato ai tavolini dell’Officina della Birra di Bresso, storico luogo di ritrovo della ‘ndrangheta, i cui titolari, però, non sono mai stati coinvolti nelle indagini. Racconta Rizzo: “Dopo circa 15 minuti è arrivato Enrico Flachi a cui ho raccontato la genesi e lo sviluppo del mio credito a Di Lorenzo (…) Mi ha anche detto che apprezzava molto il fatto che io avessi promesso di rinunciare ai 55mila euro (…) e che qualsiasi cosa di cui avessi avuto bisogno avrei potuto rivolgermi a loro”.

“L’ESTORSIONE E’ TUTTA DA PROVARE”
Rizzo, però, ci ripensa. In fondo, la mentalità di quei personaggi ha imparato a conoscerla vivendo a Quarto Oggiaro. Sa che dopo quei 55mila euro sarebbero arrivate altre richieste. Decide e forse compie un azzardo. In un altro incontro con Massè rivela (mentendo) di essere stato chiamato da magistrati e carabinieri per chiarire i motivi delle visite di Flachi e dei suoi uomini. L’altro ci casca e diventa remissivo. “Dice che il suo intervento e quello dei suoi amici era solo funzionale a ristabilire buoni rapporti tra Rizzo e Di lorenzo”. Dopodiché, però, mostra tutta l’essenza di quella trattativa. Racconta Rizzo: “Subito dopo mi ha detto: tanto devono provarla l’estorsione e mi devono portare davanti chi l’ha detto, io non ho fatto niente”. Tanto basta. Il pm della Dda di Milano Paolo Storari chiede al giudice l’arresto di Massè e Flachi. Per i due le manette scattano il 23 novembre 2012. L’accusa: estorsione aggravata dal metodo mafioso.

UN’OCCASIONE PER LE ISTITUZIONI MILANESI
L’operazione coordinata dal Gico di Milano, però, resta tra le pieghe della cronaca. Il giorno dopo, infatti, i quotidiani e sono impegnat a raccontare il tentativo (riuscito in pieno) della cosca Belloccodi conquistare l’ennesima impresa lombarda: la Blue call di Cinisello Balsamo. Eppure, la storia di Stefano Rizzo vale più di tanti arresti. Prima di tutto perché soddisfa, finalmente, quella sete di denuncia sempre sbandierata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini (“Davanti al mio ufficio non c’è certo la fila di imprenditori che vuole denunciare”). E soprattutto apre uno squarcio nel velo di omertà che recentemente ha costretto il giudice Aurelio Barazzetta a ricorrere alla cosiddettalegge anti-omertà per aggirare le reticenze in aula. Capita, guarda caso, per il processo alla cosca Flachi. Qui, davanti a quattro commercianti che ritrattano, il tribunale ha deciso di utilizzare il quarto comma della legge 500 del codice di procedura penale. La norma prevede di fare entrare nel processo le prime dichiarazioni delle vittime al pubblico ministero. Un escamatoge, per nulla abusato, che permette di aggirare il timore provocato dalla presenza dei boss nel gabbione. La stessa legge è stata invocata dalla Corte di Cassazione che l’agosto scorso ha bocciato (con rinvio) la sentenza d’Appello del processo Cerberus sulle infiltrazioni mafiose della cosca Papalia a Buccinasco. Anche in quel processo (concluso nel maggio 2011), imprenditori e commercianti in aula hanno negato, ritrattato o addirittura stravolto i contenuti dei primi verbali. Anche in quel processo, come per Caposaldo, il giudice era Barazzetta che minacciò le presunte vittime di indagarle per falsa testimonianza. La storia di Stefano Rizzo doveva ancora essere raccontata. Ma oggi, che la denuncia sta scritto nero su bianco, ci si aspetta che le istituzioni milanesi (prime a dover essere imputate di omertà nei confronti della ‘ndrangheta lombarda) escano dal loro torpore per dare lustro e visibilità a questo imprenditore coraggioso.

Scriva. Sempre.

Scriva. Sempre. Tutti i giorni. Un tweet, un post, una lettera, un articolo. Rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta, ha la fortuna di avere a disposizione uno strumento straordinario: internet. Lo sfrutti. La rete è la sua più grande alleata, per fare ricerche, per entrare in contatto con altri giornalisti, per cominciare a raccontare le sue storie anche se non lavora in un giornale. Cerchi di scrivere in modo chiaro e semplice. Non abbia paura di far rileggere i suoi articoli a qualcuno di cui si fida prima di pubblicarli. Esca. Si guardi intorno. Sia curioso. Faccia domande. Il mondo è pieno di storie incredibili che aspettano solo di essere raccontate. E i buoni giornalisti non saranno mai abbastanza.

I tre consigli di Giovanni De Mauro ad un aspirante giornalista.

cv1

Le secondarie in Lombardia

A-N-jEZCQAEoUfy.jpg-largeSono le elezioni che ci interessa vincere: le secondarie in Lombardia. Ieri hanno votato 150.000 persone (a pochi passi dal Natale, sotto la neve e poco dopo una chiamata ai seggi per le primarie nazionali): il dato è più alto delle aspettative e si assesta circa ad un terzo del dato delle primarie nazionali. Nonostante la milanocentricità che tutti prevedevano queste primarie (che siano state civiche, politiche o qualsiasi altra cosa) consegnano alla Lombardia un candidato costruito su un consenso reale e spesso nelle percentuali. Forse alla fine avevamo ragione a chiedere le primarie come passo indispensabile per una candidatura che fosse realmente riconosciuta.

Il risultato di Di Stefano non è una sorpresa, no: i temi dell’ambiente, dell’intollerabile privatizzazione di scuola e sanità, del reddito minimo garantito sono argomenti sentiti e veri anche qui dove il centrodestra (e il centrocentrocentrosinistra) ha finto di non sentirci ed è inevitabile che l’alternativa al formigonismo debba passare da politiche sociali, sanitarie, di infrastrutture e di lavoro che siano realmente diverse. L’augurio che ci possiamo fare per la prossima Lombardia è che i temi dei candidati rimangano tutti in campo (lo scrivevo ieri).

Ora è il caso di uscire dall’autismo di coalizione e ripartire da quei 150,000 voti e dai volontari sui territori: sono il capitale “sociale” su cui costruire la Lombardia.

Buon lavoro, Umberto e buon lavoro a noi.

(mi concedo un post scriptum polemico perché mi piaccio così: ho appoggiato Umberto con convinzione per l’amicizia che ci lega, per la discontinuità che può garantire in Lombardia e per quello che scrivevo qui,  e perché questa è la posizione nazionale del partito che mi onoro di rappresentare in Consiglio Regionale. Avete letto bene: posizione nazionale. Poi in queste ultime settimane ho visto di tutto: chi appoggiava Pizzul perché era vicino ai temi di SEL che è passato dal sostenere Ambrosoli al dichiarare il “liberi tutti” per poi tornare ad essere ambrosoliano e da ieri distefaniano innamorato. Insomma, vale tutto per ritagliarsi un posto al sole: l’accusa che “qualcuno” soffiava nelle orecchie riferendosi a me e Pippo Civati. Ora li vedrete tutti come cavallette nella postura del scendiletto per una manciata di voti in più.

Poi se vogliamo confrontarci sul ruolo che SEL può avere nel quadro che va delineandosi, ben venga. Perché la politica è dibattito pubblico e aperto e le piccole beghe di bottega smazzate tra pochi fanno sorridere. Ma davvero.)

 

Formigoni e i 31 dirigenti assunti in “gran segreto”

Schermata 2012-12-15 alle 14.46.55Per il Tar e il Consiglio di Stato è tutto illegittimo: il bando di concorso, mai apparso in «Gazzetta Ufficiale», e il provvedimento con cui la giunta ha cercato di rappezzare la situazione. Ciò che stiamo per raccontarvi accade nella più popolosa e ricca Regione d’Italia, che contribuisce per un quarto alla formazione del PiI, ha il primato dei migliori ospedali ed è considerata un modello d’efficienza: la Lombardia. 

La giustizia amministrativa invalida l’atto, ma la Regione «sana» con legge retroattiva Risultato: Giunta condannata al risarcimento dal Tar.

Una delle solite storie di Regione Lombardia marchiata dal formigonismo più becero. Forse quando parliamo tutti del libro della Minetti rischiamo di perdere il nodo politico che più di tutti sarà difficile da estirpare in caso di vittoria: una macchina amministrativa e dirigenziale completamente in mano agli amici degli amici che sarà sicuramente lo scoglio più difficile di qualsiasi inizio di legislatura. Per questo le soluzioni che si propongono per “deforestare” il sistema ciellino dovrebbero essere articolate e raccontate con calma e dovizia di particolari agli elettori. Passare dallo slogan al progetto legislativo e amministrativo è la maturità che gli elettori ci chiedono per risultare credibili nella guida della Regione.

La terrificante storia dei dirigenti lombardi è su Il Sole 24 Ore e la potete leggere qui.

Ne resterà solo uno

Primarie-Kustermann-e-Di-Stefano-per-Bersani.-Ambrosoli-per_h_partb“Ne resterà solo uno” mi scrive simpaticamente (ma drammaticamente) Agostino su twitter: si parla di quaranta consiglieri indagati per peculato al Pirellone. Lo scrive La Stampa, Il Fatto Quotidiano e in questi minuti un po’ tutti stanno riprendendo la notizia.

E’ la fine degna di una legislatura indegna nei comportamenti, nelle politiche e nella rappresentanza della classe dirigente. Per predisposizione e per passione mi hanno sempre appassionato più gli inizi piuttosto che l’analisi del disfacimento e per questo aspetto domenica perché le primarie (civiche, mi raccomando) dicano chi può essere il candidato per la Lombardia che guidi una coalizione di centrosinistra (meglio di sinistracentro, possibilmente) per segnare una discontinuità etica oltre che politica.

E devo ammettere che queste primarie hanno almeno toccato i temi che per troppi anni sono sembrati un tabù anche dalle nostre parti come l’eccessiva privatizzazione di scuola e sanità, il consumo di suolo, un diverso pensare alle infrastrutture fino al welfare e alle politiche sociali sgretolati dal montismo e dal formigonismo. L’augurio che possiamo farci è che tutti i temi vincano le primarie e rimangano in agenda, sostenute dalla responsabilità di farsene carico chiunque sia il vincitore.

Ho molto apprezzato lo spirito “evoluzionario” di Di Stefano che conoscevamo per competenza e passione. Ho ascoltato con molta attenzione la competenza di Alessandra Kustermann in campo sanitario e risentito finalmente belle discussioni, collegate e dirette con i diversi movimenti e comitati del territorio.

Conosco Umberto Ambrosoli da anni e con lui ho condiviso impegni e serate dove una diversa interpretazione dell’etica pubblica era davvero possibile. Sono d’accordo (come mi succede ultimamente molto spesso) con Pippo Civati quando scriveCredo però che la figura più competitiva per sconfiggere la destra – soprattutto se questa si presenterà unita – sia quella di Umberto Ambrosoli. E non solo e non tanto perché Ambrosoli sia stato indicato come loro candidato da tutti e tre i principali partiti che comporranno la coalizione o perché goda di un consenso molto largo tra le forze civili della città di Milano, ma perché credo che Ambrosoli possa vincere le elezioni e dare alla Lombardia un governo molto distante da quello che ci ha preceduti. Fin dallo stile, dalle modalità di selezione delle persone che lo accompagneranno, dalle scelte politiche di fondo che la maggioranza della Prossima Lombardia vorrà interpretare.

L’importante è che dalle nostre parti dopo queste primarie non ne rimanga solo uno ma esca una pluralità: a partire dai tre contendenti per allargarsi alla Lombardia tutta in un percorso che mi ostino a vedere fortemente politico senza perifrasi di cortesia.

Per quanto riguarda me sono in molti in questi giorni a chiedermi lumi su queste ultime mie settimane politiche (dalla candidatura ritirata in poi) e mi conforta l’interesse e la stima. Per ora rimango a svolgere il mio ruolo di parte attiva a queste primarie e poi avrò modo di pensare, ripensare a piccoli vizi antichi e indegni incrociati per strada, dire e spiegare. E decidere.

Perché ogni tanto le primarie succede che si facciano con la propria coscienza, anche.

Babel: intervista su ‘Duomo d’onore’

Duomo d’Onore, a cento passi dal Duomo capitolo secondo. Ritorna Giulio Cavalli con la seconda parte del suo spettacolo dedicato alle mafie milanesi e del nord Italia, scritto con Gianni Barbacetto, Cesare Giuzzi, Giuseppe Gennari, Giovanni Tizian e Biagio Simonetta. Da domani al 16 dicembre al Teatro della Cooperativa, Via Hermada 8.

Schermata 2012-12-13 alle 11.46.48

La Gomorra lombarda capitolo secondo

Adriana Marmiroli per LA STAMPA

Schermata 2012-12-13 alle 11.34.04Per qualcuno fino all’altro ieri non esisteva. Non esisteva che mafia e le sue «sorelle» alloggiassero comodamente all’ombra della Madonnina. Sono occorse clamorose azioni di polizia e svariati delitti eccellenti (o solo tragici e vergognosi) per far svegliare dal sonno infinito i bravi lümbard convinti dell’intangibilità del loro territorio. Perché mafia, ‘ndrangheta e camorra da noi stanno benissimo e fanno ottimi affari. Ancora più lucrosi, ora che c’è l’Expo in dirittura. L’attore Giulio Cavalli aveva già raccontato pochi anni fa in «A cento passi dal Duomo» questo «brodo di cultura», misto di affarismo, politica e criminalità apparentati, in cui faceva nomi&cognomi, business e atti giudiziari delle «famiglie» della mala organizzata. Era partito da lontano (Ambrosoli, Sindona, Calvi) per parlare della Gomorra meneghina: ne aveva guadagnato minacce e una scorta di polizia. Uomo ostinato e coraggioso, dopo la breve deviazione di «L’innocenza di Giulio. Andreotti non è stato assolto», torna ora con «Duomo d’onore. A cento passi dal Duomo, capitolo secondo» a ricucire gli eventi del presente a partire da quei fatti lasciati in sospeso nel 2010 e dalla maxioperazione «Crimine Infinito», che aprì qualche squarcio di verità e le porte di parecchie celle: l’Expo, il Pirellone e altri politici, il territorio lombardo da razziare, gli imprenditori conniventi e s(pa)ventati… Un racconto che è in progress quotidiano sull’onda della cronaca nera e giudiziaria. In scena sul palco del Teatro della Cooperativa che lo aveva ospitato anche allora, con l’accompagnamento dell’espressiva fisarmonica di Guido Baldoni, facendosi aiutare e ricorrendo al lavoro di diversi giornalisti «esperti» del settore – Gianni Barbacetto, Cesare Giuzzi, Davide Milosa, Mario Portanova, Biagio Simonetta e Giovanni Tizian – e del magistrato Giuseppe Gennari, Gip del Tribunale di Milano, per la regia di Renato Sarti, prosegue quella sua narrazione per cercare di capire se qualcosa sia cambiato dopo retate, arresti e processi. O il fenomeno sia così radicato e profondo da necessitare di bisturi ancora più incisivi.

Teatro della Cooperativa,

via Hermada 8, fino al 16 dicembre,

ore 20.45 (dom. 16),

18 euro, tel. 02-64749997

Omnimilanolibri su DUOMO D’ONORE

“Siamo la regione con più morti di mafia e non li sappiamo nemmeno contare”, ma sappiamo contare 100 passi, e tutto quello che Giulio Cavalli racconta nel suo spettacolo “Duomo d’onore – A cento passi dal Duomo”, da ieri per 7 sere in prima nazionale al Teatro della Cooperativa. Lea Garofalo, “morta ammazzata”, raccontata fino alle ultimi recenti notizie del ritrovamento del corpo, l’operazione “Crimine-Infinito” con gli intrecci “tutti casuali”, Loreno il paninaro di Città Studi, e le patetiche, se non ridicole amnesie dei suoi colleghi davanti ai giudici, Expo, e tutti gli interessi lì nascosti, “ma neanche troppo nascosti”. “Anche a Milano c’è l’irraccontabile, ma fa meno paura se ci parli su” e l’attore, consigliere regionale uscente di Sel, “l’unico ad esser ascoltato dal Gip senza essere stato arrestato” – togliendosi sassolini dalle scarpe e senza tralasciare nomi e particolari -, ieri sera è partito con il suo viaggio aprendo il sipario di via Hermada. Nella valigia, invisibile, di cartone, come l’essenziale scenografia, tante storie raccolte con l’aiuto del gip di Milano Giuseppe Gennari e diversi giornalisti (Gianni Barbacetto, Cesare Giuzzi, Davide Milosa, Mario Portanova, Biagio Simonetta e Giovanni Tizian) . Date, numeri, nomi che hanno fatto titolo nei Tg, forse per qualche ora, a teatro, nel secondo capitolo di “A cento passi dal Duomo”, prendono forma e diventano organici se spiegati con la mimica e la grinta di Cavalli, accompagnato dal fisarmonicista Guido Baldoni in scena con lui, ad eseguire musiche appositamente composte e da improvvisare seguendo flash back e divagazioni appassionate Come l’ultima storia, che arriva perfino dopo i ringraziamenti, concessa ad un pubblico che non ha fiatato “ed è venuto ad ascoltare queste cose, il martedì sera, in un teatro di periferia, pure” scherza attore. L’appendice fuori programma dello spettacolo ha il rumore dei 14 spari, 3 a segno, arrivati all’altezza del secondo lampione della passeggiata domenicale con il cane, che uccisero il magistrato Bruno Caccia, il 26 giugno 1983, a Torino. Cavalli, dopo il successo del primo capitolo, risalente alla stagione 2009-2010, torna a raccontare, aggiorna, riprende il filo del discorso lombardo, a pochi mesi dalla questione Zambetti, immancabile: “e con 50 euro a voto, si è fatto anche fregare sul prezzo”. Suscitando anche risate, risate consapevoli, risveglia tutti dal torpore, un torpore meno torpore di quelli in cui irruppe in scena con il capitolo primo, ma non manca di sottolineare che a Milano “di queste cose non si parla” con l’ironia che sa ben dosare punzecchiando senza offendere. “Sono fantasie, illazioni, supposizioni”. Intanto, attorno al palco, al pubblico, a cento passi da lì, ci sono “case a forma di case che sono soldi vestiti da case, invendute. Soldi, a forma di capannoni e di bar. Mafia a forma di bar, in centro, con consumazione obbligatoria. Strade, asfalto. E sotto: merda. Pensioni buttate in videopoker. E in ipermercati ogni 5 km”. C’è altrettanta potenza, ma meno spensieratezza, di due anni fa, ammette lui stesso, a sipario che sta per chiudersi, mentre ringrazia la sapiente regia di Renato Sarti: “ci sono state evoluzioni e rivoluzioni, e c’è scappata anche qualche involuzione, scusate”. In ogni caso ieri il suo viaggio è cominciato, ricominciato, dal capitolo due, senza perdere il segno, e neanche la voglia di raccontare quel binomio ‘ndrangheta-Lombardia sempre più forte ma anche sempre più noto.

L’articolo è qui

20121212-171735.jpg