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Arte

Pericle secondo Brecht

L’analfabeta politico

Il peggior analfabeta è l’analfabeta politico
Egli non sente, non parla, né s’interessa
degli avvenimenti politici.
Egli non sa che il costo della vita,
il prezzo dei fagioli
del pesce, della farina, dell’affitto
delle scarpe e delle medicine
dipendono dalle decisioni politiche.
L’analfabeta politico è così somaro
che si vanta e si gonfia il petto
dicendo che odia la politica.
Non sa l’imbecille che
dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta,
il bambino abbandonato, l’assaltante
e il peggiore di tutti i banditi
che è il politico imbroglione,
il mafioso, il corrotto,
il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali.

Bertoldt Brecht

La bellezza dello zelo

E’ una lezione di cittadinanza l’omelia di Benedetto XVI per la messa crismale di oggi. Non che io ami in generale le omelie né il Papa tedesco, ma dentro c’è un passaggio che mi sono voluto segnare perché anche nella sua lettura laica è una luce. Una bella luce. Basterebbe leggerla sostituendo la parola sacerdote con politico o scrittore o cittadino o comunque una professione qualsiasi: magari la vostra. Ed è un’occasione per recuperare il valore dello zelo e strapparlo alle acque molli del suo senso più dispregiativo per portarlo nella cesta dei doveri.

Non è una conversione fulminante (al quattordicesimo piano del Pirellone, poi) ma, in tempo di Pasqua, ho pensato che valesse la pena appoggiarvela qui:

L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo. Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena. E come sacerdoti (politici o scrittori o cittadini o comunque una professione qualsiasi: magari la vostra) naturalmente ci preoccupiamo dell’uomo intero, proprio anche delle sue necessità fisiche – degli affamati, dei malati, dei senza-tetto. Tuttavia noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti (politici o scrittori o cittadini o comunque una professione qualsiasi: magari la vostra) di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo. Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote (politico o scrittore o cittadino o comunque una professione qualsiasi: magari la vostra) non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile…

L’innocenza di Giulio (con Nando), il libro, si comincia

Sono molto contento dei primi giorni del libro L’innocenza di Giulio. Per i pareri con cui è stato accolto e per il calore di chi l’ha letto. E, con questo libro, abbiamo provato a rendere “pop” una storia che è quella di Giulio Andreotti ma in fondo è la storia di un Paese. Con i meccanismi (o gli andreottismi, se vogliamo chiamarli così) che si perpetuano più forti della memoria. Ora il libro cominciamo a portarlo nelle piazze, nei paesi, nelle piazze perché sia la scintilla che accende la discussione e perché finalmente se ne parli non solo nelle arene televisive. Perché si riporti la storia per terra, togliendole la maiuscola e appropriandocene.

Domani, giovedì 5 aprile,  sono a Crema Sala conferenze Camera del lavoro in via Carlo Urbino 9. Con me Antonio Grassi, Responsabile Redazione di Crema del giornale “La Provincia” e Franco Gallo, dirigente scolastico del Liceo Scientifico di Crema.

L’11 aprile saremo invece a Milano, Libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte 2, alle 18.30. Con me ci sarà Nando Dalla Chiesa (Presidente di Libera e coordinatore del Comitato di esperti del Comune di Milano). 

Vi aspetto.

Le minacce, i Cosco e Lea Garofalo: il dito e la luna

Voglio spendere un secondo per ringraziarvi tutti. Per la vicinanza di Nichi, Giuliano, Chiara, Stefano, Pippo, Sonia e tutti gli altri rappresentanti delle istituzioni. Ora raccogliamo le idee e ripartiamo con il nostro lavoro cercando sempre di essere seri e con impegno ordinario. Ci fermiamo per raccogliere i pezzi perché questi ultimi mesi sono stati i più difficili di questi anni anomali. Non guardiamo il dito: il processo Garofalo è stato coltivato dai tanti giovani della Milano migliore. Godiamoci la luna. Quello che importa di questo processo è che da un fatto privato è diventato un evento pubblico grazie a molti giovani. Per ora, quello che mi sentivo in dovere di dire l’ha scritto bene Il Fatto Quotidiano nell’intervista che incollo qui. Buone giornate.

Le minacce dai Cosco prima degli ergastoli Cavalli: “La città non può più tollerare”

I fratelli accusati di aver ucciso e sciolto nell’acido Lea Garofalo poco prima del verdetto hanno gridato allo scrittore e attore: “Perché scrivi che siamo mafiosi? Sei un cornuto e un infame”. Lui risponde: “Quello che importa di questo processo è che da un fatto privato è diventato a un evento pubblico grazie a molti giovani”

“In gioco non c’è la solidarietà a me, ma capire che una città  può farsi carico di un processo. Questo è successo in questo processo grazie ad alcuni giovani e di questo dobbiamo ringraziarli. Dall’altra parte c’è un atteggiamento di impunità che questa città non può più tollerare”. Le minacce e gli insulti ricevuti da Carlo Cosco, pochi minuti prima che questi fosse condannato all’ergastolo per l’omicidio della compagna, non intaccano neanche un po’ il pensiero di Giulio Cavalli. L’attore, scrittore e consigliere regionale di Sinistra e Libertà in Lombardia, ieri si è presentato in tribunale a Milano per ascoltare il verdetto. Oltre a lui il presidente di “Libera”, don Luigi Ciotti e del sociologo Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, ucciso dalla mafia e che da trent’anni denuncia la presenza dei clan al nord. Ma anche i giovani ai quali si riferisce Cavalli: i ragazzi di Libera che hanno spesso seguito le udienze del processo e gli studenti universitari di Dalla Chiesa.

Cosco e gli altri 5 imputati (poi tutti condannati all’ergastolo) lo hanno riconosciuto attraverso le sbarre delle gabbie dove erano chiusi in attesa del verdetto che li ha ritenuti colpevoli di aver torturato, ucciso e sciolto nell’acido una donna di 35 anni, Lea Garofalo, perché collaborava con la giustizia. In particolare è stato proprio Carlo Cosco, ex compagno della Garofalo, a realizzare che fosse Cavalli. Così ha rotto il silenzio del tribunale: “Perché scrivi sui libri che siamo mafiosi?” ha gridato. Poi la risposta, data però da uno dei fratelli di Cosco, pure lui a processo e pure lui condannato: “Scrivi perché sei un cornuto e un infame”. ”Io non l’avevo nemmeno capito cosa stava gridando – racconta Cavalli – Me l’ha detto la scorta. Ha urlato anche a Nando, anche se senza minacce”. “Mi ha colpito – continua – che sia stato proprio Cosco a fare una cosa del genere, perché è sempre stato il “gestore” della cella, ha sempre ricoperto questa funzione di capo, anche nella postura. Lo ha fatto anche ieri, tra l’altro cinque minuti prima di essere condannato all’egastolo”.

Quindi, lasciando perdere la solidarietà, “l’aspetto da sottolineare è l’atteggiamento di impunità di queste persone – spiega – che pensano, con un’aula piena di forze dell’ordine e quasi davanti a in giudice, di fare una cosa del genere. A livello personale, poi, ho scritto di Cosco, ma ho scritto anche di molti altri. In effetti ho trovato curioso che mi abbia riconosciuto subito, ma può essere legato al fatto che sono stato il promotore della borsa di studio per Denise”.

Denise Cosco è la figlia di Carlo Cosco e Lea Garofalo: nel processo concluso ieri si è costituita parte civile e ha ottenuto un risarcimento di 200mila euro. Regione Lombardia sosterrà le spese per gli studi di Denise dopo l’approvazione della mozione approvata in consiglio dopo essere stata presentata proprio da Cavalli.

A lui oggi sono arrivate le parole di sostegno di Nichi Vendola, il leader del suo partito: “Caro Giulio, stiano tranquilli i vigliacchi che dopo aver ucciso in modo bestiale e sciolta nell’acido Lea Garofalo, ora se la prendono con te minacciandoti ed insultandoti pesantemente”. “Lo devono sapere chiaramente questi vigliacchi che non sei solo – prosegue Vendola – Le persone oneste, del Nord e del Sud che in questi anni hanno lottato e lottano contro le mafie, sono una moltitudine immensa. Che nessuno di questi vigliacchi si permetta di alzare la voce o un solo dito. Sono certo che le istituzioni del nostro Paese impediranno ulteriori minacce nei tuoi confronti. Nella lotta alla criminalità organizzata e alle mafie lo Stato non può abbassare la guardia: nelle settimane scorseGiovanni Tizian, ieri Giulio Cavalli, e insieme a loro tanti altri giornalisti minacciati quotidianamente. Non possiamo permettere questo stato di cose. Ci auguriamo che dal ministero dell’Interno e dall’intero governo venga un impulso maggiore. A Giulio l’abbraccio piu’ fraterno di tutti i compagni e le compagne di Sinistra Ecologia Libertà”. Al consigliere e scrittore anche il messaggio dei blogger di enricoberlinguer.it: “Siamo tutti cornuti e infami”.

Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia definisce l’accaduto “vile e vergognoso”. “A Giulio – continua – la mia solidarietà per un attacco di stampo mafioso da parte di chi sa che, a Milano, la violenza criminale è stata sconfitta e che, nè adesso nè in futuro, potrà avere spazio alcuno e per questo è ancora più bramosa di vendetta nei confronti di chi tutti i giorni combatte la criminalità. Giulio non ha mai smesso di denunciare le infiltrazioni mafiose anche al Nord”. “Attacco mafioso violento e inqualificabile” dice il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. “Le minacce contro di lui – aggiunge – sono vergognose e devono essere stigmatizzate con forza da tutti”.

Cavalli incassa il sostegno, ma riporta al nodo vero della questione: “Sul processo Cosco è stato fatto un lavoro straordinario dei giovani e di Libera grazie al quale un processo che altrimenti sarebbe stato celebrato come per un fatto privato sia diventato un evento pubblico, di un’intera città. Di questo dobbiamo ringraziare questi giovani”.

Se vedete la mia faccia alla stazione Termini

Non è il caldo o l’effetto della riforma elettorale di ABC, ma la mostra che la fotografa Fiorenza Stefani sta portando in giro per l’Italia (ne parla Repubblica qui): LA LEGALITÀ non è un’idea astratta: ha occhi, bocca e molte facce. Quelle di chi si è battuto e si batte contro la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta: sono gli “sguardi liberi” che Fiorenza Stefani ha fotografato attraversando l’Italia dal nord al sud. E che adesso viaggiano per il paese con la mostra “Il mio sguardo libero. Volti per la legalità”, dedicata a Giuseppe D’Avanzo e premiata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una medaglia di rappresentanza. Da oggi al 30 aprile l’atrio della stazione Termini di Roma ospiterà quarantuno primi piani in bianco e nero di uomini e donne, noti e meno noti: dallo scrittore che denuncia in tutto il mondo le dinamiche con cui si arricchisce la camorra allo sconosciuto negoziante che decide di non farla arricchire più, e smette di pagare il pizzo. Inaugurata a Napoli lo scorso novembre, la mostra è arrivata a Roma con il patrocinio della Provincia di Roma e di GrandiStazioni. “È stato un lavoro realizzato a poco a poco – spiegava Fiorenza Stefani alla ‘prima’ napoletana – un filo azzurro attraversa la mostra e lega virtualmente la bellezza dei sorrisi che ho incontrato: l’idea che dietro ogni foto ci siano la stessa fiducia e speranza in un paese fatto di gente pulita che lavora per un altro mondo possibile». Sorrisi puliti che accoglieranno, nel prossimo mese, chi scenderà da un treno alla stazione Termini: basterà guardarsi attorno per scoprire quarantuno facce di un’Italia possibile, e migliore.

Le foto sono qui.

Il libro ‘L’innocenza di Giulio’ secondo la libridine di Articolo 21

”Conoscere il processo Andreotti ci insegna a riconoscere la politica che tenta in tutti i modi di legittimare l’illegalità”…
“L’assoluzione più colpevole d’Italia”. Così Giulio Cavalli, scrittore, autore teatrale e consigliere regionale in Lombardia per Sinistra ecologia e libertà, definisce il “caso Andreotti”, al centro del suo ultimo libro “L’innocenza di Giulio” nelle librerie da oggi per l’editore Chiarelettere.  ”Conoscere il processo Andreotti ci insegna a riconoscere la politica che tenta in tutti i modi di legittimare l’illegalità – spiega Cavalli al Fattoquotidiano.it – Soprattutto capire che la storia di questo Paese è negli atti giudiziari, nei fatti che sono stati riscontrati, nei fatti che sono stati raccontati e su cui non possono esistere dubbi”.

Nel 2011 Cavalli porta in scena uno spettacolo teatrale – “L’innocenza di Giulio. Andreotti non è stato assolto” – uno spettacolo-monologo in cui testimonianze, deposizioni e lettura degli atti giudiziari si alternano per raccontare il processo per mafia che ha coinvolto una delle figure politiche più controverse della politica italiana. “Tutto parte da una cena con il procuratore Gian Carlo Caselli e con Carlo Lucarelli – racconta ancora l’autore, milanese, classe 1977 – In quel momento decidemmo che non potevamo lasciare il racconto della vicenda Andreotti a chi continuava a dire che il politico sette volte presidente del Consiglio era stato assolto nel processo per mafia”. Perché, “se si ripete una bugia infinite volte alla fine si riesce anche a trasformare in una verità storica qualcosa che in realtà non è mai avvenuto”. E quello che non è mai avvenuto è proprio l’assoluzione di “Belzebù”.

Tutti ricordano la giovane e allora sconosciuta avvocato Giulia Bongiorno chiamare l’illustre cliente gridando “Assolto! Assolto!”. Molti meno ricordano che nella sentenza d’appello, emessa dal tribunale di Palermo nel 2003 allora guidato da Gian Carlo Caselli, Andreotti viene riconosciutocolpevole del reato di partecipazione all’associazione per delinquere con Cosa Nostra, “concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980″, reato però “estinto per prescrizione”. Una versione confermata anche dalla Cassazione. Altro che innocente. La sentenza della Corte d’Appello di Palermo è lapidaria: “Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi”.

Per quella sentenza il giudice Caselli, che firma la prefazione al libro, fu escluso dalla nomina a procuratore nazionale antimafia con una norma specifica ribattezzata “contra personam”. Ora Giulio Cavalli con il suo ultimo lavoro segue un sogno: “Quello – spiega – che dopo aver visto lo spettacolo, le persone sentano il desiderio di documentarsi e per questo comprino il libro”. Un libro contro “l’innocenza di un Paese che si ostina a dimenticare il passato”. Un libro per “interessarsi al presente”.

23 marzo 2012 da ARTICOLO21

Il Casalese non ama i libri

Scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

Nicola Cosentino (anzi, i suoi famigliari per la precisione) ha intentato una causa penale e civile agli autori e all’editore del libro Il Casalese – Ascesa e tramonto di un leader politico di Terra di Lavoro. L’accusa è di aver leso l’immagine dell’azienda di famiglia. Si chiede il ritiro del volume dalle librerie e un milione e 200mila euro di risarcimento danni. Quel libro (che oggi ancora di più vale la pena di leggere e comprare) è l’unica biografia non autorizzata dell’ex sottosegretario salvato dal servilismo bipartisan di un parlamento garantista con i potenti e macellaio con i poveri. Quel libro è il simbolo oggi del giornalismo che decide di scrivere il fatto che sarebbe meglio oltrepassare, di fare quel nome che porta solo guai e di non essere compiacente. Mai.

Scrive uno degli autori, Ciro Pellegrino, sul suo blog:

Sostanzialmente Cosentino (il fratello) ritiene che il libro abbia un «intento denigratorio» tale da far affermare coscientemente il falso ai giornalisti che l’hanno scritto. Nella richiesta di distruzione e risarcimento si citano una serie di vicende raccontate ne “Il Casalese”: vicende rispetto alle quali gli autori dei capitoli in questione sono pronti a confrontarsi e lo faranno, pubblicamente.

Due spaventi, dicevo. Ma non ho spiegato perché sono ottimista sulla seconda vicenda: perché l’angoscia che lorsignori possono arrecarci con fiumi d’atti giudiziari e risarcimenti milionari  è in parte compensata dalle tante domande durante le presentazioni, dalle mail dei ragazzi, dall’interesse verso quella che –  dotti medici e sapienti se ne facciano una ragione – è semplicemente un’inchiesta giornalistica.  Spero che quest’interesse cresca.

Già: nessuno di noi ha la presunzione di poter parare tutti i colpi che arrivano (e arriveranno). Per questo motivo mi (ci) scuserete se oggi anziché raccontare la notizia, la notizia siamo noi, i giornalisti autori del Casalese. E ci scuserete se chiediamo attenzione sulla nostra vicenda. Consapevoli del giusto diritto di chiunque a veder rettificati errori lesivi della propria dignità e reputazione, al tempo stesso altrettanto coscienti dell’onesto e diligente lavoro di documentazione e scrittura intorno a questo libro, non certo operazione commerciale né politica, visto che a editarlo è una piccola casa editrice di Villaricca, popoloso comune alla periferia Nord di Napoli, a cavallo fra il capoluogo  e il Casertano.

Ci scuseranno anche gli amanti dell’anticamorra-spettacolo: non siamo abituati, abbiamo fatto solo i giornalisti. Ma in Italia da giornalista a imputato il passo è breve, troppo breve.

Fuori dal Parlamento però, le carte e le ragioni non sono secretati. Per questo gli autori e l’editore hanno deciso di organizzare due eventi per dire a gran voce le proprie ragioni e sostenere le proprie tesi.

– Martedì 27 marzo, alle 9.30, a Napoli presso la sede dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, in via Cappella Vecchia, 8. Oltre all’editore e agli autori, parteciperanno: Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania; Lucia Licciardi, consigliere dell’Associazione napoletana della stampa.

– Giovedì 29 marzo, ore 17, a Roma, presso la FNSI in Corso V. Emanuele II, 349 . Parteciperanno insieme agli autori il presidente della FNSI, Roberto Natale, e il presidente dell’Associazione napoletana della stampa, Enzo Colimoro.

Questa volta il dibattito è pubblico. E da pubblicizzare.

Quando un uomo non ha il coraggio di resistere alla corrente, di bandire apertamente la verità e di sostenere contro tutti, anche contro il proprio interesse, la giustizia, smetta la penna, perocché la audace e tempestosa milizia del giornalismo non è fatta per lui. Quando voi obbliate che lo scrittore, poeta o giornalista, esercita un sacerdozio, non un traffico, che a lui è principalmente affidato l’educazione e il miglioramento della società, che la civiltà d’un popolo sta in diretta ragione della moralità della sua stampa; quando obliate tutto ciò per l’aura d’un giorno, per la limosina d’uno scudo, allora lasciate anche che vi dica che non v’è opera nefanda che uguagli la vostra, e che io, Potere, vi rizzerei tutti quanti sopra una gogna, affinché le moltitudini conoscessero chi ha loro ritardato i giorni della rivendicazione della giustizia. (Giuseppe Guerzoni)

Cavalli e l’innocenza di Giulio. “La mafia? Senza politica non esisterebbe”

di Lorenzo Lamperti  (da Affari Italiani)

Giulio Cavalli, consigliere regionale Sel in Lombardia oltre che scrittore e autore teatrale, parla conAffaritaliani.it di mafia, politica e legalità: “Non si deve guardare solo alle colpe  penali, in Italia c’è bisogno di un ritorno a un codice morale. La vera legalità non è quella delle leggi che vengono spostate un po’ più in là ogni anno per salvare il politico di turno”.

Dice la sua su concorso esterno e concussione: “Altro che limitarli, io li rafforzerei. Penso, per esempio, al reato di favoreggiamento culturale”. La mafia che rapporto ha con la politica? “Non esisterebbe senza di lei. E oggi le mafie sono in ottima salute…” E presenta il suo nuovo libro “L’innocenza di Giulio”: “Dire che Andreotti è innocente, significa dire che è innocente tutta l’Italia degli ultimi cinquant’anni. Che cosa mi fa paura? Il pensiero di come sarà ricordato dai nostri figli. Senza le giuste chiavi di lettura non sapranno riconoscere gli Andreotti di oggi”.

L’INTERVISTA

Che cosa ha rappresentato e che cosa rappresenta Giulio Andreotti per il nostro Paese?

“Rappresenta un metodo sperimentato di fare politica. Un metodo che ha dimostrato di produrre grandi risultati, peraltro. Circoscrivere il fenomeno Andreotti a Giulio Andreotti significa un tentativo, in malafede, di personalizzare una storia che invece è tutta italiana”.

Il tuo libro contiene già dal titolo un riferimento al discostamento dalla realtà dei fatti per quanto riguarda Andreotti. Si parla di innocenza quando invece, come scrive anche il procuratore capo di Torino Caselli nella prefazione, i suoi reati sono stati prescritti. Credi che questo sia un elemento sconosciuto ai più?

“Ma sì, credo che se chiedi in giro nove persone su dieci non sanno come sono andate realmente le cose. Il processo parla di fatti storici, documentati. Questi fatti non devono per forza corrispondere a colpe giudiziarie ma sono parte della storia di questo Paese. Il problema però è che sono stati sempre trascurati, perché si è preferito fare la guerra tra schieramenti partitici diversi. Anche qui assolutamente in malafede. Il problema non è se Andreotti sia innocente o colpevole di fronte al codice penale e al codice di procedura penale. Il problema vero è un altro: l’Italia ha voglia di reimparare a esercitare il diritto e il dovere di valutare le opportunità? Cioé, ha voglia di diventare intollerante non solo con gli albanesi e i rom ma anche con i politici inopportuni? Questo libro cerca di risvegliare quel senso. Io non mi permetterei mai di giudicare gli elementi giudiziari, anche perché credo che gli atti parlino già da soli e non abbiano bisogno di commenti. Però dal punto di vista etico e penale secondo me c’è tanto da dire su una politica vissuta come sistema che mette in collegamento pezzi più o meno legali di questo Paese. Su questo la riflessione è dovuta”.

Nel tuo libro parli da una parte di una tendenza a minimizzare certi elementi, come le cattive frequentazioni dei politici e dall’altra invece di un’altra tendenza la quale porta a dire che Ambrosoli “se l’è cercata”. Credi che queste due tendenze siano prettamente italiane?

“Io credo che all’innocenza di Andreotti hanno aspirato in tanti, non solo lo stesso Andreotti. In fondo l’Italia voleva un grande condono. In fondo, se è innocente Andreotti fondamentalmente è innocente l’Italia di questi ultimi 50 anni. Dover riconoscere che il comportamento di Andreotti è risultato inopportuno significa riconoscere che noi cittadini italiani siamo stati un po’ troppo poco vivi, poco vigili”.

Oggi esistono nuovi Andreotti?

“Io ho scritto il libro perché spero che i miei figli conoscano non tanto Andreotti ma che invece sappiano riconoscere gli andreottismi. Non è un tiro al piccione contro Andreotti. E se per andreottismo si intende sedersi a tavola con gruppi più o meno apertamente criminali e considerarli buoni alleati per gestire il consenso sul territorio allora è meglio stare in guardia da questo pericoloso sistema”.

Secondo te come sarà ricordato Andreotti dalla gente comune?

“Ecco, questa è la cosa che mi fa paura. Noi siamo stati molto bravi nella commemorazione, colpevole da una parte e innocentista dall’altra, ma ci siamo dimenticati di esercitare la memoria. Io mi auguro che ai nostri figli rimangano le chiavi di lettura per porsi delle domande sugli Andreotti di ieri e sugli Andreotti di oggi”.

Quali sono i rapporti tra mafia e politica?

“La mafia senza politica non potrebbe esistere. E oggi le mafie sono in ottima salute. Quindi…”

Tu oltre che un attore e scrittore sei anche un consigliere Sel della regione Lombardia. Proprio in queste settimane abbiamo assistito a una serie impressionante di accuse nei confronti di politici del Pirellone. E d’altra parte la presenza mafiosa è sempre più diffusa. Nonostante questo i cittadini del Nord faticano a pensare alla mafia come a qualcosa di concreto. Come si fa a cambiare questo atteggiamento?

“E’ un compito che spetta a tutti. A noi narratori, ma anche a noi politici. Ecco io ho questo conflitto di interesse… ci si riuscirà a cambiare le cose quando l’argomento mafia non sarà un argomento solo per tecnici ma diventerà un argomento dei più, un qualcosa del quale parlano le sciure al bar mentre giocano a carte. La mafia deve essere un argomento che entra nell’ordinario e che tocchi tutti. Così dimostreremo che corruzione, riciclaggio e criminalità organizzata sono le diverse evidenze dello stesso minimo comune denominatore mafioso e assumono forme diverse, anche eleganti, a seconda della regione nelle quali operano”.

A proposito degli intrecci tra mafia e “colletti bianchi”, che cosa ne pensi di un argomento caldo come il reato di concorso esterno in associazione mafiosa?

“Non vado a giudicare le sentenze, però io non solo credo che il reato di concorso esterno debbe essere invece rinforzato, penso anche che bisognerebbe tornare a pensare al favoreggiamento culturale e imprenditoriale alla mafia. Io quindi estenderei la questione a tutti gli ambiti. E poi voglio sottolineare l’importanza del giudizio morale. L’opportunità non è un elemento che si lega al terzo grado di giudizio, ma ne prescinde. L’opportunità è un concetto sul quale in questo Paese è morta gente come Pio La Torre”.

Negli ultimi giorni si è parlato tanto del reato di concussione. Pensi che sarebbe giusto accorparlo a quello di corruzione, rischiando così di pregiudicare il processo Ruby?

“E’ sempre la stessa questione. Io timidamente vorrei parlare di legalità, una parola abusata. Se per legalità intendiamo il rispetto delle leggi anche di quelle non scritte dello stare democraticamente insieme allora mi va bene, ma se parliamo di legalità nel senso di rispetto solo delle leggi scritte in un Paese che le ha spostate ogni mese o ogni anno di un metro un po’ più in là per riuscire a sfamare il potentato di turno allora resto molto perplesso. Bisognerebbe cominciare a essere molto rigorosi: negli atteggiamenti e nelle interpretazioni legislative. Credo che a prescindere dai giudizi della magistratura noi dobbiamo comunque chiederci se in Italia la classe politica e dirigente ha uno spessore etico e morale oppure no”.

Su questi temi come sta operando la giunta Pisapia?

“Mi sembra che abbia alzato l’attenzione e che sia riuscita a trasformare una procedura amministrativa nel germe di una rivoluzione che vuole essere culturale e collettiva”.

Quanto fa paura l’arte alla mafia?

“Caponnetto diceva che il mafioso teme molto di più di essere raccontato piuttosto dell’ergastolo. Di fronte alla

Andreotti, un imputato troppo innocente: la prefazione di Gian Carlo Caselli per ‘L’innocenza di Giulio’

Pubblichiamo la prefazione di Gian Carlo Caselli al libro “L’innocenza di Giulio” di Giulio Cavalli, Chiarelettere, Milano 2012.

di Gian Carlo Caselli

Lo ammetto. Sono un mostro. Nel senso latino di monstrum: un essere fuori dell’ordine naturale. Eh sì, perché sono l’unico giudice in Italia (credo al mondo) che può «vantare» una legge scritta apposta per lui, contro di lui. Nel paese delle leggi ad personam, che hanno inquinato il sistema violando i principi fondamentali dell’ordinamento e la stessa regola di «buona fede legislativa», troviamo – tanto per non farci mancare nulla – anche una legge «contra personam», scritta apposta per impedirmi di partecipare alla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia dopo che Piero Luigi Vigna era scaduto dall’incarico.

Perché tutta questa attenzione? Detto e ripetuto pubblicamente da fior (si fa per dire) di uomini politici: dovevo pagare il processo al senatore Andreotti perché, come capo della Procura di Palermo – dove avevo chiesto di essere mandato dopo le stragi Falcone e Borsellino – avevo osato indagare e poi processare il Divo Giulio. La legge «contra personam» sarà poi dichiarata incostituzionale e cassata dal nostro ordinamento, ma frattanto i giochi erano ormai irreversibilmente fatti: io (il mostro) estromesso dal concorso, senza che nessuno trovasse nulla da ridire, né chi si vedeva tolto dai piedi un concorrente, né il Csm che aveva accettato disinvoltamente di concludere una procedura inquinata da un cambiamento delle regole a partita aperta e ormai quasi conclusa.

Peccato che da «pagare», per il processo Andreotti, non ci fosse un bel niente. Al contrario, la conclusione del processo dà sostanzialmente ragione all’accusa, che perciò non ha nulla da farsi perdonare, anzi. Vero è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani è convinta (in perfetta buona fede, perché questo le è stato fatto credere con l’inganno) che Andreotti sia innocente. Di più: vittima di una persecuzione che lo ha costretto a un doloroso calvario di una decina d’anni per l’accanimento giustizialista di un manipolo di manigoldi. Ma la realtà vera è ben diversa, come anche questo lavoro di Giulio Cavalli facilmente dimostra.

Per parte mia, cosa dire di più? Può essere utile una breve storia del processo. In primo grado l’imputato Andreotti viene effettivamente assolto. Di fatto per insufficienza di prove, ma assolto. Contro l’assoluzione ricorrono la Procura della repubblica e la Procura generale. La Corte d’appello di Palermo riforma la sentenza del tribunale. L’imputato è dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra per averlo «commesso» (sic) fino al 1980; il delitto è commesso ma prescritto, e solo per questo motivo all’affermazione di colpevolezza non segue la condanna. Dopo il 1980 la Corte conferma l’assoluzione.

Contro la sentenza d’appello ricorre in Cassazione l’accusa, perché vuole che la colpevolezza sia riconosciuta anche dopo il 1980. Ma in Cassazione (attenzione!) ricorre anche la difesa. È la prova provata che fino al 1980 non c’è stata assoluzione. Non esiste al mondo, infatti, che l’imputato assolto ricorra contro se stesso. Se lo fa, è per ottenere un’assoluzione vera (non spacciata come tale in favore di telecamere urlando «E vai!»). Ora, poiché la Suprema corte ha confermato definitivamente e irrevocabilmente la sentenza d’appello, è semplicemente falso sostenere che Andreotti è stato assolto. Fino al 1980 è stata provata la sua responsabilità per il delitto – ripeto – di associazione a delinquere con Cosa nostra. Fatti gravissimi, meticolosamente elencati e provati per pagine e pagine di motivazione, sfociano nel dispositivo finale. Dimenticavo: ricorrendo in Cassazione l’imputato avrebbe potuto rinunciare alla prescrizione, ma si è ben guardato dal farlo. Forse perché troppo… innocente.

La sentenza che pochi hanno letto

Andiamo a rileggere l’ultima pagina della sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003 (poi confermata in Cassazione) che, a quanto pare, in pochissimi hanno letto e moltissimi non hanno mai voluto o potuto conoscere.

I fatti che la Corte ha ritenuto provati in relazione al periodo precedente la primavera ’80 dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunziati; ha omesso di denunziare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza. […] Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi fatti, la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo. […] Si deve concludere che ricorrono le condizioni per ribaltare, sia pure nei limiti del periodo in considerazione [cioè prima della primavera del 1980, nda], il giudizio negativo espresso dal tribunale in ordine alla sussistenza del reato e che, conseguentemente, siano nel merito fondate le censure dei pubblici ministeri appellanti. Non resta, allora, che […] emettere, pertanto, la statuizione di non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del sen. Andreotti estinto per prescrizione.

All’università insegnavano (e forse ancora si insegna) che la pronuncia di Cassazione «facit de albo nigrum… aequat quadrata rotundis». Latino facile, evidentemente ignorato dai commentatori della sentenza Andreotti. Eppure, che le parole sono pietre e quelle della Cassazione addirittura macigni lo sanno tutti. Persino… er Monnezza. Mi riferisco a uno dei polizieschi anni Settanta interpretati da Tomas Milian. Per convincere un amico, il maresciallo Giraldi urla: «Aò, quello che te sto a di’ è Cassazione!». Come a dire, non puoi dubitarne. Evidentemente ciò che vale per er Monnezza non vale per il resto del nostro paese.

Dunque «è Cassazione» il fatto che, per un congruo periodo di tempo, il senatore Andreotti è stato colluso con Cosa nostra. Questa verità dovrebbe rimanere scolpita nella memoria del paese, specialmente se parliamo di una persona che per sette volte è stata presidente del Consiglio e per ventidue volte ministro. E invece no. Queste parole sono state sapientemente esorcizzate, stravolte, cancellate. Le sentenze (emesse in nome del popolo italiano) vanno motivate affinché il popolo possa sapere per quali motivi appunto si viene assolti o condannati, ma anche perché il popolo possa conoscere i fatti che stanno alla base dei motivi per cui una persona è chiamata a rispondere di determinate azioni di fronte a un tribunale. Qui il popolo è stato truffato.

Dalla motivazione di tutte le sentenze – anche da quella di primo grado, che assolve per insufficienza di prove – emerge una realtà sconvolgente: scambi di favori e, soprattutto, riunioni (per discutere di fatti criminali gravissimi) con capimafia del calibro di Stefano Bontate, provate dalle veridiche dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, testimone oculare di uno di questi incontri. Realtà sconvolgenti, consacrate (ribadisco) da una sentenza passata in giudicato.

Sarebbe lecito – almeno – attendersi riflessioni, dibattiti, confronti, analisi. Sarebbe opportuno chiedersi cosa mai sia successo davvero in quella stagione. Su che cosa si sia basato, almeno in parte, il meccanismo del consenso nel nostro paese. Niente di tutto questo. Tutto è stato cancellato, nascosto.

Se ne è parlato soltanto per stravolgere i fatti, da parte di tutti: autorevoli leader politici, illustri opinion maker, finanche vertici istituzionali. Dopo la cosiddetta «assoluzione» è stata una corsa alle telefonate di congratulazioni, alle pubbliche e stucchevoli attestazioni di stima. Il massimo dell’impudenza lo raggiunge il presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centaro che – all’indomani della sentenza della Corte d’appello – dichiara pubblicamente: «Il grande dibattito mediatico, che si è sovrapposto e ha sostituito il processo, ha seguito i ritmi dell’“analisi politica” (già sperimentata per la valutazione delle responsabilità per le stragi del 1992 e del 1993), pervenendo a un tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità malamente sbugiardato [corsivo mio, nda] dalle pronunce giurisdizionali. Ciò ha comportato, comunque, l’insinuarsi di ombre e veleni. L’unico risultato è stata una crescente confusione nei cittadini e un senso di sfiducia nelle istituzioni, a fronte di affermazioni perentorie poi rivelatesi infondate in corso d’opera». Centaro ha visto un altro processo, vive in un altro mondo.

La verità negata

La verità è fatta a brandelli. E la sinistra non è stata da meno. Una forza politica che ha sempre fatto della «questione morale» un punto (apparentemente) fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l’ha a dir poco rimossa. Anna Finocchiaro, ad esempio, ha liquidato come «inutile perdita di tempo la discussione sulle vicissitudini giudiziarie del senatore Andreotti».

Clemente Mastella, ineffabile ministro della Giustizia, ha dichiarato che «invece di parlare della sentenza di Palermo, ad Andreotti bisognerebbe fare un monumento». In questo Mastella è stato ampiamente soddisfatto. Sulla vicenda processuale si è innestato un processo di santificazione mediatica con la sapiente e sottile tessitura dello stesso Andreotti. Grazie alla connivenza di molta politica e di molta informazione egli è riuscito a far passare in secondo piano i gravi fatti evidenziati dal processo, fino a cancellarli.

Ha esibito se stesso in mille circostanze su un’infinità di media, cerimonie e manifestazioni, rivitalizzando così il profilo di un grande statista di prestigio internazionale, apprezzato da molti (Vaticano in primis). Fino a sfiorare la nomina alla presidenza del Senato, dopo essere stato designato per rappresentare l’Italia ai funerali di Boris Eltsin. Senza disdegnare, nel contempo, incursioni da star nel mondo della pubblicità, facendo il testimonial della famiglia per la Chiesa cattolica o prestandosi, al fianco di una procace attrice, a promuovere una marca di cellulari.

Il risultato è stato una sorta di dilagante giudizio parallelo, nel quale il senatore ha cercato – riuscendoci – di offrire di sé un’immagine di altissimo profilo incompatibile con le bassezze processuali rimestate da piccoli giudici. Anzi – verrebbe da dire – dentro le quali grufolavano piccoli giudici. Una strategia che ha pagato, perché ha trovato un’infinità di sponde, che hanno stravolto la verità, massacrando la logica e il buon senso.

Con una conseguenza che va ben oltre il perimetro del processo Andreotti. Parlare di assoluzione, anche a fronte delle gravissime responsabilità provate fino al 1980, non è solo uno strafalcione tecnico. Significa in realtà legittimare (per il passato, ma pure per il presente e il futuro) una politica che contempla anche rapporti organici con il malaffare, persino mafioso. Per poi stracciarsi le vesti se non si riesce – oibò! – a sconfiggere la mafia. Lo ha sottolineato il corrispondente dell’«Economist» David Lane in un’intervista rilasciata al «Venerdì di Repubblica»: premesso che «i politici e i media hanno raccontato un’altra storia, come se la Suprema corte avesse detto che [Andreotti] era innocente», Lane si chiede che cosa questo fatto comporti «sulla determinazione nella lotta al crimine», e risponde che si tratta di «un messaggio chiaro, che piace ai mafiosi».
Ovviamente non è con messaggi di questo tipo che si vince la guerra alla mafia.

L’intelligente ironia di Giulio Cavalli, dunque, ci offre non solo preziosi elementi di conoscenza di una verità dolosamente nascosta. È anche un antidoto potente contro una patologia che affligge pesantemente il nostro paese: la perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, l’irresponsabile sottovalutazione del pericolo che si corre quando si occulta il passato. In sostanza, una mancanza continuativa di coscienza etica, fino all’eclissi della questione morale.

Camorra, ti sparerà in faccia la memoria

scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.

La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.

I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.

La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.

Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

Don Peppe Diana 25 dicembre 1991

Che civiltà che sanguina dietro quattro colpi sparati dentro ad una chiesa. Esistono echi che non si riescono a scrivere nemmeno sbriciolando il dizionario delle parole peggiori. Quattro rintocchi di pistola alle 7.30 del 19 marzo 1994 sono un tamburo muto. Quattro buchi sparsi tra la faccia, la mano e la testa di un uomo che ha deciso fiero di non seguire ma attraversare la strada.

Ci sono paesi coltivati in giro per il mondo che rimangono appesi con la strada principale. Non importa che sia Emilia di nome o Domiziana, non importa nemmeno che sia a forma di strada o battuta con i sassi delle strade lisce come sassi. Ci sono paesi in giro per il mondo che rimangono ammuffiti per anni con una strada che vale per tutti, come se cominciasse ogni porta fuori dalla porta che è così per forza, così perché è sempre stato. Che è così e basta. Perché la strada non è solo una via buona per lo struscio, perché la strada è un modo, e il modo appena si abitua diventa stile, e appena lo stile marcisce diventa sistema. Il sistema. Ci sono paesi che la storia si dimentica nelle note a fondo pagina, condannati a non illudersi finché non succede che qualcuno per troppo amore quella strada non si mette ad attraversarla.

Raccontano gli angeli della memoria che Don Peppe Diana, quel giorno che si è messo in testa di raccontare a tutti come ci fosse un’altra via, dicono gli angeli che avesse la tranquillità e la luce degli esploratori. Mentre invitava con  un mezzo sorriso appoggiato sulla bocca che sarebbe bastato girare all’angolo della paura per la via della dignità.

Caro Don Peppe,
forse te l’eri anche immaginata questa sera tutta appiccicata del tuo ennesimo anniversario che profuma di vita. Perché io ti confesso che non ci avrei scommesso un soldo di provare e non riuscire nemmeno a raccontarti di sfioro qui a casa tua mentre mi si chiude la gola. Perché non riesco a spiegarmi questa agonia di giusti che possono essere raccontati solo dopo la pistola. Perché mi ci vorrebbe, questa sera, un cuore a forma di Don Peppino per non urlarmi che dovresti tanto esserci tu a slavare questa erba e mezzi muri dalla puzza e il disonore dei suoi padroni e della vergogna che l’ha concimata fino a ieri. Caro Don Peppe, chissà se non ti scapperebbe un brivido lungo e sottile ad annusare che profumo ha la tua Casale con il vestito della dignità.

Caro Don Peppe,
il re infame che ti ha fatto cercare nel corridoio di spari è inciampato in uno spigolo di gente che ha scelto di stare accampata sulla tua strada. Dovresti vederli, Don Peppe, che padroni in mutande sono i boss mentre cercano di tappare le bocche che ricominciano da dove ti avevano fermato.

Caro Don Peppe,
chissà se ci avevano mai pensato loro, i professionisti comici e molli della prepotenza e della paura, i pagliacci del ricatto, con i vestiti coordinati dai polsini eleganti, le scarpe lucide e le macchine potenti, mentre sfilano mimando male la potenza lasciando una scia di puzzo mischiato tra rifiuti, il sudore dei nascosti e l’odore della merda. Chissà se ci avranno mai pensato, Schiavone o Bidognetti, che sono passati anni e continuano a rimbalzare quei quattro spari. Quattro rintocchi che bisogna custodirli stretti perché a guardarli oggi un po’ più dall’alto hanno la forma di carezze che continuano a cantare. Chissà se non vi rimbalzano, a voi mandanti ed assassini, gli spari, l’eco e gli angoli di quella chiesa, se non vi rimbalzano in testa come una condanna a ritmo per il resto della vita. Quei quattro spari che vi sono tornati in faccia con la potenza della semplicità che Don Diana coltivava.

Caro Don Peppe,
io queste parole avrei voluto dirtele all’orecchio, in questo desiderio infantile e finalmente sano di chiederti di esserci comunque. Avrei voluto almeno vederti in faccia per come hai curvato gli occhi quando ti è arrivata la notizia fin lì che il tuo compleanno si festeggia nella casa restituita di Sandokan. Perché ci dovranno restituire tutto, Don Peppe, e noi senza mai farci passare questa fame.

Dovranno restituirci i muri, le terre, gli uomini e la dignità; finchè non gli verrà rificcata in gola la paura. Dovranno restituirci la bellezza che hanno scambiato per quattro monete al mercato  dell’intimidazione. Dovranno restituirci la libertà di alzare gli occhi, di sorridere, di credere e camminare. Dovranno restituirci questi anni in cattività che passiamo per proteggerci. Ci dovranno restituire il respiro incondizionato. Ci dovranno restituire i paesi quelli veri: con l’incrocio di strade da scegliere, costruire, osservare e attraversare.

Caro Don Peppe,
quei quattro spari, te lo giuro, sono diventati aghi: un inno a non avere paura e un mazzo di punte sulla schiena di chi c’era e chi è rimasto: Schiavone, Bidognetti, Iovine o Zagaria. Mi piacerebbe chiederlo a loro come pungono sull’unto della schiena, mi piacerebbe chiederlo a loro se lo sentono il rumore del loro onore che davanti a quattro spari anno dopo anno si sgretola.

Caro Don Peppe,
non ci avresti sperato che la tua morte potesse profumare di vita così tanto, così forte e così a lungo in un paese che finalmente sta imparando a ricordare.

Caro Don Peppe,
chissà come ti suonerà strano un accento così diverso per un ricordo che arriva come una lettera lunga mille chilometri. Di una vergogna lunga come una nazione che ci è venuta a prendere per zittirci e invece ha perso mentre ci ha portato ad abbracciare. Chissà se non trovi anche tu che in questo mare di mafie che si arrampica su una nazione alla fine ci ritroviamo come navi attraccati nei porti che non avremmo mai creduto di visitare.

Che civiltà che sanguina dietro quattro colpi sparati dentro ad una chiesa. Esistono echi che non si riescono a scrivere nemmeno sbriciolando il dizionario delle parole peggiori. Quattro rintocchi di pistola alle 7.30 del 19 marzo 1994 sono un tamburo muto. Quattro buchi sparsi tra la faccia, la mano e la testa di un uomo che ha deciso fiero di non seguire ma attraversare la strada. Un paese normale dovrebbe registrarli quei quattro spari per tenerseli in tasca a sanguinare. Una pistola per zittire è l’arma dei codardi, è un gioco da conigli, un trucco per maghi dilettanti.

Cara camorra,
ti sparerà la memoria. Ogni giorno, tutto il giorno. La memoria che si è accesa in quella sacrestia dove vi siete mangiati la carità.

Caro Don Peppe,
io per amore del mio popolo non tacerò. Continuerò a raccontare questa storia da raccontare. Continuerò a essere partigiano nella scelta della parte dove stare. Io non ci sto, anche con te ammazzato e con la scorta. Io mi vergogno di questa gente che non si vergogna, io mi vergogno di dovermi difendere per avere invocato un contrattacco con le armi bianche e la parola. Io mi vergogno di andare in tourné con un pubblico che mi spia. Io mi vergogno di doverti conoscere solo troppo tardi. Io mi vergogno delle orecchie e gli occhi che latitano, leggono e ascoltano di Michele Zagaria forse da Casapesenna. Io mi vergogno di questa paura incivile di fare i nomi.Noi sappiamo, abbiamo le prove, conosciamo i nomi. Questa sera avrei dovuto scrivere, parlare, raccontare. Su questa sedia seduta sotto la finestra della tua Casale, avrei voluto scrivere un abbraccio, trovare le parole. Ma questo nodo in gola non mi si riesce a musicare, questa aria gialla che mi prende in giro fino a venirmi ad annusare. Forse ci sono ricordi che non andrebbero nemmeno parlati, che sono pieni e leggeri come un velo sul cuore. Questa sera recito da muto da un giardino liberato dalla prostituzione. Vorrei un monologo stasera che non facesse nemmeno rumore. Vorrei dirtelo di persona, perché seduto, di fianco, sono sicuro che la vedi, questa sera, questa casa di letame e morte che, per un secondo, ti dedica un inchino.

(scritto per la chiusura del Festival dell’Impegno Civile a Casal di Principe, 2009 dal libro “Nomi cognomi e infami“)