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Arte

Coprire le distanze

«Sai, mia cara, che non siamo distanti l’uno dall’altra? Se una mattina tu uscissi da Terezin e ti dirigessi a nord, e io da Bautzen venissi verso sud, la sera ci si potrebbe incontrare. Andremmo di corsa, no?»
(Jula, Cecoslovacchia ― Museo Monumento al Deportato, Sala 6)

 

Fare quello che c’è da fare. Da innamorati.

“È vero, principe, che lei una volta ha detto che la ‘bellezza’ salverà il mondo? State a sentire, signori,” esclamò con voce stentorea, rivolgendosi a tutti, “il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza! E io sostengo che questi pensieri gioiosi gli vengono in testa perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato […] Ma quale bellezza salverà il mondo?…”.
(Ippolìt; III, 5) Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Ecco, se facessimo tutti quello che facciamo da innamorati del nostro lavoro, della nostra funzione o della nostra prossima questione avremmo fatto di più, avremmo fatto meglio e non avremmo ceduto alle lusinghe.

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Francesco greco sul libro ‘L’innocenza di Giulio’

Felliniano, pasoliniano, staliniano, reganiano, obamiano: trasfigurarsi in aggettivo è facile, un sogno alla portata di tutti. E’ però quando si va oltre e si diventa anche sostantivo che si lascia una traccia nella Storia, ci si apre un varco nel tempo. Andreotti è allo stesso tempo aggettivo e sostantivo: come Mao, Craxi, Berlusconi, la Tachther, De Gaulle, Lenin, Marx, ecc. Che cos’è l’andreottismo se non un modo originale di stare nella vita, sulla scena politica ponendosi di ¾, modulati su un’ambiguità quasi antropologica, sfumati, l’aria svagata e assente di chi passa per caso? Con l’atout di un’astuzia e un sarcasmo sempre all’erta (volpi in pellicceria e potere che logora chi non ce l’ha), che a volte sconfina nel cinismo che dà un brivido freddo nella schiena, perchè “la politica è sangue e merda, un animale selvaggio”?

64 anni di potere “che si spalmano come un’ombra”, visibile e invisibile. 7 volte premier, 8 ministro della Difesa, 5 agli Esteri, 2 alle Finanze, e poi all’Industria, al Bilancio, al Tesoro, all’Interno, alle Partecipazioni Statali, ai Beni Culturali. E tuttavia, citando Ludwig di Baviera, potrebbe dire: “Voglio restare un enigma”. Che nemmeno il mitico archivio dai faldoni gonfi di carte, posto che un giorno si potrà avere accesso, aiuterà a decodificare (ma quelle del Sifar, di cui pure si autorizzò la distruzione, si ignora dove finirono per davvero…).

La parabola inizia nel 1927: un ragazzino sale sul tram, uno zoppo gli calpesta un piede cercando di scendere, si scusa dicendo che è un mutilato: “Se tutti i mutilati passassero sui miei piedi sarei rovinato”. Buona la prima. Nel 1944 è eletto membro del Consiglio nazionale Dc, e master di botte piena e moglie ubriaca: scrive su “La rivista del lavoro” (filofascista) e sul “Popolo” clandestino diretto da don Sturzo. Eccolo alla messa ogni mattina accanto a De Gasperi, la sua prima sponda in politica. Lo statista ha gli occhi socchiusi, on line col Padreterno? Andreotti invece si connette più terra terra: “A me il prete rispondeva”, dichiara in un’intervista a Montanelli. Occhiali quadrati, viso di una fissità da statua di cera, nessuna emozione al funerale (di Stato) di Moro (senza il corpo ancora caldo e con la famiglia incazzata, giustamente, con la classe politica italiana): nell’aria vaga minacciosa la frase diretta ai mandarini scudocrociati: “Il mio sangue ricadrà su di voi”. E nessuna ruga la increspa nemmeno i dieci anni (1994-2004) del processo per mafia da cui esce assolto, “quella sentenza è diventata un manuale della menzogna… l’assoluzione più colpevole della storia d’Italia”. Un processo che è anche alla Dc, a un sistema di potere (consociativo), nonostante l’altra celebre frase dello statista pugliese: “La Dc non si farà processare nelle piazze”.

Ma il passato non passa, specie in un Paese dove i chiaroscuri di ieri si riverberano sinistri sull’oggi, e poi la Storia è sempre work in progress, si riscrive di continuo, sia perché fanno irruzione nuovi format analitici (si pensi alla psicoanalisi), sia perché emergono documenti, testimonianze, visioni, contesti. “L’innocenza di Giulio” (Andreotti e la mafia), di Giulio Cavalli, Chiarelettere, Milano 2012, pp. 156, Euro 11 (progetto grafico David Pearson), rilegge il personaggio-Andreotti e scandaglia, con gli strumenti di un giornalismo serio, anglosassone, analitico (l’opposto delle merende sociologiche nel salotto buono di Vespa e il ruffianismo alla Fede), il rapporto fra lo statista e la mafia, gli aspetti rimasti fuori, o solo sfiorati, in tribunale, al “processo del secolo”, come se Cosa Nostra, senza referenti politici, intra ed extra moenia, avesse potuto radicarsi nell’anti-Stato e transustanziarsi in soggetto politico (cosa che non riuscì, nel 1978, anche per la fermezza di Andreotti, alle Br).

La prefazione non poteva che portare la firma di Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo “dove avevo chiesto di essere mandato dopo le stragi di Falcone e Borsellino”. Mostrificato (si passi la parolaccia), e anzi destinatario di una legge contra personam per aver “osato prima indagare e poi processare il Divo Giulio… un imputato troppo innocente” in un processo in cui “la verità è fatta a brandelli” e che pure nel 1992, anno che doveva avere “il profumo della consacrazione”, manca l’ascesa al Colle più alto solo per un fatto di curiose sinergie: è l’inizio della stagione delle stragi e col corpo ancora caldo di Falcone, e gli uomini della scorta, a Capaci, sarebbe stato troppo anche per un uomo al crocevia di tutti i misteri italiani dal dopoguerra a oggi (Fiumicino, Sifar, Italcasse, Ambrosoli, Sindona, Calvi, Piazza Fontana, Italicus, Bologna, Gladio, Marcinkus, P2, ecc.), che pure Cossiga nel 1991 nomina senatore a vita e, crollata la Dc sotto il maglio delle inchieste, si ricicla nell’Udc come un “padre della patria” e che se non è colluso è almeno ingenuo: per i pentiti avrebbe ricevuto Badalamenti e cacciato con Bontate e uno come lui non avrebbe annusato la fine di Piersanti Mattarella.

Piace la modulazione ironica di Cavalli (che è consigliere regionale in Lombardia e facendo bene il suo lavoro è finito sotto scorta: accade in un Paese strambo in cui ti indicano la luna e guardi il dito), il solo approccio che consente di trattenere un furore etico che balugina qua e là e che dovrebbe essere di massa e invece è faccenda di nicchia, nel canovaccio di una cultura della rimozione e dell’amnesia, un brodo primordiale in cui rimesta senza remore la tv-spazzatura e l’effetto -narcosi che diffonde nelle case e nelle menti.

da prolocodelsalento

Girovagando per l’Italia: dove siamo questa settimana

Oggi (che è lunedì) iniziamo alle 10.30 con una visita all’OPG (su cui vi consiglio di informarvi qui) di Castiglione delle Stiviere (MN) con il nostro candidato sindaco Franco Tiana. Poi alle 21 a Bollate (MI) per la serata sulle “mafie al nord” con Gianuigi Fontana (procuratore generale presso Tribunale Milano) Francesca Barra e Mario Portanova in Sala Consiliare, piazza Aldo Moro.

Martedì in Consiglio Regionale poi, alla sera, alle 20.45 con il libro “L’innocenza di Giulio” alla biblioteca comunale di Cologno al Serio (BG), piazza Garibaldi n.5.

Mercoledì sera, a Lodi,  “Il modello Formigoni non è salutare” sulla sanità poco sana di Regione Lombardia, con Roberta Morosini, coordinatrice SEL Lodi e Michele Galbiati, responsabile forum salute SEL Lodi, Alberto Villa, segretario FP CGIL Lombardia responsabile comparto sanità e Mauro Tresoldi, segretario FP CISL Lodi.

Giovedì alle 18 a Bergamo presento il libro “L’innocenza di Giulio” , Libreria Melbookstore, ore 18:00 via XX Settembre, 78/80.

Venerdì dalle 10 a Roma, Sede di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli Viale Parenzo 11 Roma con Nicolò D’Angelo, Questore di Perugia, Gabriella De Martino, DNA, Ciro Corona, Associazione anti Camorra. Tutte le info le trovate qui.

Sabato sera a Como, in scena con NOMI, COGNOMI E INFAMI (Aula Magna del Politecnico Via Castelnuovo nr.7) per sostenere il candidato sindaco Mario Lucini.

Sappiamo dove incrociarci, insomma.

Andreotti, prescrizione non è assoluzione (ValigiaBlu sul libro L’INNOCENZA DI GIULIO)

di Matteo Pascoletti (da ValigiaBlu)

@valigiablu – riproduzione consigliata
Prima di essere un libro incentrato sui rapporti tra Andreotti e la mafia, L’innocenza di Giulio (Chiarelettere, 2012), scritto da Giulio Cavalli, è stato (è) uno spettacolo teatrale, sempre a opera di Cavalli, in cui ha preso parte Gian Carlo Caselli, che del processo Andreotti è stato il pm. Che Italia è, viene da domandarsi, quella in cui un magistrato deve salire su un palco per spiegare che un sette volte Presidente del Consiglio, nonché senatore a vita, è stato «prescritto»? Cavalli, in un percorso che dal palcoscenico è arrivato fino agli scaffali delle librerie, risponde al quesito. Lo fa trasformando gli atti giudiziari in racconto, un’operazione necessaria perché la verità che le carte attestano cessi di essere un fatto tecnico, appannaggio di pochi, e diventi un fatto pubblico che riguarda tutti, piaccia o no: «voglio ripercorrere un’inchiesta il cui fuoco sembra essersi spento sotto la cenere dei dibattiti facili e delle chiacchiere da bar».Riguardo alla sentenza, scrive il giudice Gian Carlo Caselli nella prefazione:

… per un congruo periodo di tempo, il senatore Andreotti è stato colluso con Cosa nostra. Questa verità dovrebbe rimanere scolpita nella memoria del paese, specialmente se parliamo di una persona che per sette volte è stata presidente del Consiglio e per ventidue volte ministro. E invece no. Queste parole sono state sapientemente esorcizzate, stravolte, cancellate. Le sentenze (emesse in nome del popolo italiano) vanno motivate affinché il popolo possa sapere per quali motivi appunto si viene assolti o condannati, ma anche perché il popolo possa conoscere i fatti che stanno alla base dei motivi per cui una persona è chiamata a rispondere di determinate azioni fronte a un tribunale. Qui il popolo è stato truffato.

Parlare di «prescrizione» o «assoluzione» riguardo al processo Andreotti significa perciò scegliere da che parte stare rispetto a una simile “truffa”. E questa parte non ha i colori di una maglia da tifoso, indossata mentre si grida, in faccia all’altra parte, «Prescritto! Prescritto!». Né coincide con un modo molto semplificato, e molto comodo, di guardare ai processi giudiziari, come se, per riprendere la metafora sportiva, “assoluzione”, “condanna” o “prescrizione” fossero un risultato da confrontare con ciò che si era precedentemente indicato sulla schedina. Questa parte, invece, considera necessario tradurre in verità storica una verità accertata in sede giudiziaria, cercando il più possibile di far sedimentare la verità storica nella memoria collettiva del paese.

Ossessione giustizialista? Niente affatto. In una puntata di Otto e mezzo andata in onda su LA7 lo scorso 17 febbraio, un serafico Maurizio Lupi parlava, a distanza di otto anni dalla sentenza definitiva, di Andreotti «assolto». Evidentemente o questo paese ha una memoria vaga e fallace, oppure di fronte a certi fatti preferisce anestetizzarsi con un potente narcotico: il negazionismo. Perché Andreotti, come ricorda nel libro Giulio Cavalli, è stato un uomo chiave di un sistema di potere politico che ha dialogato con la mafia arrivando all’intesa; arrivando al concorso esterno (accertato fino al 1980, nel caso di Andreotti), o persino alla subalternità, come nelle circostanze che hanno preceduto il delitto Mattarella, «la storica relazione che si rovescia: la mafia che usa la politica per correggere il tiro». Andreotti, «spericolato mediocre» dai «modi sottili», ha coltivato questo dialogo per proprio tornaconto, non facendo caso ai danni inflitti alla cosa pubblica, o ai morti disseminati lungo quella strada in cui il potere cerca interlocutori per accrescere se stesso e consolidarsi, diventando egoismo privato. La ferocia grigia con cui Andreotti ha commentato le uccisioni di servitori dello Stato come Ambrosoli e Dalla Chiesa non è stata una forma di umorismo cinico, o un cedimento al gusto per la boutade. È stata il modo con cui un certo tipo di potere, linguisticamente e culturalmente, ha negato in pubblico gli effetti più sanguinosi delle varie connivenze tra Stato e mafia. Un allontanamento necessario, perché la cultura della connivenza non può tollerare figure dalla schiena dritta che incarnano una testimonianza antitetica di cultura politica:

Subito dopo l’omicidio di Dalla Chiesa, Giampaolo Pansa gli chiede [ad Andreotti] perché non si sia presentato alle esequie del generale, e lui, con la solita voce grigia, proprio come l’anima, risponde: «Preferisco i battesimi ai funerali». 

«Perché venne ucciso Giorgio Ambrosoli?» ha chiesto a Giulio nel settembre del 2010 il giornalista Giovanni Minoli. «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».

Cavalli, spesso citando passaggi chiave del processo, usa la propria abilità di narratore per mostrare quante e quali verità oscene sono nascoste dalle menzogne pronunciate da Andreotti. Oscene proprio perché Andreotti, per giustificare il potere che ha esercitato negli anni, ha avuto bisogno di mentire, tenendo certe verità il più possibile lontane dall’opinione pubblica e, in ultimo, dalle aule di tribunale. «Mai conosciuto i cugini Salvo, ripete Giulio, mai»: è questo mantra a scandire il capitolo dedicato ai rapporti tra Andreotti e i cugini Salvo, e ogni ripetizione è un dito puntato contro gli incontri, le collusioni, gli interessi personali e la totale noncuranza per ciò che dovrebbe essere, in una democrazia, la politica.

L’innocenza di Giulio va letto complessivamente come un libro che si concentra su Andreotti per parlare dell’Italia, della storia politica e morale del paese. Merita attenzione l’ultimo capitolo, dedicato alle “innocenze di Giulio” che hanno costellato la storia italiana a partire da un lontano primo febbraio del 1893: è il giorno in cui la mafia uccide Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia che ha denunciato al Ministro dell’Agricoltura le collusioni tra la mafia e alcuni membri del consiglio di amministrazione della banca; quasi un Ambrosoli ante litteram. I responsabili dell’omicidio, il capomafia Giuseppe Fontana e don Raffaele Palizzolo, sono assolti per insufficienza di prove nel 1903, dopo un’iniziale condanna. E la storia di un’Italia istituzionale che si professa innocente intanto che il sangue gli scorre sotto le suole, venendo a tempi più recenti, sembra ripetersi con Dell’Utri, secondo Cavalli. Il libro, infatti, è andato in stampa prima che la Cassazione assolvesse Dell’Utri per i reati contestati dopo il 1992, periodo chiave per capire l’eventuale ruolo della mafia nella nascita di Forza Italia; una sentenza che Cavalli presagisce con amara ironia: «ogni lustro avrà sempre la sua innocenza di Giulio».

Il titolo del libro può essere inteso come metafora di un potere, corrotto negli scopi e negli strumenti, dall’andamento ciclico. Andreotti ne è stato un interprete, e non un artefice. Questo particolare potere, ci fa capire Cavalli, di fronte al popolo sovrano avrà sempre bisogno di assolversi da quei crimini commessi proprio a danno del popolo sovrano, legittimando così l’illecito con leggi apposite o sentenze pilotate. Riuscirà sempre e comunque nell’intento, finché voltarsi dall’altra parte, invece di essere visto come un’omertosa complicità, nel senso comune sarà percepito come un’accettabile compromesso per partecipare al potere, o un prezzo ragionevole per il quieto vivere. Contro questa cultura la poetica di Cavalli usa la parola per dare vita alla memoria, rendendola finalmente cosa pubblica. Una legittima difesa della coscienza contro l’ipocrisia con cui ci si siede al tavolo del potere per barattare la propria libertà con qualche briciola di privilegio:

Ogni tanto ti aspetteresti, però, che la storia avesse un po’ di memoria. Se non la gente, almeno la storia, così da poter raccontare per costruire il futuro, e non solo per ricordare. E invece la storia sta sempre lì, seduta a guardarti, petulante e noiosa come una bimbetta antipatica, mentre la memoria buona finisce per essere commemorata e poco esercitata.

Impara dalla Mafia

E’ il titolo di un libro edito in Europa (in Italia pubblicato da Rizzoli col titolo: ”La regola del Padrino. Lezioni di Cosa Nostra per i business“). Marco Nurra me ne aveva parlato su twitter mentre se l’era ritrovato tra le mani in aeroporto. Del favoreggiamento culturale alla mafia ne avevamo già parlato qui e ora il dibattito continua sul blog di MarcoE infine l’amara constatazione che ‘Mafia‘ è un marchio che all’estero vende, un po’ come il famoso e ormai privo di significato ‘Made in Italy‘.  Al mio ritorno a Madrid ho scoperto che il libro di Ferrante è in bella vista un po’ ovunque (e io sono di quelli che entrano in tutte librerie che incontra). Mi chiedo che visibilità abbiano dato a questo libro in Italia, pubblicato da Rizzoli col titolo: ”La regola del Padrino. Lezioni di Cosa Nostra per i business“.

Qualcuno l’ha visto in libreria? Cosa ne pensate dei prodotti culturali che ammiccano alla Mafia?

Il resto qui.

Mi ripeto, il giorno che finalmente riusciremo a scrivere e sancire il reato di favoreggiamento culturale alla mafia forse ci sentiremo tutti più civili.

(E intanto il libro IL CASALESE lotta contro la censura che vorrebbe imporre Nicola Cosentino, per dire).

 

BeppeGrillo.it intervista Giulio Cavalli sul libro L’INNOCENZA DI GIULIO

da il Blog di Beppe Grillo

Tra la politica e la criminalità organizzata c’è, sin dai tempi dell’Unità d’Italia, una neppure tanto celata familiarità. Di solito vi è un triangolo formato dal Politico Inconsapevole, dal Tramite, un’interfaccia in apparenza rispettabile che fa da garante agli accordi, e da uno più esponenti mafiosi. Il finale è più o meno sempre lo stesso. Il Tramite finisce in galera o morto ammazzato come Totò Cuffaro e Salvo LIma, il mafioso si prende uno o più ergastoli, come Totò Riina e Provenzano e il Politico Inconsapevole, dopo aver gridato ai quattro venti la sua estraneità e innocenza, fa carriera. Una volta c’era Andreotti, ora ci sono i suoi figli e nipoti. Attenzione si scindono e si moltiplicano. Piccoli Andreotti crescono.

Intervista a Giulio Cavalli, scrittore, autore e attore teatrale

Un boss qualsiasi
“Ciao a tutti gli amici del blog di Beppe Grillo, sono Giulio Cavalli, autore, scrittore e attore teatrale. Mi occupo di criminalità organizzata, mi occupo di mafie e corruzione, anzi mi occupo di mafia e politica perché mafia e politica in molti aspetti sono simili e poi, in fondo, sia la mafia che la politica noi possiamo non occuparci di loro ma loro inevitabilmente si occupano di noi.
Vorrei parlare del valore e dell’opportunità nell’analisi politica partendo da un personaggio su cui abbiamo sentito di tutto. Una discussione che molto spesso abbiamo deciso di delegare al Giovanardi di turno oppure a quelle tribune politiche dove si decide solo da che parte stare, tra colpevolisti e innocentisti. Lui è Giulio Andreotti ed è in fondo il protagonista politico di questi ultimi 50 anni. Il processo Andreotti dovrebbe essere un bigino, dovrebbe essere nelle cartelle, nei zaini degli studenti insieme al libro di geografia o di storia. Perché il processo Andreotti fondamentalmente ci racconta non solo l’innocenza del senatore a vita ma quanto e se siamo stati innocenti noi in questo paese e quanto siano stati innocenti i meccanismi democratici. All’interno del processo Andreotti, così come nel processo Dell’Utri e in molti altri processi che per via giudiziaria sono finiti con una prescrizione, che è molto diversa da una dichiarazione di innocenza, contiene dei fatti riscontrati, provati, addirittura confessati dall’imputato. E allora bisognerebbe pensare quanto possa un Paese essere degno rimanendo ancorato a meccanismi giudiziari che, a differenza di quello che ci vogliono far credere, sono ben diversi dai valori dell’opportunità.
Quanto è stato opportuno Giulio Andreotti che si è seduto fino alla primavera del 1980 con gli uomini della mafia? Quanto può essere opportuno un uomo di governo che ha attraversato la Prima Repubblica e la Seconda Repubblica e che forse riuscirà a vedere anche la Terza, che ha deciso che Cosa Nostra fosse un ottimo strumento per gestire il consenso e controllare il territorio, proprio come un boss qualsiasi, semplicemente in giacca e cravatta con una credibilità istituzionale e mondiale ben diversa da quello che può essere il boss di questo o di quel rione in Sicilia o in Calabria. Il processo Andreotti ci racconta che ormai ci siamo disabituati a separare il valore della opportunità dal valore della verità giudiziaria, nello stesso Paese in cui Pertini, ma anche Paolo Borsellino, persone politicamente e partiticamente molto diverse tra di loro, ci avevano insegnato che le ombre non erano tollerabili, in un Paese che è diventato bravissimo a essere intollerante con diverse forme di diverso e che invece sembra che non riesca più a essere intollerante con una classe politica che ci racconta che ha incontrato un mafioso ma non ne sapeva nulla, che per caso è capitata in una riunione tra boss ma non se ne era resa conto. Oppure che aveva fatto in modo inconsapevole a sua insaputa un piacere a questa e a quella famiglia.

Andreottismo oggi
Io credo che sia importante partire da Andreotti per chiedersi quanto oggi l’andreottismo funzioni, perché relegare la vicenda del processo Andreotti solo al divo Giulio è il modo più semplice per continuare a permettere alla politica di essere oscena, cioè fuori scena, lo dice bene Scarpinato in un suo libro “Il ritorno del principe”.
Gli Andreotti di oggi sono i politici che si sono serviti o che continuano a servirsi delle mafie per accelerare la loro carriera o per avere protezione in un Paese in cui corruzione, riciclaggio e criminalità organizzata sono tre sorelle di un comune denominatore. Sarebbe il caso di provare a leggere in modo intellettualmente onesto ciò che è scritto nelle carte del processo Andreotti perché diventa urgente accorgersi degli andreottismi, che funzionano e che continuano a funzionare, e riconoscere chi sono oggi i figli di Andreotti. E quanto sia tollerabile al di là della prescrizione, al di là di una Cassazione come nel caso di Dell’Utri che decide che il processo debba ritornare in appello, quanto sia tollerabile sapere che questo o quel politico si sia seduto al tavolo della criminalità organizzata e abbia fatto da ponte, lui garante con le istituzioni.
Chiedersi se non sia il caso di diventare intolleranti, ma intolleranti sul serio, per dichiarare una volta per tutte che ci sono dei limiti che non possono essere superati e ci sono dei comportamenti che non possono essere accettati in un Paese civile. Stupisce della vicenda Andreotti che in fondo il suo processo sembra una favola, una favola strana perché, se ci pensate quasi tutti i cattivi che giravano intorno alla favola più o meno sono stati fotografati mentre bussavano alla sua porta. E però in fondo tutti i cattivi sono finiti abbastanza male, chi arrestato, chi morto ammazzato come i suoi solidali siciliani. E invece, molto spesso, i collegamenti e quindi gli uomini prestati alla politica e forse fratelli della criminalità organizzata sono sempre riusciti a salvarsi, non solo dalla giustizia ma anche nella memoria, nel giudizio morale di questo Paese. E verrebbe da chiedersi perché Dell’Utri sia riconosciuto e ricordato a Milano come un grande esperto di libri antichi, oppure Cosentino non debba essere visto come uomo endogamico ai casalesi prestato alla politica, ma debba essere un’altra vittima di magistratura o di un’opinione pubblica feroce che ha tentato di cannibalizzarlo. E nello stesso Paese in cui improvvisamente Totò Cuffaro, scaricato chissà se dalla mafia o dalla politica, invece si è ritrovato a pagare pegno, nonostante sia in ottima compagnia perché è visitato regolarmente da Pier Ferdinando Casini che riesce ad avere questa grande scissione, comune a molti della nostra classe politica, per cui i meccanismi morali e i meccanismi etici non debbano per forza coincidere con i meccanismi politici.

Le decisioni politiche della criminalità organizzata
Colpisce come molto spesso che le decisioni politiche (anche qui in Lombardia è successo) sono state prese dalla criminalità organizzata prima ancora della politica. E’ una criminalità organizzata che ha già dimostrato di essere politicamente molto più illuminata, è il caso ad esempio di Massimo Ponzoni,
il segretario dell’Ufficio di presidenza di Regione Lombardia, segnalato nell’operazione “Crimine infinito” e in alcune altre informative come molto vicino alle famiglie che contano della ‘ndrangheta brianzola. Stupisce che nelle elezioni del 2010 in una intercettazione alcuni uomini della ‘ndrangheta dicono che ormai non è più affidabile. E invece la politica nel 2012 non riesce ancora a sfiduciarlo e deve intervenire la magistratura e ancora oggi nella politica c’è qualcuno invece che si erge a difensore. Trovo molto andreottiane alcune intercettazioni che avvengono in Lombardia dove la mafia non esiste, di alcuni uomini di ‘ndrangheta che dichiarano di avere comprato questo o quel terreno che verrà sicuramente rivalutato e si vedrà modificata la destinazione d’uso in previsione di Expo, mentre Expo e la definizione dei terreni in realtà non passa ancora alla discussione degli organi di democratici, quelli eletti. Oppure dovrebbe colpire come negli ultimi casi di corruzione siano stati coinvolti non assessori, e quindi non gente nominata classe dirigente, ma ex assessori, semplicemente appartenenti a correnti importanti di questo o di quel partito che dimostrano di aver preso decisioni o almeno di aver fatto credere di poter prendere delle decisioni passando dagli uffici tecnici di assessorati diversi. Dimostrando una volta per tutte che probabilmente esistono degli interessi sotterranei e collaterali che riescono ad attraversare gli uffici che utilizzati legalmente invece ci richiederebbero tantissimo tempo e tantissime votazioni. E allora se, come nel caso di Andreotti, ogni tanto la mafia sembra sapere già quali sono le decisioni della politica, ci sono secondo me due ipotesi: la prima, quella meno preoccupante, anzi quella assolutamente più ottimista, è che la criminalità organizzata sappia con un canale preferenziale le informazioni della politica prima dei cittadini. La seconda invece, molto più preoccupante, che sia ispiratrice delle decisioni della politica. Quanto questo sia declinabile nel caso di Andreotti o nel caso di tanti piccoli Andreotti che imperversano in questo Paese poi io credo che stia alla decisione e alla consapevolezza di ognuno.”

Cultura tra chi legge e chi scrive

Ed ecco qua il nervo scoperto, il punto dolente, l’ambiguità su cui sguazza da anni tutta una serie di falsi creatori di cultura. Un’ambiguità in cui credo e spero che sia caduta anche lei, inconsapevolmente. Per essere “riconosciuto come evento culturale” l’aspetto commerciale non deve riguardare la scrittura, ma la lettura. Fare business sulle legittime ambizioni di chi scrive non è cultura. Si fa cultura quando si riesce a vendere un libro, a far leggere un libro. Quando qualcuno investe qualcosa per acquistare la storia di un’altra persona per farsi da questa intrattenere, quando c’è una trasmissione di pensiero. Pensate che sia interessante fare un festival per scrittori esordienti? Va benissimo, è un’ottima idea. Ma se vogliamo che abbia una rilevanza culturale rivolgiamoci a chi legge e non approfittiamoci dei sogni di chi scrive.

Manuele Vannucci di Intermezzi Editore scrive all’assessore alla Cultura del Comune di Firenze Cristina Giachi. E in fondo la lettera vale per qualche centinaio di editori troppo furbi e di scrittori mal consigliati.

Il giocatore viene privato del gioco. Grazie.

Sul regolamento di un circolo di minigolf si legge: Il comportamento indisciplinato e con maleducazione, o danneggiando la mazza o l’impianto, il giocatore viene privato del gioco. Grazie. La Direzione.

[Stefano Bartezzaghi, Non ne ho la più squallida idea, Milano, Mondadori 2012, p. 55]