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LA BELLEZZA SALE SUL PALCO E SFIDA LA MAFIA

Giulio Cavalli è un uomo di 32 anni con lo sguardo fiero di chi detesta le banalità, gli orpelli di un mondo pronto ad etichettarti per isolarti, per darti dei limiti ben definiti. Giulio quei confini li ha attraversati, nella consapevolezza che ciò è quanto di più naturale per chiunque svolga il proprio lavoro immergendosi nella realtà, a maggior ragione se quel lavoro è fatto di arte e cultura, di parole, di gesti. Il teatro, sin dalle sue antiche origini, svolge innanzitutto una funzione sociale, vive dentro la società che racconta. Negli anni qualcuno lo ha dimenticato, cercando di sterilizzarlo, di lasciare spazio solo all’estetica, dimenticando quella funzione primaria che altri esaltano attraverso la denuncia, usando spesso la forma dell’invettiva comica che prima fa sorridere e poi svela tutta la sua tragica verità. Giulio, da grande autore, oltre che regista e attore, mescola il sorriso e l’ironia con le parole dure e terribilmente vere dei suoi monologhi, parole messe insieme con una maestria rara, che rievoca il pensiero e la penna di gente come Giuseppe Fava o Roberto Saviano.

E la forza delle parole che Cavalli affida al suo teatro ti scuote, ti colpisce allo stomaco, ti emoziona. Ascoltare la lettera ad un estorsore o quella per spiegare al proprio figlio la strage di via D’Amelio è un esercizio di coscienza civile, una coscienza che nasce dal rifiuto di ogni ingiustizia, prima fra tutte quella di un’Italia che, da Nord a Sud, è stretta nella morsa delle mafie, le stesse che minacciano di morte Giulio perché non sopportano gli sberleffi e le denunce di chi sa arrivare alla mente e al cuore della gente con le proprie parole e con il proprio lavoro quotidiano. Non poteva che essere lui, allora, il vincitore del “Premio Fava – Giovani 2010”, consegnatogli il 4 gennaio a Palazzolo Acreide (Sr). Proprio in occasione del Premio, abbiamo conosciuto Giulio, con il quale, nell’intervista gentilmente concessaci, abbiamo parlato di tante cose, dal ruolo del cosiddetto “teatro civile” alla mafia, all’informazione.

Perché il teatro come mezzo di denuncia e di lotta contro la mafia?

Perché sposta una battaglia culturale su un campo che è quello della bellezza, dell’arte, ed è un campo in cui difficilmente la mafia riesce a rispondere. Perché se è vero che si è professionalizzata nel comprarsi gli avvocati migliori o nel parare anche l’informazione più acuta, sul campo della bellezza non sa come reagire oppure reagisce in modo scomposto.

Un attore teatrale che fa paura alla mafia. Come te lo spieghi?

Con il fatto che loro non sono mai andati a teatro, non sanno che cos’è. Penso che alla mafia interessi pochissimo di Giulio Cavalli e più che altro si stia interrogando (senza trovare una risposta) sul perché il mio lavoro, come quello di moltissimi altri, riesca a raccogliere un consenso così grande. Quindi, in realtà siete voi il problema della mafia. Quando se ne renderanno conto verranno a minacciarvi e avranno risolto il problema.

Come dice Saviano, la criminalità ha più paura dei lettori che di chi scrive…

Certo. Perché stiamo parlando di una mafia che veramente ha imparato a parare i colpi anche delle più intelligenti inchieste della magistratura. Il problema è che è una partita di cui non conoscono le regole. Tutti i prepotenti hanno paura di ciò che non conoscono e la paura di una persona che di professione fabbrica paura porta poi a risultati assolutamente comici come quello di temere teatranti, scrittori, ecc.

Si parla molto di “teatro civile”. Una volta Bebo Storti mi disse che la libertà di questo tipo di teatro viene troppo spesso ostacolata. Qual è la tua opinione al riguardo?

Secondo me, il teatro civile non esiste. È un’invenzione, una categorizzazione di una certa parte di stampa e di opinione pubblica che sembra quasi che abbia sentito il bisogno di giustificare il fatto che alcune persone di cultura, con il teatro, con la letteratura, con altre forme hanno messo in pratica l’idea di poter mandare un messaggio che non sia prettamente estetico. Ma è una pratica antica in Italia. Il problema è che le cose normali e consuete stanno diventando eccezionali. Sicuramente c’è una certa impermeabilità del mondo del teatro. Ma è inevitabile, perché il teatro cosiddetto civile, come quello di Bebo, Renato (Sarti ndr) e di tanti altri, è un teatro che prende posizione e quindi molto spesso parla di politica. E la professione teatrale in Italia è un lavoro politico, perché dipende dai finanziamenti della politica. E allora è inevitabile. È vero che il giullare fa ridere il popolo smascherando il re, qui invece bisognerebbe riuscire a far ridere il re smascherandolo.

Tu utilizzi l’ironia e il sarcasmo per parlare di mafia e non solo. Viene da pensare a Fo, Chaplin, Benigni, Totò, i quali dietro la comicità e la risata nascondono una grande amarezza. Cosa c’è dietro il sorriso di Giulio Cavalli?

Il problema principale è evitare di diventare un’icona, correre il pericolo di mettersi a “raccontarsi” piuttosto che raccontare storie. Ed è un onanismo culturale in cui spero di non cadere. Poi, non c’è niente di più tragico della comicità. È la capacità di prendersi poco sul serio. In un Paese normale i giullari dovrebbero raccontare qualcosa che si sa secondo un’ottica stupefacente. Oggi, invece, se ci pensi, succede che i giullari si mettono a fare informazione. Ma è un compito che noi espletiamo se siamo in grado di rimanere sempre puliti e inconsapevoli, nel senso etico del termine. Per cui dietro il mio sorriso c’è la bellezza di portare sul palco la bellezza, e l’assurdità tragicamente comica di doversi ritrovare a rivendicarla.

Dopo le minacce, qual è stata la reazione della gente comune?

Ci sono diversi tipi di reazione. C’è la solidarietà pelosa e voyeuristica, ed è una delle cose che più mi innervosisce dopo la mafia. C’è però anche una reazione positiva che mi rende ottimista. Ottimista proprio in quei posti che la mitologia mafiosa e antimafiosa italiana ci descrive come quelli più oscuri o più in difficoltà. Considero un grande privilegio lavorare con i ragazzi di Addiopizzo o di Libera nei luoghi più difficili. Poi c’è una reazione completamente diversa al Nord (perché purtroppo il federalismo culturale ha attecchito), dove invece c’è una certa impermeabilità. Però, diciamo che ho spesso la sensazione meravigliosa di essere una parte di un lavoro che è portato avanti da un Noi piuttosto esteso ed è uno dei migliori modi per non sentirsi soli culturalmente.

C’è dunque una legalità che si basa sulla forza delle parole. Secondo te quanto le parole sono importanti rispetto all’azione?

La parola è azione, è una delle azioni indispensabili. Il problema è che affinché sia azione la parola non deve essere figlia unica di nessuno. La parola orfana è sicuramente la più potente. Secondo me è fondamentale che la parola recuperi il suo valore spersonalizzato da chi la racconta. E invece noi siamo in un paese in cui, soprattutto ultimamente, si corre il rischio di aumentare lo spessore delle persone o delle parole per fatti che sono veramente banali. Io ogni tanto ho il dubbio di avere più credibilità magari perché ho una scorta. Invece poi c’è una parola che è azione effettiva ed è fondamentale. Tieni conto che chi fa il mio lavoro non fa altro che raccogliere le parole degli altri. Per cui noi siamo quelli che una volta erano i robivecchi, liberiamo le soffitte e cerchiamo di rivendere gli oggetti perché possano avere ancora forma.

La cultura può essere più importante di altri settori nel combattere la mafia?

No. Credere che esista un settore che più di altri può sconfiggere le mafie è una tattica assolutamente suicida. Il teatro può essere un ottimo accompagn
amento al lavoro della magistratura, delle forze dell’ordine e soprattutto della società civile. È un seme che poi deve assolutamente fiorire nei numeri e nella più vasta area possibile della società civile.

Parlando di informazione, ci sono molti fatti che quotidianamente vengono nascosti o distorti. Come vedi il problema dell’informazione in Italia?

Ci sono due problemi di fondo. Innanzitutto c’è un problema prettamente tecnico ed è quello che è assurdo che possano esistere un giornalismo e un’editoria visto che non esistono editori. E questo è un problema tra l’altro in un paese che invece ha fatto la propria grandezza su editori, direttori o fondatori di giornali. A me quasi commuove sentire Concita Di Gregorio, con cui mi è capitato fare dei convegni, che dice:  “Io ogni volta che entro in redazione penso che sto dirigendo il giornale di Gramsci”. È una frase di una semplicità talmente prepotente in un mondo invece di codardia come questo. Ci sono professioni, come quelle dell’informazione, in cui la professionalità  è fondamentale. E professionalità non vuol dire avere uno stipendio. Vuol dire esercitare il proprio lavoro professando i propri ideali. Ecco, la professionalità del giornalismo manca da questo punto di vista. Il secondo aspetto, invece, è la presenza di una vacuità politica che non fa altro, su qualsiasi fatto, che trasformare le posizioni che qualcuno decide di prendere e strumentalizzarle.

Nel tuo spettacolo leggi una lettera a tuo figlio per spiegare via D’Amelio…

Penso che ci sono dei lutti che una società dovrebbe imparare a rispettare senza nessuna strumentalizzazione e bisognerebbe tra l’altro cominciare a capire che farsi carico dei lutti vuol dire non scavalcarli. Sono proprio a livello verticale due posizioni completamente opposte. Una volta che tu hai educato per così tanti anni alla narcotizzazione la gente, ci vorranno almeno gli stessi anni, ottimisticamente, per cambiare le cose. E non è il teatro che riesce a risolvere questo problema.

Nel fare il tuo lavoro ti sei trovato minacciato dalla mafia e costretto a vivere sotto scorta. Come vedi il tuo futuro sul piano lavorativo e personale?

Giovanni Falcone diceva che nella lotta alla mafia ti trovi o per caso o per destino. Secondo me nel mio destino c’era il caso di trovare la mafia. Io penso che sia un impegno abbastanza totalizzante. Vedo il mio futuro assolutamente fedele a me stesso, continuando tranquillamente a svolgere il mio lavoro. Non ho conosciuto la mafia con le minacce. Ho conosciuto l’antimafia, ed è questa che porto avanti. Perché, con tutti i suoi difetti, con i pettegolezzi da camerino, comunque è un movimento che funziona abbastanza bene. Continuerò a farlo. Sono molto ottimista.

Nello spettacolo parli di mafia del Nord e di mafia del Sud. Ci sono differenze?

Al nord esistono sindaci che riescono a rimanere impuniti dicendo delle frasi che, se tu immagini, a Corleone da 40 anni nessuno può più dire. E quindi il problema non è tanto la mafia. La mafia, a Nord o a Sud, è sempre la stessa. È inevitabile che cosa nostra venga ad investire al Nord, perché è matematico che i soldi si possono nascondere solo in mezzo ad altri soldi ed è lì che ci sono. Anche se in realtà sia cosa nostra che la camorra, oggi al Nord, e per Nord intendo soprattutto Milano e Lombardia, sono al servizio della ‘ndrangheta. Ed è questo un fenomeno, ad esempio, che si fa fatica a raccontare. E allora quella curiosità sfacciata dell’antimafia, ad esempio siciliana, secondo me qui non serve più e andrebbe trasferita in blocco lì. Proprio per questo succede che, ad esempio, mentre qui uno spettacolo di satira può attaccare e fare male, invece in Lombardia non funzionerebbe mai ed anzi rischierebbe di alimentare la mitologia di cosa nostra in un modo abbastanza pericoloso, culturalmente criminale.

Tu hai detto di ispirarti a Pippo Fava. In realtà, se ci soffermiamo sulla somiglianza o comunanza nei modi e nei mezzi usati, viene in mente Peppino Impastato. Come vivi la “vicinanza” con l’indimenticabile ragazzo di Cinisi?

Io sono molto amico di suo fratello Giovanni. A Cinisi ho scritto il mio spettacolo Do ut des, quindi penso di aver respirato abbastanza la storia di Peppino. Una delle cose che mi ha sempre lasciato perplesso della vicenda di Peppino Impastato, così come anche delle vicende di molte icone dell’antimafia, è che si pensa di rispettarle celebrandole e non portando avanti quello che ci hanno insegnato. In realtà, che la scrittura facesse paura Peppino ce lo ha insegnato e detto 30 anni fa. Quindi, secondo me, la cosa più normale era riprendere quella lezione. Se vicinanza vuol dire che abbiamo volutamente attinto alla figura di Peppino, pur con la rispettosa distanza che umilmente crediamo di avere, allora sì, possiamo parlare di vicinanza.

Ad un ragazzo che ha sensibilità e consapevolezza di ciò che è la mafia e che vorrebbe far qualcosa nel suo piccolo contro di essa, cosa consigli?

Studiare. Penso che studiare sia alla base. Pensare che le sentenze sono pubbliche e, tra l’altro, facilmente reperibili su internet. Andare in giro a ricordare, perché è impossibile avere una visione approfondita del presente senza conoscere il passato.

Pensi che le cose possano cambiare in un futuro non troppo lontano?

Io sono convinto che le cose cambieranno. Sinceramente io penso che, anche solo sulla consapevolezza dei fenomeni mafiosi, negli ultimi due anni sono state fatte delle cose meravigliose. Il problema è che l’Italia è sempre stato un paese che ha avuto bisogno di eroi. E siccome è sempre stato un paese che ha una memoria più o meno pari a quella di un pesciolino rosso, allora gli eroi devono essere pochi. E così è finita che nel momento in cui si sono cementati come eroi unici Falcone e Borsellino si è stuprata l’idea che di questo fenomeno Falcone e Borsellino avevano e cercavano di trasmettere. Bisogna cominciare a recuperare le vittime di mafia non riconosciute.

C’è qualcosa che la gente può fare nel suo piccolo per combattere la mafia? Ognuno avrà la propria coscienza che gli dirà cosa fare. Penso comunque che non sia molto difficile, perché cercare il bene comune dovrebbe essere una delle predisposizioni che appartengono all’essere umano. Visto che appartiene ai cani, ai maiali, ai canarini, all’edera, mi sembra inspiegabile che non appartenga all’uomo.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org
http://www.ilmegafono.org/legalit%C3%A0/legalit%C3%A0.htm

A 100 PASSI DAL DUOMO: biglietti esauriti prenotazioni replica straordinaria

Biglietti esauriti per il 23:
continua la stagione di Prosa del Teatro Nebiolo sabato 23 ore 21:00 con “A cento passi dal Duomo” scritto da Gianni Barbacetto e Giulio Cavalli, quest’ultimo anche interprete dello spettacolo, accompagnato in scena dalle musiche di Gaetano Liguori.  
Dal profondo silenzio milanese che ha accompagnato l’omicidio di Giorgio Ambrosoli a quello che avvolge le “gesta” di Raul Gardini, i 103 sequestri avvenuti in Lombardia per mano di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta calabrese tra il 1974 e il 1983, le retate delle forze dell’ordine ed i maxiprocessi contro la criminalità organizzata insediata nel territorio lombardo, fino ad oggi, alle porte dell’Expo 2015.
Uno spettacolo supportato da dati e documenti per mappare l’attuale situazione, non per creare facile allarmismo, ma per segnalare alla coscienza civile la concreta e reale esistenza di un fenomeno criminale che si muove silenziosamente anche nell’operoso Nord Italia.  

ATTENZIONE:Per sabato 23 il Teatro registra il tutto esaurito, segnaliamo l’apertura di una lista di attesa per una replica ulteriore domenica 24 alle ore 16:00.
La prenotazione è obbligatoria, il teatro si riserva di confermare la replica ai prenotati.

Prenotazioni al numero 331 92 87 538

 

La bellezza di un impegno: la mia candidatura

Perché candidarsi? Questa è la domanda che mi sono posto più e più volte. La domanda che ricorre e rincorre i miei sostenitori, amici e probabilmente anche chi mi è avverso. C’è un’altra domanda che richiede spazio, prima di dare la risposta: perché non candidarsi? Da molto tempo il concetto che riempie il mio quotidiano, il mio teatro, il mio indagare la contemporaneità e le sue storture lo definisco: la bellezza dell’impegno. Non un concetto teorico, o una frase ad uso della stampa, delle televisioni. La realtà non è un oggetto immutabile nelle sue perversioni, nel suo essere nemica dei deboli, nella sua natura ricattatoria sul lavoro, prevaricante quando è anche solo un posto su un autobus ad un anziano o a una donna incinta. La realtà non è mutevole, la cambiamo noi, per davvero. Attraverso gli strumenti della bellezza di cui ognuno di noi è portatore sano e attraverso l’operosità dell’impegno, cioè dell’alzarsi la mattina e non cedere mai il passo né alla disperazione né al qualunquismo né all’indifferenza. Odio gli indifferenti, amo le differenze. Diciamoci la verità: la politica è stata sottratta ai cuori delle persone. Non solo l’hanno sottratta ma abbrutita a tal punto da renderla un campo fangoso. Chi vuole attraversarla non può che sporcarsi. No grazie. Questa si chiama rassegnazione. La politica è il mezzo con cui si può creare un cambiamento reale e profondo. La politica è la possibilità di elevare la qualità di vita di tutti, è la possibilità di creare una solidarietà che non compare solo per le emergenze, ma è costante, come l’avvicendarsi delle stagioni. Può essere vista come impopolare la candidatura? Può essere vista come contaminazione o addirittura corrosione di una mia integrità artistica ed esistenziale? Bene, che lo sia. Perché il mio salire sul palco, il mio raccontare a voce alta le infiltrazioni della ndrangheta in Lombardia, il mio raccontare la strage di Linate o lo scempio della pedofilia già mi hanno posto nella condizione di essere sicuramente contaminato. Non voglio la comodità di una sedia, che sia quella del palco da dove posso ergermi a cantore del presente corrotto, o la sedia del politico che architetta alleanze e strategie a beneficio di pochi. Voglio essere presente sul palco della quotidianità, sul palco del tempo in cui vivo, sul palco della società civile che dice: basta. Perché un giorno non voglio trovarmi in platea a rimpiangere di non essermi alzato e aver partecipato. Non voglio pentirmi di aver soltanto applaudito alla mia vita perché ho fatto scelte equilibrate che mi hanno dato consenso e benevolenza. No, grazie. Ancora una volta. Coerentemente con la mia vita mi pongo ogni giorno scelte difficili, impopolari, ma seguo soltanto ciò che ho nel cuore e nella pancia, la volontà inestinguibile di essere presente, partecipe a me stesso e alla società di cui sono parte. Questa è la bellezza dell’impegno. Soltanto questo.

Giulio Cavalli

http://italiadeivalori.antoniodipietro.com/articoli/politica/giulio_cavalli_la_bellezza_di.php

Libertà è partecipazione

“Libertà è partecipazione” G.Gaber

Per noi, nel nostro piccolo, è la costruzione di un grande sogno. Partecipare al sogno significa appoggiare una rivoluzione morbida e democratica che inizia con l’avventura della campagna elettorale. Non si tratta di nominare un delegato ma piuttosto di costruire una laboratorio sociale e di responsabilità che sia il cuore, la testa e lo stomaco per i prossimi anni.

Ora è il tempo di conoscere, conoscersi e farsi conoscere. Come una tavola da apparecchiare radunando e contando gli ingredienti. Vorremmo finire questa campagna elettorale con la soddisfazione di avere la certezza di essere consapevolmente scelti (o non scelti) per un giudizio che sia maturato dalla possibilità di un incontro, un confronto.

Partecipare alla nostra campagna oggi significa soprattutto parlarci. Il più possibile. Nei vostri paesi, nel vostro quartiere o nella vostra prossima riunione in cui credete che la mia presenza possa essere un’ottima stretta di mano.

Partecipare alla nostra campagna oggi significa soprattutto parlarne. Il più possibile. Nei vostri siti, nei vostri blog e sui vostri social network.

Il mio impegno politico è il nostro impegno politico.


Volete partecipare alla campagna elettorale? Volete organizzare qualche evento nel vostro Comune con Giulio? Avete delle proposte da sottoporre? Volete partecipare alle riunioni programmatiche? Volete aiutarci? Volete esserci?
Scrivete a staff@giuliocavalli.it.
Volete fare una donazione? fatelo qui:
TUTTE LE DONAZIONI SOSTENGONO IL NOSTRO PROGETTO UNA CAMPAGNA TRASPARENTE

15 Gennaio: Antonio Ingroia, Alberto Nobili e Giulio Cavalli al Teatro Nebiolo

Il Centro di Documentazione per un Teatro Civile ospita al Nebiolo venerdì 15 gennaio alle 21:00 il Dott. Alberto Nobili (Sostituto Procuratore del Tribunale di Milano) e il Dott. Antonio Ingroia (Procuratore Aggiunto del Tribunale di Palermo).
Anche in questa occasione, a moderare la serata, con loro sul palcoscenico Giulio Cavalli.
Alberto Nobili e Antonio Ingroia incontreranno il pubblico affrontando il tema della nuova proposta di legge sulle intercettazioni, con particolare riguardo alle sue possibili interferenze nella lotta alla criminalità organizzata. Tratteranno, inoltre, dell’infiltrazione criminosa sul territorio lombardo. I magistrati si confronteranno sulle differenze di manifestazione delle mafie al Nord e delle più conosciute mafie del Sud.
Entrambi, grazie alla loro pluriennale esperienza sul campo, potranno illustrarci le espressioni più evidenti sul territorio della criminalità organizzata.
Il  Dott. Ingroia durante la serata  presenterà inoltre il suo libro “C’era una volta l’intercettazione. La giustizia e le bufale della politica” edito da Nuovi Equilibri.

L’ingresso al pubblico è libero fino esaurimento posti (non vengono accettate prenotazioni).
Solo per gli abbonati: previa prenotazione valida la poltrona in abbonamento prosa/prosa in coppia/ adotta una poltrona.

Le storie “invisibili” di uomini in guerra

Il giudice Caselli e un poliziotto della squadra Catturandi ospiti al teatro Nebiolo di Tavazzano. «Il mio pianerottolo come una trincea per ricordarmi questo conflitto». Un magistrato e un poliziotto, sullo stesso palco, impegnati nella stessa battaglia. Venerdì sera al Nebiolo di Tavazzano, si sono intrecciati i racconti del magistrato Gian Carlo Caselli, da 37 anni sotto scorta per le sue inchieste sul terrorismo prima e sulla mafia poi, e uno degli uomini della mitica sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo, che da 16 anni insieme a un gruppo di colleghi, invisibili quanto lui, dà la caccia ai latitanti più pericolosi della criminalità organizzata. Tra loro, in una serata blindata da polizia, carabinieri e digos (anche per proteggere l’anonimato del super poliziotto della Catturandi, I.M.D. per convenzione), il regista e autore Giulio Cavalli, direttore artistico del Nebiolo, sotto scorta da 8 mesi per le minacce dei clan. A Gian Carlo Caselli e alla sua esperienza da protagonista nelle guerre più sanguinose e importanti affrontate dallo Stato, raccontate nel suo libro Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia, scritto a quattro mani con il figlio Stefano, la responsabilità di tracciare il parallelo di queste battaglie. È stato proprio Caselli a raccontare la rivoluzione di popolo che ha portato all’isolamento dei brigatisti. Questa la differenza nelle due lotte, «perché la mafia non è mai stata considerata altro da noi – ha spiegato il procuratore Caselli – : la mafia è un intreccio perverso di rapporti torbidi tra pezzi della società, della politica, della cultura, dell’informazione. Una zona grigia in cui hanno molta rilevanza quelle che si chiamano “relazioni esterne”. Se dal dopo stragi ad oggi, c’è una continuità operativa straordinaria nel contrasto militare, non c’è la stessa continuità nel cercare di individuare gli inquietanti rapporti tra mafia e politica. Se ti occupi di Riina vai bene, se inizi a guardare alle relazioni esterne che coinvolgono personaggi eccellenti, sempre facendo il tuo dovere, i bastoni tra le ruote sono molto frequenti». Positivo il pensiero di Caselli sulla possibilità di sconfiggere definitivamente il fenomeno, «perché come diceva Falcone, la mafia è una vicenda umana e come tale ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Se ci credeva Falcone, dobbiamo crederci anche noi». Una battaglia dura, fatta di rischi personali, come quelli vissuti in prima persona dal giudice che ha aperto una parentesi sul lato umano della sua esperienza a Palermo, quando viveva in un palazzo di otto piani completamente svuotato, con un ascensore che non faceva fermate intermedie. «Il mio pianerottolo era una trincea, piantonato da un soldato di leva, un poliziotto, con del filo spinato e dei sacchi di sabbia – ha raccontato il giudice – : bastava quest’immagine ogni mattina per ricordarmi che ero in guerra». A confrontarsi ogni giorno con il braccio armato della criminalità organizzata, il giovane poliziotto della Catturandi, I.M.D.,classe 1973, autore del libro Catturandi. Da Provenzano ai Lo Piccolo, come si stana un pericoloso latitante. Entrato in polizia a 21 anni sull’onda dell’effetto traumatico del post stragismo, come molti giovani di quella terra insanguinata che sentivano il peso della morte dei giudici Falcone e Borsellino come senso di responsabilità, si è trovato nella sezione speciale quasi per caso. «Mi misero alle intercettazioni e mi dissero che sarei rimasto lì un paio di giorni, per fare esperienze. Dopo sedici anni sono ancora lì – ha raccontato lui, che ha sempre vissuto senza poter rivelare a nessuno la sua vera occupazione – : alla mia ragazza dicevo di stare all’ufficio passaporti». In realtà era in una delle sezioni più attive della squadra mobile, una seconda casa in cui un gruppo di giovanissimi poliziotti, guidati da validi funzionari, hanno iniziato una battaglia vissuta giorno e notte, fatta di dettagli, tracce, pedinamenti, un lungo lavoro di ricostruzione dei movimenti dei fiancheggiatori necessario per arrivare ai latitanti. «Ma il nostro lavoro non è sufficiente – ha spiegato ancora il poliziotto -: se anche arrestassimo tutti i latitanti ancora in libertà, e lo faremo, la mafia esisterebbe ancora, perché c’è un problema storico e culturale. Se un giovane per trovare lavoro deve rivolgersi alla criminalità, significa che lo Stato è assente. I mafiosi hanno il controllo del territorio perché il cittadino riconosce quest’autorità. Se lo Stato non copre questi buchi, non riusciremo mai a vincere il fenomeno».

Rossella Mungiello

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Il cacciatore di latitanti si racconta al Nebiolo con Giancarlo Caselli

— TAVAZZANO —
APPUNTAMENTO di prestigio questa sera a Tavazzano, dove si presenta si presenta «Catturandi», il libro scritto da un poliziotto palermitano, I.M.D., che ha preferito non svelare la propria identità per motivi di sicurezza, perché si occupa della cattura dei più pericolosi latitanti di mafia in una delle realtà più difficili del Paese.
All’incontro in programma questa sera parteciperanno, insieme all’autore del volume, i magistrati Raffaele Cantone e Gian Carlo Caselli (nella foto), già procuratore capo di Palermo.

LA PRESENTAZIONE del libro si terrà questa sera alle 21 all’interno del Teatro Nebiolo di Tavazzano con Villavesco. Il dibattito sarà coordinato da Giulio Cavalli, attore, regista, autore teatrale e direttore artistico del teatro Nebiolo. Cavalli, fra l’altro, secondo quanto appreso in settimana, sarà anche uno dei candidati di punta dell’Italia dei valori al consiglio regionale, durante le elezioni di fine marzo.
L’evento in programma questa sera fa parte del ciclo «Documentazione per un teatro civile», organizzato all’interno della struttura di Tavazzano.
Il libro «Catturandi» racconta, in modo diretto, l’esperienza professionale di I.M.D. e i metodi di lavoro della sua squadra.
R.Lo.

DA IL GIORNO L’ARTICOLO QUI

Il “superpoliziotto” e Giancarlo Caselli alla sera sulle mafie

Il “grande orecchio”, una squadra che in incognito spia i movimenti dei clan e dei suoi capi. Uomini e donne senza nome e senza volto, che per motivi di sicurezza affrontano una missione importante nel più completo anonimato. Sono gli agenti della Sezione catturandi della squadra mobile di Palermo. Ci sarà uno di loro, I.D.M. per convenzione, sul palco del teatro Nebiolo di Tavazzano stasera insieme al magistrato Giancarlo Caselli e al regista lodigiano Giulio Cavalli. “Catturandi. Da Provenzano ai Lo Piccolo: come si stana un pericoloso latitante”, questo il titolo del libro testimonianza in cui il giovane poliziotto, classe 1973, racconta le dinamiche operative della squadra impegnata nel ricostruire la rete di connivenze che da sempre protegge i latitanti più pericolosi di Cosa nostra, che sarà presentato sul palco di via IV Novembre. Leggi ed esperienza professionale, regole e istinto, competenza professionale e capacità di improvvisazione, questi alcuni degli ingredienti necessari per trasformare un poliziotto in uno specialista della Catturandi. Vietato qualsiasi ripresa audio e video per proteggere l’anonimato dell’autore durante la serata dedicata alla lotta contro le mafie. Sarà assente per motivi personali il magistrato Raffaele Cantone. Ci sarà invece la testimonianza di Giancarlo Caselli (nella foto) che, pungolato dalla domande del direttore artistico del Nebiolo, Giulio Cavalli, attore antimafia sotto scorta, parlerà del suo libro “Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia”.

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Mafia e politica: il teatro un’arena civile

Domani sera a Tavazzano l’appuntamento con i due magistrati, sul palcoscenico con Giulio Cavalli. . I giudici Caselli e Cantone al Nebiolo per raccontare la lotta per la giustizia. Riprendono gli incontri del Centro di documentazione per un teatro civile, il laboratorio di ricerca e produzione artistica nato a Tavazzano in seno alla Bottega dei mestieri teatrali di Giulio Cavalli; domani sera, alle 21, sul palco del teatro Nebiolo, saranno ospiti i magistrati Raffaele Cantone e Giancarlo Caselli che, moderati dallo stesso Cavalli, racconteranno al pubblico del loro lavoro, di come sceglierlo abbia influito sulla loro vita professionale e privata. Filo conduttore dell’incontro: i capitoli dei libri che entrambi i magistrati hanno recentemente dato alle stampe, accomunati dal desiderio di raccontare un’esperienza che, per quanto diversa, si pone come esempio di coraggio, dedizione e valore civile. Raffaele Cantone, 45 anni, pubblico ministero alla Dia di Napoli fino al 2007, ha affidato alle pagine di Solo per giustizia (Mondadori, 2008) il compito di testimoniare quanto possa essere pericoloso il suo mestiere, soprattutto se sei diventato il nemico numero uno di un clan mafioso potente e ramificato come quello dei Casalesi. Cantone racconterà al pubblico del Nebiolo di come, studente di giurisprudenza inizialmente intenzionato a vestire la toga di un avvocato, sia finito qualche anno più tardi a lavorare come magistrato in una delle Direzioni distrettuali antimafia più infuocate d’Italia, di come si faccia ad andare avanti con la scorta sempre appresso in ogni istante della giornata e la paura di una morte più volte minacciata. Il primo istinto sarebbe quello di considerare un uomo come Cantone un eroe, fermamente deciso a seguire fino in fondo quella che potrebbe essere definita una sorta di “vocazione missionaria”, ma raramente i magistrati della sua stessa pasta amano definire così la propria carriera, preferiscono parlare – come fa Cantone nel suo libro – di un percorso graduale, talvolta persino casuale, dove però rimane sempre salda la passione per il diritto. Una passione che ha mietuto parecchie vittime tra i magistrati italiani, e che sprona chi li ha conosciuti e stimati a continuare la battaglia in cui sono caduti, a ricordare a tutti le loro storie. In questa prospettiva si colloca Le due guerre – Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia (Melampo editore, 2009), il libro con cui Gian Carlo Caselli ripercorre trentacinque anni di storia italiana, dalla Torino degli anni Settanta – presso il cui tribunale lavorava come giudice istruttore – alla Palermo degli anni Novanta, conosciuta grazie alla nomina a procuratore. Lo sguardo di Caselli è quello di chi ha combattuto e combatte una duplice guerra, una contro il terrorismo di sinistra e l’altra contro la mafia, tra le quali solo la prima può dirsi vinta, mentre la seconda è ancora in sospeso. Dal processo ai capi storici delle Brigate rosse al pentimento di Patrizio Peci, dalle stragi di Capaci e via D’Amelio all’arresto di Totò Riina, passando per il caso Cossiga/Donat-Cattin e il processo a Giulio Andreotti: in mezzo, il ricordo di tanti, troppi amici che, in questa storia aspra di rischi e di eroismi, combattendo hanno perso la vita. S. C.

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La mafia sbeffeggiata, Giulio Cavalli premiato dalla Fondazione Fava

Il riconoscimento nel nome del giornalista ucciso nel 1984. Va a Giulio Cavalli, scrittore, autore, regista antimafia, il premio Giuseppe Fava, sezione giovani. Un premio all’impegno per il drammaturgo lodigiano, che ritirerà il riconoscimento lunedì 4 gennaio nell’aula consiliare di Palazzolo Acreidr (in provincia di Siracusa), città natale di Giuseppe Fava, il giornalista e scrittore ucciso nel gennaio del 1984 da alcuni esponenti del clan Santapaola. Un regalo inaspettato per Giulio Cavalli, che arriverà in Sicilia nella giornata di domani per partecipare alla manifestazione dedicata al direttore della «Gazzetta del Sud», anche carismatico fondatore de «I siciliani», storica testata antimafia, ucciso proprio per il suo impegno giornalistico contro la criminalità organizzata.Nella stessa occasione sarà premiato anche il giornalista Sigfredo Ranucci, collaboratore della trasmissione Report di Milena Gabanelli.«Sono sostanzialmente un teatrante stonato, forse un giornalista mancato, certo un appassionato di memoria e di racconto che coltiva un pensiero con mezzi diversi per uno stesso fine – ha commentato il regista lodigiano sul proprio sito web -, se mi sforzo di pensare a chi mi senta “vicino” per modi e sapori penso a Giuseppe Fava, al suo giornalismo con la schiena dritta, al suo teatro mai scontato e con il forte senso del dovere e alla sua quotidiana e genetica voglia di lottare per sentirsi vivo». Per questo ritirerà il premio «con il tremolìo emozionato di un bambino davanti ad un regalo inaspettato e con il sorriso per un “nome” poco nominato che speravo prestissimo di incrociare». Il primo appuntamento con il palco del premio Giuseppe Fava per Giulio Cavalli è per domenica sera. Dopo la tavola rotonda sul rapporto tra mafia, potere ed informazione a cui prenderanno parte, tra gli altri, l’onorevole Bendetto Fabio Granata e il senatore Beppe Lumia, della commissione parlamentare antimafia, Cavalli salirà sul palco con una serie di monologhi (Giuseppe Fava, un uomo e 500 euro e stai messo a posto a cui seguirà un estratto del suo spettacolo A cento passi dal Duomo). Il premio per la sezione giovani arriverà nella mani dell’autore lodigiano, lunedì 4, dopo il dibattito a cui prenderà parte, tra gli altri, anche Claudio Fava, il figlio del giornalista ucciso. «I critici teatrali sono i sacerdoti al ballo delle banalità, vivono paragonando sempre noi a qualcun altro. Io sono stato il nuovo Fo, il nuovo Paolini, il nuovo Celestini, poi sono diventato il nuovo Impastato perché semplicemente mi sono permesso di credere, come lo credeva lui, che la risata sia una delle armi più soddisfacenti per smerdare la vacuità morale dei boss mafiosi e per disonorarli – ha commentato Cavalli -: pur contento di essere accostato a queste persone, anche a livello professionale, però, io non c’entro nulla. Non sono un attore, per cui non arriverò mai ai livelli di Fo; non sono una persona a cui interessa fare memoria, ma più inchiesta, quindi sono molto lontano da Paolini, e se c’è una persona a cui mi sono sempre sentito vicino è invece Pippo Fava. Ricevere questo premio così inaspettatamente significa che esiste una giustizia delle consonanze».

Rossella Mungiello

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