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Siria: il contrabbandiere di felicità
Si preannuncia pericoloso?
Quale sarà il tuo itinerario?
Spiegaci cosa significa essere un toy smuggler, un ‘trafficante di giocattoli’.
Come parte la missione?
Per la prossima missione quanti ne porterai?
Quando hai iniziato questa attività particolare?
C’è la storia di un bimbo che ti ha colpito in particolare?
Oltre ai giocattoli, porti anche altri aiuti?
Durante i tuoi viaggi in Siria, sei costretto ad assistere a scene inenarrabili, a incontrare gente che soffre; come si superano questi choc?
Cosa pensi della situazione attuale in Siria, ad Aleppo?
«Non per piacere mio ma per fare contento Dio (e lo Stato)»
Ho sperato che fosse uno scherzo. Ho pensato che con questa orda di webeti (figli di quella stessa televisione che ora li percula) qualcuno avesse avuto la trovata di mettere in piedi una falsa campagna istituzionale. Ma davvero il cattivo gusto e il buonpensare della ministra Lorenzin potrebbe arrivare a tanto? Mi sono chiesto. E sì. E sì. E sì.
Complice la disattenzione agostana la Morale di Stato si è infilata nel ministero e ci è apparsa in tutta la sua completezza: qui da noi la Morale è molto spesso una vecchia megera che vorrebbe insegnare agli altri cosa è giusto e cosa no, i buoni e i cattivi e, spesso, anche tutte le più recondite prurigini che rovistano tra i genitali tenendo però lo sguardo verso qualche dio, un indefinito infinito e la Ragion di Stato. Che in Italia le tre divinità si sovrappongano complica poi terribilmente le cose.
La Lorenzin (ma mica lei: il governo, tutto, che è responsabile di tutte le azione di tutti i suoi componenti) ha deciso di indire la giornata della fertilità nazionale. Ventiquattro ore di vergogna per chi è infertile per natura o per età o per distrazione mentre le ovaie calde delle partoriture suonano a festa per i borghi italiani. Ha pensato, la Lorenzin (e il governo), che il modo migliore per combattere il calo demografico sia quello di sdoganare un bell’amplesso giovanile destinato alla procreazione.
(il mio buongiorno per Left continua qui)
Due puntualizzazioni su “San Errani” e la ricostruzione in Emilia
Ne scrive Giovanni Tizian per l’Espresso:
«A luglio del 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani, aveva stanziato l’ingente somma di 56 milioni di euro, al fine di ricostruire entro la fine di settembre, edifici scolastici temporanei, a seguito della rovina di quelli esistenti. Ecco comparire di nuovo la società di San Felice (finita sotto sequestro e adesso gestita da un’amministratore giudiziario per conto del tribunale), guidata all’epoca da Augusto Bianchini – ora imputato per concorso esterno. In questo caso è sospettata di aver smaltito amianto in alcuni cantieri della ricostruzione. Nelle strade, ma anche in una scuola di Reggiolo. È emerso, inoltre, dall’indagine Aemilia che nei cantieri di Bianchini lavoravano maestranze assunte grazie all’intermediazione dei boss delle ‘ndrine emiliane. Trattati come schiavi. Con il salario decurtato per pagare il “pizzo” ai padroni delinquenti. Sfruttatamento in piena regola, che ha spinto i sindacati a costituirsi parte civile nel maxi processo in corso a Reggio Emilia.
In Emilia, dunque, la ricostruzione è stata inquinata. Non sveliamo nulla riportando un’intercettazione tra due affiliati che nei giorni successivi al sisma ridono alla grande, e sui morti, per le opportunità di lavoro che si prospettavano. Come fu per L’Aquila, anche qui gli affaristi hanno visto nelle macerie nuove opportunità.»
(l’articolo è qui)
Poche storie, così il governo è strapotente
Andrea Pertici (impegnatissimo nel nostro Tour RiCostituente che trovate qui) ha pubblicato il suo libro ‘La Costituzione spezzata‘ (lo potete acquistare qui).
Ecco la prefazione di Roberto Zaccaria:
Il bullismo fiscale di Apple, Facebook, Google e compagnia bella
Niente crea più disuguaglianza che aiutare tutti nello stesso modo. Eppure non accade nemmeno questo: i forti con i deboli tendono a essere poi deboli con i forti per una legge del contrappasso che gli è favorevole. E così succede che in quest’Italia di professionisti digrignatori di denti (di fronte ai fragili demonizzati, preferibilmente profughi e stranieri) si apparecchi un’accoglienza barzotta a Mark Zuckerberg con il sorriso servile di chi ha intravisto uno sceicco e a nessuno venga in mente di chiedere al fondatore di Facebook (che ha dispensato slogan motivazionali da baci Perugina) se ritenga giusto pagare all’Italia 200.000 euro di tasse di fronte a un incasso di 350 milioni di euro.
Niente. Renzi era troppo preso a postare (su Facebook, appunto) la foto di lui e Mark; il Papa sempre intento a simulare giovanilismo e gli studenti universitari si sono scordati di chiederglielo. Avrebbero potuto farlo i giornalisti ma, ahinoi, i giornalisti non potevano fare domande. Succede. Cosa ne pensa un lavoratore italiano qualsiasi della differenza tra la propria pressione fiscale e quella del proprietario di Facebook invece è facile immaginarlo. Anche senza domande.
E mentre l’Italia si inzerbinava per Zuck (che apre la strada alla beneficienza con i buoni sconto, come al supermercato) l’Europa per la prima volta ha deciso invece di alzare la voce contro il bullismo fiscale di Apple che con la sua sede irlandese (finta) ha goduto di un’aliquota fiscale dello 0,005%. Sì, avete letto bene: al fisco europeo mancano qualcosa come 13 miliardi. E la Commissione Europea (senza bisogno di portaerei, passerelle e necrofilia storica) ha deciso di alzare la voce.
Insomma, l’Europa si arrabbia con le multinazionali e, per una volta, insegna a far politica ai Paesi membri. Proviamo ad applicare le regole, magari? E fuori succede un finimondo: Apple si indigna, l’Irlanda (la mangiatoia di Apple ma anche di Facebook e di Google) reclama il diritto di esercitare la propria prostituzione fiscale e i soliti noti balbettano qualcosa.
(il mio buongiorno per Left continua qui)
L’altrove per gli abitanti di un paese terremotato è il sinonimo della resa e dell’abbandono
Non è una bazzecola quella di pretendere che i funerali delle vittime delle vittime di Amatrice si svolgano a Amatrice e non a Rieti come sconsideratamente deciso dalla Prefettura che poi, sotto la pressione dei sopravvissuti appoggiati da Renzi, ha dovuto fare marcia indietro. E non è nemmeno una questione di pelosa organizzazione di sicurezza, atterraggi di governo e nemmeno di condizione atmosferiche: il funerale a Amatrice è la prima pietra della ricostruzione.
L’antidoto al terremoto (e più vastamente alla disperazione) è la speranza, ma non la speranza che uccise Monicelli («la speranza è una trappola inventata da chi comanda» ebbe a dire il maestro) quanto piuttosto la speranza che mai come dopo un terremoto assume la forma tattile della ricostruzione. Dopo la paura, il dolore e la conta delle vittime un paese terremotato ha diritto di sentire, presto e bene, un vigoroso progetto di ricostruzione. La speranza post terremoto è un credibile progetto di rivivere (dopo essere sopravvissuti) nella propria comunità fedele alla memoria e progredita nella sicurezza.
L’altrove per gli abitanti di un paese terremotato è il sinonimo della resa e dell’abbandono: c’è un’enorme dignità nel rivendicare il diritto di contare e raccogliere le macerie e vigilarle per ciò che erano. Per questo la decisione di celebrare i funerali a Rieti (e soprattutto di spostare le bare) è violenta oltre che stupida: qui non stiamo parlando di un assembramento abitativo abusivo accrocchiato in cima a qualche montagna ma di comuni che la storia ha insediato qui. La differenza, attenzione, è sostanziale.
La decisione di Renzi di riportare il momento del pianto “a casa” è quindi una decisione pienamente politica poiché se la cura e l’attenzione si pesano dai gesti oltre che nei numeri gli amatriciani hanno avuto il sentore di essere confortati nelle proprie esigenze. I cittadini di Amatrice (e dei paesi vicini colpiti dal sisma) hanno la preoccupazione di dover diventare “altro” per ipotizzare un futuro; di doversi sbriciolare anche loro per radicarsi altrove. L’altrove è la soluzione peggiore che si possa prospettare a chi è accampato tra i frammento del suo passato.
(il mio editoriale continua qui su Fanpage)
Eppure oggi Libero Grassi sarebbe un ostacolo al Pil
Ogni tanto le circostanze giocano brutti scherzi per uno strano incastro di tempi e così succede, com’è successo ieri, che in giro si ricordassero tutti di Libero Grassi, l’imprenditore palermitano ucciso da Cosa Nostra per essersi ribellato al pizzo il 29 agosto del 1991.
Commemorare la memoria, si sa, è una pratica salutare se i ricordati sono persone che, proprio come Libero Gassi, hanno pagato con la vita il coraggio di osare le regole. Regole e giustizia. A costo di fare arrabbiare i prepotenti e, soprattutto, essere isolati dai buoni.
Nei Paesi stanchi si infila l’idea che sia giusto ciò che è comodo, produttivo e che riesce a non sforare le regole. Tutto ciò che non è illegale è quindi giusto? No, certo, risponderebbero tutti d’acchito, eppure pullulano le articolesse che demandano ai giudici la parola definitiva tanto per la giustizia quanto per l’opportunità, la valenza sociale e politica di tutte le umane azioni. Il “primato della politica” arriva sempre dopo la giustizia e così è diventato un primato secondario. Per dire.
Libero Grassi dal momento in cui decise di rendere pubblico il proprio rifiuto di non sottostare al racket di Cosa Nostra fu considerato pericoloso sia dai cattivi che dai buoni. Ma qui sono i buoni ad interessarci: gli industriali palermitani ritennero che la ribellione di Libero Grassi potesse mettere a rischio i propri affari poiché pretendere una rivoluzione così improvvisa avrebbe sconquassato gli equilibri cittadini. Libero Grassi, in fondo, è stato un “improduttivo” che ha messo davanti gli interessi collettivi alla crescita del fatturato locale e così non potendogli dare dell’egoista finì che lo bollarono come cattivo esempio di protagonismo.
Ecco perché tutto questo trastullarsi la memoria di Libero Grassi di ieri forse stona un po’, oggi: oggi mentre l’ammorbidimento della regole (che nel lavoro si chiamano spesso diritti) sembra la soluzione unica per la ripresa dell’economia. Oggi mentre ancora rimbombano le parole di Marchionne che ha goffamente tentato di insegnarci che il troppo profitto diventa avidità. Marchionne. Lui e l’etica del lavoro. Da non credere.
(il mio buongiorno per Left continua qui)
Tutti ai piedi di Zuck. Senza le domande giuste.
Pienamente d’accordo con Christian Raimo che scrive (qui):
«Per chi vuole vedere tutto l’incontro, qui c’è la registrazione – a essere sinceri, davvero una serie di banalità da retorica motivazionale, a cui non sarebbe interessante nemmeno dare rilievo; se non fosse che Facebook è così presente nelle nostre vite, e un confronto serio e reale con chi ne ha il controllo sarebbe stato utile.
Per esempio, gli si poteva chiedere come mai Facebook nel 2015 ha incassato dipubblicità in Italia 350 milioni di euro ma ha pagato solo 200mila euro di tasse (ossia un’aliquota dello 0,057 per cento) oppure ragionare con lui del funzionamento dell’algoritmo (ieri è uscito questo articolo su come la mancanza di controllo umano possa creare non pochi problemi), del rapporto con i mezzi di informazione eccetera.
L’impressione invece era quella di una visita quasi tutta sotto copyright (Luca De Biase ha raccontato i suoi problemi a postare un’innocua foto), e soprattutto di un’università ridotta a un gruppo di fan, e nelle file in fondo i giornalisti che non potevano fare domande: un enorme spot pubblicitario per Facebook durato un intero giorno.
Zuckerberg sembrava un patrizio romano che visita la Cilicia e parla dell’invenzione dell’anfiteatro. Sarebbe bastato che rimanesse a Roma altre ventiquattr’ore ed è probabile che sarebbe riuscito a venderci il Colosseo, il che – a pensarci bene – è quello che fa ogni giorno.»
Provare, con pazienza artigianale, a ricostruire i fatti
Sì lo so che rischia di sembrare noioso e inascoltato. Ma a noi piace così. Come dice Pippo (qui):
«Il lavoro di un anno ha dato ottimi frutti di analisi e di decostruzione (debunking) delle cose fatte in questi mesi e in questi anni dal governo italiano.
Qui di seguito una breve rassegna, in costante evoluzione, grazie soprattutto al lavoro di Davide Serafin:
Per incominciare, la Gattoparda, ovvero un’analisi sugli 80 euro e sulla disuguaglianza.
Poi i voucher e la loro crescita senza limiti.
Ancora, sulla decontribuzione, le anatre di Poletti, il doping (che non fa più effetto) e i suoi costi.
Infine, sull’accoglienza, le parole del premier, quelle di un suo fan e la ruspa che cozza con i dati.»
Prendere la politica terribilmente sul serio. Ad esempio.
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