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Il populismo s’è fatto bullo

Tira una brutta aria nel campo del referendum costituzionale. Aria densa, che puzza di fritto e che s’appiccica addosso. Aria di propaganda che si fa lama là dove la distruzione dell’avversario è l’obiettivo nemmeno troppo simulato: fa niente se la Costituzione diventa la carta igienica per pulirsi la bava. Non è nemmeno banale populismo; sarebbe meglio forse. Invece qui siamo di fronte al circo delle pulci con l’animo da zecche. Derisioni, congetture spacciate per verità e un certo qualunquismo altezzoso di chi s’atteggia a snob e invece è solo stupido.

Oggi su Repubblica si legge la definizione “il teatrino del no”. “Il teatrino del no” consiste, secondo l’ennesimo illuminato editorialista, nel mettere insieme tutti quelli che sono contro la riforma senza rispettarne i ruoli, le storie e le sensibilità. È il comandamento di Renzi, del resto: “metteteli insieme tutti, fate vedere che stanno insieme alla destra” ha detto catechizzando i suoi. E fa niente se con la destra Reni ci ha governato per anni, si prepara a rivedere la legge elettorale e se con gli scarti della destra (Verdini docet) ha trovato una risicata maggioranza per imporre la riforma della Costituzione. Lui martella sul populismo (mentre dichiara di cercare i voti a destra, eh) e gli altri per eccesso di servilismo bullizzano senza averne contezza.

Ma no, non è nemmeno questo il punto. A questo portamento ormai stinto ci abbiamo fatto il callo. Il tema vero è che l’antipolitica così lungamente condannata per tentare di scalfire il M5S quand’era appena nato e in crescita (a proposito, ha funzionato un mondo, tra l’altro) oggi è l’asse portante della propaganda di governo. Come scrive anche Pippo qui, dei politici che maledicono i politici sono il monumento equestre all’idiozia che ormai s’è attorcigliata su se stessa. Pur di raschiare il fondo del barile ci si riduce a produrre cartelloni pubblicitari i cui si invoca un’Italia con meno politici con una campagna finanziata dagli stessi parlamentari del PD. Ve lo ricordate Totò Cuffaro quando da presidente della regione siciliana appese un po’ dappertutto i cartelloni con scritto “la mafia fa schifo”? Ecco, il sapore del conato è simile a quei tempi lì.

Di cosa c’è bisogno quindi per costruire consenso? Di instupidire il tutto per essere immediati e non dover dare spiegazioni. Quello che Berlusconi faceva con la magistratura, che Salvini fa con gli immigrati e che Trump sta facendo con i messicani qui da noi Renzi e la sua banda lo stanno facendo alla Costituzione. Tirate le somme.

Il fatto è che in campo per questa campagna ci sono tante brave e preparate persone. Tante, davvero. C’è un’Italia fortemente politica che vuole fare politica oltre che sentirsela dire: ci sono professori, costituzionalisti, giornalisti, imprenditori, studenti, ricercatori, insegnati, giovani e giovanissimi, anziani, casalinghe disoccupati. C’è tanto Paese. Tantissimo. Sia del sì che del no, intendiamoci. E mentre questi discutono con misura e impegno, mentre questi studiano i cannoni di governo fanno il deserto tutto intorno. Colpendo anche i loro, se fossero ancora capaci di accorgersene, se fossero ancora capaci di intendere un senso di comunità che non sia utilitaristico nell’immediato.

Che in fondo se lo scopo è davvero quello di “meno politica”, beh, cari Renzi e renzini, ci siete già riusciti senza nemmeno bisogno di togliere il diritto di voto per il Senato che avete in mente: dovrebbe essere un dibattito e invece è una fanfara. La politica, quella alta, è rimasta a casa, ha già spento tutto e chiuso le finestre.

Ma non è tutto male, credetemi: mentre questi giochicchiano a convincerci che destra e sinistra siano uguali noi continuiamo ad impegnarci ad essere seri. Convinti che anche il “come” insieme al “perché” sia politica nonostante questi si siano incagliati sul “per chi”. E prima o poi arriverà, come negli spettacoli troppo superficiali e troppo immaturi, la replica stanca con il patetico sforzo dell’orchestrina. E non riusciranno a cancellare le loro orribili orme. E nemmeno questo teatrino di editorialini.

Proteggere

Ilaria Capua è una delle più apprezzate ricercatrici italiane all’estero. Ilaria è finita in Parlamento per la sua eccellenza professionale:incredibile di questi tempi. Ilaria Capua ha subito un processo che ne ha messo in discussione non solo la lealtà ma anche tutta la carriera. Ne è uscita pulita, alla fine, ma ha deciso di dimettersi. L’editoriale più bello sono le parole delle dimissioni di Ilaria Capua dal Parlamento. Perché ci vuole coraggio a versare umanità lì dove viene considerata una debolezza e ci vuole dignità, tanta dignità, a scrivere parole così pulite nonostante il sudore e la polvere. Se questo buongiorno deve essere un buon mattino allora meglio lasciarlo a Ilaria:

«Sì, perché non ci piace pensarlo, ma ognuno di noi ha un tempo limitato che gli resta da vivere – e utilizzare al meglio quel tempo è una forma di rispetto verso se stessi e verso gli altri. Anzi un dovere. Ho sentito quindi, che fosse giunto il momento di tornare ad usare il mio tempo al meglio, di tornare nel mondo scientifico, purtroppo non in quello italiano, in un ambiente nel quale non avessi mai perso la credibilità e nel quale fossi riconosciuta ed apprezzata. Ho accettato, su richiesta di una organizzazione internazionale, un incarico di Direttore di un Centro di Eccellenza all’Università della Florida. Ho deciso di trasferire la mia famiglia negli Stati Uniti per proteggerla dalle accuse senza senso ma nel contempo infamanti che mi portavo sulle spalle.

Perché una mamma ed una moglie deve farsi carico anche di questo. Proteggere. E aggiungo, una donna di scienza nel quale questo Paese e l’Europa hanno investito ha il dovere di non fermarsi. Ha il dovere di continuare a condurre le proprie ricerche nonostante tutto, perché la scienza è di tutti ed è strumento essenziale per il progresso.

Venti giorni dopo il trasferimento negli Stati Uniti la Procura di Verona in sede di udienza preliminare ha smontato il castello accusatorio pezzo per pezzo, prosciogliendomi dai molteplici capi d’accusa perche «il fatto non sussiste». Secondo la giudice una sola accusa meritava di essere eventualmente approfondita in dibattimento, ma il presunto reato era ormai prescritto da tempo e quindi sarebbe stato inutile proseguire. La sentenza è passata in giudicato e nessuno l’ha impugnata. Nessuno. Ora che è finita, potrei tornare indietro, ma vi dico la verità, non me la sento. Devo recuperare forze, lucidità e serenità, devo lenire la sofferenza che è stata provocata a mia figlia e a mio marito. Devo recuperare soprattutto fiducia in me stessa, appunto perché voglio usare al meglio il tempo che ho a disposizione. Lo devo ai miei genitori che mi hanno fatto studiare, ai miei maestri, ai miei amici e ai miei allievi di ieri e di domani.»

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Il partito del ni

(scritto per i quaderni di Possibile, qui)

Ieri Romano Prodi ha dichiarato che la la campagna referendaria è “una rissa più dura di quella del confronto tra Hillary Clinton e Donald Trump” aggiungendo che non prenderà posizione nemmeno “sotto tortura”. Di Bersani e Speranza, insieme alla cosiddetta “sinistra del PD”, ne leggiamo praticamente tutti i giorni: a loro la riforma così com’è non piace, dicono, forse voterebbero “no” al referendum ma non sanno dirci cosa voteranno, lasciando intendere che c’è spazio per una trattativa. Su cosa vorrebbero trattare in realtà si è capito ancora meno. Giuliano Pisapia, sempre messianico nelle interviste, si dilunga per dirci che non ci dice cosa voterà. Da altre parti, qui a sinistra, fuori dal PD ogni tanto si scorge qualche incertezza sulle posizioni del “no” dove incertezza in realtà è un eufemismo per non scrivere imbarazzo e un poco di viltà: le posizioni referendarie più disparate compaiono negli articoli di indiscrezioni parlamentari ma non vengono smentite. In compenso le leggono tutti.

Stessa cosa sull’ultima renziata del ponte sullo Stretto: evidentemente è bastata una notte per portare consiglio e oggi in molti si scoprono favorevoli a ciò che hanno sempre combattuto. Dicono che è di sinistra creare lavoro e verrebbe voglia di citare Loredana Lipperini e Giovanni Arduino che nel loro ultimo libro (Schiavi di un dio minore, UTET) scrivono che se “è di sinistra creare lavoro, non parlarne, dunque i faraoni erano di sinistra”. Ma, anche sulla questione del Ponte di Messina, a pesare sono i silenzi. Tanti, troppi e ormai tristemente preventivabili.

C’è in Italia, di questi tempi, il consolidamento del nuovo grande partito del “nì”. Una coalizione bipartisan che galleggia dentro e fuori il Parlamento e che coinvolgi intellettuali, uomini di spettacolo, ex girotondi e un pezzo di ex cittadinanza rumorosa attiva. Attenzione, non sono quelli che concordano con il governo e con le sue riforme: quelli tengono (più o meno coerentemente con la loro storia) una posizione politica e la esprimono. Questi invece, i professionisti del non prendere posizioneciondolano aspettando di vedere la piega che prenderà il Paese: lucrano sul tempo e sulle energie (degli altri) spacciando l’esitazione per saggezza. Intervengono ampollosi riuscendo a non dire nulla mentre si scrollano la responsabilità di stare in campo.

È obbligatorio prendere una posizione? No, certo che no. Ma è obbligatorio prendersene la responsabilità politica. Anche del non decidere, se necessario. E conviene ricordarsene, segnarsene i nomi perché in questo Paese in cui ritorna tutto (e soprattutto in cui resuscitano le pulsioni peggiori del berlusconismo) poi almeno non vorremmo prendere lezioni da maestri fannulloni. La prossima ramanzina dei santini della sinistra che è stata e che non decide almeno evitatecela. Almeno quella.

Noi intanto non cadiamo nella tentazione di inseguire il frastuono delle promesse e delle sparate. Continuiamo a essere seri e, possibilmente, ad essere abbastanza intelligenti da nutrire continuamente dubbi, anche ad alta voce. I chilometri che stiamo percorrendo in giro per l’Italia con il nostro Tour Ricostituente sono un patrimonio politico che abbiamo il dovere di investire. E rivendicare.

Proviamo a essere dappertutto. Casa per casa, nei paesi minuscoli come nei capoluoghi. Abbiamo costituzionalisti commessi viaggiatori che rendono potabile ciò che parrebbe difficile; compagni che allestiscono tavoli, dispiegano bandiere, sistemano l’acqua e distribuiscono volantini; seminiamo incontri e dibattiti con l’impegno di restare nel merito e ci confrontiamo con quelli che (quegli altri) non invitano. Il nostro Tour Ricostitutente, insieme all’attività parlamentare e alla polvere di costruire un movimento, sono risultati inimmaginabili fino a qualche mese fa. E, senza proclami, lo facciamo grazie ai nostri elettori e alle vostre donazioniPer questo vi invitiamo a sostenerci con una donazione o acquistando un nostro gadget.

Grazie a chi condivide con noi la sfida costituzionale.

Io non mi ammorbidisco per il compleanno di Berlusconi

È il compleanno di Silvio Berlusconi. Sono 80. E per lassismo di memoria qui da noi, chissà perché, superata una tal soglia d’età cominciamo a smettere di ricordare. Attenzione: non a perdonare, che di per sé sarebbe azione altissima, qui si tratta piuttosto di lasciar seccare il ricordo in una poltiglia inoffensiva e spenta. È successo per Andreotti (vi ricordate? “lasciatelo in pace che ormai è vecchio” ci dicevano, come se fosse etico lasciare invecchiare le pagine buie di un Paese), sta succedendo per Dell’Utri (non ne parla più nessuno, le responsabilità politiche si sono misteriosamente sciolte e la stessa richiesta di grazia altro non è che il tentativo di legittimare un intero periodo storico) e, vedrete, accadrà per Berlusconi.

Buon compleanno Silvio ed è tutto un pullulare di articolesse che ci dicono che sì, certo, ha combinato i suoi guai, ma adesso che ha ottant’anni e che ci si presenta vecchio e stanco forse sarebbe il caso di soprassedere. Soprassedere è il metodo più in voga per non dover spiegare, per permettere di non raccontare. Soprassedere è il verbo migliore per disegnare un tempo in cui i nodi si scavalcano senza farsene carico.

Allora forse, al di là degli auguri di rito, sarebbe il caso di segnarsi su un foglietto l’impatto di Silvio Berlusconi sulla tenuta democratica di questo Paese, a futura memoria, come un pizzino (legalissimo) da lasciare ai figli e ai nipoti.

Berlusconi è l’uomo politico, dopo Andreotti e più di Andreotti, che ha legalizzato la mafia. Si è seduto con i boss mafiosi per studiare strategie imprenditoriali (se a sua insaputa comunque con la piena coscienza del suo braccio destro Marcello Dell’Utri, condannato anche per questo), ha costruito una propaganda elettorale eccezionalmente convergente con gli interessi di Cosa Nostra, ha ospitato un noto mafioso all’interno della sua dimora (Vittorio Mangano, teniamocelo a mente, segnatevelo, prima che scenda la nebbia) e ha costruito un movimento politico che è stato sponda di un altissimo numero di politici legati alla criminalità organizzata. Ma non solo, Berlusconi ha sdoganato culturalmente la mafia e questa forse è una colpa ancora più grave: con la sua simpatia di plastica e paratelevisiva ci ha convinto che Cosa Nostra fosse un’accolita di inoffensivi contadini a cui non prestare troppa attenzione, ha deriso chi ha speso una vita nella lotta al crimine organizzato, ha innalzato l’omertà a inestimabile virtù e definito eroico un boss mafioso. Silvio Berlusconi è stato il più potente spot di Cosa Nostra.

Silvio Berlusconi ha sdoganato la cinica spericolatezza e l’individualismo. Se oggi la tenuta etica del Paese si è ammorbidita a tal punto da esser pronta a piccole illegalità personali pur di ottenere comunque dei benefici pubblici è perché Silvio e la sua banda sono riusciti ad inculcare l’idea che “per arrivare in alto bisogna sporcarsi le mani”. Così fa niente se ci scappa un’evasione fiscale, qualche atto di corruzione o un paio di leggi ad personam: invocando una presunta invidia degli avversari il berlusconismo ha legalizzato la competitività che esce dalle regole. Il mito (scadente e patetico) dell’imprenditore (e del governante) che ha bisogno di forzare le regole per “fare del bene al Paese” è la realizzazione piena del berlusconismo. Mica per niente anche la parola “libertà” oggi è diventata sinonimo di “liberi dai lacci della solidarietà”.

Silvio Berlusconi ha impiantato in Parlamento il presidenzialismo culturale. Senza bisogno di leggi o di riforme (o forse senza la sfacciataggine che invece hanno questi nel proporle) Berlusconi ha trasformato il Parlamento in un votificio a disposizione del premier svuotandolo definitivamente di ogni autonomia decisionale. Berlusconi ha negato la Carta Costituzionale più di qualsiasi referendum e se n’è andato con un lascito pesantissimo: ora ci dicono che i suoi modi incostituzionali Berlusconi li usasse per se stesso mentre oggi servono per il bene del Paese. Ma quei modi restano.

Silvio Berlusconi ha nobilitato l’ignoranza. Ha chirurgicamente sviluppato il pensiero comune che chi ha troppo studiato e troppo si impegna intellettualmente sia un fannullone, un depravato intellettuale, un inoperoso, un ostacolo alla turboproduttività. Grazie anche a una televisione usata come arma di ignorantizzazione di massa Berlusconi ha reso démodé il pensiero autonomo, la critica e il dibattito preferendo il machismo, il tifo sguaiato, il bullismo ormonale e la comodità del pensiero unico. La linea editoriale di Berlusconi (in tutti i campi in cui si è ritrovato ad operare) è l’ebetismo comodo e funzionale. Funzionale ai cazzi suoi, principalmente.

Silvio Berlusconi ha svilito la politica. In cento modi, in mille sensi: dai senatori comprati, al gossip come arma, alla derisione pubblica dell’avversario (anche questa tutt’ora molto in voga pur senza di lui) fino alla demolizione dell’autorità dello Stato. L’antipolitica attuale, badate bene, è figlia di una lunga opera di banalizzazione che ha eroso le istituzioni. La magistratura? Una casta corrotta. Il Presidente della Repubblica? Un pupazzo in mano ai comunisti. La Corte Costituzionale? Un bivacco di vecchi invidiosi. L’opposizione? Coglioni. Gli elettori? Coglioni. I dissidenti? Venduti e traditori. Il Senato? Un’inutile rottura di palle. Le leggi? Liberticide. La Costituzione? Anacronistica. L’Anpi? Una banda di nostalgici. L’Antimafia? Un covo di comunisti. E così via. Ah, se trovate pericolose assonanze con il presente fate due conti.

(continua su Fanpage qui)

A sinistra, se il NO fosse occasione d’unione?

Convergenza di obiettivi, ideali e motivazioni: se esistesse una formula matematica per condensare la politica forse si partirebbe da qui, dalla comunione d’intenti e di modi. C’è un fronte del NO che si assomiglia moltissimo: sono gli stessi ostinatamente sparsi che in questi ultimi anni sembra che abbiano avuto difficoltà anche solo per accordarsi per un aperitivo insieme, sono gli stessi che si sfilacciano spesso quando sarebbe il caso di fare fronte comune e sono gli stessi che ci promettono a cadenza regolare di ricostruire ciò che loro hanno demolito.

C’è sinistra, nel NO. Ci sono tutte le sinistre. E se è vero che hanno pensieri diversi sul rapporto con il potere è pur vero che hanno (se non mi sbaglio) un impianto comune nella valutazione negativa degli effetti di questa riforma costituzionale. Allora senza perdersi troppo sulla provocazione del “votate come i fascisti” come dicono i renziani (a proposito: potete tranquillamente rispondere che undici ex Presidenti della Corte Costituzionale sono contro la riforma) si potrebbe per una volta, se non costa troppa fatica, vedere il bicchiere mezzo pieno. Che non è sicuramente un banchetto ricco, per carità, ma è un punto reale e politico da cui ripartire.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Le pontilimpiadi del rottamaattore

Caduta l’ipotesi Roma Renzi e i suoi fedeli paninari hanno avuto un’idea brillantissima: il team di creativi della presidenza del consiglio (laureati in twitterologia all’università di Vicchio di Rimaggio, più due specializzandi in powerpointologia) hanno partorito un’idea che coniugasse Olimpiadi, Ponte sullo Stretto e pensioni troppo basse.

«Caro premier» gli hanno detto durante la riunione di presentazione del progetto che si è tenuta a Villa San Martino ad Arcore per non dare troppo nell’occhio, «abbiamo pensato alle Pontilimpiadi. Costruiamo un ponte da Messina a Reggio Calabria (possibilmente a binario unico e senza certificazione antisismica per rispettare comunque le nostre tradizioni oltre che l’ambiente) che contenga un’apposita pista per centometri, duecento, tuttiglialtricentoecentodieci e per mezza maratona e maratona intera. Anzi, abbiamo pensato, per spersonalizzare l’opera anche a uno speciale percorso di una maratona e mezza che lei dovrebbe percorrere alla giornata di inaugurazione…»

(Il premier ha annuito. Con il pollice su, come annuisce lui alle riunioni internazionali per non cimentarsi con l’inglese)

«Poi» hanno proseguito i creativi (già licenziati dalla Lorenzin perché troppo avari di filtro seppia) «abbiamo pensato a un’associazione temporanea di impresa per dividersi il banchetto della valanga dei soldi: Impregilo che impregila, Pessina che pessina, Ilva per il controllo degli scarichi e degli scarti, Montezemolo che Montezemola in tutte le trasmissioni per magnificare l’opera, Malagò che picchetta il Campidoglio sullo zerbino della Raggi, lo Stato che al solito renzizza e Cosa Nostra alla direzione dei lavori…»

(E i gufi? Ha chiesto Matteo ormai schiavo della sua gufofobia)

«Per i gufi abbiamo pensato a un cordone sanitario di vecchietti che fissano a turno acca ventiquattro tutti i cantieri. E per evitare sterili polemiche dei signornò tutto il giorno continueranno a ciondolare in la testa in senso confermativo. Sarà un successo.»

Applausi. Tappi di champagne e l’Italia che riparte. Un tripudio.

(Ma non ci ha pensato già qualcuno? chiede Matteo)

«Assolutamente no. Quell’altro voleva solo un ponte. Il nostro invece è l’Italia che cambia. A forma di ponte» hanno risposto.

Applausi. Tappi di champagne e l’Italia che riparte. Un tripudio.

(Ma le pensioni? Che cazzo c’entrano le pensioni?)

«Beh, signor presidente, anche le cene eleganti di quell’altro non c’entravano un cazzo. Quindi le pensioni ce le buttiamo dentro così. Alla cialtrona. Anzi: alla moderna.»

(il mio buongiorno per Left continua qui)

I Voucher. E quei dati che gridano Vendetta.

Tanto per essere un po’ più precisi del ministro Poletti e delle bugie di governo. 

La corsa dei Voucher continua indisturbata. La dinamica di crescita è sempre più sostenuta: a Luglio è stata superata la quota di 14 milioni di buoni venduti (nell’arco di un solo mese). Se continua così, a fine anno saranno ben 2,2 milioni i lavoratori coinvolti.

Nel corso del Consiglio dei Ministri n. 131 dello scorso 23 Settembre, sono state approvate le modifiche alla disciplina contenuta nel Decreto Legislativo n. 81/2015, altrimenti noto come Jobs Act: le prestazioni di lavoro accessorio devono essere comunicate all’Inail, tramite SMS o email, almeno sessanta minuti prima della loro erogazione. Dovranno essere scambiate alcune informazioni circa il lavoratore coinvolto, i suoi dati anagrafici o il codice fiscale, il luogo, il giorno, l’ora di inizio e fine della prestazione lavorativa.

Nessuna restrizione circa il settore di applicazione, o la durata complessiva del rapporto di lavoro. Nessuna revisione circa il limite retributivo annuo, lasciato inalterato a 7 mila euro complessivi.

Abbiamo raccolto alcuni numeri fondamentali che testimoniano la crescita esponenziale di questo fenomeno, a tutti gli effetti frontiera del precariato. Sì, perché, sebbene le intenzioni fossero quelle di far emergere il sommerso, lo strumento ha finito per fallire l’obiettivo iniziale. Secondo Tito Boeri, se consideriamo gli uomini in età centrali, solo lo 0,2% di essi emerge da rapporti di lavoro nero (cfr. XV Rapporto Annuale INPS).

Accedono ai voucher soprattutto giovani (Il 43% ha meno di 29 anni) e donne (il 51% dei prestatori d’opera). Escludendo i pensionati (che incidono per l’8% sulla platea complessiva), l’età media scende a 30 anni! Nel 23% dei casi, si tratta di lavoratori alla loro prima esperienza. Il Voucher è lo strumento della prima socializzazione al lavoro per i ventenni. Ricevono pochissimo: circa 500 euro l’anno. In tre casi su dieci, il percettore di voucher è un lavoratore dipendente, part-time. Solo lo 0,4% guadagna più di 5 mila euro l’anno mediante i buoni.

(continua qui)

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Quello che mi commuove

È l’impegno, la fatica e il cuore tenuto aperto di chi crede senza mediazioni a qualcosa schiacciati dall’opportunismo e la superficialità di quelli che stanno sopra. Mi commuove, ad esempio, non riuscire a raccontare la disperazione del lavoro. La precarietà che è diventata schiavismo (leggete Schiavi di un dio minore, un libro che è un fiore) ad esempio chiede una sensibilità capace di scendere talmente in basso da farmi sentire un inetto, incapace di abbassarmi. Mi commuovono gli anziani che si tengono per mano, i bambini quando piangono di tristezza e i genitori che non riescono ad essere all’altezza per le disuguaglianze del mondo.

Forse invecchio. Ma mi commuovo.

Chiamatemi Ismaele.

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.

(Herman Melville, Moby Dick, potete regalarvelo qui. Vale la pena rileggerlo.)

“Sim sala bim”: il ponte!

Se vi aspettavate che il differimento della data per il prossimo referendum sulla riforma costituzionale fosse una mossa per inventarsi iperboliche promesse per cercare disperatamente di recuperare voti e posizioni allora mettetevi comodi perché il gran momento è già qui. Matteo Renzi oggi promette: la nuova sfida è la vecchissima e berlusconissima idea del ponte sulla stretto, tra Calabria e Sicilia. Quello stesso ponte che è riuscito nell’ordine a portare in piazza tutto il centrosinistra contro il Cavaliere e la sua banda, quel ponte sullo stretto a lungo osteggiato dal PD (che, davvero, non era nella forma gassosa in cui ci appare oggi) e quello stesso ponte sullo stretto che a Messina ha portato alla poltrona da sindaco Renato Accorinti, uomo slegato da tutti i partiti e attivista in prima fila proprio contro lo scempio voluto da Forza Italia e Cosa Nostra.

«Vogliamo un Paese che preferisca la banda larga al ponte sullo Stretto; che dica no al consumo di suolo e sì al diritto di suolo» diceva nel 2010 Matteo Renzi, ma quel Renzi, si sa, non esiste da un pezzo e nonostante la pervicace servitù di alcuni suoi sostenitori non rendersene conto ormai è un’ingenuità imperdonabile. E dove poteva lanciare la sua ultima sparata il premier? Alla festa di Impregilo, ovviamente, dove gli squali del cemento sono stati ben contenti di saltare fuori dall’acqua per ingoiare il boccone inaspettato. Se serviva una mossa per mettere in crisi l’elettorato di centrodestra orientato al no per il referendum questa del ponte (non potendo legalizzare la mafia) è la stoccata perfetta: come potranno ora i colonnelli siciliani anche solo simulare di osteggiare un premier che (nucleare a parte) ha ripreso in mano pedissequamente il loro antico programma elettorale?

Ma Renzi, attenzione, non è uno sprovveduto. Sa bene che nonostante la levata di scudi di queste ore da parte dei “gufi” e i “pessimisti” (come finemente analizza i dissidenti) i vantaggi che gli arriveranno saranno consistenti: quella vecchia oligarchia di imprenditori Chew confidano nel cemento come unica salvezza vendono nella maxi opera la possibilità di un riscatto alla crisi. Il cemento come testosterone dell’imprenditoria è il trucco della politica fin dagli anni ’70, da Andreotti a Craxi, da Berlusconi a Renzi. Sarà curioso osservare gli stessi che manifestavano con le magliette No Ponte e che insistono nel raccontare Renzi come cambiamento: chissà cosa ci diranno ora. Certo qualcuno proverà con la carta del fraintendimento, anzi il plotone di twittargli ha già abbozzato una cosa del genere se frugate sui social.

(continua qui)