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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Nel merito. Salvatore Settis: «una riforma che elimina gli elettori»

(l’intervento di Salvatore Settis a un convegno sull’erosione delle democrazie promosso al Parlamento Europeo da Barbara Spinelli. Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2016)
Il combinato disposto fra nuova legge elettorale (Italicum) e riforma costituzionale mostra la chiara intenzione di far leva sull’astensionismo per controllare i risultati elettorali, restringendo de facto la possibilità dei cittadini di influire sulla politica. La nuova legge [che è già in vigore – n.d.r] incorre nelle stesse due ragioni di incostituzionalità del defunto Porcellum. Prevede un premio di maggioranza per la lista che superi il 40% dei voti, e ammettiamo pure che sia ragionevole. Ma se nessuna lista raggiunge questa soglia, si prevede il ballottaggio fra le due liste più votate, delle quali chi vince (sia pure per un solo voto) conquista 340 seggi (pari al 54%). Se, poniamo, le prime due liste hanno, rispettivamente, il 21 e il 20%, e al ballottaggio prevale una delle due, a essa toccheranno tutti e 340 i seggi di maggioranza. Inoltre i deputati nominati dai partiti e non scelti dagli elettori potrebbero essere fino a 387 (il 61%). Continuerà dunque l’emorragia degli elettori, sempre meno motivati a votare visto che scelgono sempre meno. Ma questa crescente disaffezione dei cittadini è ormai instrumentum regni: anziché puntare su un recupero alla democrazia rappresentativa dei cittadini che in essa hanno perso ogni fiducia, si tende a far leva sull’astensionismo per meglio pilotare i risultati elettorali.

Nella stessa direzione vanno alcuni aspetti della proposta di riforma costituzionale. Essa è assai complessa, riguardando ben 47 articoli sui 139 della Costituzione (un terzo), e perciò la sua stessa estensione (3000 parole) è di per sé una scelta poco democratica, perché rende difficilissimo al cittadino studiarne ogni aspetto, e praticamente impossibile pronunciarsi consapevolmente con un ‘sì’ o un ‘no ’ (…). Esso assume in tal modo un carattere fiduciario e plebiscitario, che espropria i cittadini della propria individuale ragion critica, e chiede loro di pronunciarsi a favore sulla base degli slogan martellati dal governo.

Una volta assicurata alla Camera dei deputati una maggioranza forte al partito di governo (con la legge elettorale), il Senato viene neutralizzato abolendone l’elettività e trasformandolo in un’assemblea di sindaci e consiglieri regionali che ne saranno membri part-time. Poco importa che gli Statuti di alcune Regioni vietino espressamente ai loro consiglieri regionali di ricoprire qualsiasi altro incarico pubblico; (…) che il nuovo Senato sia a composizione variabile (i suoi membri scadono uno per uno, via via che decadono dal loro incarico regionale o comunale); che l’intricatissimo art. 70, combinato con altri (art. 55) preveda una moltitudine di interazioni Camera-Senato che, a parere di 11 ex presidenti della Corte costituzionale, porteranno a una paralisi del processo legislativo.

Le complicazioni procedurali (presentate come “semplificazioni”), la moltiplicazione dei percorsi di approvazione delle leggi,i potenziali conflitti di competenza avranno per effetto di rendere arduo e lento il funzionamento del Parlamento, con ciò favorendo di fatto la supremazia del governo e il suo potere.

Non è stato dunque abolito il Senato, ma i suoi elettori (cioè i cittadini).Lo stesso è accaduto a livello territoriale con la cosiddetta abolizione delle Province, che di fatto sopravvivono come circoscrizioni amministrative, quanto meno con la figura del Prefetto, funzionario del governo che continua ad avere in ogni capoluogo di provincia funzioni importanti, anzi accresciute dalla legge Madia (al punto di potersi anche sostituire al parere tecnico dei Soprintendenti in materie delicate come gli illeciti paesaggistici). Anche in questo caso, non è la provincia che è stata abolita, bensì i cittadini della provincia. (…).

Con questi e altri artifizi, la nuova proposta di riforma costituzionale accresce i poteri del governo allontanando gli elettori dalla politica, diminuendo le istanze in cui i cittadini sono chiamati a esprimersi, riducendo l’autorevolezza del capo dello Stato. Temi, questi, che non risultano in alcun modo dalla scheda approntata per il quesito referendario, che riproduce il titolo, abile perché manipolatorio, della legge di riforma.

Per questo il referendum del 4 dicembre sarà un test importante e rivelatore. Ci mostrerà se sta prevalendo in Italia un’idea di politica come meccanismo chiuso e privilegiato che garantisca la governabilità limitando lo spazio della democrazia;ovvero un’idea di democrazia partecipata, dove moltiplicare e non ridurre le istanze di partecipazione attiva dei cittadini, di espressione del voto, di scelta dei candidati, incrementando e non demolendo la forma-partito con la sua democrazia interna, diffondendo informazioni corrette e non manipolate, puntando sulla coscienza critica dei cittadini e non sulla loro obbedienza.

A proposito di meritocrazia: la singolare carriera dei figli di ministri e di funzionari di Stato

In un paese dove il 78% dei lavori si trova per «segnalazione» (dato Eurostat), i figli di banchieri, professori universitari, rettori, presidenti di Cda, prefetti, manager pubblici, tutti futuri (attuali) ministri, non hanno tempo per essere choosy, «schizzinosi»: il lavoro arriva e coi fiocchi.

Al di là dei loro sicuri meriti, non deve aver fatto la schizzinosa Maria Maddalena Gnudi quando il padre, il ministro Gnudi (ex presidente Enel, quota Udc) le ha proposto di diventare socio del prestigioso Studio Gnudi (commercialisti in quel di Bologna), il suo. Approdo sicuro anche per Eleonora Di Benedetto, avvocato 35enne, assunta da uno dei più importanti studi legali di Roma, lo studio Severino, quello della madre Paola, ministro della Giustizia.

Ma non tutti i brillanti figli si impiegano indoor, altri lo fanno outdoor, sempre ad altissimi livelli. Come Costanza Profumo, brillante architetto laureata al Politecnico di Torino, figlia del rettore del Politecnico di Torino Francesco Profumo (ora ministro dell’Istruzione), ha lavorato nello studio newyorkese dell’archistar Daniel Libeskind, ora pare sia a Rio de Janeiro. Carlo Clini, figlio del ministro dell’Ambiente Corrado, è rimasto invece in Europa, a Bruxelles, dove coordina progetti per la Regione Veneto.

Ricordate Carlo Malinconico, il sottosegretario tecnico che si è dimesso per una vacanza pagata da altri? Suo figlio, Stefano, avvocato, ha fatto pratica nello studio Malinconico (del padre), poi ha trovato lavoro al ministero dell’Ambiente dov’era direttore generale Corrado Clini (ex collega di governo del padre), e quindi all’Antitrust, quando il presidente era il sottosegretario Catricalà, (ex) collega del padre nei governo Monti. A sua volta il segretario Catricalà, che ha gestito l’Antitrust per sei anni, ha una figlia che è in una società, Terna, partecipata dal ministero dell’Economia, dove da sempre siede Vittorio Grilli, ministro dell’Economia, che però ha figli ancora in età scolare.

Brillante carriera per un altro rampollo, Luigi Passera, figlio del ministro Passera. Passera jr., dopo la laurea in Bocconi (come il padre) si è occupato di marketing per la Piaggio, società di Colaninno, partner dell’ex ad di Intesa nella cordata di salvataggio Alitalia. Ora Passera jr ha un impiego di tutto rispetto presso la multinazionale Procter & Gamble.

Di Monti jr, invece, si sono perse le tracce. Dopo aver lavorato a Londra per Citigroup e Morgan Stanley, il figlio del premier era stato chiamato alla Parmalat da Enrico Bondi (a sua volta poi chiamato da Monti padre come commissario straordinario per la spending review). Dopo le polemiche sul posto fisso (il premier disse che era «noioso») il curriculum del figlio, che nel frattempo ha lasciato Parmalat, è sparito dal web. Si sa però che la seconda figlia di Monti, Federica, ha lavorato nel prestigioso studio Ambrosetti, quelli del Forum Ambrosetti di Cernobbio, dove si riunisce la crème dell’economia italiana. E che poi ha sposato Antonio Ambrosetti, unico figlio maschio degli Ambrosetti.

Benissimo è andata a Giorgio Peluso, 42 anni, figlio del ministro Cancellieri. Già assunto trentenne come direttore di Unicredit, poi direttore generale di Fondiaria Sai a 500mila euro l’anno, l’ha in questi giorni lasciata con una buonuscita di 3,6 milioni, scoperta dal Fatto. Ma non è rimasto a spasso: assunto da Telecom Italia come Chief Financial Officer.

Poi c’è la Fornero. La figlia Silvia ha una cattedra all’Università di Torino (dove madre e padre sono professori ordinari), e lavora in una fondazione finanziata da Intesa (dove la madre era nel consiglio di Sorveglianza). L’altro figlio, Andrea Deaglio, invece, è uno stimato regista e produttore di film socialmente impegnati (emarginazione, minoranze etniche). Chissà cosa pensa dei choosy.

(Paolo Bracalini, Il Giornale)

Povera Rai, cameriera del sì

Roberto Fico (Presidente del Comitato di Vigilanza Rai) dà un po’ di numeri:

«Sono stati appena pubblicati dall’Agcom i dati della settimana 14-20 novembre. Sono vergognosi.
Nei tg Rai il Sì ha goduto di 1 ora e 8 minuti in più rispetto al No (54,6% contro 42,7%). Ma questo non è nulla rispetto alla presenza del premier e del Governo: 47% del tempo di parola al Tg1, 36% al Tg2, 44% su Rainews. Tempo di notizia? 42% Tg1, 45% Tg2, 46% Rainews. Il grosso è tempo del premier, ovviamente. Ricordo ancora una volta che l’informazione dei membri del Governo in una campagna elettorale deve limitarsi, per legge, alle funzioni istituzionali, e non è ammessa la propaganda.»

In questo Paese il servilismo è immutabile: cambiano i fattori ma il risultato non cambia mai.

Roberto Scarpinato: «voto no a questa Costituzione alternativa e antagonista»

Con la riforma si introduce una Costituzione alternativa e antagonista
di Roberto Scarpinato*

Il mio dissenso nei confronti della riforma costituzionale è dovuto a vari motivi che, per ragioni di tempo, potrò esplicare solo in piccola parte.
In primo luogo perché questa riforma non è affatto una revisione della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente, mutando in profondità l’organizzazione dello Stato, i rapporti tra i poteri ed il rapporto tra il potere ed i cittadini.
Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione.
Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’articolo 58 della Costituzione vigente che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Nella diversa organizzazione del potere prevista dalla riforma, questo potere sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali.
Poiché, come diceva Hegel, il demonio si cela nel dettaglio, questo dettaglio – se così vogliamo impropriamente definirlo – racchiude in sè e disvela l’animus oligarchico e antipopolare che – a mio parere – attraversa sottotraccia tutta la riforma costituzionale, celandosi nei meandri di articoli la cui comprensione sfugge al cittadino medio, cioè a dire alla generalità dei cittadini che il 4 dicembre saranno chiamati a votare.
I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario, questione sulla quale si può concordate in linea di principio, ma glissano su un punto essenziale: Perché pur riformando il Senato avete ritenuto indispensabile espropriare i cittadini del diritto-potere di eleggere i senatori?
Il bicameralismo così come lo volete riformare non poteva funzionare altrettanto bene lasciando intatto il diritto costituzionale dei cittadini di eleggere i senatori?
Perché questo specifico punto della riforma è stato ritenuto tanto essenziale da determinare addirittura l’epurazione dalla Commissione affari costituzionali dei senatori del Pd – Corradino Mineo e Vannino Chiti – che si battevano per mantenere in vita il diritto dei cittadini di eleggere i senatori?
Forse uno degli obiettivi che si volevano perseguire, ma che non possono essere esplicitati alla pubblica opinione, era proprio quello di restringere gli spazi di partecipazione democratica e di estromettere il popolo dalla macchina dello Stato?
Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli spazi di democrazia e di rappresentanza?
Questo travaso di potere dai cittadini alle oligarchie di partito non riguarda solo il Senato, ma anche la Camera dei Deputati e viene realizzato mediante sofisticati meccanismi che sfuggono alla comprensione del cittadino medio.
La nuova legge elettorale nota come l’Italicum, che costituisce una delle chiavi di volta della riforma, attribuisce infatti ai capi partito e ai loro entourage il potere di nominare ben cento deputati della Camera, imponendoli dall’alto senza il voto popolare.
Questo risultato viene conseguito mediante il sistema dei capilista bloccati inseriti di autorità nelle liste elettorali presentate nei 100 collegi nei quali si suddivide il paese, e che vengono eletti automaticamente con i voti riportati dalla lista, senza che nessun elettore li abbia indicati. Gli elettori potranno esprimere un voto di preferenza per un altro candidato oltre il capo lista, ma i voti di preferenza così espressi saranno presi in considerazione solo se lista da loro votata avrà ottenuto più di cento deputati in campo nazionale, perché i primi cento posti sono bloccati per le persone “nominate” dai gruppi dirigenti del partito in base a particolari vincoli di fedeltà.
Così per formulare un esempio, se una lista ottiene un totale nazionale di voti pari a 100 deputati, nessuno dei candidati scelti dagli elettori dal 101 in poi con il voto di preferenza potrà essere eletto alla Camera, perché tutti i posti disponibili sono stati esauriti.
Ora poiché il premio di maggioranza previsto dall’Italicum attribuisce al partito vincitore delle elezioni 340 deputati su 630, tutti i partiti della minoranza potranno portare alla Camera nel loro insieme complessivamente 290 deputati, e, quindi, ciascuno solo una quota di deputati intorno a 100 o ad un sottomultiplo di cento.
Il che significa che entreranno alla Camera per le minoranze solo i capilista bloccati, nominati dai capi partiti. Nessuno o quasi dei candidati scelti dagli elettori oltre i cento con i voti di preferenza, farà ingresso in Parlamento.
Ne consegue che ben due terzi dei cittadini italiani votanti, tanti quanti sono rappresentati dalla somma dei partiti della minoranza nell’attuale panorama tripolare nazionale, saranno di fatto privati del diritto di scegliere i propri rappresentanti alla Camera.
Se questa è la sorte riservata ai cittadini elettori delle minoranze, è interessante notare come il congegno dei cento capilista bloccati, unito ad altri, consegua poi l’ulteriore risultato antidemocratico di determinare una distorsione della rappresentanza parlamentare anche nel partito di maggioranza, e di realizzare una sostanziale abolizione della separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo.
Per spiegare come ciò verifichi, occorre comprendere come opera il combinato disposto della riforma e dell’Italicum.
L’articolo 2 comma 8 dell’Italicum stabilisce: “I partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. In questo modo il voto per la forza politica “che si candida a governare” è anche il voto per il “capo della forza politica” che si candida a divenire il capo del governo, in contrasto con l’art. 92 della Costituzione, rimasto inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Come è stato osservato, sarà ben difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia, destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.
Ciò posto, tenuto conto che, come accennato, 1’Italicum attribuisce alla medesima oligarchia di partito che esprime il leader della forza politica candidato a capo del governo, la possibilità di nominare cento deputati della Camera, è evidente che tale gruppo oligarchico nominerà capilista, e quindi deputati ipso facto, tutti i componenti del gruppo ed i fedelissimi del leader. Si tratta di un numero di deputati che già di per sè attribuisce al futuro capo del governo la Golden share per il controllo della maggioranza alla Camera dei deputati, perché equivale a circa un terzo dei deputati eleggibili dal partito. Qualunque studioso di diritto societario sa bene che l’amministratore delegato di una azienda che detiene un terzo della quota azionaria, è in grado di controllare l’intera azienda. Ma non finisce qui. Il leader futuro capo del governo ed il suo entourage dopo avere nominato 100 deputati, tanti quanti sono i collegi elettorali del paese, sono gli stessi che formano la lista degli altri candidati non bloccati, per i quali gli elettori hanno la possibilità di esprimere una preferenza o due a condizione che si votino candidati di sesso diverso.
La riforma costituzionale non prevede alcuna norma che imponga (così come, ad esempio, l’art. 21 della Costituzione tedesca) che l’ordinamento interno dei partiti debba essere conforme ai principi fondamentali della democrazia e che garantisca, di conseguenza, una selezione democratica dei candidati da inserire nelle liste elettorali. Dunque la stessa oligarchia partitica che elegge se stessa con il sistema dei 100 capilista bloccati, ha la possibilità di cooptare, inserendoli nella lista dei candidati votabili, solo personaggi ritenuti affidabili e obbedienti, escludendo dalla lista gli indipendenti e gli esponenti delle opposizioni interne, oppure relegandoli in posizioni marginali.
Ma non finisce qui. L’Italicum ha in serbo un altro congegno a disposizione delle oligarchie di partito per selezionare persone da cooptare nella maggioranza parlamentare del futuro capo del governo. Si tratta della possibilità di candidare la stessa persona in ben dieci diversi collegi contemporaneamente. Il candidato eletto in più collegi deve scegliere il collegio che preferisce. In quello in cui rinuncia, al suo posto viene eletto il candidato che ha ottenuto più voti di preferenza dopo di lui. Il gruppo oligarchico che esprime il leader futuro capo del governo ha in questo modo la possibilità di neutralizzare eventuali candidati espressi dai territori e ritenuti non affidabili, stabilendo che il candidato eletto in più circoscrizioni e fedele alla leadership, scelga la circoscrizione nella quale altrimenti al suo posto verrebbe eletto il candidato non gradito, che viene così escluso dalla Camera.
Grazie a questi congegni elettorali, Io stesso gruppo oligarchico che designa come capo del Governo il capo del partito di maggioranza, acquisisce la possibilità di controllare contemporaneamente sia il Governo che la Camera dei deputati.
Si realizza così un continuum tra Camera dei deputati e Governo espressione entrambi dello stesso gruppo oligarchico che abolisce di fatto la separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo, e la Camera si trasforma da organo espressione della sovranità popolare che controlla il governo dando e revocando la fiducia, in Camera di ratifica delle iniziative legislative promosse dal Capo del Governo, il quale è allo stesso tempo capo del partito di maggioranza.
Il capo del Governo/capopartito oltre ad avere una supremazia di fatto sulla Camera nei modi accennati, ha anche una supremazia istituzionale in quanto la riforma gli attribuisce il potere di dettare l’agenda dei lavori parlamentari con il meccanismo delle leggi dichiarate dal Governo di urgenza che devono essere approvate entro 70 giorni.
Interessante notare che la stessa corsia preferenziale non è prevista per le leggi di iniziativa parlamentare, così che il governo è in grado di colonizzare ancor di più l’attività legislativa del parlamento.
Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma poi la disattivazione del ruolo delle minoranze che, sempre grazie all’Italicum, sono condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa.
E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano in realtà la maggioranza reale nel paese, assommando i voti di due terzi dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del governo.
Grazie alla lampada di Aladino del combinato disposto della riforma costituzionale e dell’Italicum, un ristretto gruppo oligarchico autoreferenziale in grado di auto cooptarsi prescindendo in buona misura nei modi accennati dai voti di preferenza espressi da una minoranza del paese, pari a circa un terzo dei votanti, che lo porta al potere, è in grado di divenire il gestore oligopolistico delle leve strategiche dello stato, cioè della Camera e del Governo.
Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido contro bilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti, e via elencando. Si pongono così le premesse per realizzare uno spoil system generalizzato, finalizzato a garantire l’autoriproduzione del gruppo oligarchico mediante la nomina ai vertici degli apparati che contano solo persone di provata consonanza politica e fedeltà.
Tramite questi e molti altri sofisticati meccanismi che per ragioni di tempo non posso spiegare, si pongono così a mio parere le premesse per una transizione occulta da un repubblica parlamentare imperniata sulla sovranità popolare, sulla centralità del Parlamento e sulla separazione dei poteri, ad un regime oligarchico nel quale il potere reale si concentra nelle mani di una oligarchia che occupa il cuore nevralgico dello stato.
Per giustificare la sostituzione della Costituzione vigente con una nuova Costituzione, i promotori della riforma si sono appellati ad argomenti che si rivelano non ancorati alla realtà e che, proprio per questo motivo, suscitano, a mio parere, serie perplessità, giacché se le ragioni della riforma
dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare.
Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi della politica e sarebbe necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese. Quanto all’inconsistenza del primo argomento – cioè lo scopo di tagliare i costi della politica – non ritengo di dovermi soffermare. La Ragioneria dello Stato in una relazione trasmessa al Ministro per le riforme in data 28 ottobre 2014 ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari a 57,7 milioni di curo, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi della corruzione, i costi della evasione fiscale, invece di tagliare la democrazia.
Il secondo argomento dei sostenitori del Sì è – come accennavo – che la riforma è necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese, in quanto il bicameralismo paritario determina un patologico rallentamento del processo legislativo, ed in quanto l’attuale assetto costituzionale impedisce una governabilità del paese agile, flessibile, necessaria per reggere le sfide della globalizzazione.
Se questo è lo scopo dichiarato, non risulta che siano stati indicati dai fautori del Sì i problemi del paese che sarebbero stati causati in passato dalla farraginosità dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione vigente e che, invece, troverebbero immediata soluzione con la riforma della Costituzione.
Forse la completa assenza di una politica industriale che perdura da oltre un quarto di secolo e a causa della quale dal 2008 ad oggi sono passati al capitale straniero più di 500 marchi storici di tutti i settori strategici dell’industria nazionale?
Dall’elettronica, alle automobili, alle comunicazioni, agli elettrodomestici, alle ferrovie, all’aerospaziale, all’agroalimentare, alla moda, l’elenco dei marchi passati al capitale straniero dà la sensazione di una silenziosa Caporetto nazionale: Pirelli, Pininfarina, Indesit, Ansaldo Breda, Italcementi; Edison, Buitoni, Parmalat, Fendi, Bulgari, Gucci, Valentino, etc.
Forse la disoccupazione giovanile che raggiunge livelli record in ambito europeo e l’emigrazione all’estero di centinaia di migliaia di giovani laureati che nel nostro paese non hanno alcun futuro?
Forse la gigantesca evasione fiscale (la terza del mondo dopo Messico e Turchia) con un mancato introito per le casse dello stato che mette in ginocchio l’erogazione dei servizi sociali?
Ciascuno può allungare a piacimento la lista dei gravi problemi nei quali versa il paese e che lo stanno avvitando in una spirale di declino che sembra senza fine, e stilare dal suo punto di vista una diversa gerarchia della gravità di tali problemi.
Ma pur nella diversità delle opzioni, un fatto è certo: nessuno di questi problemi è addebitabile al bicameralismo paritario e alla Costituzione del 1948. Una classe dirigente che si è rivelata inadeguata a reggere le sfide della complessità e che si è resa responsabile del declassamento economico e sociale del paese, ora tenta di scaricare le proprie responsabilità sul capro espiatorio di una Costituzione del 1948 che nulla ha da spartire con le cause della crisi economica.
Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Sì secondo cui il bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione delle leggi a causa della navetta tra la Camera dei Deputati ed il Senato, quando una delle due camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati dall’altra.
In questa legislatura sono state sino ad oggi approvate 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a seguito di modifiche. I tempi medi approvazione delle leggi sono i seguenti: ogni legge ordinaria viene approvata in media fra Camera e Senato in 53 giorni; ogni decreto viene convertito in legge dalle due Camere in 46 giorni; e ogni legge finanziaria passa, con la “doppia conforme”, in 88 giorni.
Se una legge si incaglia in parlamento non è per colpa del pur discutibile bicameralismo paritario: ma dei dissensi politici dentro le coalizioni di maggioranza. E’ pur vero che vi sono leggi che invece sono state approvate in tempi molto lunghi. Ma se si approfondisce l’analisi si comprende bene che le ragioni di questi tempi lunghi non sono attribuibili al bicameralismo paritario, ma a ben altre ragioni di ordine politico non sempre commendevoli. La legge sulla corruzione, per esempio, ha ottenuto il via libera dal Parlamento dopo ben 1546 giorni.
Dunque ricapitolando le ragioni addotte dai sostenitori del Sì per sostenere la necessità di questa riforma non trovano riscontro nella realtà.
Possiamo concludere che non è affatto vero che esiste una crisi di governabilità del paese che è una concausa importante della grave crisi economica nella quale ristagniamo?
Non possiamo affatto sostenerlo.
Anzi dobbiamo ammettere che esiste certamente una reale grave crisi di governabilità che ha causato ed aggrava la crisi. Quel che merita riflessione, dal mio punto di vista, è che si addebita la crisi di governabilità alla Costituzione vigente e si tacciono invece alla pubblica opinione le vere cause strutturali di tale crisi di governabilità, che possono essere ignote al cittadino comune, che possono essere sconosciute ai tanti giuristi in buona fede che non conoscono quale sia il reale funzionamento della macchina del potere oggi, ma che, invece, non possono essere ignote a coloro che hanno ideato questa riforma.
Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella seconda repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso?
La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite. In assenza di questa fondamentale cassetta degli attrezzi, non è possibile governare la politica economica di un paese.
L’esempio più evidente si trae dall’esperienza degli strumenti messi in campo dall’amministrazione americana per gestire e superare la crisi sistemica verificatasi dopo l’esplosione della bolla dei mutui subprime.
L’amministrazione statunitense ha contemporaneamente azionato la leva della potestà monetaria autorizzando la Fed ad iniettare ogni mese 80 miliardi di liquidità nell’economia reale, la leva della sovranità valutaria svalutando il dollaro rispetto ad altre monete, la leva infine della potestà di bilancio, finanziando con il deficit di bilancio statale politiche di spesa per il rilancio dell’economia. Solo grazie a tali manovre, l’economia statunitense è uscita dal guado. Veniamo ora al nostro paese. Perché il governo italiano nello stesso periodo non ha azionato le stesse leve felicemente azionate dall’amministrazione statunitense? Forse perché ha commesso un errore di diagnosi? Perché ha ritenuto di dovere seguire un’altra strategia? No, semplicemente perché non ha potuto.
Non ha potuto perché le tre potestà fondamentali per gestire il governo dell’economia del sistema Italia – potestà monetaria, potestà valutaria, potestà di bilancio – non sono più azionabili dal governo italiano essendo state cedute ad organi sovranazionali: la Commissione europea e la Bce, componenti insieme al Fondo monetario internazionale della c.d. Troika, santuario del pensiero unico neoliberista.
In altri termini il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, come sostengono i fautori del Sì, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute agli organi prima menzionati – la Commissione europea, la Bce (e per certi versi il Fondo monetario internazionale) – privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario.
Connessione questa dimostrata in modo inequivocabile dalla biografia di tanti soggetti che in tali organi hanno rivestito e rivestono ruoli decisionali strategici e che provengono dalle strutture apicali delle più grandi banche di affari internazionali, o che a fine del loro mandato vengono assunti da tali banche e da potenti multinazionali come consulenti o top manager.
Non risponde a realtà dunque, come affermano i sostenitori del Sì, che la politica ha perduto il controllo sull’economia a causa dell’inefficienza delle procedure decisionali previste dall’attuale Costituzione che, dunque, sarebbe bene riformare votando Sì al prossimo referendum del 4 dicembre.
La politica, o meglio la democrazia, ha abdicato al suo ruolo, quando ha consegnato gli strumenti della sovranità a ristrette oligarchie arroccate in centri decisionali impermeabili alla volontà popolare, ma fortemente permeabili ai diktat dei mercati, o meglio alle potenze economiche che governano i mercati.
Una esemplificazione concreta e recente dei risultati di questa abdicazione della politica al potere economico e dei modi nei quali oggi viene gestito il potere reale si ricava dall’esame della lettera strettamente riservata che in data 5 agosto 2011, il Presidente della Bce inviò al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, dettandogli una analitica agenda politica delle riforme che il governo ed il Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche i tempi e gli strumenti legislativi da adottare.
Dalla riforma della legislazione sul lavoro, alla riforma della contrattazione collettiva, alla riforma delle pensioni sino alle privatizzazioni e alla riforma della Costituzione, è una summa del pensiero e delle strategie neoliberiste.
E’ impressionante verificare a posteriori come quell’agenda politica sia stata puntualmente realizzata – dalla riforma Fornero sino al Jobs Act – dai tre governi che si sono susseguiti dal 2011 ad oggi, e da maggioranze parlamentari composte in larga misura da persone nominate da ristretti vertici di partito.
Quel che appare ancor più significativo è che in quella stessa lettera del 5 agosto 2011, il Presidente della Bce sollecitava anche una riforma della seconda parte della Costituzione che è stata realizzata nel 2012 nella indifferenza e nella inconsapevolezza della sua reale portata, della Opinione pubblica e del mondo dei giuristi.
Mi riferisco a quell’art. 81 della Costituzione che ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio, norma di matrice culturale neoliberista.
Una norma che ha introdotto un vero e proprio cavallo di Troia all’interno della cittadella costituzionale, perché impedisce di finanziare in deficit politiche economiche espansive di tipo keinesiano per superare le fasi di crisi aumentando la spesa pubblica, ed impone quindi come unica soluzione alternativa obbligata il taglio della spesa pubblica ai servizi dello Stato sociale, determinando così l’impoverimento delle masse popolari, la riduzione della loro capacità di spesa, la caduta della domanda aggregata interna e l’avvitamento della spirale recessiva.
La vicenda in parola dimostra quanto siano infondate tutte le argomentazioni dei sostenitori del Sì secondo cui la Costituzione va riformata perché quella attuale rallenta l’iter legislativo e impedisce la governabilità.
Tutte le leggi indicate dalla BCE sono state approvate in tempi rapidissimi con un doppio passaggio parlamentare. La Salva-Italia di Monti e Fornero fu approvata in appena 16 giorni.
La legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata addirittura in cinque mesi (con quattro votazioni Camera-Senato-Camera-Senato).
La vicenda esposta costituisce una concreta esemplificazione del reale modo di essere del potere oggi e di come oligarchie partitiche insediate al governo e in grado di controllare il parlamento, possano divenire la cinghia di trasmissione della volontà politica di centri decisionali esterni ai luoghi della rappresentanza popolare, attraverso itinerari informali che si sottraggono alla visibilità democratica.
Quella che ho appena esposto non è solo una vicenda del passato ma è una simulazione di come sarà esercitato il potere in futuro {se questa riforma costituzionale dovesse essere definitivamente approvata.
Non si tratta di un processo alle intenzioni, non si tratta di dietrologia.
Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese, rimediando: “l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”, “le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale l’elevata conflittualità”.
In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal Parlamento al Governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la migliore consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce e alle pretese dei mercati.
In nome della esigenza di una totale subordinazione della politica all’economia. Il migliore inequivocabile riscontro che questo sia il reale obiettivo della riforma costituzionale, viene dalla sua sponsorizzazione entusiastica da parte delle più potenti banche di affari internazionali e delle altre cattedrali della finanza internazionale che in questi ultimi mesi sono scese in campo con tutta la loro forza di pressione per sostenere il fronte del sì, e per intimidire gli indecisi minacciando sfracelli economici se la riforma dovesse essere bocciata dai cittadini il 4 dicembre. E mi pare meritevole di riflessione che queste finalità della riforma benché siano state dichiarate nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, non siano mai state utilizzate per sostenere le ragioni del Sì nel corso di tutta questa campagna referendaria.
Evidentemente i promotori politici della riforma ritengono controproducente proclamare a reti unificate che la riforma costituzionale risolverà tutti i problemi del paese, grazie alla fedele esecuzione delle indicazioni provenienti dalla governance europea.
l Riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico.
Era il tempo in cui lo Stato non godeva di alcuna considerazione perché era considerato un instrumentum regni nelle mani dei potenti e la legge, come insegnava Gaetano Salvemini, non godeva di alcun rispetto perché era percepita come la voce del padrone.
Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è costata lacrime e sangue, come ci ricorda Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione del 1948, le cui parole pronunciate durante i lavori della Costituente nella seduta del 7 marzo 1947, sono da tenere bene a mente in questo delicato frangente della storia nel quale dovremo decidere sul futuro del paese, e mi sembrano le migliori per concludere il mio intervento: “Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno
questa nostra Assemblea costituente… credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno… che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri i cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani […] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.

* Intervento al Seminario di studi sulla Riforma della Costituzione al Palazzo di Giustizia di Palermo il 22 novembre 2016

Dicono che la riforma aiuterà i malati. E intanto dalla legge di bilancio spariscono i soldi per i bambini dell’Ilva.

(di Virginia Piccolillo per il Corriere della Sera, qui)

Spariti dalla manovra i fondi per curare i bambini dell’Ilva. Erano solo 50 milioni i soldi promessi dal governo per finanziare medici, infermieri, analisi cliniche e attrezzature sanitarie a Taranto destinate ad affrontare l’emergenza dovuta alle emissioni venefiche dell’acciaieria più grande d’Europa alimentata a carbone. Dagli ultimi dati epidemiologici la mortalità è in aumento. E un bambino su quattro dei quartieri Tamburi e Paolo VI, a ridosso dello stabilimento, viene ricoverati per patologie respiratorie. C’era la promessa del governo. Ma, improvvisamente, alle 4 del mattino di giovedì l’emendamento è’ scomparso. Furioso il presidente della commissione bilancio Francesco Boccia: «Senza alcuna spiegazione, per quella spesa che avevamo concordato di mettere tra le priorità non c’era più il via libera di Palazzo Chigi. Ne chiederò conto è non farò sconti a nessuno».

Le promesse e il giallo della norma sparita

Aveva suscitato entusiasmo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, annunciando a Bari il 12 novembre, l’intenzione del governo di «aiutare Taranto» per concedere la deroga al blocco delle assunzioni e della spesa sanitaria. L’accordo con il governo era stato sancito dal presidente della commissione bilancio, Francesco Boccia, con il viceministro del l’economia Morandi e il sottosegretario Beretta. «Eravamo d’accordo che tra le spese più importanti, oltre al centro meteo di Bologna o alla coppa del mondo di sci, ci fosse questa. L’impegno era stato sbandierato, soprattutto dal sottosegretario Claudio De Vincenti, e poi dal ministro Lorenzin. Non c’è’ tarantino che non lo sapesse», tuona il pugliese Boccia. E racconta lo sconcerto del momento in cui ha scoperto che quell’emendamento non c’era più. Immediata la richiesta di chiarimenti alla task force del Mef, nella stanza accanto. «Avevo preparato io stesso l’emendamento. Non mi è stato detto perché non era stato inserito. L’unica risposta che ho avuto è che non era stato autorizzato da Palazzo Chigi». E, alludendo alla posizione critica del governatore della Puglia, Michele Emiliano, nei confronti della battaglia referendaria di Matteo Renzi, conclude: «Temo che qualcuno abbia confuso le vicende politiche con gli interessi di una comunità. Non si fa».

Il Pd in rivolta in Puglia

«È sconcertante la bocciatura dell’emendamento per affrontare le criticità dell’apparato sanitario di Taranto», dice Marco Lacarra, segretario regionale del Pd pugliese, ricordando che «si erano espressi a favore le comunità locali, consiglio regionale nella sua interezza, tutti i parlamentari della Puglia, il sottosegretario Vito De Filippo e soprattutto il ministro Lorenzin». Appena diffusa la notizia del no’ a quei fondi, necessari per evitare le penose trasferte sanitarie dei malati, il segretario del pd di Taranto, Costanzo Carrieri, ha dichiarato: «Sospendo le iniziative a sostegno del «Sì» al referendum. Riflettano hanno ancora tempo per cambiare idea nel passaggio al Senato».

L’iniziativa per l’Ilva pulita

Contro «l’inquinamento di Stato dell’Ilva» si è sempre battuto il governatore Michele Emiliano. Oggi a Roma alla Camera di Commercio ha convocato i massimi esperti internazionali di decarbonizzazione in un workshop per definire una road map per convertire lo stabilimento da carbone a gas, abbattendo così i principali fattori inquinanti. Un progetto presentato la settimana scorsa a Marrakech, nel corso della conferenza sul clima Cop21, che ha suscitato interesse e apprezzamento.

«De Luca parla come un camorrista»

“De Luca parla come un camorrista: credo che il suo partito si sarebbe dovuto interrogare tempo fa sulle discutibili qualità umane e gli eccessi verbali di questo personaggio”: lo dice in un’intervista pubblicata su Il Dubbio Claudio Fava, vicepresidente della Commissione Antimafia e attento osservatore dei linguaggi e dei modi mafiosi. E aggiunge: «sarebbe pericoloso derubricare il tutto come semplice ironia».

E nelle osservazioni di Fava ci sta tutta l’indignazione che manca e che oggi risulta sempre più fuorviata: ci si inalbera per un tweet di un anonimo commentatore (la vicenda di Beatrice Di Maio che doveva essere Spectre e invece è la moglie di Brunetta la dice lunga) e si lascia passare il comportamento lessicalmente paramafioso di un presidente di regione. Anzi, peggio, lo si premia poco dopo con una furbata (ne ho scritto qui) che lo rimette in sella per il controllo della sanità nella sua regione.

De Luca è quello che intercettato disse “a quello gli scipperei la testa”, è quello che elogia le clientele, lo stesso che disse della Bindi “infame” e “da uccidere”. Chi difende De Luca (o ne sminuisce le colpe culturali) è in concorso esterno al favoreggiamento culturale alla mafia. Piaccia o non piaccia. E va detto, va scritto, dappertutto.

Sempre Corsico: dopo l’inciampo della sagra dello stocco ora nega una via a Lea Garofalo

Saranno segnali, casualità o leggerezze ma intanto i messaggi che continua a mandare il comune di Corsico di sicuro sono preoccupanti. Ne scrive Il Giorno:

«Corsico, 24 novembre 2016 – Il paradosso che si consuma a Corsico, stretto hinterland milanese, parla di una commissione antimafia, istituita all’interno del consiglio comunale, e, allo stesso tempo, di un secco no quando un consigliere della minoranza si alza in piedi per proporre l’intitolazione di una piazza alla testimone di giustizia Lea Garofalo uccisa dalla ’ndrangheta. Un passo indietro: siamo nella stessa città dove, ormai un mese fa, è stato annullato in tutta fretta il festival dello stocco di mammola, tradizionale sagra calabrese con referente Vincenzo Musitano, imparentato con boss della ’ndrangheta. Bufera alimentata dal clima intimidatorio che hanno dovuto subire consiglieri e cittadini: fischi, minacce e insulti dal pubblico, appena si è nominata la parola ’ndrangheta. Si era dovuta muovere anche la commissione regionale antimafia per incoraggiare provvedimenti e indagini. Fino a martedì sera. Consiglio comunale, tutti d’accordo: la commissione interna per mettere luce sulla faccenda si fa. Poi, si discute di intitolare una piazza a Lea Garofalo. Lo propone il neo consigliere dei 5 Stelle Stefano Iregna. Niente da fare. La piazza non si fa. «Sono contrario, se si dovrà intitolare una piazza sarà a eroi antimafia: la scorta di Falcone», risponde il sindaco che aggiunge – dopo – «senza nulla togliere alla donna». Allora, propone la minoranza, si dedichi a entrambe le vittime.

No del sindaco e di tutta la maggioranza. «Contaminare le due situazioni lo trovo svilente per entrambi i personaggi», ha aggiunto l’assessore Cristina Villani. Indignati i consiglieri di opposizione che riportano alla memoria quel consiglio comunale di 3 anni fa, dove l’allora consigliere, oggi assessore, Giacomo Di Capua (Lega, lo stesso che è comparso sul manifesto del Festival dello stocco) aveva posizionato proprio accanto alla bandiera di Lea Garofalo quella di un sindacato, sostenendo che se c’era quella della testimone di giustizia poteva esserci anche la sua.»

Ops, l’Economist vota no. E le cavallette e i diluvi, quindi?

img_0031L’Economist si schiera senza senza se e senza ma per il No al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. La posizione viene espressa in un editoriale a corredo di un articolo sulla situazione politica italiana nel nuovo numero in uscita. “Questo giornale ritiene che gli italiani dovrebbero votare no” – scrive l’Economist spiegando che “la modifica alla costituzione promossa da Renzi non affronta il problema principale, cioè la riluttanza dell’Italia a fare le riforme. Inoltre, sottolinea il giornale, “le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che molti in Europa temono” e gli italiani e l’errore principale è stato commesso dal premier che ha “creato la crisi collegando il futuro del governo al test sbagliato”. “Gli italiani – prosegue l’Economist – non avrebbero dovuto essere ricattati ” e il presidente del Consiglio “avrebbe fatto meglio a battersi per migliori riforme strutturali”.

La critica dell’Economist è puntuale e nel merito. “Ogni eventuale beneficio è comunque secondario rispetto ai rischi. In cima a questi – rileva il giornale – il pericolo che nel tentativo di fermare l’instabilità che ha dato all’Italia 65 governi dal 1945, si crei un uomo forte eletto al comando”. Il settimanale punta il dito in particolare con la riforma del Senato non più elettivo. “Molti de suoi membri sarebbero consiglieri regionali e sindaci” quando “regioni e comuni” sono gli “strati di governo più corrotti”, concedendo loro anche l’immunità. Questo – si spiega – renderebbe il Senato “un magnete per la peggiore classe politica”.

Il giornale evidenzia quindi i rischi concreti in caso di vittoria del No. “Le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che molti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico, come già accaduto in passato. Se in ogni caso la vittoria del No al referendum dovesse innescare il disfacimento dell’euro, allora sarebbe il segnale che la moneta unica è così fragile che la sua distruzione sarebbe solo una questione di tempo”.

(Fonte)

Nel merito. Ecco come con la nuova riforma si elegge un Presidente della Repubblica di parte.

(Leonardo come molti altri sta facendo un ottimo lavoro e sul suo blog per smontare le bugie del sì e gliene va dato merito. Purtroppo tra le storture di questa campagna (ma forse di quasi tutte) c’è anche l’immane quantità di energie usate per rispondere alle bufale e quella sulla garanzia di un Presidente della Repubblica che non sia solo di una parte sembra essere una di quelle che funzionano di più. Allora leggete, ritagliate e conservate questo post:)

Ma insomma questa riforma è tutta da buttare? Diciamo che ci sono cose assurde e altre quasi accettabili, che uno sarebbe tentato di mandar giù. L’elezione del presidente della Repubblica, dai, in fin dei conti potrebbe anche funzionare… Poi però accendi la tv, vai su internet, e ascolti gli imbonitori del sì, la loro retorica da fustino dixan fuori tempo massimo: lo stesso dettaglio che a te sembrava quasi passabile, cercano di vendertelo come una mountain bike col cambio shimano. Siori e Siori ci vogliamo rovinare! L’articolo 83 della nuova Costituzione è un baluardo contro qualsiasi deriva autoritaria!

Nientemeno?

Con l’articolo 83 della nuova Costituzione sarà matematicamente impossibile eleggere un Presidente della Repubblica che non sia al di sopra delle parti.

No, scusa, ripeti.

Con l’articolo 83 sarà ma-te-ma-ti-ca-men-te impossibile eleggere…

Hai detto matematicamente?

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

E va bene, vediamo questa matematica.

L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi della assemblea. Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti (dall’articolo 83 della Costituzione riformata).
L’attuale presidente della Repubblica è stato eletto il 31 gennaio 2015 con 665 voti su 1009. Siccome era la quarta votazione, il quorum necessario era appena sceso da 673 (due terzi dell’assemblea) a 505 (la metà più uno). Quindi la coalizione di governo, coi suoi 610 grandi elettori, avrebbe potuto eleggerlo da sola. In futuro invece di una coalizione potremmo avere un partito solo (se si continua a puntare sul maxipremio di maggioranza). Aumenta quindi il rischio che i capi del governo, forti della maggioranza alla Camera, facciano nominare al Quirinale un inquilino su misura – in fondo anche stavolta la sensazione è che Mattarella lo abbia scelto Renzi, litigandoci con Berlusconi: figuriamoci nel giorno in cui un post-Renzi guidasse un monocolore. Di fronte a questo grosso rischio, che alcuni chiamano deriva autoritaria e io chiamo presidenzialismo, gli imbonitori del Sì scuotono la testa: ma come, non avete visto il nuovo fiammante articolo 83? Di qui in poi sarà matematicamente impossibile imporre un candidato senza concertarlo con la minoranza.

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

Sarà. Senz’altro le discussioni si ridurranno, com’è ovvio che succeda in un’assemblea che si riduce di un terzo: dai mille-e-qualcosa di adesso a 730 (cento senatori più 630 deputati). Mettersi d’accordo è più facile quando siamo in meno: è anche più difficile mimetizzarsi nella folla, come fecero i misteriosi 100 che impallinarono Prodi nel 2013. Dunque durante i primi tre scrutini la maggioranza necessaria sarà di 487 grandi elettori, contro i 673 di adesso. Al quarto, se bastasse la maggioranza più uno come adesso, diventerebbero 366 anziché gli attuali 505. Ma con la nuova regola dei tre quinti, baluardo matematico contro la deriva autoritaria, ne serviranno 438. Se qualcuno d’ora in poi vi chiede la definizione matematica di baluardo democratico, ebbene, pare che in un’assemblea di 730 elettori essa si assesti intorno a 438-366=72. Settantadue voti. Un decimo dell’assemblea stessa. (Tre quinti meno un mezzo fa appunto un decimo). Ha un senso?
Magari persino sì, un senso ce l’ha. Ma sapete cosa c’è di buffo? Mentre i nostri nuovi padri costituenti decidevano che il voto di un decimo dell’assemblea è una garanzia democratica, negli stessi palazzi, a volte persino nelle stesse stanze, si stava pensando seriamente di assegnare a chi otteneva almeno il 40% dei suffragi il 54% dei seggi: quella simpatica legge che chiamiamo “Italicum”, sulla quale Renzi decise di chiedere la fiducia al parlamento, e che è tuttora legge della repubblica (certo, hanno detto che la cambieranno. Ma prima bisogna mettere la crocetta sul Sì). Tra il 40% (252 seggi) e il 54% (340) c’è una differenza di 88 seggi. Ok, non ci eleggi un presidente della Repubblica, con 340 seggi. E chissà che situazione puoi trovare al senato. Ma intanto ricordiamo che l’Italicum voleva regalare 88 seggi al primo partito, per una questione di “governabilità”. L’italicum sparirà, e cosa prenderà il suo posto? Non si sa.

Però quest’estate a Orfini piaceva il modello greco (quello che nel frattempo è stato abbandonato anche in Grecia). Un maxipremio al primo partito, senza ballottaggio. Nel parlamento greco (300 seggi), il maxipremio era di 50: un sesto dell’assemblea. Non è servito né a evitare crisi di governo, né governi di coalizione, né referendum inutili. Ma pensiamo a una cosa del genere in Italia: un centinaio di seggi alla Camera da regalare al primo arrivato per la “governabilità”. Capite dove voglio andare a parare? Con una legge del genere, che forse è quella che è stata promessa a Cuperlo, non sarà poi così difficile per un partito trovare quei 438 voti necessari a eleggere come presidente della repubblica un caro vecchio amico non necessariamente super partes (anche Cuperlo – lo dico con simpatia, non sarebbe poi così male Cuperlo).

E comunque, se anche non riuscisse a trovarli, c’è sempre il settimo scrutinio. Da lì in poi il quorum dei tre quinti va ricalcolato sul numero di elettori che si presenta effettivamente a Montecitorio: se non entrano, il quorum diminuisce. Viene in pratica introdotto il silenzio-assenso. A cosa serve? A prima vista sembra una foglia di fico offerta alle minoranze per coprirsi coi loro elettori nel momento in cui cedono a un’offerta irrifiutabile. Mettiamo che abbiano tuonato davanti alle telecamere per giorni e giorni: “Noi Cuperlo mai!” Mettiamo che alla fine abbiano deciso, in cambio di qualcosa, di accettare pure Cuperlo. Non c’è bisogno di votarlo: basta uscire dall’aula e abbassare il quorum. Funzionerà? In altri tempi magari avrebbe funzionato, ma adesso come si fa? Uscire dall’aula ti espone ancora più che restare dentro. All’interno almeno il voto è segreto. Là fuori ci sono le telecamere, appunto, e se proverai a dire che tu non hai votato, che tu ti sei astenuto, ti rideranno in faccia. E un Cuperlo eletto in seguito al ritiro di un’intera delegazione di deputati o senatori non avrà molti motivi per considerarsi “presidente di tutti”. Oggi tutto è discusso, tutto è condiviso, tutto è drammatizzato. È curioso che questa nuova generazione di padri costituenti non se ne sia resa conto: sono quelli che hanno l’iphone, mica il telefono a gettone. Eppure.

Ci sono poi altre possibilità di abbassare artificialmente il quorum: abbiamo già visto che un sindaco-senatore può essere in qualsiasi momento destituito dal suo consiglio comunale. Il voto decisivo per eleggere Cuperlo potrebbe saltar fuori dal consiglio comunale di Vipiteno! Se la situazione è grave si potrebbe anche mandare all’aria un consiglio regionale. Vengono sempre in mente quei vecchi conclavi in cui la mortalità dei cardinali impennava.

Ricapitolando: i riformatori sostengono che nessun partito, anche qualora trionfasse alle elezioni, potrebbe nominarsi un presidente della repubblica senza il consenso di almeno parte della minoranza. Questo perché anche dal quarto scrutinio in poi non basterebbe metà dell’assemblea (366 seggi), ma servirebbero i tre quinti (438). In realtà è difficile capire cosa potrebbe succedere, finché non sappiamo che legge elettorale sarà approvata; e che in caso di legge elettorale alla greca, con maxipremio, quei 438 seggi potrebbero davvero essere a portata di mano del partito di maggioranza. Neanche la possibilità di abbassare il quorum ulteriormente, a partire dal settimo scrutinio, non calcolando gli elettori assenti, sembra una garanzia di pluralità: tutto il contrario. E quindi insomma neanche qui c’è nulla che mi spinga a votare Sì.

Zaccaria, ex Presidente Rai: «Troppo Renzi in tv. E la riforma è sbagliata»

(La mia intervista a Roberto Zaccaria per Fanpage)

Roberto Zaccaria è professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università di Firenze, dove insegna Diritto costituzionale generale e Diritto dell’informazione. Già Presidente Rai dal 1998 al 2002 in questi mesi tiene numerose conferenze per ribadire la propria contrarietà alla riforma costituzionale.

Professore Zaccaria, il clima del dibattito referendario sembra scaldarsi…

Sto guardando un po’ i telegiornali, come danno le notizie. Ogni giorno c’è una cosa nuova: ieri c’era il sì degli artisti oggi c’è l’endorsement della stampa estera sulla riforma costituzionale. Tutti che temono che scatti la crisi ma il problema è Renzi: è lui a paventarla. L’impostazione deviata del dibattito nasce dall’impostazione di partenza. Anche il tg3, che una volta rappresentava una posizione alternativa rispetto alle posizioni governative, inserisce dopo la notizia del Papa che perdona l’aborto l’endorsement della stampa estera….

Perché vota no a questa riforma?

Il mio no è abbastanza semplice, per due motivi: prima di tutto perché questa riforma è nata in Parlamento e si è sviluppata come un’ipoteca inaccettabile del governo; questo è un elemento che la deforma dal punto di vista del metodo e porta già un giudizio negativo; poi nel merito la soluzione ai problemi che vengono indicati è sbagliata perché il superamento del bicameralismo è giusto in linea di principio ma viene superato in un modo contraddittorio che ne determina un peggioramento. Poi c’è il collegamento della riforma con la legge elettorale che mi fa dire in modo preciso che questo disegno diventa pericoloso perché innesta un meccanismo che deforma il sistema di governo favorendo l’esecutivo. E questo è contrario ai nostri principi costituzionali.

Dice Renzi che chi vota no è a favore della casta…

Una deformazione, appunto: ogni volta c’è bisogno di trovare uno slogan tra l’altro collegato a elementi inesistenti nel testo. In questa riforma non c’è nulla che riguardi la casta: c’è forse qualche accenno che riguarda il calmieramento delle retribuzioni dei politici ma a noi hanno insegnato che queste iniziative si possono tranquillamente fare con delle leggi ordinarie. E poi mi ha lasciato di stucco sentire Renzi definire ”accozzaglia” i sostenitori del no dicendo che questi non costituiscono un’alternativa: anche questa frase non ha nessuna connessione con il voto sulla riforma costituzionale poiché le riforme costituzionali non configurano alternative ma costituiscono le tracce e le fondamenta della casa comune.
L’alternativa si fa in occasione delle elezioni politiche: allora certamente se ci fosse in quel caso una coalizione che tiene insieme centro destra e centro sinistra sarebbe molto discutibile. Qui non c’entra nulla. Così come non c’entra la casta, non c’entra la stabilità, non c’entra la semplificazione. Sono tutti slogan venduti per cercare di catturare qualche elemento di consenso.

Si dice che a questo Paese serva governabilità…

Innanzitutto anche questo non c’entra nulla con la riforma Costituzionale: nella riforma c’è solo la fiducia che viene data da una sola camera piuttosto che da entrambe ma i governi nel nostro Paese non sono quasi mai (tranne i governi Prodi) caduti per problemi di fiducia. Il problema della governabilità sta nella capacità di creare coalizioni stabili, questo è un problema che si risolve con formule politiche e non con la Costituzione. A meno che non si passi a un governo presidenziale.

Dice Renzi che finalmente il Paese potrebbe avere un Senato della Autonomie…

Per una trentina d’anni i costituzionalisti avevano proposto di creare una Camera delle Regioni ma in quel caso si collegava con un sistema di autonomie molto marcate, molto forti e allora così avrebbe un senso. Nel momento in cui scegli di ridurre le autonomie e di ricentralizzare invece il Senato delle Autonomie è una contraddizione. Inoltre il progetto di Senato è molto fragile con una modalità di convocazione delle sedute troppo intermittente: un organismo di alta specializzazione fa a pugni con convocazioni così saltuarie e le stesse norme costituzionali pretendono tempi molto stretti. Si parla di cinque giorni, dieci giorni. Per fare questo ci vorrebbe un Senato insediato tutta la settimana.

Da persona della televisione come vedi la gestione del governo della comunicazione referendaria?

Penso ci sia un’invasione (intesa come presenza esorbitante) del governo non tanto negli spazi dedicati al referendum (che vengono più o meno gestiti con metodo aritmetico anche se con qualche tecnica subdola) ma soprattutto il governo è sempre presente al di là del fatto che ci siano reali notizie. In tutti i telegiornali la prima, seconda o al massimo la terza notizia è il governo che ci comunica qualcosa, tra l’altro sempre con lo stesso testimonial: non è che di legge di stabilità parla
Padoan o troviamo Poletti intervistato di lavoro; c’è solo e sempre il Presidente del Consiglio sia che si parli di referendum sia che si parli di altro. Questa misura (noi abbiamo presentato un ricorso all’AGCOM) è colma, basta leggere i dati. Si parla di un minimo del 40% di presenza a un massimo del 60%. Percentuali bulgare. Soprattutto sapendo quanto pesano le televisioni nel mondo dell’informazione.

Cosa dice di questi scenari apocalittici che vengono prospettati in caso della vittoria del no?

Io penso che l’intromissione di capi di Stato esteri siano inaccettabili. Noi non ci permetteremmo; i nostri capi di Stato non si sarebbero mai permessi. Che la stabilità sia un valore è scontato, perfino ovvio, ma gli USA non decidono anche loro tra democratici e repubblicani? E poi quando si tratta di scegliere la Carta Costituzionale il discorso sulla stabilità è del tutto improprio: è stato erroneamente tirato dentro proprio da chi conduce la campagna referendaria.