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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Sacra Corona Unita, operazione Omega: i fatti, le facce e i nomi

I Carabinieri di Brindisi hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere chiesta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce nei confronti di 58 indagati ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso in omicidio, con l’aggravante del metodo mafioso, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, porto e detenzione illegali di arma da fuoco, nonché spaccio di sostanze stupefacenti. Gli arrestati risiedono nel territorio dell’intera provincia e in quello della limitrofa Lecce. L’inchiesta è stata chiamata Omega, 14 le ordinanze notificate in carcere a indagati ritenuti affiliati a due gruppi: da un lato quello di San Donaci, dall’altro quello di Cellino San Marco.

Nel corso delle indagini sono state intercettate frasi collegate al rituale di affiliazione alla Sacra corona unita. Al centro dell’operazione c’é l’omicidio del 29enne Antonio Presta a San Donaci, figlio dell’ex collaboratore di giustizia Gianfranco Presta. Il giovane fu ammazzato a colpi di pistola e fucile la sera del 5 settembre del 2012, mentre era nei pressi di un circolo ricreativo.

Dopo l’omicidio a San Donaci, nel corso di perquisizioni e attività dei carabinieri, sono stati trovati ingenti quantitativi di droga e tre mesi dopo un ordigno fu fatto esplodere davanti al portoncino di ingresso della casa in costruzione del maresciallo dei carabinieri. Tutti fatti, questi, che potrebbero essere collegati. I dettagli dell’operazione saranno resi noti nel corso della conferenza stampa che il Procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta, terrà alle 10 di oggi, lunedì 12 dicembre, presso il comando provinciale carabinieri di Brindisi.

Cominciano a filtrare i primi nomi delle persone colpite dalle ordinanze di custodia cautelare: Daniela Presta e Giuseppe Chiriatti; Daniele D’Amato, Vincenzo Maiorano, Marco Ferulli, Nicola Taurino. Ferulli stava già scontando ai domiciliari una condanna per furto. Chiriatti e Taurino, entrambi di Cellino San Marco, sono finiti sotto procresso nell’ottobre scorso assieme ad altri elementi della malavita della zona, per reati connessi allo spaccio di marijuana.

Omicidio Presta– Sei anni di indagini per arrivare ad avere il nome di un uomo, un brindisino, ritenuto l’autore materiale dell’omicidio di Antonio Presta, avvenuto nei pressi del club le Massé di San Donaci: Carlo Solazzo, alias Cacafave, il cui nome sarebbe stato consegnato anche da alcuni pentiti della Scu, che di quel fatto di sangue hanno parlato nei verbali resi ai pm dell’Antimafia ricostruendo le dinamiche per la gestione dell’attività di spaccio di droga nella zona a Sud di Brindisi, fra San Donaci e Cellino San Marco.

Avrebbe agito per vendetta assieme a un’altra persona che, al momento, resta senza nome. Stando a quanto è evidenziato nel provvedimento di arresto, “Antonio Presta, unitamente alla sorella Daniela e  con l’avallo del convivente di quest’ultima, Pietro Solazzo, in quel periodo detenuto, stavano assumendo un ruolo di primo piano  tentando di scalzare Carlo Solazzo, fratello di Pietro”, quest’ultimo considerato a “capo di una compagine criminale dedita allo spaccio a Cellino”. Il 15 agosto 2012 “Antonio Presta assieme a Daniela, incendiarono un’abitazione di Carlo Solazzo, approfittando dell’assenza della famiglia. In un contesto simile è maturata la volontà di uccidere.

Le indagini hanno portato a galla due gruppi inseriti in contesti di stampo mafioso, riconducibili a Pietro Soleti di San Donaci e ai fratelli Carlo e Pietro Solazzo di Cellino, alias cacafave. La situazione ha iniziato a cambiare in seguito alla scarcerazione di Pietro Solazzo, nel febbraio 2013, con screzi tra fratelli, messi a tacere per non far saltare gli equilibri. Stessa strategia è stata adottata guardando all’altro gruppo, quello dei sandonacesi, sino ad arrivare al mutuo soccorso che avrebbe garantito a entrambi la sopravvivenza al riparo dalle azioni degli uomini delle forze dell’ordine, considerati nemici comuni.

Tra gli atti intimidatori ricostruiti in ordinanza, c’è quello ai danni dell’abitazione del comandante della stazione dei carabinieri di San Donaci, posto in essere da Benito Clemente e Antonio Saracino. Nel gruppo dei sandonacesi sarebbe stato attivo anche Floriano Chirivì. La droga sarebbe stata gestita attraverso il club Le Massè di San Donaci, dove avvenivano gli incontri e dove è avvenuto l’omicidio Presta.

Le armi. Il gruppo aveva anche la disponibilità di armi, “reperite tramite un cittadino di origine slava, Gennaro Hajdari, alias Tony Montenegro, che le faceva giungere dall’Est Europa”. Quanto all’altro gruppo, quelli dei cellinesi, “si avvaleva dell’operato dei luogotenenti Marco Pecoraro e Saveria Elia, nonché di una capillare rete di spacciatori soprattutto di cocaina” venduta “nel paese, presso la sala giochi e altri esercizi pubblici” e nei paesi limitrofi, tra i quali Guagnano. La sostanza stupefacente arrivava da Oria, Brindisi, Lecce e soprattutto da Torchiarolo.

Le affiliazioni. Le indagini, inoltre, hanno permesso di accertare che se da un lato i gruppi sceglievano la “pax” , dall’altro restavano comunque ancorati ai rituali di affiliazione con formule da imparare a memoria, definite “condanna buona”. Buona perché era quella del gruppo, del sodalizio di stampo mafioso, diametralmente opposta a quella “cattiva”, la condanna delle sentenze.

I nomi di tutte le persone arrestate: Vincenzo Maiorano, 42 anni, Gionatan Manchisi, 35 anni, Pietro Mastrovito, 55 anni, Cosimo Mazzotta, 53 anni, Matteo Moriero, 23 anni, Umberto Nicoletti, 39 anni, Massimiliano Pagliara, 39 anni, Cosimo Perrone, 33 anni, Giuseppe Perrone detto “Barabba”, 44 anni,  Daniele Presta, 39 anni, Daniele Rizzo, 39 anni, Saverio Rizzo, 50 anni, Giuseppe Saponaro, 34 anni, Antonio Saracino, 40 anni, Valtere Scalinci, 41 anni, Carlo Solazzo, 40 anni, Pietro Solazzo, 37 anni, Pietro Soleti 52 anni, Nicola Taurino, 24 anni, Andrea Vacca, 41 anni, Annunciato Cristian Vedruccio, 28 nni, Cosimo Vitale, 47 anni, Salvatore Arseni, 42 anni, Claudio Bagordo, 44 anni, Vito Braccio, 35 anni, Cristian Cagnazzo, 30 anni, di Copertino.

Giuseppe Chiriatti, 37 anni, Oronzo Chiriatti, 29 anni, Floriano Chirivì, 35 anni, Benito Clemente, 37 anni, Vito Conversano, 45 anni, Antonio Corbascio, 43 anni, Onofrio Corbascio, 48 anni, Giuseppe Cortese, 27 anni, Gabriele Cucci, 26 anni, Giuseppe D’Errico, 34 anni, Daniele D’Amato detto “Cacanachi”, 38 anni, Giuseppe D’errico, 34 anni, Antonio Francesco De Luca detto “Ticitone”, 25 anni, Sergio dell’Anna, 39 anni,  Saverio Elia, 38 anni, Marco Ferrulli, 43 anni, Francesco Francavilla, 36 anni, Cosimo Fullone, 39 anni, Cristian Gennari, 29 anni, Francesco Giannotti, 29 anni, Giuseppe Giordano, 45 anni, Davide Goffredo, 35 anni, Luca Goffredo, 37 anni, Paolo Golia,33 anni, Gennaro Hajdari,33 anni, Gabriele Ingusci,36 anni,  Fausto Lamberti , 37 anni, Gabriele Leuzzi, 37 anni, Antonio Lutrino, 28 anni,  Gianluca Re, 28 anni, Raffaele Renna detto “Puffo”, 37 anni,

(fonte)

 

Gli stipendi più bassi d’Europa occidentale? In Italia.

Se la ripresa non decolla la colpa è anche degli stipendi che in Italia restano i più bassi dell’Europa occidentale. Peggio fanno solo Spagna e Portogallo che però si possono consolare con un maggior potere d’acquisto. A mettere i numeri nero su bianco è Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea, che in un recente report ha fatto il punto sulle retribuzione del Vecchio continente. La paga media oraria in Italia si ferma a 12,5 euro con un potere d’acquisto pari a 12,3 euro: all’interno dell’Unione europea la media si attesa a 13,2 euro l’ora, ma il dato è condizionato dai bassi salari dei Paesi dell’est entrati nella Ue dopo il 2004. Basti pensare, per esempio, che in Bulgaria il salario orario si ferma a 1,7 euro e in Romania arriva a 2 euro: in entrambi i Paesi, però, il potere d’acquisto è più alto.

Insomma l’Italia resta il fanalino di coda del Vecchio continente condannata a guardare da lontana la ricca Germania, i paesi scandinavi e persino la vicina Francia dove gli stipendi medi arrivano a 14,9 euro. E’ quindi solo una magra consolazione il fatto che lungo la Penisola gli stipendi bassi non siano così tanti rispetto alla media. Sempre secondo Eurostat i lavoratori italiani a basso reddito sono “solo” il 9,4%: si tratta dei dipendenti con un salario orario inferiore ai due terzi della paga oraria. La percentuale italiana è la più bassa della zona euro dopo Francia (8,8%), Finlandia (5,3%) e Belgio (3,8%), mentre la media continentale è al 17,2%.
Il semplice dato può anche sembrare positivo lasciando intendere che in Italia non ci siano troppe disuguaglianze sul fronte degli stipendi. Il problema, tuttavia, c’è ed è evidente: la soglia del basso reddito lungo la Penisola è inferiore a tutte le altre economie comparabili: siamo a 8,3 euro all’ora in Italia, 10 euro in Francia, 10,5 euro in Germania, 13,4 in Irlanda, 9,9 nel Regno Unito, 10,7 in Olanda e 17 in Danimarca. Si scende a 6,6 euro in Spagna, poi è bassissima in Bulgaria (1,1) euro, Romania (1,4 euro), Portogallo (3,4), Slovacchia (2,9), Lettonia e Lituania (2,2), ma sono tutti Paesi che vantano un più alto potere d’acquisto.

A livello assoluto, invece, rimangono pronfonde differenze: il 21,1% delle donne è a basso reddito, contro il 13,5% degli uomini. Inoltre, quasi un uno su tre (30,1%) degli under-30 rientra nella categoria, mentre tra 30 e 59 anni vi ricadono solo quattordici dipendenti su cento.

(fonte)

“Una stampa che frequenta troppo i palazzi e poco il popolo”: parla De Bortoli

(intervista di Silvia Truzzi per Il Fatto Quotidiano)

A Milano, la città del Sì, parliamo della vittoria del No con Ferruccio de Bortoli, che alla riforma si era pubblicamente opposto. È il giorno dell’incarico a Gentiloni: “È stato un buon ministro degli Esteri”, spiega l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore. “Dovrà però dimostrare di essere autonomo da Renzi, il leader che lo ‘tolse dal frigorifero’ mandandolo alla Farnesina. Da lui ci si aspetta subito qualche gesto di discontinuità, anche nella composizione del governo, che rafforzi il suo profilo istituzionale, la sua credibilità anche all’estero. Vedremo, per esempio, se Luca Lotti resterà sottosegretario”.

Perché è così importante se resta o no?
Ai renziani preme molto gestire la prossima tornata di nomine delle imprese pubbliche. Accelerarono la caduta di Letta, nel 2014, anche per questa ragione. Due piani paralleli di governo, con quello ombra gestito dal segretario del Pd, sarebbero dannosi per il Paese. Avremmo il cerchio magico con il suo potere intatto e il governo ridotto a un cerchio inutile. Ma penso che Gentiloni ci stupirà in positivo. E Mattarella gli darà sicuramente una mano preziosa.

Veniamo al referendum. Come legge l’esito del voto?
Dalle urne esce un solo perdente. E nessun vincitore. Il centrodestra ha ricevuto un balsamo che gli consentirà di lenire i propri mali e che coprirà per un certo periodo l’assoluta inconcludenza di idee e programmi. Il vero perdente è Renzi che ha voluto caricare questa consultazione di significati impropri, trasformando il referendum in un voto politico. L’alta affluenza ci dice che questo Paese tiene molto alla partecipazione democratica: è stata una grande lezione civica. Il 40% non appartiene a Renzi come il 60 non appartiene all’opposizione”.

Così non sembra pensare il segretario del Pd.
Questo dimostra che il referendum, nel suo modo di pensare, aveva valenze che andavano al di là del merito. Era uno strumento per affermare il proprio potere, ottenere un viatico popolare, fare un bottino pieno e poi andare a incassare il premio alle elezioni. Renzi ha sbagliato la campagna elettorale, piegando la legge di bilancio a una serie di consensi da comprare per categorie. Chi votava No era contro la stabilità perché avrebbe esposto il Paese a conseguenze sui mercati che non ci sono state. Chi votava No era per l’immobilismo e rifiutava le riforme: possiamo dire che il 60 per cento di coloro che hanno votato – 33 milioni di italiani – rifiuta le riforme? No, possiamo dire che vuole riforme diverse da questa. Perché, bisogna dirlo, era scritta e pensata male. La grande partecipazione è anche il grido di un’Italia che vuole scegliere i propri rappresentanti e crede nella democrazia.

Renzi ha fatto, da premier, una campagna tutta incentrata sull’antipolitica: una clamorosa contraddizione.
Non si è reso conto che dopo quasi tre anni di governo era lui il potere: non doveva usare i toni anticasta di Beppe Grillo. Così come ora non si può mettere nella stessa posizione del Movimento Cinque stelle e dire “si vada al voto subito”. È una dimostrazione di scarsa responsabilità istituzionale. Ha pagato l’abbraccio soffocante dell’establishment che trasmetteva agli altri – in particolare agli esclusi – l’idea che questa fosse l’ultima spiaggia e che con la vittoria del No saremmo scivolati nel Medioevo. Si è sottovalutato il fatto che la democrazia è cara agli italiani e la riforma, con l’Italicum, indeboliva la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Sono favorevole a una democrazia decidente, ma i contrappesi nella riforma erano soltanto promessi. È stato un errore non approvare prima la riforma dell’articolo 49 della Costituzione. Il messaggio sarebbe stato: il partito che chiede agli elettori di cambiare le regole che li riguardano prima cambia le proprie, diventando più democratico e trasparente.

Nel 2006 abbiamo votato una riforma costituzionale che in comune con questa aveva molti tratti ed è stata sonoramente bocciata. Perché a distanza di dieci anni si è voluto ignorare quel risultato? Smetteranno di usare la Carta come grimaldello?
Bisogna sempre parlare della qualità delle riforme, chiedersi se rispondono a un progetto coerente ed equilibrato. Quel che non si può fare è piegare le regole comuni e le dinamiche istituzionali agli interessi di parte. C’è stata un’eccessiva confusione tra governo e Parlamento. La nostra storia politica dimostra – penso all’atteggiamento dei democristiani durante la Prima Repubblica – che quando si trattava di regole condivise il governo, saggiamente, faceva un passo indietro. Renzi si è impossessato totalmente della proposta di revisione costituzionale: agli occhi degli italiani la riforma è diventata la sua proposta. Perché la maggioranza ha chiesto il referendum, raccogliendo anche le firme? Poteva non farlo. Sarebbe utile che adesso arrivasse un’autocritica su tutti i comportamenti che abbiamo elencato. Invece no: assistiamo ad atteggiamenti indispettiti, “Fatele voi del 60 per cento le riforme”. Ma attenzione: in quel 60 per cento ci sono anche elettori del Pd e certamente elettori di una sinistra più larga. Renzi nella sua bulimia, in quella visione tolemaica del potere per cui tutto ruota attorno a lui, ha preso in ostaggio la riforma che avrebbe dovuto consacrarlo e quindi le istituzioni che doveva servire. E’ stata inferta una ferita inutile al Paese che però si è dimostrato più saggio della propria classe dirigente. Criminalizzare il No come fosse una posizione irresponsabile si è rivelato un autogol. Abbiamo perso tempo, ma non è stato a causa del no.

La logica sembra essere: avete vinto voi, ora sono fatti vostri.
È troppo comodo così… Andiamo con ordine: questa sconfitta può fare bene a Renzi, cui si devono riconoscere delle qualità. È un grande comunicatore, un politico di razza, un innovatore. Gli vanno riconosciuti anche successi: l’attenzione ai diritti civili, il Jobs act, con un dubbio legittimo sui costi, la per ora solo annunciata riforma del terzo settore, le politiche per la povertà. Per Renzi questa è l’occasione di guardarsi allo specchio, riconoscere i propri errori, essere sincero. Può dimostrare di essere – se lo è – uno statista. Può farlo stando in seconda fila, anche favorendo la nascita di un governo che per forza deve avere un mandato pieno e una fiducia non a scadenza. Senza la tentazione di dirigerlo nei fatti, con una playstation dal Nazareno. Nel ’95, dopo l’abbandono di Bossi, Berlusconi favorì il governo tecnico di Lamberto Dini, che era stato il suo ministro del Tesoro, mostrando senso di responsabilità istituzionale. Lo ebbe Berlusconi, perché non dovrebbe averlo Renzi? Deve capire che ora non è al centro della scena: ha guidato un’auto – quella italiana che magari ha le gomme sgonfie, ma non il motore inceppato – ed è uscito di strada. Ora non può dire “me ne vado, è colpa vostra”. La colpa è sua, lui ha fatto sbandare l’auto. Ora si deve dar da fare per rimettere a posto le cose, anche perché è il segretario del Pd. Il nuovo governo dovrà essere sostenuto dal partito, che dovrà essere leale al contrario di ciò che fu fatto ai tempi dell’esecutivo Letta a causa di un disegno completamente personale.

Ha perso anche il Presidente emerito Napolitano?
Napolitano creduto alla promessa fatta da Renzi al momento dell’incarico. Aveva accettato il secondo mandato chiedendo a gran voce che il progetto di riforma procedesse. Negli ultimi tempi credo fosse indispettito dall’atteggiamento di Renzi, soprattutto dalla polemica sterile e costosa nei confronti dell’Europa, quello sventolare veti poche settimane dopo Ventotene. Una sceneggiata estiva.

Perché sterile?
Sui migranti il premier aveva ragione. L’Europa si è dimostrata miope ed egoista. Ma sulla finanza pubblica io credo che invece abbia sbagliato. La flessibilità è stata usata male, guardando al consenso più che alla crescita. Sono scese solo le spese per gli interessi, le altre sono aumentate. La regola del debito è stata dimenticata. Ne parlano gli stranieri, noi la ignoriamo. Lodevoli le scelte sul super ammortamento, su industria 4.0, la riduzione al 24 per cento delle tassazione delle imprese. Ma abbiamo messo in pericolo i conti pubblici per una crescita che, al netto degli aiuti della Bce, è modesta: questa è una verità che bisogna affermare con chiarezza. C’è stato un dibattito opaco e insufficiente sulla funzionalità delle misure economiche prese. Solo nell’ultima legge di bilancio c’è stata attenzione agli investimenti che hanno toccato il minimo storico rispetto al Pil. Il guaio è che gli investimenti, a differenza dei bonus, non danno risultati immediati in termini di consenso perché dispiegano il loro effetto in tempi lunghi.

Renzi ha 42 anni: non è paradossale la sua assenza di prospettiva? Dovrebbe avere uno sguardo lungo e costruttivo proprio in virtù della sua giovinezza.
Qui rileva la visione del potere: quella di Renzi è esclusiva ed escludente, come ha sostenuto Prodi. Di cui vorrei dire, per inciso: il suo Sì è stato il più forte No a Renzi. Giustificato in tal modo da mettere a nudo i limiti di una gestione vecchia del potere. Penso al cerchio magico, ai fedelissimi, a quella che chiamerò “consorteria toscana”, per citare Ernesto Galli Della Loggia. Al premier ho sempre contestato non le idee, ma il modo di gestire il potere a tratti perfino gretto. La vicenda delle banche è emblematica. Prendiamo Mps: arriviamo ora a un intervento di salvataggio dello Stato, che poteva essere fatto mesi fa, escluso solo per ragioni di calcolo politico. La saggezza e il senso delle istituzioni avrebbero dovuto suggerire di agire ben prima. Ora se le banche vengono salvate, giustamente, con soldi pubblici, possiamo chiedere la lista dei loro principali debitori, per esempio del Monte Paschi?

La frattura è anche dentro il Pd: tira un’aria da redde rationem.
L’Italia ha pagato negli anni, non solo in quest’ultima era renziana, un prezzo altissimo prima alla composizione del Pd e poi alle sue numerose fratture. Il Pd è un grande partito di massa, guida il Paese ma deve riscoprire quella responsabilità che i partiti classici avevano. Il partito è stato considerato una struttura ancillare del governo: ora deve recuperare autonomia. C’è un problema di disciplina della minoranza rispetto alla maggioranza, ma c’è anche un problema di rispetto della maggioranza verso la minoranza.

Ma si può invocare la disciplina di partito sulla Costituzione?
Il Pd non può essere un luogo di ostracismi ed esclusione. Sennò andiamo verso una balcanizzazione della società. Continuando a dividere il Paese, come ha fatto Renzi, dopo un po’ si diventa antipatici, specie quando si occupa la televisione in questo modo militare e ossessivo. Una cosa così non si era mai vista, nemmeno con Berlusconi che pure le televisioni le possedeva. Se il Pd si dovesse spaccare sarebbe un danno per l’intero Paese: il Pd ritrovi la virtù di un confronto democratico aperto. Soprattutto il Pd deve essere in grado di trovare un’indipendenza rispetto alla vita dell’esecutivo: Renzi quando conquistò il partito democratico lo fece vivere di una vita propria rispetto al governo Letta, che poi affossò. Si riparta da lì.

L’informazione è rimasta spiazzata dal risultato.
Interroghiamoci sul perché tutti, negli ultimi giorni prima del voto, eravamo convinti che il Sì stesse recuperando posizioni. Forse questo segnala un’eccessiva vicinanza dei media al potere che spaccia – non in modiche quantità – informazioni avariate, spiffera retroscena ad arte, come l’idea che Renzi volesse prendersi un sabbatico e lasciare la politica. Forse non abbiamo più i ricettori giusti, forse chi fa informazione non sa raccontare il Paese perché frequenta troppo i palazzi e poco il popolo. E’ un’autocritica che dobbiamo fare, che devo fare anch’io. Siamo nell’era della post verità, ma sono state abbonate troppe vaghe promesse e troppe bufale. Bisogna riconoscere ciò che di giusto c’è nell’eredità renziana. Ed essere un po’ indulgenti: Renzi ha perso, ma ci si deve augurare che il perdente non ricatti le istituzioni scaricando la propria rabbia e frustrazione su altri. La responsabilità di ricucire il Paese è anche delle forze politiche che hanno votato No. Siamo reduci da una violenta campagna elettorale, è il momento della distensione. Questo Paese si mostra più solido e pacato di molte persone che lo governano. O tentano di governarlo.

Wondy che se n’è andata e l’amore che si fa lettera

Francesca Del Rosso se n’è andata portata via dalla malattia. Wondy (era il suo nome ‘da battaglia’) è stata una penna di vitalità e forza nei suoi articoli e nei suoi libri.

Wondy è anche la moglie di Alessandro Milan, un giornalista di quelli che tutte le mattine legge e commenta la rassegna stampa. Lui lo fa su Radio24. Ma Alessandro oggi si è arrampicato sulla cima del dolore e dell’amore e s’è fatto penna scrivendo una delle lettere d’amore più belle che io abbia mai letto. E per quel che vale gli mando un abbraccio e un pensiero. Forza Ale. Eccola qui:

 

A FRANCESCA
Non vi racconterò stupide favolette. Wondy ha perso la battaglia. Perché lei voleva vivere. Francesca amava follemente vivere. Di più: non ho mai conosciuto una persona più attaccata di lei alla vita. Sempre gioiosa, sempre sorridente, sempre ottimista, sempre propositiva, sempre sul pezzo, sempre avanti.
In studio, a casa, c’è il faldone in cui ha raccolto sei anni di referti dellamalattia. Catalogata così: “Tumore franci :-)”
Poco prima di andarsene, tra i sospiri, ha detto a un medico: “Siamo vicini a Natale, se non erro. Se lo goda tanto, lei che può. Io purtroppo sono qui”. Però, dopo mezz’ora, mi ha chiesto se il tal primario che tanto le vuole bene avesse dei figli. “Ma perché lo vuoi sapere?” E non scorderò mai quel gesto lento delle mani che roteano e la bocca che si corruccia. “Così… gossip”.
Questa era lei. Altruista fino all’estremo. Curiosa con purezza.
Era il mio Harry Potter. La chiamavo così, sul cellulare è ancora registrata con questo nome. Era il 2002, un giorno imprecisato. Entrai in casa e la vidi di spalle, ricurva sui libri, mentre studiava per prendere la seconda laurea. “Sembri Harry Potter!” esclamai. Una somiglianza fisica. Da allora, per me, è Harry.
Wondy, Harry Potter.
Franci. Moglie mia, hai perso la battaglia dunque. Ma hai lasciato tanto. A me due splendidi bambini, al mondo una forza incrollabile, una positività che emanava luce. Sfido chiunque ti abbia conosciuta a raccontarmi una volta in cui ti ha vista o sentita piegata dalla vita.
“Ho avuto una vita piena – mi dicevi in ultimo -. Ho fatto il lavoro che volevo, ho scritto libri, ho avuto una bella famiglia, ho viaggiato in mezzo mondo”. Però aggiungevi anche che “certo, è dura accettare tutto questo. Mi spiace un po’ non vedere crescere i bambini. Pazienza…”. Ma io so che avresti voluto urlare di rabbia, perché tu volevi vivere ancora a lungo.
Hai sorriso. Fino all’ultimo secondo, fino a quando la morfina non ti ha stritolata, hai sorriso quando ti dicevo di chiudere gli occhi e tenermi per mano sulle spiagge di Samara, in Costarica; nelle praterie del Kruger a cercare leoni, tra i coralli delle Perenthian a scovare squali, nelle viuzze della Rocinha a scrutare umanità, nelle cascate giamaicane, nei templi induisti di Bali, nei mercatini di Chiang Mai, tra le casette variopinte del Pelourinho di Salvador, tra le pietre millenarie della via Dolorosa a Gerusalemme, insomma in uno qualsiasi degli infiniti luoghi in cui mi hai portato, sempre in cerca di vita e emozioni.
Mai una piega storta sul tuo volto. Eppure di motivi ne avresti avuti, eccome. Harry, hai vissuto un tale calvario negli ultimi sei anni… Un calvario vero, nascosto a tutti, celato dietro a uno sguardo luminoso e sbarazzino e a una cazzuta voglia di reagire. Non ricordo neppure quante operazioni hai subito, quante menomazioni fisiche, quante violazioni del corpo. Non so quante medicine tu abbia preso, quante infusioni di chemio, quante pastiglie, quanti buchi nelle vene, quante visite. Non ne hai mai fatto pesare mezza. A me, prima di tutto.
Per questo, ti ringrazio.
Non ti è stato risparmiato neppure un briciolo di strazio finale. E quando hai alzato entrambi gli indici delle mani al cielo dicendo “ma perché è così faticoso arrivare lassù?”, beh sappi che ti ci avrei portata in braccio.
Sì, è vero, Wondy ha perso la battaglia. Ma ha anche trionfato. Perché il mio Harry ha combattuto il tumore proprio da Wonder Woman. Ora vi svelo una cosa che quasi nessuno sa: tre giorni prima di presentarsi alle ‘Invasioni Barbariche’ da Daria Bignardi ricevette l’ennesima brutta notizia. Una recidiva, l’ennesima operazione, la radioterapia in vista. Ricordo i consulti nel lettone: che si fa, vado? Non vado? Io le dissi che avrebbe potuto annullare tutto, avrebbero capito. Al solito, fece di testa sua. Andò in tv con un unico obiettivo: ‘NON devo piangere, a nome di tutte le donne’. E alla inevitabile domanda “Ma ora come stai?” sfoggiò il solito disarmante sorriso: “Bene, grazie!”. Lei sorrideva. Io, solo, a casa davanti alla tv, piangevo. Due giorni dopo, era in sala operatoria. Il consueto rituale con i medici, le solite battute sulla Mont Blanc dell’anestesista, la degenza, il ritorno a casa, le terapie, il nuovo viaggio da programmare…
Da tutta questa sofferenza ha tenuto lontani tutti, il più possibile. A cominciare dai nostri magnifici Angelica e Mattia. La Iena e l’Unno.
Lo so che le persone sono stupite. “Ma stava così bene!”. No, non stava bene. Ogni tre settimane in ospedale si sottoponeva a esami del sangue (un buco in vena ogni 20 giorni, con la prospettiva che fosse per tutta la vita) con annessa visita e responso sulla possibile avanzata del tumore (e ogni volta il sospiro di sollievo: “Bene, dai, è fermo, chissà tra 20 giorni”); ogni tre mesi faceva una risonanza (“Sai che c’è gente che quando arriva il mezzo di contrasto nelle vene si fa la pipì addosso? A me non è mai successo, bene dai”); ogni giorno prendeva 4 pastiglie di farmaco sperimentale per tenere sotto controllo le metastasi (fanno 1460 pastiglie l’anno, con la prospettiva che fosse per sempre). Non stava bene. Solo che non lo diceva. Solo che consolava gli altri. Lei.
Più il tumore avanzava, più lei scovava motivi e occasioni per fare feste, organizzare eventi, viaggi, iniziative. “Chissà quanto vivrò ancora, avanti: festeggiamo”.
Era, anche, una grandissima rompicoglioni. E questo i suoi migliori amici possono confermarlo al 130%.
Ogni tanto crollava, sì, anche lei. Soprattutto quando l’ultima battaglia la stava per abbattere. “Che destino, ogni volta che faccio una cosa bella, arriva una botta”. L’ultima cosa bella era il romanzo “Breve storia di due amiche per sempre”.
La vedo all’opposto, Harry. Come ti ho detto, la verità è che nessuno al mondo, nella tua sofferenza, avrebbe avuto la straordinaria forza che hai avuto tu di scrivere due libri, fare viaggi, progettare, sognare. Io non avrei combinato un centesimo di quel che hai fatto tu.
Ricordo il giorno in cui dovevi presentare il tuo ultimo libro, e un’ora prima della presentazione ti ho trovata mentre confabulavi al telefono con qualcuno, entusiasta. Quando hai messo giù, ho scrutato quel lampo malandrino tipico dei tuoi occhi, non ti ho fatto domande ma tu mi hai preceduto: “Stavo raccontando all’editor la trama del mio prossimo romanzo: sarà una figata!” Ho scosso la testa e ti ho lasciato lì: al tuo nuovo sogno.
Ora vai. Mi hai guardato negli occhi, quando eravamo vicini all’ultimo chilometro, e mi hai detto: “Spero solo, almeno, di lasciare in te e nei bambini un bel ricordo”.
Lasci qualcosa di più: mi hai semplicemente insegnato come si vive. Non imparerò mai, puoi scommetterci, ma ti prometto che ce la metterò tutta.
Lascio da parte le migliaia di immagini nostre, intime. Tranne una. Domenica 11 dicembre, alle 5, ti ho sognata. Eri serena come non ti vedevo da mesi. Mi parlavi, ci abbracciavamo, io piangevo tanto, tu mi hai ringraziato perché hai potuto parlare con Chiara e Sara. Eri tranquilla, anche se avevi “questo ciuffo matto” nella testa. Poi sei partita per un viaggio tutto tuo, verso chissà dove.
Devo dire di cuore dei grazie, e nel farlo dimenticherò tante persone.
Le amiche e gli amici veri, loro sanno a chi mi rivolgo.
In un Paese vergognosamente anti scientifico, mi inchino alla competenza e alla preziosa umanità scovata all’Ospedale Humanitas: alle infermiere e agli infermieri, o candidi angeli, un immenso grazie! Anche per i sontuosi caffè con la moka, come se li avessi bevuti. Avete pianto con me, non lo dimenticherò mai.
I medici: Andrea, Barbara, Corrado, Cristiana, Francesco, Marco K., Monica, Pietro. Ancora: Marco R., scusa se spesso ti ho trattato da Frate Indovino e non da splendido UomoDottore quale sei; Vittorio, vabbè Vittorio… Zione putativo, ti dirò sempre un ‘grazie’ in meno di quanti ne meriteresti. Ridi, ti prego.
Infine: Silvia. La Doc. La Scienza. Tu sei stata una delle scoperte più belle della nostra recente vita. Tu e la tua bella famiglia. Hai fatto tantissimissimissimo. Ricordati che mi devi togliere ancora quelle due cose o quella là continua a rompere il cazzo.
E poi, Maria Giovanna. Nel cuore di Franci avevi un palchetto d’onore tutto tuo, con le tue ‘pozioni magiche’, le tue visioni, le tue parole profonde e precise, i tuoi consigli sempre azzeccati. Per osmosi, sarai sempre anche in me.
Non piangete, medici, non piangete infermieri. E sappiate che se ci fossero anche solo 100 persone come voi in ogni professione, il mondo sarebbe un posto molto migliore.
Non ringrazio chi, senza neppure conoscermi, in un giorno che voglio dimenticare di inizio novembre mi ha detto con freddezza, senza neppure sfiorarmi, che mia moglie sarebbe morta nel giro di un mese, massimo tre, perché lo dicono le statistiche. Mi hai fatto piangere troppo e prima del necessario. Non si fa. Ma spero che migliorerai negli anni.
Ringrazio infine tutti coloro che hanno capito il motivo per cui ho voluto proteggere il mio Harry all’ultima curva. Non potevo fare più nulla, per lei, se non una cosa: preservarne la dignità, proteggerne il silenzio e il sorriso appena un po’ incrinato. Se avessi fatto diversamente, esponendola, non me lo sarei perdonato per il resto dei miei giorni. Di più, avrei violato un suo preciso volere. Non si fa, se si ama.
Se avete capito, bene, altrimenti: amen.
Ora vai, Harry. Che la Vita finalmente ti sorrida un po’. Veglia sui tuoi bimbi, sorreggili, guidali.
Vai lassù, faccia da ranocchia. Porta anche Leo, il neo. Ciao, nasino freddo.
Tic-ti-tic. Tic-ti-tic. Le senti, le fedi che si sbaciucchiano?
Prometto di rispettare le tue ultime volontà. Tranne una. Perdonami.
Prometto di prendermi cura dei nostri bambini.
Prometto di portarti sempre con me.
Ti chiedo un ultimo sforzo: da lassù getta sul capo di ognuno di noi una goccia del tuo inesauribile ottimismo. Basterà e avanzerà per capire come si vive sorridendo.
Se poi, tu e Rudy, vorrete buttarci giù anche una goccia di mojito, ci terremo pure quella.
Alla tua. Alla vostra.
Mi vivi dentro.
Tuo, Ale.

A proposito di grandi opere: a Venezia il Mose sta affondando. Davvero.

(di Fabrizio Gatti per l’Espresso)

Costato più di cinque miliardi di euro, mostra segni di cedimento prima ancora di entrare in funzione. E ora la grande opera che doveva salvare la Laguna deve essere salvata a sua volta.

La domanda vale i cinque miliardi e mezzo di euro che abbiamo speso: alla fine il Mose proteggerà Venezia? Insomma, funzionerà? Mancano appena duecento milioni alla conclusione dei lavori. E altri quattro anni prima dell’entrata in esercizio delle barriere contro l’acqua alta, dopo l’avviamento sperimentale che secondo il cronoprogramma dei cantieri è stato ulteriormente spostato al 2018. Ma già si vedono i primi acciacchi. Mentre la Serenissima affonda con costanza di pochi millimetri l’anno, le colossali strutture in cemento armato che dovrebbero proteggerla stanno già sprofondando nella sabbia al ritmo di quattro centimetri l’anno: una subsidenza record limitata alle zone dei cantieri di Lido, Malamocco e Chioggia che il progetto delle dighe mobili prevedeva in un secolo, non in pochi mesi.

Anche le prove delle prime paratoie già posizionate tre anni fa al Lido stanno facendo cilecca: per due volte o non si sono alzate completamente o non si sono riposizionate correttamente sul fondale. L’efficacia dell’infrastruttura è garantita per cent’anni, ma a Malamocco è bastata una mareggiata per mettere fuori uso per sempre la porta della conca che dovrebbe garantire il transito delle navi quando la bocca mare-laguna è chiusa: era troppo leggera per quel tipo di impiego, adesso ne devono progettare una nuova. Perfino alcune delle parti in acciaio inossidabile stanno dimostrando qua e là di essere al contrario un po’ troppo ossidabili.

Dal punto di vista giudiziario e amministrativo, il Mose dovrebbe essere ormai al sicuro. Dopo gli arresti e lo scandalo, la nomina degli amministratori straordinari Luigi Magistro, Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola ha rimesso sui binari della legalità il Consorzio Venezia nuova, l’azienda concessionaria dell’opera costituita da imprese private. Ma per capire se il Mose sia davvero un sistema affidabile, servirebbe ora una sorta di commissariamento tecnico: una verifica affidata a enti internazionali per tutti i punti critici che stanno venendo letteralmente a galla.

Se ne parla molto in questi giorni a Venezia, a cinquant’anni dalla disastrosa marea del 4 novembre 1966 quando lo stesso ciclone autunnale dopo aver messo sott’acqua Firenze e la Toscana, investì la laguna. Se ne parla anche perché per molto tempo è stato vietato. Finché nel Consorzio e nella Regione Veneto regnavano i boiardi della tangente che gonfiavano le spese e derubavano lo Stato e tutti noi, chi dissentiva, anche con prove alla mano, veniva obbligato ad affrontare costosi processi per diffamazione. Ne sanno qualcosa Vincenzo Di Tella, Gaetano Sebastiani e Paolo Vielmo, progettisti colpevoli di aver osato suggerire all’allora sindaco Massimo Cacciari, contrario all’opera mangiasoldi, un progetto alternativo. I tre ingegneri sono stati poi assolti e raccontano oggi la loro esperienza in un libro appena pubblicato: “Il Mose salverà Venezia?”. Cinquant’anni e cinque miliardi e mezzo dopo, nessuno può rispondere con sicurezza.

L’impatto ambientale

I veneziani nati nel 1966 hanno cominciato a sentire parlare di “Moduli sperimentali elettromeccanici”, cioè di Mose, sui banchi di scuola. La difficoltà e i prevedibili costi esorbitanti dell’opera venivano giustificati con la necessità di nascondere la barriera per non compromettere il paesaggio lagunare, già guastato dall’inquinamento del petrolchimico di Porto Marghera. Da lì la scelta delle 78 paratoie sottomarine agganciate a cerniere: barriere cave da tenere coricate sul fondo e da riempire d’aria compressa, perché possano risalire e fermare l’ingresso del mare in laguna quando le previsioni meteo annunciano acqua alta.

Quell’idea discreta di progetto nella realtà è diventata una colata di 616 mila tonnellate di cemento armato che hanno stravolto il paesaggio nei tre punti di contatto tra laguna e mare: a Lido, Malamocco e Chioggia. Sono le basi sommerse, i fianchi visibili e le banchine che devono reggere e azionare le paratoie: ventisette cassoni di profondità attraversati da tunnel asciutti per i controlli e le manutenzioni e otto strutture di spalla, alte come palazzine, più un’isola artificiale. Non bastasse, il lato verso il mare è tagliato da chilometri di scogliere artificiali per dissipare l’energia e l’altezza delle onde quando soffia scirocco. Cemento e recinzioni arrivano fin dentro l’oasi delle dune degli Alberoni e la riserva naturale di Ca’ Roman.

I piedi di argilla

I disegnatori del Mose avevano previsto una leggera subsidenza, cioè un abbassamento delle strutture in cemento armato dovuto al compattamento del sottosuolo su cui poggiano. «Per ridurre i cedimenti assoluti e differenziali cui sono soggetti i cassoni – hanno scritto nel progetto -il terreno deve essere preventivamente consolidato tramite infissione di pali nei primi 19 metri al di sotto del piano di fondazione». In laguna però non si raggiunge mai la roccia: ci sono soltanto sabbia e caranto, un sedimento composto da limo e argilla. «Si prevede che i cedimenti dei cassoni siano compresi tra 30 e 50 mm a fine costruzione della barriera – ipotizzano quindi i progettisti – e che crescano nel tempo, presumibilmente fino a valori compresi tra 60 e 85 mm, a 100 anni da fine costruzione». Sono valori assoluti: cinque centimetri fino alla fine dei lavori, tra sei e otto centimetri e mezzo per tutto il secolo di operatività.

Quest’anno Luigi Tosi e Cristina Da Lio dell’Istituto di scienze marine del Cnr hanno pubblicato con altri due ricercatori uno studio sulle misurazioni inviate dai satelliti della rete Cosmo-Skymed e Alos Palsar. Riguardano il Delta del Po e la Laguna di Venezia. Gli scienziati rilevano intanto un movimento dei punti fissi a terra in Veneto di circa 2 centimetri all’anno verso Nord e 1,7 verso Est dovuto alla deriva tettonica della crosta terrestre. Ma la parte più delicata per il futuro di Venezia è legata al costante abbassamento del suolo: mentre in tutta la laguna viene indicato un rateo costante di circa due-tre millimetri all’anno, in tre punti si arriva a 40 millimetri l’anno: «I principali spostamenti», spiega Tosi, «sono localizzati alle tre insenature della laguna dove le strutture del Mose in costruzione provocano un ampio consolidamento dei depositi superficiali, costituiti prevalentemente da sabbia non consolidata. Un fenomeno dovuto al carico delle strutture».

Tecnici del Consorzio e periti esterni stanno ora cercando di capire cosa fare. I cassoni di cemento armato sono già tutti posati. Ma soltanto alla bocca del Lido sono state installate le prime paratoie. A Malamocco attendono in banchina il montaggio delle grosse cerniere, mentre a Chioggia i lavori sono più indietro. Se la subsidenza continua di questo passo, in appena tre anni verrà superata la previsione di progetto che doveva valere per l’assestamento iniziale e tutto il secolo di operatività. Le conseguenze sono facilmente ipotizzabili: con l’affondamento incontrollato dei cassoni nella sabbia e il contemporaneo innalzamento del livello del mare, le maree eccezionali e le onde potranno facilmente scavalcare le barriere. Ma ci può essere di peggio. Una velocità diversa di assestamento tra le parti oltre i margini di tolleranza metterebbe in crisi i giunti che collegano i tunnel sottomarini a tenuta stagna: il loro allagamento metterebbe fine a questo rocambolesco e costosissimo tentativo di fermare l’acqua alta.

Il collaudatore tuttofare

Modificare in corsa il progetto? Impossibile. Gli ideatori del Mose (e i governi che lo hanno finanziato) hanno scelto di ignorare la legge sulla salvaguardia di Venezia che come requisiti richiedeva «gradualità, sperimentalità, reversibilità” delle opere. Considerare graduali e reversibili in laguna oltre seicentomila tonnellate di cemento rinforzato da chilometri di ferro è piuttosto complicato: anche in caso di successo delle barriere mobili, chi tra cento anni dovrà adeguare o demolire la struttura, penserà molto male di noi. Perché per la rimozione e lo smaltimento dei cassoni dovrà spendere cifre molto vicine a quelle di costruzione. Per prevenire ulteriori incidenti di percorso, diventa fondamentale la severità dei collaudi già in corso.

Purché siano fatti da professionisti distaccati e con competenze specifiche: continua invece la prassi di frazionare i collaudi in tante commissioni che non dialogano tra loro e di premiare con incarichi di collaudatori funzionari amministrativi del ministero delle Infrastrutture, senza nessuna preparazione in ingegneria. A giurisprudenza non si insegnano i fenomeni di risonanza e instabilità dinamica: uno studio francese commissionato anni fa dal Comune dimostrava addirittura che con onde sopra i due metri e un periodo di 8 secondi le paratoie di Malamocco, così come sono state concepite, comincerebbero ad agitarsi senza controllo, lasciando passare la marea e mettendo a rischio l’intera struttura.

«Anche se in un contesto rinnovato di correttezza amministrativa dovuto ai commissari del Consorzio», dice Vincenzo Di Tella, per anni progettista della società “Tecnomare” del gruppo Eni, «il potere politico deciderà di accettare il fatto compiuto e portare a compimento il progetto, per avere una utilità dalla grandissima quantità di risorse spese. Noi crediamo invece che per poter essere completato e messo in esercizio, il Mose dovrebbe comunque essere finalmente verificato da esperti qualificati per tutti gli aspetti tecnici per i quali esistono tuttora dubbi di funzionalità, sicurezza e costi futuri. Non si tratta di un’opera civile tradizionale, ma di un sistema innovativo e complesso, per la cui funzionalità non esistono esperienze precedenti».

La concezione sottomarina della struttura aumenta di molto i costi di manutenzione: sono partiti da una stima di 40 milioni l’anno, che imprevisti hanno già fatto raddoppiare. Si comincia dalle prime paratoie posate nel 2013. Ancor prima di entrare in funzione, entro il 2018 vanno tutte sostituite e avviate alla revisione quinquennale. «Chi dovrà spendere 40 milioni all’anno di manutenzione del Mose?», chiedeva nel novembre 2006 l’allora sindaco Massimo Cacciari, supplicando lo stop e la revisione del progetto. Sono passati dieci anni. E manca ancora la risposta.

Siria, Turchia, Trump, Putin: uno scenario possibile

(l’articolo di Gianandrea Gaiani dal numero di pagina99 in edicola il 10 dicembre)

Quando Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca, il 20 gennaio, l’esito della guerra in atto in Iraq e Siria potrebbe essere già stato scritto. Gli assedi di Aleppo e Mosul, concettualmente simili alle battaglie medievali pur se combattuti con armi moderne, sembrano poter determinare importanti sviluppi nelle campagne del governo siriano e dei suoi alleati contro le formazioni antigovernative, per lo più jihadiste, e nella controffensiva dell’Iraq per riconquistare i territori espugnati dall’Isis nel 2014. Sul fronte siriano gli sviluppi militari sembrano più rapidi.

La penetrazione delle truppe di Damasco nei quartieri orientali di Aleppo occupati dal 2012 dai miliziani e già per metà riconquistati dai governativi, sembra preludere a una rovinosa sconfitta delle opposizioni armate sostenute finora soprattutto da Turchia e monarchie del Golfo (ma anche dagli Usa) che includono “ribelli moderati” le cui milizie hanno però un peso limitato e sul campo combattono al fianco di ex qaedisti, salafiti e fratelli musulmani riuniti nel cosiddetto Esercito della Conquista.

Il tracollo dei ribelli ad Aleppo sta già determinando un effetto domino sui fronti minori, incluso il sobborgo di Damasco di Khan al-Shih, evacuato da un migliaio di miliziani con i loro famigliari in base a un accordo che ne ha permesso il trasferimento a Idlib, e tornato dopo quattro anni in mano ai governativi. La sconfitta dei ribelli ha ragioni militari ma anche politiche. Sul campo di battaglia le truppe siriane rafforzate dai consiglieri (e dai contractors) russi come dalle milizie sciite iraniane, afghane e irachene, dai pasdaran di Teheran e dagli Hezbollah libanesi sfruttano l’intesa di fatto raggiunta tra Damasco, Ankara e Mosca che ha visto rallentare se non interrompersi il flusso di rifornimenti, in gran parte provenienti da Arabia Saudita e Qatar, che dal confine turco raggiungevano le milizie jihadiste nell’area di Aleppo.

La Turchia, che non ha mai lesinato aiuti a chiunque combattesse Bashar Assad, incluso lo Stato Islamico, sembra aver ridimensionato le proprie ambizioni: dopo che l’intervento russo ha impedito di raggiungere questo obiettivo, Ankara ha la necessità di costituire una “zona cuscinetto” per proteggere i suoi confini meridionali dai miliziani curdi siriani alleati dei cugini turchi del Pkk. Non è un caso che mentre le forze siriane avanzano ad Aleppo quelle turche si espandano nel nord della Siria dal 24 agosto a spese dell’Isis ma soprattutto impedendo l’affermarsi di un territorio autonomo curdo a ovest dell’Eufrate la cui costituzione non sarebbe gradita neppure ad Assad. Ogni intesa con Erdogan va però considerata precaria come hanno dimostrato anche le dichiarazioni rilasciate dal presidente turco a fine novembre in cui ha affermato che l’esercito turco sarebbe entrato in Siria «per porre fine alla tirannia del presidente Bashar el Assad».

Mosca ha espresso stupore e chiesto chiarimenti ma le tensioni sociali provocate dalle purghe post golpe e dall’islamizzazione forzata cella Turchia, unite al tracollo della lira potrebbero influire sulle iniziative di Erdogan, considerato sempre di più una “mina vagante” anche in Europa e in ambito Nato. In termini strategici la caduta di Aleppo non porrà fine alla guerra civile ma ridurrà le capacità dei ribelli permettendo di liberare importanti forze militari siriane e alleate per riconquistare le regioni meridionali, la provincia di Idlib e soprattutto per attaccare le regioni orientali in mano allo Stato Islamico inclusa la “capitale” dell’Isis, Raqqah, già minacciata dalle Forze Democratiche Siriane che riuniscono curdi e milizie cristiane e sunnite. Conseguire la disfatta dei ribelli siriani prima dell’insediamento di Trump faciliterebbe un’intesa globale russo-americana incentrata proprio sullo sforzo bellico comune contro l’Isis in Siria.

Presumibilmente più lenti saranno invece i progressi nella battaglia di Mosul. Le forze irachene hanno ripreso diversi quartieri e dicono di aver ucciso un migliaio di miliziani dei circa seimila presenti in città secondo le stime del Pentagono. Baghdad imputa la lentezza dell’avanzata all’accanita resistenza nemica e alla volontà di ridurre le vittime civili ma pesa anche il fatto che l’esercito iracheno deve impiegare come punta di lancia i reparti scelti della polizia federale e dell’esercito che dopo sei settimane di battaglia sono esausti e devono rimpiazzare caduti e feriti il cui numero resta imprecisato. Altri reparti non danno molte garanzie di tenuta sotto il fuoco nemico di fronte a perdite elevate e l’Isis ha sempre dimostrato la superiorità dei suoi miliziani sugli avversari in termini di coraggio e capacità tattiche.

(continua qui)

Vibo: il funerale del boss Carmelo Lo Bianco è privato. Ma il consenso è pubblico.

Si sono svolti all’alba, in forma strettamente privata, con la sola partecipazione dei congiunti più stretti e il divieto di cortei con autovetture o persone, i funerali di Carmelo Lo Bianco, detto “Sicarro”, deceduto venerdì sera all’età di 71 anni nell’ospedale di Catanzaro dove si trovava ricoverato da qualche settimana per problemi cardiaci. A seguire il corteo dei soli familiari del boss, i poliziotti della Questura di Vibo chiamati a garantire l’ordine e la sicurezza pubblica così come disposto dal questore di Vibo Valentia, Filippo Bonfiglio. Carmelo Lo Bianco stava scontando ai “domiciliari” per motivi di salute una condanna definitiva a 10 anni di reclusione per associazione mafiosa rimediata nel processo nato dall’operazione “Nuova Alba” scattata nel febbraio 2007 contro la quasi totalità dei componenti del clan Lo Bianco, da oltre 30 anni egemoni nella città di Vibo Valentia.

Nel 2005, Carmelo Lo Bianco era finito anche nell’inchiesta “Ricatto” dell’allora pm della Procura di Vibo Valentia, Giuseppe Lombardo (oggi pm di punta della Dda di Reggio Calabria), e dell’allora comandante della Stazione di carabinieri di Vibo, Nazzareno Lopreiato. Carmelo Lo Bianco era accusato di concussione per aver chiesto ad un imprenditore di Pizzo Calabro, in concorso con un impiegato dell’Asp di Vibo, delle somme di denaro ed una barca in cambio dello sblocco delle liquidazioni per dei lavori effettuati in alcuni ospedali dell’Azienda sanitaria vibonese. Il Tribunale di Vibo nel 2009 riqualificò per Lo Bianco il reato di concussione in quello più grave di estorsione, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura di Vibo affinchè esercitasse nuovamente l’azione penale. Trasferito però il pm Fabrizio Garofalo (nel frattempo subentrato al pm Giuseppe Lombardo nella titolarità del processo “Ricatto”), la Procura di Vibo non ha più esercitato l’azione penale nei confronti di Carmelo Lo Bianco, con il fascicolo lasciato a “dormire” in qualche cassetto della Procura.

Il preoccupante consenso sociale del boss a Vibo Valentia. Fanno discutere, invece, o almeno dovrebbero far discutere se a Vibo Valentia esistesse una società civile degna di tal nome, le esternazioni di diverse persone che – anche attraverso l’uso dei social network – alla notizia della morte di “Sicarro” si sono affrettate a rendere pubbliche le loro condoglianze per la scomparsa del boss, esaltandone le doti di “uomo di rispetto” con anto di “carisma” ed “educazione”. Eppure Carmelo Lo Bianco, alias “Sicarro”, oltre che del grave reato di aver diretto e promosso un’associazione mafiosa (cercando di mantenere ben ferme le distanze dal clan Mancuso di Limbadi), è stato riconosciuto colpevole di uno dei reati più odiosi che possa esistere: il sequestro di persona. O meglio: il riciclaggio di denaro proveniente da ben due sequestri di persona compiuti a metà anni ’80 in provincia di Reggio Calabria. Nonostante ciò, in molti non hanno inteso prendere le distanze dal personaggio, segno del consenso sociale di cui – purtroppo – godeva il boss in alcune fasce della popolazione, diretta conseguenza della deriva socio-culturale in cui da oltre 30 anni è sprofondata la città di Vibo Valentia, incapace di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, complice soprattutto la quasi totale assenza di una classe politica locale che – specie negli ultimi anni – non ha trovato di meglio che spalancare le porte di partiti e movimenti pure ai mafiosi, arrivando addirittura a celebrare personalità politiche che con la mafia per anni hanno camminato “a braccetto”.

(di Giuseppe Baglivo, fonte)

Quindi la sera leoni e al mattino Gentiloni

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Alla fine è Gentiloni il nuovo Presidente del Consiglio. L’ex ministro è stato designato dal Presidente della Repubblica Mattarella come traghettatore verso una nuova legge elettorale (magari non incostituzionale, questa volta, se vi riesce, grazie) e poi le prossime elezioni politiche. Una designazione figlia delle consultazioni del Capo dello Stato con tutti i gruppi parlamentari e, parallelamente, con le inusuali consultazioni di un Renzi dimissionario eppur ciondolante nei suoi molteplici ruoli. Attenzione: il segretario del PD (che è Renzi) ha tutto il dovere e il diritto di trovare una soluzione condivisa con il partito che guida, peccato che del coinvolgimento del suo partito non s’è vista traccia (rimbomba ancora il monologo spacciato per direzione nazionale) e che la scelta di Palazzo Chigi piuttosto che il Nazareno come sede dei suoi incontri non sia stata un grande idea (lo scrivevano ieri anche insospettabili renziani, per dire).

Comunque alla fine è il giorno di Gentiloni: l’ex rutelliano sale al Quirinale con un curriculum che comprende, solo negli ultimi anni, un terzo posto alle primarie per scegliere il candidato sindaco del PD su Roma (terzo su tre, eh) e un coinvolgimento mai chiarito su uno smercio d’armi italiane verso l’Arabia Saudita che altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo. Ma Gentiloni, sia chiaro, ha in questo momento la qualità indispensabile per poter ambire al ruolo di Presidente del Consiglio poiché non fa ombra a Renzi eppure lo rappresenta. Ieri ho letto (non so dove e me ne scuso) che Gentiloni Presidente del Consiglio è un po’ come quando l’allenatore viene espulso e rimane il secondo in panchina filocollegato con la tribuna.
Il governo ombra (che non fa ombra) di chi aveva promesso (nel suo discorso in Senato già il 20 gennaio di quest’anno) di abbandonare la politica è l’ennesimo errore di Renzi che sembra non voler capire che i trucchetti non funzionano più e ormai si scorgono in fretta. Avrebbe potuto starne fuori e poi provare a ricominciare (che è un suo diritto, eh, ricominciare ma al netto delle promesse non mantenute) e invece è più forte di lui: a Gentiloni l’improbo compito di smentirci.

India: la compagnia mineraria punta la montagna sacra dei Dongria Kondh

(da greenreport.it)

La battaglia dei Dongria Kondh, un piccolo popolo tribale dell’India, che in molti hanno paragonato a quella dei Na’vi che nel film Avatar lottano contro le compagnie minerarie terrestri per salvare il loro pianeta Pandora, non è ancora finita. Survival International denuncia che «Una compagnia mineraria sta cercando nuovamente di aprire una miniera nella montagna sacra dei Dongria Kondh, nonostante il verdetto negativo della Corte Suprema e la forte opposizione della tribù».

Si tratta dell’Odisha Mining Corporation (Omc) – in passato associata alla multinazionale britannica Vedanta Resources che sembra avr rinunciato all’affare – che sta cercando ancora una volta di aprire una miniera di bauxite nelle colline di Niyamgiri che sono sacre per i Dongria Kondh, che dipendono dalle risorse montane e che gestiscono quest’ambiente da millenni. Ѐ il loro territorio ancestrale: una zona collinare coperta di dense foreste, gole profonde e ruscelli impetuosi. Essere un Dongria Kondh vuol dire coltivare le fertili vallate delle colline, raccoglierne i prodotti, venerare il dio della montagna, Niyam Raja, e le colline da lui governate, come la Montagna della Legge Niyam Dongar, alta 4.000 metri. Per un decennio 8.000 Dongria Kondh hanno vissuto sotto la minaccia dei progetti della Vedanta Resources, che avrebbe voluto estrarre dalle loro colline bauxite per un valore stimato di 2 miliardi di dollari. La multinazionale mineraria, con il consenso del governo dello Stato e di quello indiano, progettava di aprire una miniera a cielo aperto che avrebbe violato Niyam Dongar, interrotto il corso dei fiumi e segnato la fine dei Dongria Kondh come popolo.

Nel 2013 i Dongria Kondh convocarono 12 consultazioni nei loro villaggi e tutte respinsero il progetto minerario, dopo questa prova di unità e la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, il governo di New Delhi negò le autorizzazioni necessarie al colosso minerario Vedanta Resources e Survival ricorda che «Fu una vittoria eroica alla Davide e Golia contro la compagnia quotata alla borsa di Londra e l’azienda statale Omc». Una vittoria celebrata in tutto il mondo dai popoli autoctoni e dagli ambientalisti, che videro nella lotta dei Dongria Kondh un esempio da seguire per impedire alle multinazionali di colonizzare, devastare e distruggere i loro territori ancestrali nel nome di uno sviluppo che porta solo inquinamento, soprusi e miseria.

Survival spiega che «A febbraio di quest’anno, la Omc aveva chiesto alla Corte Suprema il permesso di tenere nuovamente lo storico referendum con cui i Dongria avevano rifiutato all’unanimità le attività minerarie su larga scala nelle loro colline sacre. A maggio la richiesta è stata respinta dalla Corte Suprema». Ma il giornale economico indiano Business Standard ha recentemente rivelato che l’Omc sta preparandosi a fare un nuovo tentativo di avviare attività estrattive, dopo aver ottenuto il via libera dal governo dello stato indiano dell’ Odisha.

Il leader Dongria Lodu Sikaka è molto preoccupato ma annuncia battaglia: «Siamo pronti a sacrificare le nostre vite per la Madre Terra, non la abbandoneremo. Lasciate che il governo, gli uomini d’affari e le compagnie discutano e reprimano le nostre idee quanto vogliono; noi non lasceremo Niyamgiri, la nostra Madre Terra. Niyamgiri, Niyam Raja, è la nostra divinità, la nostra Madre Terra. Noi siamo i suoi figli».

A Survival sottolineano che «Per i popoli indigeni come i Dongria, la terra è vita. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo, case e indumenti, ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza. Il furto delle terre indigene distrugge popoli auto-sufficienti e i loro stili di vita differenti. Provoca malattie, impoverimento e suicidi». E l’Ong internazionale che difende i popoli autoctoni annuncia che sarà al fianco degli indigeni indiani: «Solo la coraggiosa resistenza dei Dongria per difendere le colline sacre è riuscita a fermare una miniera che avrebbe devastato l’area: un’ulteriore prova del fatto che i popoli indigeni sanno prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro. Sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale, e proteggere i loro territori è una soluzione efficace per contrastare la deforestazione e altre forme di degrado ambientale».

Intanto, il lavoro.

18% in meno di contratti a tempo indeterminato avviati e +10,8% di licenziamenti rispetto al 2015. Ecco i dati del terzo trimestre 2016 secondo il Ministero del Lavoro. Ecco i dati:

(grazie a Francesco Seghezzi)