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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Intanto, di là negli USA, la squadra di Trump

(l’AGI sul suo sito mette in fila il governo Trump in formazione)

Ecco chi ha già detto Sì

​Stephen Bannon, 62 anni, ex banchiere di Goldman Sachs, ex patron del sito ultraconservatore e populista Breitbart News, ha guidato negli ultimi mesi la campagna elettorale di Trump, contribuendo a rintuzzare gli attacchi di chi, come lo Speaker della Camera, Paul Ryan, guardava con sospetto la stella nascente. Ma per anni è stato l’uomo, che dalla piattaforma di Breitbart News, ha soffiato sul fuoco dei movimenti più estremi nel panorama politico americano e ferocemente ostile ad Hillary Clinton e allo stesso establishment repubblicano. Sarà lo stratega della linea politica, l’uomo di fiducia del Presidente per le grandi questioni americane e internazionali. La sua prima intervista dopo la nomina ha fatto scalpore: citando Satana e Dart Fener, Bannon ha affermato che “il potere è oscurità”

Reince Priebus – capo dello staff del Presidente
Presidente del partito repubblicano, Reince Priebus, 44 anni, il 20 gennaio diventerà capo dello staff. Laureato in legge alla University of Miami, ha lavorato come avvocato in Wisconsin, dove la sua famiglia si era trasferita dal New Jersey quando aveva 7 anni. Dopo aver perso nel 2004 un’elezione al Senato del Wisconsin, nel 2007 è stato eletto presidente del partito repubblicano dello Stato, il più giovane nella storia. Sin dalla prima ora tra i pochissimi esponenti del Grand Old Party (Gop) non ostili a Trump. La nomina a Chief of staff, ruolo che di fatto gestisce la Casa Bianca, l’accesso al presidente e i rapporti col resto dell’amministrazione e con il Congresso, avrà effetto da mezzogiorno del 20 gennaio 2017 quando Trump si insedierà alla Casa Bianca come 45esimo presidente degli Stati Uniti. Priebus è stato per Trump un ponte con l’establishment e il partito, quando si era creata una frattura tra i vertici Gop e la sua campagna elettorale. Fu lui a organizzare l’incontro pacificatore con lo Speaker della Camera, Paul Ryan.

Jeff Sessions – ministro della Giustizia
Jeff Sessions, 69enne dell’Alabama, ha ricoperto lo stesso incarico a livello statale ed è stato il primissimo sostenitore di Trump alla Camera alta del Congresso, quando ancora il controverso candidato repubblicano era guardato dall’alto in basso dai maggiorenti del partito. Presto è diventato uno dei più ascoltati consiglieri di Trump. E’ un conservatore molto radicale ma rispettato da compagni di partito e avversari per la sua competenza giuridica e la sua integrità. Convinto antiabortista, vuole combattere contro l’immigrazione clandestina e la parità tra coppie etero e omosessuali. Inoltre è favorevole al taglio della spesa pubblica e a una lotta senza quartiere alla criminalità.

Elaine Chao – ministro dei Trasporti
Elaine Chao, 63 anni, è immigrata da Taipei (Taiwan) negli Usa quando aveva 8 anni. La sua famiglia era fuggita dalla Cina dopo l’avvento al potere dei comunisti nel ’49. Repubblicana, nel 1989 viene scelta dal presidente George H. W. Bush come vice ministro dei Trasporti: è la prima volta che una donna, e per di più di origine asiatica, ricopre un incarico del genere. Nel 2001 è nominata dal presidente George Bush Jr ministro del Lavoro. Nel comunicato del team di transizione, si spiega che Chao è stata scelta alla guida dei Trasporti perché “porta con sé esperienza senza pari e comprensione del ruolo”. Il dipartimento dei Trasporti sarà centrale per il massiccio piano di investimenti per la ricostruzione delle infrastrutture annunciato da Trump in campagna elettorale.

Tom Price – ministro della Salute
Deputato repubblicano della Georgia, 62 anni, Tom Price è stato uno dei grandi oppositori della riforma sanitaria di Barack Obama. E’ dunque, come spiegato nel comunicato del team di transizione, “eccezionalmente qualificato per gestire il nostro impegno ad abrogare e sostituire Obamacare, e offrire un’assistenza sanitaria a buon mercato e accessibile per ogni americano”. Chirurgo ortopedico, eletto al Congresso nel 2004, Price è contrario all’aborto e al controllo delle armi ed è presidente della commissione Budget della Camera. Si è schierato a favore dell’estensione del Patriot Act, la legge contro il terrorismo arrivata in risposta all’11 settembre (che violava la privacy dei cittadini e che è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 2007).

Mike Pompeo – direttore della Cia
Mike Pompeo, 52 anni, eletto in Kansas ma nativo della California, chiare origini italiane (i suoi antenati venivano dalla Campania), ha lavorato in uno studio legale e ha fondato una società aerospaziale di successo. Ha avuto un avvicinamento più tortuoso al presidente eletto: diede l’endorsement a Trump senza troppa enfasi dopo aver appoggiato alle primarie Marco Rubio. Più che con il magnate, ha uno stretto rapporto con il suo vice, Mike Pence. E’ favorevole all’abolizione del trattato nucleare con l’Iran, “tanto disastroso con il principale Stato sostenitore del terrorismo al mondo”.

Michael Flynn – consigliere per la Sicurezza nazionale
Il 57enne Michael Flynn è stato advisor di Trump durante la campagna elettorale, dimostrandosi un “perfetto surrogato” – per usare un’espressione del Politico – contro la democratica Hillary Clinton, attaccata per aver messo a rischio informazioni classificate con l’utilizzo di un server di posta privato quando era segretario di Stato. I democratici lo accusano di essere islamofobo e simpatizzante del presidente russo Vladimir Putin. Registrato tra gli elettori democratici, vanta 33 anni di carriera militare, con posizioni di primo piano, dalla guida di missioni Nato in Afghanistan e in Iraq fino alla direzione della Dia (Defence Intelligence Agency) dal 2012 al 2014, quando è stato licenziato dal presidente Barack Obama.

Kathleen T. McFarland – vice-consigliere per la Sicurezza nazionale
Kathleen T. McFarland, nata a Madinson, nel Wisconsin, 65 anni fa, ha mosso i primi passi sotto Richard Nixon, come collaboratrice di Henry Kissinger, per poi fare carriera durante l’amministrazione di Ronald Reagan. Esperta di politica estera e di difesa, fiera oppositrice del presidente Barack Obama, è un volto noto della Fox News, emittente conservatrice, dove ha tra l’altro condotto il programma DefCon3. Nel 2013, dopo l’accordo tra Washington e Mosca che indusse il presidente siriano, Bashar al-Assad, ad accettare di smantellare il suo arsenale chimico, proclamò che Vladimir Putin meritava il Premio Nobel per la Pace.

Nikki Haley – ambasciatore Usa all’Onu
Nikki Haley è il nuovo ambasciatore Usa alle Nazioni Unite. Governatore della Carolina del Sud, 44 anni, di origini indiane e di famiglia sikh immigrata dal Punjab, è la prima donna ad assumere un ruolo di rilievo nella nuova amministrazione del presidente eletto Donald Trump, in fase di formazione. Sposata, con due figli, dal 2010 governatore del South Carolina, sarebbe sponsorizzata dal genero di Trump, l’influente Jared Kushner. La Haley viene indicata come un’esponente dell’ala più intransigente e conservatrice del Partito repubblicano ed era stata inserita anche in una ristretta rosa.di candidati per il ruolo di segretario di Stato.

Steven Mnuchin – ministro del Tesoro
Steven Mnuchin, 53 anni, laureato a Yale, fa parte di una delle famiglie di origine ebraica più in vista della finanza newyorkese. Ex banchiere di Goldman Sachs, oggi numero uno della finanziaria Dune Capital e presidente finanziario della campagna elettorale di Trump. Mnuchin, dopo aver accumulato milioni di dollari con Goldman Sachs si è dato alla produzione di film e ha fondato una società che ha finanziato, tra l’altro, la produzione di successi del botteghino come ‘Avatar’ e ‘American Sniper’.

Wilbur Ross – segretario al Commercio
Trump sceglie il miliardario Wilbur Ross per la poltrona chiave dell’economia Usa, quella di segretario al Commercio. Il settore è tra i più delicati visto il rivoluzionario piano di Trump per scardinare il libero scambio, eliminando alcuni dei principali trattati, tra cui il Nafta e il Tpp. Wilbur Ross (del New Jersey, 79 anni, patrimonio personale di 2,9 miliardi di dollari creato ristrutturando imprese dell’acciaio, del carbone, delle telecomunicazioni) è noto col soprannome di “Re della bancarotta”, perché si è arrichito ristrutturando e rivendendo le compagnie in difficoltà usando le leggi sul fallimento.

James Mattis – capo del Pentagono
James Mattis, soprannominato “Mad Dog”, cane pazzo, il generale in pensione ha sempre detto di vedere nell’Iran una minaccia e di non condividere l’accordo del luglio 2015 sul suo programma nucleare, proprio come Trump. Mattis gode della stima dell’intero corpo dei Marines, di cui ha fatto parte per 44 anni, spesso guidando le truppe in guerra come nel sud dell’Afghanistan nel 2001 e in Iraq dal 2003, dove si distinse nella durissima battaglia di Falluja dell’anno dopo. Nel 2010 approdò alla guida del Central Command, posto da cui controllava tutte le forze americane in Medio Oriente. Da uomo di prima linea, però, il generale a quattro stelle ha usato a volte un linguaggio fin troppo diretto, in stile George Smith Patton: nel 2005 a una conferenza a San Diego affermò che “è un gran divertimento sparare a uomini che schiaffeggiano le loro donne per cinque anni perché non portano il velo”, come in Afghanistan. Nel 2003 alle sue truppe impegnate in Iraq aveva detto: “Siate gentili, siate professionali ma dovete avere un piano per uccidere chiunque incontriate”.

Ben Carson – ministro dell’Edilizia e dello Sviluppo Urbano
Il 65enne Ben Carson, originario di Detroit, è il primo nero a entrare nell’amministrazione di Trump. Medico in pensione, è stato direttore di Neurochirurgia Pediatrica al Johns Hopkins Hospital dal 1977 al 2013. E’ famoso per aver separato nel 1987 una coppia di gemelli siamesi con un intervento chirurgico entrato nella storia della medicina. E’ autore di tre bestseller, fra cui l’autobiografia ‘Mani Miracolose’. Già candidato alle primarie repubblicane, seguace della chiesa avventista, Carson aspirava al ministero dell’Istruzione per poter realizzare le sue idee creazioniste, che mettono in discussione la teoria evolutiva. La sua nomina all’edilizia è stata duramente criticata dai democratici per la mancanza di esperienza nel settore: dovrà gestire l’agenzia da 48 miliardi che sovraintende all’edilizia pubblica, compreso il delicato dossier delle case popolari.

Linda McMahon per le piccole e medie imprese
L’ex amministratore delegato della World Wrestling Administration (Wwa) Linda McMahon scelta come capo della Small Business Administration, ovvero come ministro per la piccola e media impresa. “Linda ha un incredibile background ed è ampiamente riconosciuta come una delle più importanti executive e consulente d’affari a livello globale”, ha dichiarato Trump in una nota, ricordando come la futura ministra abbia trasformato un piccola azienda in un’impresa con 800 dipendenti in uffici nel mondo. La McMahon è cofondatrice, insieme al marito Vince McMahon, del franchise di wrestling Wwe. Ha lasciato la guida della società nel 2009, per tentare senza successo due corse al Senato, nel 2010 e nel 2012.

Al Lavoro Andrew Pudzer
Il ministro del Lavoro sarà Andrew Puzder, Ad della colosso dei fast-food ‘CKE Restaurant’. Puzder è uno dei maggiori finanziatori e sostenitori della prima ora di Trump ma soprattutto è tra i maggiori critici dell’innalzamento a livello federale della retribuzione minima dell’orario di lavoro a 15 dollari. Puzder, che nella sua catena di fast-food, tra i marchi più noti Hardee’s e Carl’s Jr, paga i suoi dipendenti 7,25 dollari l’ora, ritiene che alzare la paga minima a 15 dollari farà aumentare i costi delle società, quindi a ricaduta per i consumatori e alla fine questo porterà al taglio di posti di lavoro perché meno gente sarà disposta a pagare di più per lo stesso panino.

​Seema Verma, neo amministratore dei Centers for Medicare and Medicaid Services, l’agenzia federale che gestisce la salute pubblica.

RUOLI IN VIA DI DEFINIZIONE

L’ad della Exxon, Rex Tillerson, Segretario di Stato​
Il 64enne texano Rex Tillerson è a un passo dalla poltrona di Segretario di Stato. Presidente e ceo del colosso petrolifero Exxon, è considerato molto vicino a Vladimir Putin. Nel 2011, come riferisce il Wall Street Journal, il petroliere concluse un accordo del valore potenziale di 500 miliardi di dollari tra Exxon e la compagnia petrolifera statale russa, OAO Rosneft ma tutto saltò per le sanzioni inflitte dall’amministrazione Obama a causa dell’annessione nell’aprile del 2014 della Crimea da parte di Mosca.Putin fu comunque così riconoscente da conferire a Tillerson l’Ordine dell’Amicizia, la più alta onorificenza russa che può essere conferita ad un cittadino straniero che ha contribuito a migliorare i rapporti tra Mosca ed un’entita’ o stato straniero

Ex ambasciatore Usa all’Onu John Bolton
Il falco John Bolton, 67 anni, ex ambasciatore all’Onu, neo-conservatore, ha ricoperto vari incarichi nell’amministrazione Reagan e sotto i due presidenti Bush padre e Bush figlio. Acceso sostenitore dell’invasione dell’Iraq nel 2003, nel 2005 fu nominato ambasciatore all’Onu. Durò solo un anno, poi il Congresso non convalidò il secondo mandato. Negli ultimi anni ha svolto attività di lobbista nell’area iper conservatrice e su posizioni fortemente filo-israeliane.

Il petroliere Harold Hamm favorito per il ministero dell’Energia
Al dicastero dell’Energia, snodo strategico per l’annunciato ritorno agli idrocarburi e al carbone, dovrebbe andare Harold Hamm, 70 anni, Ceo di Continental Resources. un miliardario del petrolio dell’Oklahoma, ex consigliere per l’energia di Mitt Romey durante la campagna presidenziale del 2012. Secondo Forbes il suo patrimonio nel 2016 ammonta a 13,1 miliardi di dollari. È fra i principali responsabili dell’affermazione dello shale gas, grazie al quale ha fatto fortuna in North Dakota e ha rivoluzionato l’economia del Paese. Inoltre è uno strenuo oppositore dell’oleodotto Keystone, che dovrebbe pompare greggio attraverso il Nord America, dai giacimenti dell’Alberta, in Canada, alle raffinerie del Texas.

Joe Arpaio favorito per la carica di ministro dell’Interno
Joseph Michael ‘Joe’ Arpaio, sceriffo di Maricopa County in Arizona, 84 anni, deciso a utilizzare il pugno di ferro contro l’immigrazione illegale. Famoso per le proposte-choc e le inchieste sul certificato di nascita di Barack Obama, appare il favorito alla carica di capo dell’Homeland Security. Unico ostacolo sembra essere la sua età.

A proposito di post-verità (e di Del Turco che no, non è stato assolto)

(ne scrive Alberto Vannucci per Il Fatto Quotidiano e sì, vale la pena leggerlo)

L’hanno chiamata post-verità, è l’ultima frontiera di una politica destrutturata. Prodotto di strategie di chirurgica divulgazione di notizie fraudolente, amplificate nella loro propagazione dai social network. Rappresentazioni menzognere impermeabili a qualsiasi smentita, persino quella del fact-checking, il controllo dei fatti tipico del giornalismo tradizionale, che giunge in ritardo risultando così impotente. Nel tempo accelerato delle nuove tecniche di comunicazione la pseudo-realtà artefatta e illusoria ha già centrato il suo obiettivo: fissare nella mente dei destinatari, specie quelli appartenenti a specifiche cerchie emotivamente affini (simpatizzanti, militanti, “amici di”, etc.), un’immagine o una convinzione sulla quale qualsiasi contro-informazione ancorata alla verità scivola come acqua.

La post-verità ha già plasmato il mondo a propria immagine e somiglianza. Siamo di fronte a forme di abuso della credulità popolare già note come leggende metropolitane, che vedono incrementare esponenzialmente la propria velocità e potenza diffusiva grazie ai flussi continui di informazioni generate dai nuovi media. Altra novità contemporanea è il loro impiego scientemente programmato da politici opportunisti per manipolare le opinioni pubbliche e il consenso.

Donald Trump, il candidato più bugiardo nella storia d’America, non è stato eletto nonostante, ma grazie alle sue menzogne, che nessun ragionamento razionale è riuscito a smontare o confutare. Circa il 77 per cento delle sue affermazioni sono risultate false o non del tutto veritiere, durante la campagna elettorale si è calcolata la media record di una sua bugia ogni 3 minuti e 15 secondi.

Una recente vicenda italiana – in parte eclissata dal cataclisma referendario – mostra un’applicazione autoctona, non priva di originalità, di questo meccanismo sofisticato di disinformazione. Nel caso italiano, o meglio abruzzese, la strategia della post-verità non è stata utilizzata per ottenere voti, ma per la riabilitazione di un politico corrotto. Stranamente poi il suo canale originario di diffusione, ancor prima della circolazione in rete, è stata proprio la stampa tradizionale – a dimostrazione che le classifiche sulla “libertà di stampa” che collocano l’Italia in una posizione sconfortante non sono poi così ingannevoli.

Alla vigilia del referendum costituzionale quasi tutti i principali quotidiani nazionali e locali – tra le poche eccezioni proprio Il Fatto Quotidiano – danno notizia dell’apparente assoluzione di Ottaviano Del Turco, ex-segretario socialista, ex-membro della direzione del Pd ed ex-presidente della Regione Abruzzo, arrestato nel 2008 per le tangenti ricevute da un imprenditore operante nel settore sanitario. Almeno, l’innocenza del politico ingiustamente crocifisso dalla magistratura è la post-verità inoculata nel discorso pubblico.

Difficile interpretare altrimenti i titoli che la Repubblica, La Stampa, Il Corriere, Il Sole 24 Ore, Il Giornale dedicano al caso, in buona sostanza: “La Cassazione annulla la condanna a Del Turco”. A corroborare questa interpretazione la generosa concessione di spazio alle tesi dell’avvocato difensore: “Spero che questo incubo termini e che a Ottaviano Del Turco sia restituita interamente la piena dignità: è un galantuomo che non ha mai preso nemmeno un euro di tangenti, è una ‘riserva’ della Repubblica”.

Lo stesso “post-corrotto” si concede un’intervista autocelebrativa su La Stampa, in cui rievocando “l’infamia che mi ha travolto” proclama: “Mi hanno restituito l’onore. Doveva schiacciarmi una montagna di prove. Si è ridotta a una montagna di fango. E uno schizzo mi è rimasto addosso. Ma io sono innocente”. Soltanto un’attenta esegesi dei testi giornalistici permette di ricostruire meglio la natura maleodorante dello “schizzo di fango”.

E’ la verità giudiziaria della vicenda, massima approssimazione della verità fattuale cui si è giunti al termine di un lungo e difficile procedimento. E non è cosa da poco. Si tratta della condanna di Del Turco e complici, resa definitiva dalla Cassazione, per cinque tangenti, corrispondenti a un totale di 850mila euro, riscosse dietro “indebita induzione” – corrispondente al vecchio reato di concussione – e del rinvio a un altro processo d’appello per ridefinire la pena da scontare e rigiudicare l’accusa di associazione a delinquere. Già incombe la prescrizione, magica rete di salvataggio per tutti i criminali in colletto bianco d’Italia, e questo forse spiega l’esultanza dei protagonisti.

Ma soltanto nel mondo rovesciato del malaffare italiano, dove la post-verità dei corrotti si sposa con l’acquiescenza di una stampa connivente (o collusa) e con una cittadinanza indifferente (o confusa), può accadere che il politico colpevole conclamato di un grave reato di quasi-concussione, col quale si è depredata la sanità abruzzese per centinaia di migliaia di euro, celebri pubblicamente la propria condanna definitiva come “restituzione dell’onore” e dichiari di volerla festeggiare “a Collelongo, il mio paese, dove tanti in strada mi hanno abbracciato commossi”. E così, in questo abbraccio solidale al corrotto, si realizza anche simbolicamente il trionfo della post-verità all’italiana.

E intanto Dell’Utri continua a raccontare bugie

Dice Dell’Utri che la sua fuga in Libano sia una leggenda metropolitana. Dice Marcello (in un’intervista rilasciata a Giovanni Bianconi del Corriere della Sera) che i giudici hanno sbagliato nell’indicare lui come garante di rapporti mafiosi per conto di Silvio Berlusconi e attraverso il partito politico Forza Italia. Parla, continua a parlare, godendo di un’immunità etica e intellettuale che ha rimosso in fretta ciò che è stato per non disturbare i tanti figli di quell’epoca che ancora infestano ampi strati di classe dirigente di questo Paese.

Dimentica, Dell’Utri, le ragioni della sua condanna: nella sentenza si dice che ha “consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione”. Inoltre “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.

Ma lui niente. Lui pontifica. Ancora. E mentre rilascia l’intervista ammette di essersi buttato in politica “per difendersi” e ammette che si sarebbe fatto arrestare prima se avesse saputo di una condanna così breve da scontare. Questo è un Paese che rimuove a una velocità impressionante e alleva tra le proprie lacune di storia e di memoria infingardi di bassa leva che vengono innalzati a sapienti. Marcello Dell’Utri è l’esempio tattile di una lotta alla mafia dei colletti bianchi che anche quando vince in tribunale non riesce poi a declinarsi nella società civile ma il problema non è tanto lui, il sopravvalutato Marcello, ma le scorie che lasciano impuniti in giro. E poi diventano anche ministri, quelle scorie.

(poichè su Dell’Utri ho dedicato le energie di un mio recente lavoro vi consiglio, se volete, di leggerne il libro che ne è uscito: si intitola ‘L’amico degli eroi’ e lo trovate in versione tascabile qui)

Il vero CNEL è l’Agcom

(Vincenzo Vita sull’Agcom, da Il Manifesto del 7 dicembre 2016)

“Delibera l’archiviazione dell’esposto…” In quest’ultimo caso, che risale al 24 novembre scorso, il diniego dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni riguarda l’esposto del Comitato del NO al referendum sulle revisioni costituzionali sulle violazioni della par condicio. Ripetizione seriale. Esibizione ennesima di una fuga dalle responsabilità, al cui confronto Don Abbondio appare un eroico gladiatore. Dagli atti e dalle omissioni dell’Agcom si ricava l’impressione di una malattia ormai incurabile. Cosa è avvenuto?

Facciamo un passo indietro. L’Autorità trae origine dalla legge 249 del 1997. Fu una scelta netta e impegnativa. Si immaginò di sottrarre al governo o alle maggioranze parlamentari l’indirizzo e la regolazione di un sistema in corso di “integrazione multimediale” secondo il linguaggio dell’epoca. Tant’è che si vergò nel testo un organismo “convergente”: composto da nove consiglieri suddivisi tra infrastrutture e reti da una parte, servizi e prodotti dall’altra. In breve, l’Agcom avrebbe dovuto presiedere a telefonia, connessioni, piattaforme, poste, editoria e radiodiffusione. Divenne una best practice in Europa, dove solo la Finlandia aveva un’omologa entità.

Si superava la figura del Garante monocratico, deciso dalle leggi sull’editoria (1981) e sulla radiotelevisione (1990), con un incipit legato solo alla carta stampata per divenire in un secondo tempo comprensivo anche dell’etere. Ecco, dunque. Entrava in scena un potenziale protagonista di un universo in continua mutazione, tale da richiedere un soggetto vigilante aperto e innovativo. Troppe leggi spesso ridondanti –le uniche decisive invece mai fatte, come l’antitrust e il conflitto di interessi- complicavano la vita invece di semplificarla. L’Autorità disponeva non a caso di un ampio potere di regolamentazione (sostitutiva di una formazione non stop) e pure di un forte ruolo di magistratura dotata di facoltà sanzionatorie, per rispondere alla velocità digitale e introdurre un adeguato contropotere nell’architettura generale.

Il prossimo anno ricorrerà il ventennale dell’Agcom. E’ tempo di bilanci. Senza giudizi sommari, perché non tutto e non tutti hanno deluso. Il Governo Monti, per di più, decise la riduzione da nove a cinque componenti, compromettendo così il funzionamento soprattutto della parte dell’editoria e della radiotelevisione, meno legata ai binari indicati dall’Unione europea assai rigidi al contrario nel campo delle telecomunicazioni. Tale taglio inutilmente burocratico ha pesato certamente sulla routine dell’ultima compagine, incapace di garantire davvero il pluralismo e la rappresentazione mediatica delle opinioni. Senza personalizzare, ovviamente, c’è da chiedersi se proprio l’esperienza del referendum, nella quale il Presidente del consiglio ha fatto il bello e il cattivo nel tempo televisivo senza ostacoli, non induca ad un serio ripensamento. Neppure la migliore intenzione giustifica il vuoto pneumatico. Ma, proprio per evitare un mero giudizio sulle persone (non si vuole mettere in causa la buona fede del Presidente Cardani, al di là delle critiche), è il perimetro normativo da riconsiderare. Insieme alla stessa composizione e alla fonte di nomina.

Si discute della legge elettorale, dopo l’evidente insuccesso dell’Italicum. Ebbene, la vigilanza sull’imparzialità dei media non è meno importante della discussione sui meccanismi di voto. Anzi. Proprio i candidati non espressi dai “potenti” hanno un’unica opportunità: essere conosciuti attraverso un’informazione corretta.

Il Manifesto, 07 Dicembre 2016

Il Disabile Ideale e la penna di Iacopo Melio

Chi non conosce Iacopo Melio si prenda la briga di cercarlo, su fb o in google, per conoscere come la disabilità possa essere raccontata da un angolo inaspettato. Iacopo da tempo prova a rendere pop (e sapete quanto io ami questa parola nel suo senso più nobile) le battaglie dei disabili in Italia. Ora la sua penna s’è messa a scrivere anche per Fanpage:

«In una società sempre più confusa e disorientata, dove si è in continua ricerca di riferimenti e certezze, affibbiare etichette a ciò che è “diverso” da noi è senza dubbio un aiuto per le nostre sicurezze. Che poi, diciamolo, ciò che non conosciamo ci spaventa sempre un po’, e provare a dargli un nome, un colore o delle caratteristiche prefissate è anche una forma di demistificazione. Ecco perché voglio darvi 10 consigli per individuare il “Disabile Ideale”.

Sì, avete capito bene: abbattere le barriere culturali sarà facile con questa pratica guida! Imparerete a rapportarvi col magico mondo della disabilità senza più sentirvi inadeguati, anzi, vi convincerete del fatto che i vostri atteggiamenti siano corretti e vi sentirete subito persone migliori. In fin dei conti, da sempre si cerca di migliorare la propria identità sociale sentendoci quasi in dovere di determinare e giudicare quella altrui. Da oggi vi risparmierete un bel po’ di fatica con questo “Decalogo del Disabile Ideale”.»

Il suo articolo continua qui.

Sì, ma parlare di alleanze senza politica è un fallo di simulazione

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Quelli che sognano Civati-De Magistris-Fratoianni-Fassina-Bersani-Pisapia. Quelli che se Emiliano si prende il PD allora tutto con il PD. Quelli che c’è da fare un’alleanza con il Comitato del No e la CGIL. Quelli che “dobbiamo andare da soli”. Quelli che dobbiamo stare “tutti insieme”. Quelli che però “non bisogna mica ripetere la Sinistra Arcobaleno” e quelli che bisogna fare “come la Sinistra Arcobaleno”. Quelli che serve “più socialismo”. Quelli che serve “più comunismo”. Quelli che non bisogna “essere autoreferenziali” però tutti gli altri sono degli inetti. Poi ci sono quelli che “la gente vuole unità” ma poi specificano “mica l’unità con tutti”. Poi c’è la proposta Pisapia (di mettere tutti insieme tranne Ncd) mentre Delrio dice che il PD dovrebbe andare a elezioni “con Ncd”. E poi, da sempre, quelli che aspettano il messia. Laici ma sempre in attesa del messia.

Il Fantacalcio delle alleanze è un luogo affollatissimo: richiede poche competenze, poche idee e pure confuse e conforta nel suo non doversi applicare ai progetti restando sui nomi e al massimo le facce. Poi non importa se le figurine siano d’accordo o meno con le scelte politiche, sociali e economiche di questi ultimi anni, non conta nemmeno cosa ne pensino della riforma della scuola e come vogliano controriformarla, non ci si chiede se abbiano la stessa idea di benessere sociale, lotta alla povertà, gestione ambientale o rapporti con l’Europa. No, no: prima le facce e poi dentro tutto il resto, con la solita politica a polpettone per cui l’importante è che la crosta sia croccante e di ottimo colore. Così si gioca la partita delle apparenze e poi, quando si perde, ci si indigna per la vacuità del dibattito.

Ad oggi c’è un ex sindaco (Pisapia) che ritiene potabili le politiche renziane degli ultimi anni, un partito in scioglimento (SEL) che si prepara a un congresso per diventare altro (SI), comitati apartitici che vorrebbero essere partito, disillusi e disiscritti, sindaci sparsi tirati per la giacchetta e un po’ di classe dirigente che ha contribuito attivamente alle sconfitte degli ultimi vent’anni. Tutti potenzialmente vicini e potenzialmente opposti, tutti impegnati (giustamente) nello sciogliere riserve interne e scrivere la propria idea di Paese. Dico, non è un po’ superficiale, avventato e poco interessante parlarne? Non è “populista”, appunto?

Si fa politica. E quando le politiche si incontrano diventano comunità. Si fa così. O no?

Abbi cura di tutto.

Dice la Le Pen in Francia che curare i clandestini è uno “spreco”. La ricreazione è finita, ha detto. Proprio così. Poi si è levato il coro di chi ha provato a ristabilire gli elementi minimi di umanità. Ma poco. Sempre meno. È sempre più faticoso. Avere cura ormai è considerato un servizio che dipende dai capitoli di bilancio, mica dall’obbligo di essere uomini tra gli uomini. E quando capita così poi è normale che la situazione per loro sarà sempre abbastanza grave e l’individualismo troverà sempre una buona giustificazione.

Succede lì ma succede qui (sono profetico, vedrete i commenti qui sotto a questo post) e succederà ancora di più appena si accenderanno i riflettori della campagna elettorale. E sarà faticoso opporsi al “federalismo della responsabilità” che in nome della paura e dell’emergenza ha portato molti a volersi occupare al massimo della propria famiglia in senso stretto, del proprio quartiere, del proprio pianerottolo e fanculo tutti gli altri. Ci sarà da resistere, anche qui, da noi. Ci sarà da avere cura di tutto con tutti i talenti e le intelligenze che abbiamo a disposizione.

Giulio Regeni, quali sono le novità

(Ne scrive Bianconi per il Corriere della Sera)

Negli ultimi due mesi di vita, Giulio Regeni è stato «monitorato» dalla polizia egiziana o dai suoi informatori fino alla vigilia del sequestro. Fotografato e filmato. I contatti tra le forze di sicurezza e il capo del sindacato dei venditori ambulanti (nonché confidente degli investigatori) Mohamed Abdallah, con cui Giulio aveva stretto rapporti, sono andati avanti fino al 22 gennaio scorso: tre giorni dopo il ricercatore friulano è stato sequestrato, torturato, ammazzato e abbandonato sul ciglio di una strada del Cairo.

È stato lo stesso Abdallah, interrogato dai magistrati egiziani, a spiegare che «la polizia sembrava intenzionata a proseguire il monitoraggio di Regeni per vedere che comportamento avrebbe tenuto nei giorni intorno al 25 gennaio»: era l’anniversario della rivolta di piazza Tahir, una data simbolica e temuta dal regime del generale Al Sisi. Sembra una giustificazione offerta dal sindacalista per spiegare le notizie fornite su Giulio, anche dopo che la polizia e i servizi segreti avevano concluso che non era una persona pericolosa per la «sicurezza nazionale».

Il nuovo tassello di un difficile e ancora largamente incompleto mosaico è stato fornito dal procuratore generale della Repubblica egiziana Nabil Sadek nell’ incontro con il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco. Terminato con un comunicato congiunto, nel quale si assicura che «la collaborazione continuerà attraverso lo scambio di atti d’ indagine fino a quando non sarà raggiunta la verità in ordine a tutte le circostanze che hanno portato alla morte di Giulio Regeni».

In realtà le novità svelate ieri erano conosciute da tempo dagli inquirenti egiziani, anche prima del precedente «faccia a faccia» di settembre, ma evidentemente non è facile indagare sugli apparati di sicurezza; in ogni caso la Procura di Roma non può che insistere, con la determinazione mostrata fin qui, per conoscere il più possibile dell’ inchiesta in corso, valutarne le mosse, fornire suggerimenti e svolgere accertamenti in proprio laddove è possibile.

Al momento la pista innescata dalle denunce di Abdallah resta la più concreta e consistente, visto che la polizia gli chiese di realizzare un video dei suoi colloqui con Giulio, consegnato all’ inizio del 2016 subito dopo il rientro di Giulio dalle vacanze di Natale. Ufficialmente l’ interesse della polizia per il ragazzo italiano cessa il 14 gennaio, ma dopo quella data Abdallah ha continuato a chiamare esponenti dei servizi segreti locali, fino al 22; ricostruzioni divergenti che si potranno spiegare – forse – una volta acquisiti gli interrogatori degli investigatori egiziani.

Altrettanto importante sarà conoscere le versioni dei poliziotti coinvolti nella sparatoria in cui furono uccisi i presunti rapitori, e quelli che hanno trovato i documenti di Regeni, vicenda che «suscita interrogativi», come ribadisce il comunicato congiunto. Ma ci vorrà a tempo. Si procede a piccoli passi, nella speranza che non ci si fermi o addirittura non si torni indietro.

È la richiesta dei genitori di Giulio che martedì hanno incontrato il procuratore generale Sadek, al quale hanno mostrato alcune foto del figlio ritratto in momenti di felicità.

«Perché sappiate di chi vi state occupando», hanno sottolineato. «Vi chiedo di non fermarvi a qualche anello intermedio della catena», ha detto il padre, Claudio Regeni, al magistrato venuto dal Cairo.

Che ha promesso verifiche «senza escludere nessuna direzione» per dare giustizia a «un ragazzo esemplare», non più considerato spia o spacciatore, bensì un «portatore di pace». L’ avvocato della famiglia, Alessandra Ballerini, ha chiesto di poter accedere al fascicolo dell’ indagine attraverso i suoi colleghi egiziani, e che ciò possa avvenire senza rischi per la loro sicurezza. Le hanno risposto di sì. Se sarà vero si vedrà.

Da grande voglio essere Jim Messina

(Avvertenza: questo articolo è ironico. Satira, quella cosa lì. Non vi torna utile per sviluppare acredine di primo mattino mentre bevete il caffè e nemmeno per fare da colonna sonora alla Liberazione di qualche bilioso dalla parte opposta. Ecco. Detto questo iniziamo.)

Io giuro che vorrei avere l’occasione di bere un caffè con Jim Messina, il super pagato e iper celebrato spin doctor di Matteo Renzi in questa campagna referendaria. L’unica persona che io conosca e che ne abbia avuto mai notizia che è riuscito a farsi dare qualcosa come 400.000 euro (la cifra non è mai stata confermata) per coniare slogan meravigliosi come il “se votate No vi tenete quello che c’è” (dimenticando che c’erano loro, c’era lui, Renzi, appunto) oppure il “se volete meno politici basta un sì” (stampato in un manifesto sei metri per tre pagato dal gruppo parlamentare, eh) o ancora “siamo in grande rimonta, sul filo di lana” sponsorizzato su tutti i social network possibili immaginari quando ormai gli scrutini erano quasi finiti.

Giuro io vorrei stringergli la mano a uno così perché è la fotografia di come sia andata a fottersi la politica in questo Paese, tutta ritrita da slogan masticati pagati come se fossero vangeli. Nel 2016 Jim Messina ha fatto da consulente per arginare la Brexit (poi avvenuta), sostenere la Clinton (poi sconfitta) e sostenere Renzi e la battaglia per il Sì (che sappiamo com’è andata): Jim Messina è il rigore sbagliato nella finale di un campionato del Mondo che si ripete tutte le mattine, tutti i giorni, tutto il giorno.

Ma ve lo immaginate, dico? Renzi che gli chiede cosa debba fare per sostenere il sì e lui che gli propone di aprire la porta finestra sul balcone e uscire in accappatoio a gridare “accozzaglia!”. La Clinton che gli domanda cosa dire su Trump per neutralizzarlo e lui che le propone di dare del coglione a chi ha intenzione di votarlo (che poi qui dovrebbe anche pagare i diritti d’autore a un altro genio, ma si farebbe lunga…). Oppure David Cameron che ascolta il suggerimento di Messina nel ripetere all’infinito che l’Europa è la città più bella dopo Venezia in giro per il mondo.

Grande Jim, davvero. Finché esistono guru così in queso mondo ci sarà sempre un posto libero per il Rondolino di turno. Davvero.

Buon mercoledì.

(questo è il mio buongiorno che ogni mattina, dal lunedì al venerdì, scrivo per Left qui. Fossi in voi lo seguirei.)

Cuori caldi: i veterani di guerra chiedono scusa ai Sioux; i Sioux chiedono scusa ai veterani.

Notizie che vale la pena riportare:

«Duemila veterani di guerra americani si sono accampati nelle praterie del North Dakota per dare il loro appoggio ai Sioux che resistevano il passaggio dell’oleodotto North Dakota Access Pipeline.
Cosi, solo per amore, sono andati li e hanno offerto di essere a fianco delle tribu indigene le cui acque e i cui siti sacri erano minaccciati da questo oleodotto.
Lo US Army Corps decide in extermis di bloccare l’oleodotto e di considerare un percorso alternativo, dopo mesi di resistenza, di violenza, di freddo, di paura.
E alla fine, succede qualcosa di inaspettato, e di quanto piu’ nobile l’umanità’ possa offrire.
A un certo punto del tutto inaspettatamente, i veterani si sono inginocchiati ed hanno chieso scusa ai Sioux per il genocidio ed i crimini di guerra commessi dall’esercito americano contro i popoli indigeni nel corso dei secoli.
Il capo Sioux, Leksi Leonard Crow Dog, per conto di tutte le tribu Sioux accetta le scuse e a sua volta chied scusa ai militari per il dolore causato il giorno 25 Giugno 1876 quando i Sioux sconfissero la 7a cavelleria dell’esercito americano.
Il capo tribu dice “vi perdoniamo e chiediamo pace al mondo”.»

(fonte)

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