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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Nel merito. Quel (brutto) articolo 70.

(Davvero l’articolo 70 non si poteva riscrivere meglio? Se lo chiede Leonardo nel suo blog. E prova a spiegare perché:)

Questa riforma è brutta. Mi sono accorto di averlo scritto spesso, richiesto o no, quando mi capitava di assistere a una conversazione sulla riforma: non dannosa, non inutile, non pericolosa: brutta. Come se fosse più grave, e magari non lo è.

Ma cosa significa “brutto”, se si sta parlando di leggi? Forse cerco solo di spostare la discussione in un campo più congeniale, perché di leggi non mi intendo (di bruttezza invece sì?) Se dico che una ripartizione dei seggi mi sembra iniqua, sto giocando a fare il costituzionalista e non lo sono. Se dico che è brutta, beh, de gustibus. Ma in cosa consiste, per me, la bruttezza di una legge?

Sto per introdurre – qualcuno l’avrà già sospettato – il famigerato articolo 70: quello che nella stesura originale recitava semplicemente: La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, e adesso dice così:

La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.

(In realtà questo è solo il primo comma; ce ne sono altri sei, meno brutti: ma la visione d’insieme è, come dire, notevole).

In questi lunghi mesi di campagna l’articolo 70 comma 1 è stato spesso sbeffeggiato con quel genere di foga bullistica che in me ottiene sempre l’esatto contrario: mi fa venir voglia di intervenire in favore dello sgorbio. Lasciatelo stare, poverino, mica è colpa sua se l’hanno scritto così. C’è anche chi ha provato a difenderlo: per essere brutto è brutto, nessuno lo nega, ma c’è un motivo per cui non si poteva concepirlo meglio. Lo dice gente esperta di legge, e io non lo sono, per cui potrei fidarmi.

Ma non ci riesco. A me sembra davvero scritto brutto apposta. Guardate quel “soltanto” alla seconda riga. L’estensore ha appena iniziato un elenco di situazioni in cui le due Camere eserciteranno insieme la funzione legislativa. Si capisce che gli preme far notare che la cosa non succederà spesso, e quindi usa l’avverbio “soltanto”. Seguono dodici righe di eccezioni. Evidentemente qualcosa non è andata per il verso giusto, ma a quel punto almeno si poteva togliere “soltanto”. Non c’era nessun motivo di lasciarlo lì.

Da grafomane conosco bene la situazione. A volte mi metto a scrivere un’eccezione, poi ne trovo altre ventinove, nel frattempo si è fatto tardi e a volte nemmeno rileggo perché mi addormenterei. Quando mi capita di ridare un’occhiata mi faccio schifo, ma c’è da dire che tengo un blog: se mi capitasse di riscrivere la legge fondamentale della mia Repubblica, userei qualche attenzione in più. La farei rileggere ai miei amici, e colleghi, dieci volte, cento volte. Il tempo non dovrebbe essere il problema: non credo proprio che avrei qualcosa di più importante da fare nel frattempo.

Ecco, forse ho trovato la risposta. Cos’è il brutto per me? È qualcosa che non è semplicemente sgraziato, ma lo è volutamente, pervicacemente, come per attirare l’attenzione: non un difetto di natura, ma il difetto di natura messo in scena con fuori la fila per pagare il biglietto. Un articolo di legge può essere difficile da leggere; a volte è inevitabile che sia così. Ma questa volta era davvero così inevitabile?

Art. 70
Le due Camere esercitano insieme la funzione legislativa nei seguenti casi:
(a) eventuali leggi costituzionali o di revisione costituzionale;
(b) leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche;
(c) referendum popolari e altre forme di consultazione previste dall’art. 71;
(d) leggi relative ai Comuni e alle Città metropolitane (ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo, funzioni fondamentali, disposizioni di principio sulle forme associative);
(e) leggi relative alle politiche comunitarie dell’Unione Europea (norme generali, forme e termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche comunitarie);
(f) casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma;
le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, si possono abrogare, modificare o derogare solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.

Ecco qui. L’ho riscritto. Ci ho rimesso dieci minuti. È ancora brutto, ma almeno si intravede una sagoma, un senso. E ho tolto quel “soltanto”, che sembra una presa in giro. Adesso non è più un brutto da circo; è un brutto noioso, è un bruttino che si impegna, che cerca di vestirsi bene ed essere simpatico a tutti, nella speranza che dopo un po’ qualcuno si dimentichi che, in effetti, è pur sempre brutto.

È quel brutto che alla Boschi e a Renzi non interessa. Mi sembra che la loro filosofia, opposta alla mia, si possa sintetizzare così: se devi fare schifo, almeno fa’ schifo alla grande. Fallo con arroganza, fallo che si veda da lontano. Fa’ in modo che tutti sappiano non solo che fai schifo, ma anche che te lo puoi permettere. Guarda quanto siamo arrivati lontano, senza nemmeno sapere scrivere in italiano. E credi che impareremo adesso? No way, siete voi plebe che dovrete sforzarvi di capirci. Ora vi vandalizziamo la carta costituzionale e poi ve la facciamo votare col ricatto dello spread. Potremmo fare meglio di così? Certo. Non sarebbe neanche così difficile. Ma non sarebbe divertente, non saremmo noi.

Il comma 1 dell’articolo 70 sarebbe discutibile anche se a riscriverlo avessero resuscitato Italo Calvino. Potrebbe essere considerato il simbolo di una riforma che era partita per semplificare e si è complicata da sola strada facendo. Il fatto che sembri invece messo giù da uno stagista in affanno non è accidentale. Forse è inevitabile – la Fretta è un po’ la grande ispiratrice di gran parte dell’azione di governo renziana. La traccia che la mia generazione lascerà sulla carta costituzionale sarà uno sbrago fatto in fretta e furia perché sennò l’Unione Europea, i mercati, Napolitano, le cavallette. E se non ci sbrighiamo poi non si potrà mai più far niente. Perché? Non si sa. I grillini, i fascisti, il riscaldamento globale, insomma o si cambia la costituzione in mezz’ora o non si cambia più. L’abbiamo riscritta male? Beh sì, ma prendere o lasciare.

Secondo me si poteva scrivere meglio, e quindi voto no.

È da un po’ di tempo che Pisapia è un bluff

Giuliano Pisapia, dopo mesi alla ricerca dell’ombra per non doversi schierare o comunque per schierarsi poco, oggi rilasci un’intervista a Repubblica in cui dichiara che non voterà no. Dice l’ex sindaco di Milano:
«Nessuna apocalisse sia che vinca il No, sia che vinca il Sì. E mi sembra che siano ormai ben pochi quelli che paventano tale rischio. Io però non credo che, in caso di vittoria del No, avremmo un anno di tregua nel quale sarà possibile lavorare per riorganizzare il paese; vedo invece un Parlamento ancora più diviso, paralizzato e un periodo di instabilità politica che non farebbe bene al paese».
Repubblica non perde l’occasione e titola tutto maiuscolo: Lo strappo di Pisapia: “Referendum, con il ‘No’ Italia instabile”
Ora, al di là del titolo sparato su una scelta bisbigliata, forse sarebbe anche arrivato il tempo di prendere atto di un fatto politico ormai assodato: Pisapia (ma mi prendo il rischio di aggiungerci Zedda che si accoderà nei prossimi giorni) ha “strappato” (tanto per citare Repubblica) fin da quando ha aperto le porte alla svolta di un PD intento a mettere in atto politiche non più di sinistra. Pisapia ha “strappato” quando di intruppato per rendere potabile Beppe Sala come suo successore; Pisapia ha “strappato” quando non ha voluto esporsi per il referendum sulle trivelle; Pisapia ha strappa to ogni volta che s’è tenuto in gola un giudizio su Jons Act e Buona Scuola.
C’è stata un’epoca qui da noi in cui qualcuno è riuscito ad attivare antenne a sinistra che sembravano spente per poi infilarci i sempreverdi moderati tendenti a destra. Basterebbe chiedere agli amici di Sinistra Italiana e di SEL oppure ai cittadini milanesi che non sono tornati a votare. Se ne sono accorti quasi tutti. Tranne Repubblica.

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Mafia, operazione “Reset 2”: chiesti 150 anni di condanne per i gestori del pizzo a Bagheria

Quasi un secolo e mezzo di carcere è stato chiesto per 17 imputati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsioni, favoreggiamento. Si tratta degli arrestati nel corso dell’operazione “Reset 2”, condotta dai carabinieri a Bagheria nel 2015.

Le pene più pesanti sono state chieste per Pietro Liga e Giacinto Di Salvo per cui il pm Francesca Mazzocco ha chiesto venti anni. Chiesti anche 6 anni per Andrea Fortunato Carbone e Francesco Centineo, 7 per Nicolò Eucaliptus, 6 per Silvestre Girgenti e Umberto Gagliardo, 4 per Salvatore Lauricella, 12 per Francesco Lombardo, 6 per Francesco Mineo, 8 per Gioacchino Mineo, 6 per Onofrio Morreale, 12 per Giuseppe Scaduto, 6 per Giovanni Trapani, Gioacchino Tutino, Paolo Liga e Giovanni Mezzatesta. Nel processo si sono costituiti parte civile i Comuni di Bagheria, Altavilla Milicia, Ficarazzi, Santa Flavia, il centro studi Pio La Torre, Confindustria di Palermo, Addiopizzo, Confcommercio e Confesercenti, assistiti – tra gli altri – da Francesco Cutraro e Ettore Barcellona.

Mafia, gestivano il pizzo a Bagheria: chieste condanne per 17 boss e gregari
„Con l’operazione “Reset 2” gli inquirenti avevano evidenziato la “soffocante pressione estorsiva esercitata dai boss che, dal 2003 al 2013, si sono succeduti ai vertici del clan”. Una cinquantina le estorsioni documentate grazie alla dettagliata ricostruzione fornita da 36 imprenditori locali che hanno trovato il coraggio, dopo decenni di silenzio, di ribellarsi al giogo del “pizzo”.

(LE INTERCETTAZIONI: VIDEO).

(fonte)

 

Sempre lui, il ladro di libri: Dell’Utri rinviato a giudizio per il saccheggio della Biblioteca Girolamini

Ne scrive Simona Maggiorelli per Left:

Dopo la condanna definitiva dell’ex direttore Massimo M. De Caro e dei suoi complici per il saccheggio della Biblioteca Girolamini, il 14 febbraio Marcello Dell’Utri dovrà presentarsi in aula. Secondo l’accusa, l’ex senatore di Forza Italia sapeva da dove provenivano i libri che De Caro gli consegnava e con lui si sarebbe accordato su quali volumi trafugare.L’inchiesta è nata come filone secondario del filone principale, che ha portato in carcere l’ex direttore della Biblioteca di Vico, da cui sono stati rubati migliaia di libri antichi e preziosi. Una parte del bottino è stato nel frattempo ritrovato, ma molti volumi risultano danneggiati, sono state strappate le etichette e tutto ciò che poteva rendere chiara la provenienza dei volumi. Inoltre sono stati distrutti i registri e i cartelli che avrebbero permesso di ricostruire la originaria collocazione dei libri. Dopo l’assalto alla biblioteca operato da chi aveva l’incarico di dirigerla e preservarlapurtroppo l’antica biblioteca napoletana non potrà mai tornare come era. Anche perché all’appello mancano libri preziosi come l’edizione dell’Utopia di Tommaso Moro che fu consegnata a Dell’Utri. Introvabili, fin qui, anche preziose rilegature quattrocentesche. Questo filone dell’inchiesta in cui è coinvolto anche Dell’Utri è partito analizzando le caratteristiche della biblioteca dei Girolamini, di particolare interesse per gli studiosi vichiani, e intercettando alcune conversazioni telefoniche che hanno chiarito la rete di rapporti fra Dell’Utri e De Caro, del quale che l’ex senatore aveva sostenuto la carriera, prima al ministero all’Agricoltura e poi ai Beni culturali, all’epoca in cui era ministro Ornaghi. Dell’Utri, che si trova nel carcere di Rebibbia in attesa che il Tribunale di Sorveglianza valuti la compatibilità del suo stato di salute con il regime carcerario, non è stato ancora interrogato. In passato ha sempre sostenuto di ignorare la provenienza dei volumi ricevuti da De Caro perché non vi erano segni distintivi della biblioteca e a ottobre 2012 presentò agli inquirenti una memoria con l’elenco di tutti i libri antichi avuti dall’ex direttore dei Girolamini consentendo il sequestro in via Senato di volumi antichi. Secondo i pm «non è ipotizzabile che il senatore, esperto collezionista di libri antichi, abbia potuto non avere contezza della provenienza dei preziosi volumi a lui consegnati da De Caro».

L’articolo continua qui. Se invece volete acquistare il nostro libro proprio su Marcello, L’amico degli eroi, vi basta andare qui.

Mafia, operazione Monte Reale: i fatti e i nomi

(gran pezzo di Monrealepress, dedicato a chi all’informazione locale con la schiena dritta)

Durante la notte i Carabinieri del Gruppo di Monreale hanno dato esecuzione ad una ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Palermo Guglielmo Ferdinando Nicastro, su richiesta della Procura distrettuale diretta da Francesco Lo Voi, nell’ambito di un’indagine coordinata dal Procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise e Siro Deflammineis, che ha riguardato 16 persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, lesioni gravi, estorsione, illecita detenzione di armi, detenzione di sostanze stupefacenti, tutti delitti aggravati per essere stati commessi al fine di agevolare l’attività di Cosa Nostra.

L’operazione costituisce il compendio delle indagini condotte dal Nucleo Investigativo di Monreale relative al mandamento mafioso di San Giuseppe Jato all’esito delle quali, già lo scorso 16 marzo 2016 a conclusione dell’operazione denominata “QUATTRO.ZERO” – erano stati tratti in arresto numerosi esponenti apicali del sodalizio.

Nell’ambito di tale contesto di indagine, sviluppatosi sino alla fine del 2014, era emerso che nella zona di San Giuseppe Jato la fazione di Gregorio Agrigento, coadiuvato nella gestione del sodalizio mafioso, tra gli altri, da Ignazio Bruno e Antonino Alamia, si era imposta, anche con il ricorso alla forza, dopo un preoccupante periodo di fibrillazione e contrapposizione, sul gruppo costituito da Giovanni Do Lorenzo ed altri affiliati, anch’essi tratti in arresto con il medesimo provvedimento restrittivo. E’ stata anche documentata la riorganizzazione della famiglia mafiosa di Monreale, al cui vertice era stato designato Giovan Battista Ciulla, attivamente coadiuvato da Onofrio Buzzetta, Nicola Rinicello e Giuseppe Giorlando.

Le indagini svolte, a partire dalla fine del 2014 e nei primi mesi del 2015, hanno registrato in presa diretta l’evoluzione delle dinamiche interne dell’organizzazione mafiosa di San Giuseppe Jato e della famiglia di Monreale, con particolare riferimento alle successioni al vertice del mandamento e della dipendente articolazione mafiosa. E’ emerso, infatti, che, in considerazione dell’aggravarsi delle condizioni di salute dell’anziano boss Gregorio Agrigento, più volte ricoverato nei mesi di ottobre e novembre 2014, Ignazio Bruno ha ricoperto la reggenza del mandamento di San Giuseppe Jato, assumendo decisioni importanti sia nella ridefinizione dell’organigramma interno delle varie famiglie mafiose che lo compongono, in particolare quella di Monreale – che continuava a vivere un periodo di fibrillazione interna – sia accreditandosi e partecipando ad incontri e riunioni con esponenti apicali di altre articolazioni territoriali di cosa nostra, segnatamente del mandamento mafioso di Corleone.

Il mutamento di leadership della famiglia di San Giuseppe Jato da Agrigento a Bruno si è reso necessario per garantire la continuità nella gestione del mandamento, che risulta avere grande importanza strategica, in quanto di fatto controlla il cuore di un’importante zona economica della Sicilia occidentale.

LA FAMIGLIA MAFIOSA DI MONREALE
A seguito dell’operazione “NUOVO MANDAMENTO” conclusa nell’aprile 2013, si era venuto a determinare un vuoto nel panorama mafioso monrealese a causa dell’arresto del capo famiglia Vincenzo Madonia e di numerosi altri associati. Tale spazio di manovra veniva colmato con la decisione del nuovo vertice del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, nel frattempo ricostituitosi, di individuare il reggente della famiglia di Monreale in Giovan Battista Ciulla (poi arrestato il 16 marzo con l’operazione “QUATTRO.ZERO”).

Nel periodo compreso tra gli ultimi mesi del 2014 ed gli inizi del 2015 in seno alla famiglia mafiosa di Monreale venivano registrate fibrillazioni a causa dell’intenzione di Giovan Battista Ciulla e Onofrio Buzzetta di tessere nuove alleanze e di modificare in parte anche le strategie operative della locale famiglia mafiosa. Questa fibrillazione veniva ulteriormente amplificata dalla scarcerazione di Benedetto Isidoro Buongusto, avvenuta il 5 novembre 2014, dopo aver espiato la condanna ad 8 anni di reclusione per associazione di tipo mafioso.

Le indagini permettevano di disvelare le nuove strategie operative perseguite da Giovan Battista Ciulla e Onofrio Buzzetta, prevalentemente finalizzate a ricercare l’appoggio di Benedetto Buongusto e di altri due soggetti a lui vicini. La nascita di questa nuova alleanza, ha aggravato i risentimenti già nutriti dai vertici del mandamento di San Giuseppe Jato nei confronti del Ciulla, sempre più inviso per la cattiva gestione degli affari della famiglia di Monreale, nonché per aver sottratto parte dei ricavi derivanti dalla gestione degli stessi.

In particolare, le indagini hanno permesso di scoprire con precisione i reali motivi delle perduranti tensioni nella: gestione dei proventi di attività illecite perpetrate nel territorio di competenza, per i quali si imputava a Ciulla di avere trattenuto delle somme che sarebbero dovute confluire nella cassa del mandamento, detenuta da Antonino Alamia; mancata presentazione ad appuntamenti fissati per discutere della sua gestione della famiglia mafiosa; relazione extraconiugale con la moglie di un soggetto, all’epoca dei fatti detenuto, in violazione del codice d’onore che disciplina in maniera ferrea la vita di Cosa nostra.

Proprio sulla scorta di tali accuse si delineavano i contorni di un progetto omicidiario, avallato dai vertici del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, in danno di Giovan Battista Ciulla, Onofrio Buzzetta e Antonino Serio. “I propositi criminali – spiegano dal Comando – non avevano concreta attuazione solo perché il capo famiglia di Monreale, Giovan Battista Ciulla, si allontanò dalla Sicilia l’8 febbraio 2015 e trovando rifugio in un lontano comune della provincia di Udine”.

Con la fuga di Giovan Battista Ciulla nasceva, in capo ai vertici del mandamento jatino, l’esigenza di individuare un nuovo responsabile che si occupasse della gestione della famiglia mafiosa di Monreale. Su segnalazione dei componenti della famiglia Lupo, Domenico (imprenditore edile) ed il figlio Salvatore, veniva individuato Francesco Balsano, nipote del già capo famiglia Giuseppe Balsano, catturato latitante nel 2002 e morto suicida in carcere.

L’investitura di Balsano nasceva dall’esigenza di evitare la diretta esposizione degli appartenenti alla famiglia Lupo e, in particolare, di Salvatore Lupo, per il quale nel recente passato era già stato documentato il legame alla famiglia di Monreale, insieme a Giovan Battista Ciulla e a Onofrio Buzzetta. La formale attribuzione del mandato a Francesco Balsano avveniva nell’ambito di una riunione di mafia, tenutasi nel pomeriggio del 25 febbraio 2015, presso un capannone in agro di Monreale, di proprietà di Domenico Lupo, alla quale partecipavano, quali esponenti del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, Girolamo Spina (nipote ed autista di Gregorio Agrigento), Vincenzo Simonetti e Ignazio Bruno, mentre per la famiglia mafiosa di Monreale, Salvatore Lupo e Francesco Balsano.

Nel corso dell’incontro, oltre alla citata nomina, si stabiliva che il principale interlocutore di Balsano in seno al mandamento avrebbe dovuto essere Antonino Alamia e, soprattutto, veniva sancito di esautorare e punire i componenti del gruppo legato a Giovan Battista Ciulla. Da qui scaturirono una serie di episodi di intimidazione, aggressioni e minacce, il più eclatante dei quali risultava essere sicuramente, il 28 febbraio 2015, il grave atto intimidatorio ai danni di Buongusto, il quale denunciava di aver rinvenuto, davanti la porta della propria abitazione, una testa di capretto su cui era stata conficcata una pallottola da caccia, con annesso un biglietto recante testualmente la scritta: “Da questo momento non uscire più di dentro perchè non sei autorizzato a niente”.

A tale messaggio dal chiaro contenuto mafioso, Salvatore Lupo e Francesco Balsano, con l’aiuto di Sergio Denaro Di Liberto (il picchiatore “prestato” dai vertici di San Giuseppe Jato) facevano seguire, la sera del 3 marzo 2015, una missione punitiva ai danni di Benedetto Isidoro Buongusto, il quale veniva rintracciato per le vie di Monreale e pestato violentemente con tubi in ferro, riportando diversi traumi e la frattura di una costola e venendo sottoposto d’urgenza ad intervento chirurgico per toracotomia. Ancora, il 6 marzo 2015 Onofrio Buzzetta, braccio destro di Ciulla, venne minacciato nella propria autovettura da Francesco Balsano, il quale gli puntò una pistola in bocca, pronunciando le seguenti parole “Sono autorizzato ad ammazzarti pure ora”.

Onofrio Buzzetta, temendo per la propria vita in relazione al progetto omicidiario di cui si è detto, chiedeva, per il tramite di un amico, un incontro con Rosario Lo Bue, capo mandamento di Corleone, unica persona in grado di intervenire in maniera determinante nei confronti dei vertici del mandamento di San Giuseppe Jato. Per questo motivo il 7 marzo 2015 si recava a Corleone, riuscendo ad ottenere la protezione.

Minacce erano state indirizzate anche a Nicola Rinicella da Balsano, il quale in un duro confronto precisava all’interlocutore “Ti è finita bene perchè dall’altra parte mi avevano detto di spaccarti le gambe”. Nel frattempo, l’intervento dei Carabinieri di Monreale faceva venir meno la reggenza della famiglia mafiosa di Monreale da parte di Francesco Balsano – incarico di fatto ricoperto per 10 giorni, dal 25 febbraio 2015 al 6 marzo 2015 – procedendo al suo arresto per detenzione illegale di una pistola automatica cal. 7,65 e relativo munizionamento, rinvenuta nel corso della perquisizione presso la sua abitazione.

Nel periodo successivo alle richiamate minacce ed azioni violente, fu registrata un’apparente posizione defilata del gruppo legato a Ciulla, a vantaggio della fazione emergente, che aveva ormai assunto il controllo della famiglia mafiosa, sotto la reggenza di Salvatore Lupo, appoggiato dai vertici del mandamento di San Giuseppe Jato. All’inizio del 2016, però, venivano intercettate alcune conversazioni nel corso delle quali Salvatore Lupo ed il capo decina Giovanni Pupella (incaricato della gestione dello spaccio nella piazza di Monreale) facevano riferimento ad una riorganizzazione del gruppo mafioso capeggiato da Benedetto Isidoro Buongusto, che aveva l’obiettivo finale di spodestare a qualsiasi costo i Lupo e di riprendere il controllo della famiglia.

Pupella, preoccupato da tale eventualità, consiglò a Salvatore Lupo di agire per tempo e soprattutto di intervenire mettendo in atto, all’occorrenza, anche atti violenti “TOTO’ LORO DEVONO BUSCARLE, TOTÒ, E BASTA, TOTÒ, A LORO NON DOBBIAMO… NON DOBBIAMO FARE CAPIRE NULLA, O FRATE, NOIALTRI… LORO DEVONO BUSCARLE… LORO DEVONO RIMANERE A PIEDI…”. In quella circostanza, Salvatore Lupo ribatteva che avrebbe immediatamente richiesto al vertice del mandamento di San Giuseppe Jato l’autorizzazione ad agire contro i rappresentanti del gruppo capeggiato da Benedetto Isidoro Buongusto, nel rispetto delle ferree regole gerarchiche di Cosa nostra.

Le parole di Salvatore Lupo non lasciavano dubbi sul fatto che un’eventuale azione da parte del gruppo retto da Benedetto Isidoro Buongusto, peraltro in cerca di vendetta per il violento pestaggio subito, potesse scatenare una vera e propria violenta faida tra le due fazioni antagoniste, tenuto conto della disponibilità del gruppo retto da Lupo di armi da fuoco, come accertato nel corso dell’indagine. Proprio con riferimento alla disponibilità di armi da fuoco da parte della famiglia mafiosa di Monreale, è importante sottolineare quanto già delineato in precedenza sulle acquisizioni investigative che hanno portato all’arresto di Francesco Balsano, avvenuto il 6 marzo 2015 per detenzione abusiva di una pistola clandestina del relativo munizionamento.

“In merito ai canali di approvvigionamento di armi – aggiungono dal Comando – è utile richiamare anche l’arresto di Umberto La Barbera, ritenuto vicino alla famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, al quale, il 28 dicembre 2015, nel corso di una perquisizione domiciliare, veniva rinvenuta sostanza stupefacente e 47 cartucce cal. 22 corto”. Lo stesso, poco meno di un mese dopo l’arresto, esattamente il 26 gennaio 2016, veniva denunciato in stato di libertà dal Comando Stazione Carabinieri di San Giuseppe Jato, a seguito del rinvenimento in un appartamento nella sua disponibilità, di un fucile cal. 12 con matricola alterata e diverse munizioni del medesimo calibro.

La disponibilità da parte del sodalizio mafioso di armi da fuoco ha ricevuto ulteriore conferma il 21 marzo 2016, quando in sede di perquisizione vennero rinvenute e sottoposte a sequestro una pistola cal. 9 con matricola abrasa e canna modificata e 122 cartucce di vario calibro, riconducibili a Domenico Lo Biondo, tratto in arresto nell’ambito dell’operazione del 16 marzo scorso “QUATTRO.ZERO”.

Infine, non di minor rilievo è l’arresto in flagranza di reato eseguito dai Carabinieri di Monreale il 29 marzo 2016 a carico di Pietro Lo Presti, appartenente alla famiglia mafiosa di Monreale, dopo il ritrovamento di una pistola marca “Valtro”, con matricola abrasa, modificata per permettere l’utilizzo di munizioni calibro 7,65 browning, nonché di 53 cartucce del medesimo tipo.

Gli approfondimenti investigativi condotti hanno anche consentito di evidenziare una serie di reati fine del programma criminoso della compagine mafiosa, tra cui particolare importanza rivestono certamente le quattro vicende estorsive ai danni di imprenditori del settore edile e di commercianti, ricostruite in modo compiuto nel corso dell’indagine.

Altrettanto rilevanti sono le attività investigative che hanno consentito di comprovare il reimpiego di parte dei proventi delle attività illecite nello spaccio di sostanze stupefacenti e nella realizzazione di una vasta piantagione di marijuana nelle campagne di Piana degli Albanesi. In tale quadro si innesta l’arresto di Michele Mondino e Gaetano Di Gregorio, eseguito dai Carabinieri di Monreale il 3 agosto 2015, con il recupero di 900 piante di cannabis sativa. Le successive analisi hanno evidenziato che dalle piante sequestrate sarebbe stato possibile ottenere circa 150 chuli netti di sostanza, per un totale di oltre 55 mila dosi singole, che – immesse nel mercato – avrebbero potuto garantire un guadagno di quasi un milione di euro.

GUARDA IL VIDEO DELLE INTERCETTAZIONI

I NOMI DEGLI ARRESTATI
Antonino Alamia, 52 anni nato a San Giuseppe Jato, attualmente detenuto;
Sergio Denaro Di Liberto, 42 anni nato a San Giuseppe Jato, già detenuto;
Ignazio Bruno, 43 anni di San Giuseppe Jato, detenuto;
Giovan Battista Ciulla, 35 anni, di Monreale, nato a Palermo e attualmente detenuto;
Onofrio Buzzetta, 42 anni di Palermo, già in carcere;
Vincenzo Simonetti, 56 anni, nato a Palermo;
Domenico Lupo, 57 anni, di Monreale;
Salvatore Lupo, 28 anni, di Monreale;
Giovanni Pupella, 26 anni, di Monreale;
Benedetto Isidoro Buongusto, 66 anni di Monreale;
Antonino Serio, 62 anni, di Palermo;
Pietro Lo Presti, di Monreale di 32 anni;
Alberto Bruscia, 38 anni, nato ad Aqui Terme, residente a Monreale;
Francesco Balsano, 40 anni di Monreale;
Salvatore Billetta, 47 anni, di Monreale;
Giovanni Matranga, 54 anni di Piana degli Albanesi.

Twitter, il fango, le offese, De Luca e il mondo reale

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Quindi oggi è stata la giornata dell’indagine contro il “sistema d’odio” del Movimento 5 Stelle su twitter (e invece l’indagine non c’è) e poi del solito De Luca che si conferma uomo di bassissimo spessore. Se avete tempo e voglia ne ho scritto qui (sulla presunta Spectre grillina) e qui su De Luca. Ma adesso che è sera vorrei spendere un minuto per parlare d’altro.

Viaggio da mesi per la campagna referendaria in vista del prossimo 4 dicembre. Lo faccio da convinto sostenitore del No (ah, qui trovate i miei appuntamenti) e come tutti mi ritrovo a scriverne qui sul blog e sui miei social. Mentre tra twitter e Facebook (ma anche su certa cattiva informazione) si infiamma la propaganda più violenta (e mendace) durante i miei dibattiti con sostenitori del sì (sarò stato fortunato io, probabilmente) mi son sempre ritrovato a discutere della riforma, delle modifiche articolo per articolo e delle diverse visioni politiche. Tutto molto tranquillamente. Tutto molto serenamente. E anche quando le distanze sono incolmabili il clima è comunque di ragionevolezza.

Ecco, ci tenevo a dirlo. Perché a viverla, questa campagna referendaria, sembra che tutti gli imbecilli poi non esistano nella vita reale. Chissà perché.

La Milano che lavora: un imputato per mafia su quattro (98 negliultimi 15 anni) è un imprenditore

Nei processi per mafia a Milano un imputato su quattro è un imprenditore. Nella metà dei casi, opera nell’edilizia, seguita da ristorazione e gestione di locali notturni. E fra le organizzazioni criminali, a farla da padrone – dato tutt’altro che sorprendente – è la ‘ndrangheta. E’ il risultato di uno studio realizzato all’Università Bocconi da un gruppo di ricercatori guidato dal professor Alberto Alessandri, docente di diritto penale dell’ateneo milanese. Il gruppo ha preso in esame tutti i 105 fascicoli avviati tra il gennaio 2000 e il dicembre 2015 dalla Procura della Repubblica di Milano per il reato di associazione di tipo mafioso (416 bis), con attenzione ai casi in cui è stata contestata questo tipo di aggravante.

Negli ultimi sedici anni – spiega la ricerca  sostenuta dalla Camera di commercio di Milano, da Assimpredil Ance, dal Banco Popolare e con la collaborazione del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale sono stati 1.251 i soggetti indagati nell’ambito dei 105 procedimenti considerati. Dei 384 rinviati a giudizio, 98 sono appunto imprenditori, segno di una crescente presenza mafiosa nell’economia lecita. “Oggi non può più parlarsi di un fenomeno di infiltrazione della criminalità organizzata al Nord, quanto piuttosto di un radicamento nell’economia lecita, e più in particolare milanese”, è il commento ai dati del professor Alessandri. E che il radicamento abbia soppiantato la più labile infiltrazione è un dato acquisito da anni anche in sede giudiziaria, comprese le analisi della Direzione nazionale antimafia.

L’edilizia si conferma il settore più colpito – ci lavora il 25,52% degli imprenditori finiti sul banco degli imputati in processi per mafia – mentre il 15,2% opera nella ristorazione e nella gestione di bar o locali notturni. Dei 384 rinviati a giudizio, 330 sono stati condannati con una sentenza di primo grado. Nel 24,2% dei casi il ruolo nell’organizzazione criminale dell’imprenditore indagato per l’articolo 416 bis è quello di organizzatore e/o promotore dell’attività criminosa. Riguardo al tipo di reato commesso dagli indagati nel periodo considerato dalla ricerca, si evidenzia come le attività criminali più tipiche prevalgano di poco sui reati di tipo economico (53,7% rispetto al 46 ,3%).

I dati mostrano una crescita del peso della criminalità nel tessuto economico milanese, almeno per i casi individuati dagli investigatori. In 15 anni, peraltro, il numero di procedimenti aperti per mafia non è stato costante: due i picchi, nel 2006 e tra il 2010 e il 2014: se nel 2000 i fascicoli aperti dalla Procura sono stati 5 e nel 2001 solo 2, tra il 2010 – anno fra l’altro della grande operazione Crimine-Infinito, con 160 arresti nella sola Lombardia – e il 2014 il numero è di 43 procedimenti (16 dei quali solo nel 2014).

L’associazione di tipo mafioso più coinvolta nei procedimenti avviati a Milano è la ‘ndrangheta: è presente in ben il 78% dei procedimenti, mentre Cosa nostra e Sacra corona unita si ritrovano rispettivamente nel 10% e nel 3% dei fascicoli. Vi è tuttavia da registrare un 7% di casi in cui compare una convergenza di interessi criminali tra più realtà associative di tipo mafioso (‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra).

La ricerca della Bocconi ha preso in esame anche l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia, attraverso la consultazione dei fascicoli relativi ai 67 provvedimenti di confisca definitivi emessi nei sedici anni presi in esame: 80 sono i soggetti proposti per le misure di prevenzione, per il 63% originari della Calabria e per il 13% originari della Lombardia. Di questi proposti, 34 sono stati indagati o imputati per reati in materia di sostanze stupefacenti, mentre 22 per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Anche in questo ambito appare prevalente la presenza della ‘ndrangheta, associazione collegata in almeno 48 casi esaminati. I beni immobili confiscati sono stati 249 (il 47% del totale); 119 i conti correnti (23%); 57 i beni mobili registrati (11%) e 52 le azioni o le quote societarie (10%). In 6 decreti (tra il 2009 e il 2012) le imprese sono state destinatarie della misura.

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Ah, a proposito: hanno condannato Nicola Cosentino. E alcuni che lo dicevano innocente sono al governo.

Nove anni di reclusione. E altri due anni di libertà vigilata al termine della pena. Durissima condanna per l’ex sottosegretario Pdl Nicola Cosentino, a lungo coordinatore campano di Forza Italia, accusato di concorso esterno in associazione camorristica. Questa la sentenza della prima sezione collegio C del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dal giudice Giampaolo Guglielmo.

Assoluzione solo per un capo d’imputazione residuale, quello relativo allo scambio di assegni e titoli di credito tra esponenti del clan e impresa di famiglia, la Aversana Petroli. Tra novanta giorni apprenderemo le motivazioni. Il pm della Dda di Napoli Alessandro Milita aveva chiesto 16 anni di condanna. La sentenza è arrivata al termine di lunghissimo processo iniziato il 10 marzo 2011 e spalmato in 141 udienze, forse il più lungo mai celebrato con un solo imputato. In cinque anni e mezzo il pm Milita e gli avvocati Agostino De Caro e Stefano Montone hanno formato una lista testi di 300 persone e ne hanno sentite circa 110, di cui 16 collaboratori di giustizia collegati in videoconferenza dai luoghi protetti. Tra i testimoni sono stati sentiti i big del clan dei Casalesi, oggi pentiti di camorra, tra cui l’ex reggente del clan Bidognetti Luigi Guida, Gaetano Vassallo, Anna Carrino, Franco Di Bona, e alcuni tra i leader della politica campana, tra cui l’ex Governatore della Campania Antonio Bassolino, sentito a febbraio 2012 per rispondere a domande sulla gestione del commissariato per l’emergenza rifiuti. Sono stati sentiti anche il suo ex braccio destro Massimo Paolucci, l’ex parlamentare Lorenzo Diana, l’ex ministro dell’Ambiente Altero Matteoli.

Le 199 pagine dell’ordinanza di arresto nei confronti di Cosentino vengono firmate il 7 novembre 2009 dall’allora gip di Napoli Raffaele Piccirillo. Arresto più volte respinto dalla Camera fino al 15 marzo 2013, giorno in cui Cosentino, non ricandidato per decisione di Berlusconi e privo delle guarentigie parlamentari, si costituisce presso il penitenziario di Secondigliano. Dopo qualche mese di carcere e di arresti domiciliari fuori regione, a fine 2013 Cosentino torna libero e si rimette a fare politica. È l’ispiratore di ‘Forza Campania’, gruppo consiliare regionale che intende fare la fronda alla gestione napoletana e campana di Luigi Cesaro e Domenico De Siano, e mettere in difficoltà il ‘rivale’ Stefano Caldoro, all’epoca Governatore azzurro. Ma il 3 aprile 2014 torna in carcere con accuse di estorsione ai danni di un imprenditore dei carburanti, un concorrente dell’impresa di famiglia, la Aversana Petroli, leader di mercato nell’area di Casal di Principe e dintorni. Due anni e due mesi ininterrotti di carcere, terminati il 1 giugno 2016, quando il tribunale revoca la misura attenuandola negli arresti domiciliari a Venafro con divieto di comunicare all’esterno della cerchia dei familiari più stretti.

Cosentino è stato accusato dalla Dda di Napoli di concorso esterno in associazione camorristica. Secondo l’accusa, è stato sin dal 1980 e fino al 2014 il referente politico-istituzionale dei clan Casalesi, dai quali avrebbe ricevuto sostegno elettorale e capacità di intimidazione, e ai quali avrebbe offerto la possibilità di partecipare ai proventi degli appalti del ciclo dei rifiuti e delle assunzioni. L’impianto accusatorio si è concentrato intorno alle vicende della nascita dell’Eco 4 con a capo i fratelli Sergio e Michele Orsi (quest’ultimo ucciso nel 2008 dall’ala stragista del clan di Giuseppe Setola), imprenditori vicini al clan dei Casalesi, nonché società operativa del Consorzio Ce4 con a capo Giuseppe Valente, diventato poi nel corso del dibattimento uno dei principali testi della Procura. L’Eco 4 fu “società a partecipazione mafiosa”, sostiene il pm Milita, Questo il contesto in cui la Procura ha collocato gli sversamenti illeciti nel casertano e fuori regione, e la mancata realizzazione dell’inceneritore di Santa Maria la Fossa. Cosentino avrebbe fatto finta di appoggiare i comitati che si battevano contro l’impianto, per favorire invece un altro progetto. Cosentino avrebbe avuto un controllo assoluto delle assunzioni e degli incarichi all’interno della Eco4.

L’inchiesta giudiziaria prende il via dal pentimento di Gaetano Vassallo, il ministro dei rifiuti del clan Bidognetti. “L’ Eco 4 è una mia creatura, la Eco 4 song’io”, avrebbe detto l’ex parlamentare a Vassallo. A verbale il pentito ricostruisce i suoi contatti e i suoi rapporti con l’ex parlamentare, si sarebbe recato a casa di Cosentino per incontrarlo – ne descrive le stanze agli inquirenti – e discutere di un suo ruolo in una società controllata dalla Eco 4. Vassallo racconta che Cosentino gli risponde no, spiegandogli che in quel momento gli interessi economici dei clan si erano spostati a Santa Maria la Fossa e lì comandava il gruppo camorristico degli Schiavone, che avevano estromesso i soldati di Bidognetti.

Cosentino avrebbe poi cercato di costruire un vero e proprio ciclo dei rifiuti alternativo e concorrenziale a quello ufficiale gestito da Fibe-Fisia-Impregilo attraverso il contratto stipulato con il commissariato per l’emergenza, ovvero attraverso l’Impregeco. Per il pm, Cosentino da un lato aveva un progetto, quello di realizzare il ciclo integrato dei rifiuti nel Casertano, e per questo con loro e con la Impregeco mette in atto un piano. Dall’altro, sfruttava il suo ruolo e le sue relazioni per favorire la camorra in cambio di voti. “La camorra non votò Cosentino e non c’è alcuna prova contro di lui e ci troviamo di fronte ad un vuoto probatorio”, ha invece replicato la difesa composta da Stefano Montone e Agostino De Caro nel corso dell’arringa del 27 ottobre scorso.

I legali hanno messo in discussione l’attendibilità dei collaboratori di giustizia “completamente inaffidabili per le versioni discordanti”. Nell’udienza di oggi si è consumato un ultimo, duro scontro, sulla circostanza che Cosentino nel 2008, poco dopo le rivelazioni dei primi verbali di Vassallo, ha promosso iniziative politiche e parlamentari per creare una sezione Dda a Santa Maria Capua Vetere. Per il pm Milita questo fu un tentativo per “frantumare” il ‘modello Caserta’ della Dda di Napoli che stava ottenendo ottimi risultati nei contrasto ai clan dei Casalesi, e quindi indebolire anche le indagini a carico dell’ex sottosegretario. Un progetto che secondo Milita era sostenuto anche da Donato Ceglie, pm attualmente al centro di varie inchieste giudiziarie, di recente assolto a Roma nel suo primo processo, che all’epoca era sostituto procuratore a Santa Maria ed era legato ai fratelli Orsi. De Caro ha controbattuto: “È una tesi che poggia su una cultura del sospetto che non può approdare a una sentenza emessa in nome del popolo italiano”. Gli avvocati hanno preannunciato ricorso in Appello.

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L’Onu denuncia violazioni dei diritti umani in Crimea

(di Marco Perduca, fonte)

Dopo un acceso dibattito che ha portato a un numero record si astensioni, la commissione diritti umani dell’Assemblea generale dell’Onu ha adottato una risoluzione che condanna la “occupazione temporanea” della Crimea da parte della Federazione russa accusandola di molteplici violazioni dei diritti umani nella regione.

Il testo, la cui adozione definitiva avverrà a dicembre, denuncia gli abusi e le discriminazioni “contro i residenti della temporaneamente occupata Crimea, compresi i gruppi di tatari”, un gruppo etnico di origine turchica che abita da secoli la penisola. Seppur in maniera diplomatica l’Onu ha quindi condannato l’annessione della Crimea e tutto ciò che ne è seguito.

Nel silenzio immobile della comunità internazionale, e con risibili motivazioni di difesa delle popolazioni russofone in Ucraina, nel marzo del 2014 la Russia si annetté la Crimea dopo che una serie di manifestazioni popolari cacciarono il presidente filo-russo Viktor Yanukovich. Tanto sui sommovimenti di piazza quanto sull’invasione russa della penisola ucraina, ci son state vendute le più varie e dietrologiche leggende a favore e contro, ma da allora non si è tornati indietro.

Poco dopo ultimata l’occupazione della Crimea Mosca formalizzò l’annessione con un referendum farsa che ottenne una maggioranza schiacciante di voti a favore. Negli stessi giorni in cui la marina russa solcava le acque del Mar Nero, nell’Ucraina orientale iniziava una vera e propria guerra di secessione – ancora in corso – che vede la Russia direttamente e indirettamente coinvolta nel tentativo di destabilizzare ampie regioni dell’Ucraina con l’utilizzo di mercenari (anche stranieri).

L’annessione della Crimea da parte di Mosca ha portato all’adozione di sofferte sanzioni internazionali, ma ha anche messo in evidenza quale sia il potere di attrazione che un regime anti-liberale come quello di Putin possa esercitare nei confronti di paesi democratici dove si ritiene che la “legge e l’ordine” siano da preferire allo Stato di Diritto. A più riprese gli europei si son spaccati sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Mosca e non pochi movimenti politici europei hanno condonato la reazione russa, a volte anche con motivazioni anti-naziste!

Il progetto di risoluzione presentato al Palazzo di Vetro dall’Ucraina è stato approvato con 73 voti
a favore, 23 contrari e 76 astensioni. Gli europei col Regno Unito e gli Stati Uniti sono tra i paesi che hanno votato a favore della risoluzione mentre Russia, Armenia, Bielorussia, Venezuela, Siria, Iran e la Cina son tra quelli che si sono opposti. Gli astenuti fanno principalmente capo al gruppo dei cosiddetti non-allineati.

Il testo esorta la Russia a porre fine immediata a “detenzioni arbitrarie, tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, e di revocare tutte le leggi discriminatorie”. Inoltre s’invita Mosca a liberare gli ucraini che son detenuti illegalmente, e di consentire agli enti culturali e religiose per riaprire e a revocare la decisione del 29 settembre scorso della Corte Suprema che ha dichiarato la Mejlis dei tartari di Crimea (l’istituzione di auto-governo locale) un’organizzazione estremista.

Pur senza difficoltà con Kiev, negli ultimi 20 anni la minoranza tatara era riuscita a dotarsi delle istituzioni democratiche che hanno consentito a quella comunità di proteggere e promuovere la cultura e tradizione che la caratterizza nonché la possibilità di professare la propria religione. I tatari sono stati uno dei gruppi etnici che in Russia hanno subito angherie per secoli con deportazioni di massa verso l’Uzbekistan durante gli anni di Stalin. Da due anni son tornati a vivere l’incubo del passato.

Il “deterioramento” dei diritti umani in Crimea dall’inizio della annessione illegale della Federazione Russa è stato ampiamente documentato dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani che ha dettagliato “arresti, maltrattamenti, torture e intimidazioni perpetrate contro gli oppositori politici e le minoranze, così come la negazione dei diritti umani fondamentali a coloro che non accettano l’imposizione forzata di legislazione e lingua, oltre che della cittadinanza, russa nella penisola.”

Nel 2015, il parlamento ucraino ha adottato una risoluzione che riconosceva la competenza della Corte Penale Internazionale sui fatti accaduti durante le manifestazioni di piazza per portare Yanukovich davanti a un giudice terzo per i crimini commessi nella repressione delle proteste del febbraio 2014.

Il 16 novembre scorso, capita la malaparata alle Nazioni unite, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che Mosca ritirerà la firma dallo Statuto di Roma della CPI, che comunque non aveva mai ratificato, anche perché il procutatore dell’Aia nel frattempo aveva aperto un dossier sul conflitto ucraino e, pare, sugli attacchi aerei russi in Siria.

La risoluzione dell’Assemblea generale non ha potere vincolante né prevede il rafforzamento di sanzioni internazionali ma rappresenta un documento di chiara denuncia politica nei confronti di un regime, quello russo, che viene lasciato agire senza censura o critica ferma e che sistematicamente si presenta al mondo come la vittima di un complotto internazionale – vedi le recenti rimostranze di Mosca a seguito dell’annuncio dell’invio di contingenti Nato a rafforzare la presenza militare nei paesi baltici.

All’inizio dell’anno, nel bel mezzo della guerra all’Isis, un documento del Pentagono affermava che per gli Usa, e quindi il mondo Occidentale, la maggiore minaccia fosse la Russia e non il terrorismo islamico; con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca i toni nei confronti di Mosca saranno sicuramente meno belligeranti, ciò non toglie che il problema dell’impunità della azioni militari russe fuori dai propri confini e del silenziamento violento del dissenso interno restano una ferita aperta, e sanguinante, nei confronti dello Stato di Diritto.

L’Assemblea generale è stata chiara nelle sue denunce, ma adesso cosa succederà?

Nel merito. Giorgio Galli: «il sì è una toppa al sistema»

Al referendum del 4 dicembre votare sul governo «sarà inevitabile», spiega Giorgio Galli, decano della politologia italiana, docente di dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano, studioso del «bipartitismo imperfetto» della Prima Repubblica quando Dc e Pci si confrontavano senza che questo producesse alternanza. Negli ultimi anni, fra l’altro, ha analizzato le riforme di Renzi (in L’urna di Pandora delle riforme, con l’avvocato Felice Besostri). Dunque si voterà su Renzi «innanzitutto perché lui stesso ha intrecciato la riforma e il suo futuro di presidente del consiglio. Per questo gli italiani voteranno più su sui mille giorni del governo che sulla riforma».

Il suo giudizio sui mille giorni di Renzi qual è? 
Non molto positivo. È riuscito a fare molto meno di quello che aveva promesso. L’economia resta stagnante. Oggi sfida l’Europa come un euroscettico ma è un’oscillazione notevole rispetto al forte investimento di credibilità che aveva fatto sull’Europa.
 
Dal famoso semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione oggi siamo allo sbianchettamento delle bandiere europee. 
Nella prima parte della campagna referendaria ha sostenuto che a differenza dei suoi predecessori aveva ottenuto importanti risultati in Europa. Ora invece rinuncia a questo aspetto e mette in evidenza la forza con cui avanza le richieste.

Renzi dice: il Sì è cambiamento, il No è conservazione. 
È il contrario. Il Sì è la continuità del sistema politico. Il capitalismo non garantisce più lo sviluppo, quello italiano è ormai sinonimo di stagnazione permanente. In questa stagnazione si cercano di porre continuamente delle pezze a un sistema politico al capolinea. Si è cominciato con la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale: una toppa per tenere in piedi un sistema. Poi le prime larghe intese con tutto il centrodestra, le seconde con una parte del centrodestra. Tutti tentativi di rappezzare un sistema in grave difficoltà. L’ultimo di questi tentativi è il governo Renzi. Rafforzarlo significa rafforzare la continuità di questi rammendi. Il No, al contrario, renderà difficile mettere nuove toppe.

La vittoria del No rappresenta la possibilità di rompere la continuità?
Il No è la possibilità che i giochi si riaprano. Con un trauma, ma piccolo. Del resto ormai in tutti i paesi europei si esprime, in diversi modi, esigenze di cambiamento molto radicali.

Renzi invece oggi si presenta come una forza antisistema. Dice: «Il sistema è tutto schierato per il No». È singolare che un governo si presenti antisistema. E comunque è evidente il contrario: dalla Confindustria alle banche fino all’ambasciatore americano, il sistema è pesantemente schierato dalla parte di Renzi.

Però non tutto il No è «antisistema». Il No di Berlusconi, ammesso che alla fine voti No, è chiaramente di altra natura. 

Berlusconi sa, e dal suo punto di vista è giusto, che una vittoria del No lo metterebbe in una posizione di forza quando si ricostituirà un qualche tipo di Patto del Nazareno, cosa che accadrà in ogni caso. Ma la vittoria del No va al di là del contingente interesse tattico di ciascun protagonista. Sarebbe un’altra prova nella sfida al potere economico, abbastanza in linea con quello che succede in Europa, anche se con caratteristiche diverse.

Brexit è considerata una vittoria del vituperato populismo. 
La democrazia rappresentativa è in crisi ovunque, in Europa e non solo. E non a causa di alcuni anni di populismo ma a causa di decenni di svuotamento del potere politico da parte del potere economico. Oggi il problema delle democrazie occidentali sono le 500 multinazionali che governano il mondo, non i populismi. E il piccolo trauma sarebbe prenderne atto. Finché il potere politico sarà quasi impotente di fronte al potere economico la continuità è garantita. Il No è la critica alla continuità. Una possibile sfida al sistema.  

Negli Usa Trump è una sfida al sistema? 
Al di là dei protagonisti, negli Usa come nella Brexit si è espresso il voto degli svantaggiati della globalizzazione. E a questa crisi c’è una declinazione italiana. Ne ho appena scritto in Scacco alla superclass (Mimesis Edizioni, ndr), ovvero scacco a quel mondo che si riunisce a Davos non per decidere i destini del mondo – lo fa in altri luoghi – ma per celebrare il proprio ruolo. Nella postdemocrazia il potere economico ha preso la supremazia su quello politico. O la democrazia rappresentativa affronta il potere economico o è destinata a decadere.

In Italia comanda la finanza, non il governo Renzi?
Nella stessa misura dei governi che lo hanno preceduto. La crescita del populismo è l’espressione di questa crisi. Che si affronta solo se il controllo dei cittadini si estende dall’area della politica a quella dell’economia.

È l’elogio della cittadinanza a 5 stelle? 
I 5 stelle sopravvalutano la democrazia elettronica. Il sogno di Casaleggio in fondo era una democrazia diretta fatta di tecnologia informatica. Invece fare in modo che i cittadini si riapproprino della loro condizione è molto più complicato.

(Il Manifesto, 17 novembre 2016)