Vai al contenuto

Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

L’esercito in citta? «è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime»

Persone di cui tenere il nome in tasca: Roberto Cornelli, professore di Criminologia, ex sindaco di Cormano e ex Segretario di Milano Città Metropolitana per il PD. Ecco cosa scrive sulla questione milanese (di eserciti, violenza e tutto il resto):

«Un’avvertenza in premessa: sono discorsi difficili, forse non adeguati al mezzo che sto usando. Ma se non si prova a farli anche qui (oltre che nelle aule universitarie e nelle sedi scientifiche internazionali) temo che si perda un’occasione. 

Nelle metropoli talvolta capita che ci si uccida, all’incrocio di una strada come tra i muri di casa. A Milano capita molto più raramente che in altre metropoli d’Europa e del mondo. Ma quando capita la tragedia irrompe, travolgendo chi ne è coinvolto, i familiari, gli amici e la società intera, che rimane scossa dalla propria vulnerabilità e per la propria impotenza.
Che fare? Innanzitutto, ci si deve capire qualcosa di ciò che sta accadendo, e la tragedia, per essere comprensibile, deve avere un senso rispetto alla vita che quotidianamente conduciamo.
Ma che senso può avere per tutti noi l’uccisione di un uomo ad opera di un altro uomo?
Sono convinto che un omicidio che accade sia capace di scuotere profondamente le nostre fondamenta sociali, riportandoci ogni volta a temere ciascun altro come un potenziale nemico. Da qui la ricorrente richiesta di aumentare le protezioni, di moltiplicare i presidi di controllo, di militarizzare il territorio, di ritenere sicuro solo il mio spazio personale privatizzato.
Sono convinto però che un omicidio che accade possa spingerci anche a riflettere sul fatto che nella storia, quella vicina e quella lontana, gli uomini hanno smesso di uccidersi tra loro quando hanno iniziato a collaborare e, collaborando, a imparare sempre nuove modalità di relazionarsi con gli altri che prescindessero dall’uso della violenza. E’ un po’ come quando i bambini in età prescolare apprendono a convivere senza aggredirsi fisicamente, con drammi e fatiche immense (loro e di quelli che stanno loro intorno), e alla fine moltissimi ce la fanno. Gli uomini hanno iniziato a uccidersi sempre meno tra loro quando hanno imparato a stare in società quando gli atteggiamenti che hanno adottato e le istituzioni che si sono dati hanno potenziato il rispetto reciproco (non a caso nelle democrazie consolidate il tasso di omicidi è mediamente più basso).
Così, l’omicidio che accade entra in un’altra trama di significati, in cui proprio la paura di ripiombare in società violente ci spinge a ridare valore a un progetto di società che vede nell’affermazione della dignità di ogni persona un ancoraggio saldo per evitare che le tragedie diventino normalità.
Evidentemente non ho parlato di politiche di sicurezza, ma ritengo che sia proprio a partire da questa opzione culturale che si possa provare a reagire alle emergenze con progetti strutturati ed evitando di ricorrere sempre e solo a “sedativi sociali”, tanto facili quanto spesso inefficaci.

Sintesi per la stampa: la richiesta dell’esercito è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime (se non diventa cioè una richiesta ricorrente). Per il resto (per ridurre la violenza o assicurare alla giustizia gli autori) serve a ben poco. Può essere addirittura dannoso se concepito come LA soluzione.»

 

Expo 2015? Flop nel 2015 e bluff nel 2016

(Non le manda a dire Massimo Donelli. Eccolo qui)

L’Expo 2015?

Un simbolo del made in Italy.

Nel bene.

E nel male.

Il bene è presto detto.

Lo scorso anno, per sei mesi, da maggio a ottobre, il Belpaese ha messo in mostra i suoi gioielli: arte, design, cultura, cibo, grande ristorazione, fashion

Petto gonfio, applausi, inno nazionale, un po’ di sano sciovinismo.

E premio finale per Giuseppe Sala, detto Beppe, passato in men che non si dica dalla poltrona di commissario a quella di sindaco.

Evviva!

Il male?

Il male c’è, eccome.

Ma se ne parla poco.

Quasi niente.

Con fastidio.

Eppure è merce attualissima.

Vediamo…

Tanto per cominciare, passato un anno intero, non si è fatto niente.

Niente.

Un milione e centomila metri quadri perfettamente raggiungibili con i mezzi pubblici da Milano sono lì inutilizzati.

Certo, c’è il progetto Human Technopole, voluto fortemente da Matteo Renzi in persona: un grande centro di ricerca guidato dal direttore dell’Istituto italiano di tecnologia, il professor Roberto Cingolani

E, certo, c’è anche il progetto di realizzare lì il nuovo campus dell’Università statale di Milano.

Ma, come nel gioco delle tre carte (altra specialità made in Italy), nel testo ufficiale della legge finanziaria inviato al Quirinale se i fondi per Human Technopole ci sono (628 milioni, più gli 80 già stanziati, fino al 2022; 140 milioni dal 2023 in poi), quelli per il campus (138 milioni) sono spariti.

Non basta.

Ci sarebbe da chiudere la Expo 2015 Spa.

Ma servono 23 milioni e 690 mila euro.

Il governo ne aveva promessi 9.

E anche quelli sono stati cancellati.

Così come non è stato nominato un commissario straordinario liquidatore.

Ora, a parte il rischio (concreto) del fallimento, l’aspetto più inquietante riguarda aziende e lavoratori: dodici mesi dopo la chiusura, infatti, in molti debbono ancora essere saldati.

Brutta faccenda.

Così, smascherato il bluff e piovute da Milano critiche e minacce, il governo ha immediatamente riaperto l’ombrello delle promesse.

Stavolta il cerino, pardon il manico, è rimasto in mano al sottosegretario Claudio De Vincenti, non proprio un esponente di primo piano della squadra renziana.

Intervistato dal Corriere della sera, De Vincenti ha sdrammatizzato facendo su una bella insalata di parole.

Cui, naturalmente, si spera seguano i fatti (“Non possiamo permetterci tempi morti” ha avvertito Sala).

Ma, per ora – stando ai fatti, appunto – non c’è un euro.

Mica è finita.

Il quadro, già così triste, è divenuto addirittura tragico quando, negli stessi giorni della manfrina governativa, l’Expo 2015 è stato sporcato da velenosi liquami gudiziari.

Luigi Ferrarella, che sul Corriere della sera racconta le inchieste penali con rigore e imparzialità, ha cominciato così il suo articolo intitolato “Irregolarità nell’appalto Expo. Deregulation per fare in fretta”: “«Nonostante gli sforzi investigativi non si è giunti a provare l’esistenza» di tangenti, anche se «nell’aggiudicazione del principale appalto di Expo 2015», la «Piastra» da 272 milioni sulla quale sono stati costruiti i padiglioni, «vi sono state numerose anomalie e irregolarità amministrative sia nella fase della scelta del contraente» (la Mantovani che nel 2012 vinse con un ribasso del 42% sulla base d’asta, «non idoneo neppure a coprire i costi»), sia «nella fase esecutiva del contratto», quando le originarie obbligazioni contrattuali furono «modificate consentendo all’appaltatore di entrare in una anomala trattativa “al rialzo” con il committente, ponendo come contropartita la cessazione dei lavori, la cancellazione dell’evento e la credibilità del Paese»”.

Capito?

E non è tutto.

Ancora Ferrarella: “Il manager Expo Carlo Chiesa, sui «rapporti che Sala intratteneva con il presidente della Mantovani», nel 2014 disse ai pm che «Sala ripeteva che “in questo contesto l’unica cosa che non manca sono i soldi”, facendo capire la disponibilità della stazione appaltante a liberare risorse a favore dell’appaltatrice» Mantovani (a cui fu ad esempio affidata per 4,3 milioni la fornitura di 6.000 alberi che le costarono in realtà 1,6 milioni). E sulla scelta di Expo di non fare la verifica di congruità sull’offerta ribassata del 42% da Mantovani, è l’ex manager Ilspa Rognoni ad aver affermato nel 2014 che «Sala mi rispose» che l’orientamento era non farla «perché non avevamo tempo per poter verificare se l’offerta fosse anomala»”.

Insomma, pur di fare in fretta non si è badato a spese.

Letteralmente.

Salvo che, come abbiamo visto, i conti non tornano.

Per nulla…

Lo sospettavamo da tempo.

Lo abbiamo anche scritto.

Giusta intuizione, purtroppo.

Ma, come sempre, non tutti i mali vengono per nuocere.

Ora, per esempio, risulta chiaro perché il bilancio finale dell’Expo 2015 è stato avvolto a lungo nel mistero: a livello cassa, trattasi di flop.

E la colpa di chi è?

Beh, fate voi…

(fonte: Tv Svizzera, qui)

È sempre ‘ndrangheta sulla Salerno-Reggio Calabria

“Sono venuti quelli delle trivelle…mi ha detto…diglielo che sono scesi”. Sala colloqui, carcere di Palmi, 22 giugno 2011. Il boss e il suo contabile sono uno davanti all’altro. Il primo è Pasquale Bertuca. Il secondo, soprannominato “u Rappareddu”, è suo nipote Vincenzo Sottilaro che, oltre curare la gestione dei fondi della cassa comune, assieme alla madre Felicia Bertuca dispensa gli ordini del capocosca di Villa San Giovanni rinchiuso nella casa circondariale della Pianadi Gioia Tauro.

Tra gli interessi del boss ci sono anche le trivelle che servivano per le opere propedeutiche alla realizzazione del ponte sullo Stretto. L’anno prima, misteriosamente, sono state incendiate quelle di una ditta siciliana che aveva il compito di effettuare i sondaggi geologici nell’area di contrada Pezzo dove doveva essere interrato uno dei piloni del ponte. Una strana intimidazione per la quale il titolare dell’impresa aveva riferito di non aver ricevuto alcuna minaccia o avvertimento nei giorni precedenti.

Trascorrono i mesi ma il pallino della ‘ndrangheta è sempre quello: il ponte. Tra i 26 fermati questa mattina all’alba nell’operazione “Sansone”, contro la cosca Condello di Archi e i clan di Villa San Giovanni, c’è pure l’imprenditorePasquale Calabrese, detto “u Raia” che, “oltre ad essere impegnato nei lavori di ammodernamento dell’autostrada A3, – scrivono i pm della Dda di Reggio Calabria – svolge anche quelli connessi alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina”.

Per il procuratore Federico Cafiero De Raho e per il sostituto della Direzione distrettuale antimafia Giuseppe Lombardo, infatti, è proprio Calabrese che si occupa “dell’allestimento dei luoghi individuati per i sondaggi (a ciò servono le trivelle), propedeutici alle realizzazioni dell’A3 e del Ponte”.

“Le evidenze investigative raccolte – scrivono i pm nel provvedimento di fermo – hanno dimostrato che l’assetto imprenditoriale riconducibile al Calabresecostituisce lo strumento per favorire lo svolgimento delle attività delinquenziali a lui demandate dalla cosca di riferimento. È stato altresì accertato che trattasi di impresa riferibile sia all’imprenditore Calabrese Pasquale che al socio occulto Calabrese Domenico (anche lui arrestato, ndr) e che i predetti soggetti, oltre a devolvere sistematicamente una parte degli utili di impresa derivante dai lavori aggiudicati alla cosca Bertuca, a loro volta trattengono delle somme di denaro provento di estorsione in pregiudizio degli altri imprenditori locali e le reimpiegano nell’attività di impresa”.

L’operazione “Sansone” è uno dei filoni dell’inchiesta “Meta” che, nel 2010, aveva svelato gli intrecci tra la ‘ndrangheta di Archi e gli imprenditori asserviti ai boss. A distanza di sei anni, i carabinieri del Ros e del Nucleo investigativo hanno eseguito un provvedimento di fermo per 23 persone in carcere e 3 agli arresti domiciliari. Gli indagati, complessivamente, sono oltre 40 e tra questi c’è anche un esponente delle forze dell’ordine che avrebbe aiutato uno degli arrestati “ad eludere le investigazioni ed a sottrarsi alle ricerche” dei carabinieri.

Ma non ci sono solo i Condello. Nel mirino della Dda sono finite le cosche Zito-Bertuca, Buda-Imerti e Garonfolo. Gli investigatori, infatti, hanno girato le manette ai polsi di Andrea Vazzana (uomo di fiducia del boss Pasquale Condello detto “il Supremo”) ma anche dei vertici dei clan di Villa San Giovannicome Santo Buda, Alfio Liotta, Vincenzo Bertuca e Domenico Zito.

Boss, luogotenenti, raccoglitori di pizzo e uomini di collegamento tra i latitanti, i detenuti e la cosca. Ai 26 arrestati, la Direzione distrettuale antimafia contesta reati che vanno dall’associazione a delinquere di stampo mafioso all’estorsione, passando per la detenzione di armi, il favoreggiamento di latitanti e procurata inosservanza della pena.

Tra i fermati, infatti, ci sono anche i fiancheggiatori del boss Domenico Condellodetto “Micu u pacciu”, arrestato a Salice nella periferia nord di Reggio nell’ottobre 2012 dopo oltre vent’anni di latitanza. Dai lavori per la realizzazione del “Lido del finanziere” sulla costa Viola a quelli per il complesso edilizio “La Panoramica”. Tutti gli imprenditori dovevano pagare la mazzetta alla ‘ndrangheta. Anche la società messinese Mts (la cooperativa appaltatrice dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani del Comune di Villa San Giovanni) e le ditte che si occupavano della manutenzione straordinaria della sede della Direzione Marittima Calabria-Lucania e dellaCapitaneria di Porto.

E se una decina di anni fa, il boss Pasquale Bertuca era solito far comparire in ogni cantiere di opere pubbliche e private un cartellone dove con la vernice c’era disegnata una grande “mano nera”, quale “avvertimento di tipo mafioso”, adesso inviava dal carcere i suoi emissari per convincere gli imprenditori a “fare il regalino allo zio”. “Devo pagare l’avvocato” faceva sapere il boss attraverso i familiari che si recavano ai colloqui nel carcere di Palmi. Chi non versava è stato “ripagato” con un ordigno che solo fortunatamente non è esploso.

Per chi si opponeva ai desiderata della cosca, la ricetta è sempre quella di Felicia Bertuca che al figlio Francesco Sottilaro spiega cosa le ha riferito l’altro figlio detenuto su come comportarsi con un imprenditore che non voleva pagare: “… ma che li picchi, che li mandi all’ospedale gli devi dire che la facciano in culo …gli devi dire di seguire l’istinto”. L’inchiesta “Sansone” ha aperto uno squarcio sulle tensioni interne alla ‘ndrangheta dopo la cattura del latitante Domenico Condello. Ma ha dimostrato anche la capacita del boss Pasquale Bertuca e “della cosca in generale di infiltrarsi nell’amministrazione comunale di Villa San Giovanni”.

A proposito, nel provvedimento di fermo, spunta un’intercettazione in cui la sorella del boss riferisce al fratello che Vincenzo Cristiano (arrestato) “ha ricevuto un pensiero per sé e per Bertuca Pasquale da parte di ‘un amico che gli avevi fatto un favore… tu’ per ‘un coso del comune… una licenza’”. Nell’inchiesta, inoltre, è stato intercettato il sindaco di Villa San Giovanni Antonio Messina, nei giorni scorsi condannato in primo grado (assieme all’ex primo cittadino Rocco La Valle e ad alcuni assessori) a un anno di carcere per falso e abuso d’ufficio per la costruzione di un lido.

Sospeso dal prefetto Di Bari, così come prevede la legge Severino, il nome del sindaco Antonio Messina era finito già nelle carte anche dell’inchiesta “Fata Morgana” perché in contatto con l’avvocato Paolo Romeo, l’ex parlamentare del Psdi già condannato per  concorso esterno in associazione mafiosa e ritenuto la testa pensante della ‘ndrangheta reggina assieme all’avvocato Giorgio De Stefano.

(fonte)

Ma Renzi l’ha detto agli italiani all’estero che non voteranno più i senatori?

Che gustosa la vicenda della lettera di Renzi agli italiani all’estero: carta patinata, foto sorridenti con i potenti del mondo, grafica da offerta promozionale e qualche strafalcione tipico del volantinaggio feroce (il link sbagliato www.bastausi.it che porta a una pagina che illustra le ragioni del no è roba da Molière). Simpatica anche la scazzottata che si consuma sull’utilizzo degli indirizzi (il Comitato del No dice di avere avuto solo i nominativi) e sulle spese postali (che più o meno costano come un anno di CNEL, per dire) ma quello che mi interessa e che non mi pare sia stato scritto è altro. Nel merito, come va di moda ultimamente aggiungere a caso a qualsiasi boiata.

Gli italiani residenti all’estero non votano ovviamente né consiglieri regionali e nemmeno sindaci. Gli italiani residenti all’estero, come gli italiani residenti in Italia, non hanno voce in capitolo per la nomina dei senatori a vita. Quindi, senza dubbio di smentita, gli italiani residenti all’estero non avranno più nessun ruolo (diretto, indiretto e nemmeno di sguincio) nella futura composizione del Senato nel caso in cui passi questa riforma del Senato. E questo si sono dimenticati di dirglielo.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Nel merito. «Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria. Pericolosa sullo stato di guerra.»: parla il Generale Mini.

Intervista di Rossella Guadagnini al generale Fabio Mini (*)

Riforme, democrazia, governabilità e inganni. Ne parliamo con una voce fuori dal coro, un uomo che per 46 anni è stato nelle Forze Armate e oggi si definisce molto progressista. Ci racconta di una legge ‘immaginaria’ e di un Parlamento ‘defraudato’, di una maggioranza non rappresentativa del Paese e di una ‘guerra fredda interna’ all’Italia. Di spazi informativi pubblici a favore del marketing governativo e di una grande festa della dis-unità a cui, volenti o no, siamo tutti invitati.

D. Generale Fabio Mini cosa pensa delle riforme costituzionali?

R. Non sono contrario alle riforme costituzionali, ma sono nettamente contrario a questa riforma. Respingo il sillogismo che chi vota “sì” vuole un’Italia “efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in Europa” e chi vota No vuole “un’Italia idiosincratica ed eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre”. E’ un sillogismo apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e offende chi non lo condivide. E’ il primo segnale che la riforma proposta intende dividere gli italiani ed io penso invece che una Costituzione debba unire i cittadini.

D. Il fronte del No è molto variegato e ispirato da ideologie addirittura opposte: come si conciliano?

R. Personalmente, mi schiero con il No proposto da un Movimento di cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell’Italia unita e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e  intendono affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa. Non condivido l’obiezione che il No sia improponibile perché voluto anche da partiti e movimenti d’ispirazione fascista, veterocomunista, populista e quant’altro, che vogliono soltanto la caduta del governo. Non condivido le loro finalità, ideologie e prassi, ma riconosco legittime e fondate alcune delle loro motivazioni. Sono infatti queste comuni motivazioni a fare del No un fronte trasversale espressione di molte anime, e non di un pensiero unico, e quindi – nel suo complesso – essenzialmente democratico.

D. Con il No cosa succederebbe al Governo ?

R. Non collego il No alla caduta del Governo. Penso che sia stata una grossa sciocchezza legare il Referendum alla sopravvivenza politica del capo del Governo: un narcisismo inopportuno che non è finito con la tardiva e strumentale ammissione dell’errore. Anzi è stato fatto qualcosa di peggio, perché tutto l’esecutivo, a partire dal suo vertice, ha riversato sull’Italia la prospettiva di fallimento e sfascio nazionale in caso di prevalenza del No, alimentando così la disunione all’interno e i sospetti d’instabilità nazionale all’esterno. Viste le conseguenze in campo internazionale e nella speculazione economica a danno dell’Italia, questa operazione, in altri tempi e Stati, sarebbe stata considerata e perseguita come “Alto tradimento”. Da noi è una “furbata”. Dopo il voto ciascuna parte politica dovrà trarre le conclusioni e agire di conseguenza, ma se il Referendum non realizza una massiccia affluenza alle urne nessuno potrà veramente cantare vittoria: avrà perso l’Italia. E il conteggio dei voti dovrà far riflettere invece di far gioire. La prevalenza risicata del “si” inasprirà ancor di più il clima politico e indurrà il Governo a irrigidirsi su posizioni non condivise. Secondo me, tutto questo porterà nel giro di breve tempo alla fine dell’esecutivo o della stessa legislatura. Se dovesse prevalere il No, tecnicamente sarebbe soltanto il rinvio della Riforma e con questo Parlamento il Governo potrebbe restare in carica fino al termine di legislatura. Ma gli equilibri politici sarebbero mutati e il Governo non potrebbe imporsi sul Parlamento come ora. Non è detto che questo sia necessariamente un male. Inoltre, se oggi il No di altri gruppi tende solo allo sfascio del Governo bisogna riflettere sulle ragioni e le responsabilità di tale atteggiamento. In questi ultimi anni il dissenso democratico non ha avuto né attenzione né alternativa onorevole. Quando quasi mezzo Parlamento è costretto a lasciare l’aula, per non essere coinvolto in uno schema  che non condivide e i restanti festeggiano come allo stadio, si celebra l’effimera vittoria di una parte e si detta il necrologio della democrazia.

D. Entrando nel merito della riforma, perché vota NO?

R. E’ stato detto che questa riforma, “dopo un dibattito trentennale infruttuoso e controverso”, era diventata improcrastinabile. Non è stato detto che la controversia non derivava dalla carenza di norme, ma dalla necessità (riconosciuta dalle stesse commissioni bilaterali e da tutti gli altri proponenti di riforme alla Costituzione) di procedere alle riforme con il più largo consenso delle forze politiche. Lo stesso meccanismo dell’articolo 138 della Costituzione, prevedendo più esami incrociati tra Camera e Senato, cauti passi successivi e tempi di riflessione intendeva promuovere un largo consenso. Tant’è che nel caso esso fosse venuto a mancare si prevedeva la possibilità di ricorrere alla consultazione diretta del popolo. Ora, si è arrivati a questa riforma pasticciata e opaca perché invece di ricercare il largo consenso si è preferito imporre la volontà di una maggioranza non rappresentativa della Nazione. Abbiamo assistito a manovre di qualsiasi genere, a ricatti politici, disinformazione, emarginazione dei dissidenti o soltanto dei non favorevoli, sostituzione di membri di commissioni parlamentari scomodi, agitazione di spauracchi, promesse populistiche, ghigliottine, canguri, sedute fiume e molto altro. Di peggio è avvenuto nell’ombra. La forma non è stata violata, ma il metodo si è rivelato ingiusto e scorretto perché nel frattempo la rappresentatività parlamentare e governativa era passata, con successive “porcate” e “leggi incostituzionali”,  dal sistema proporzionale a quello maggioritario a sbarramento. E soprattutto perché le finalità della riforma erano e rimangono tanto confuse da giustificare ogni sospetto di manipolazione.

D. Lo ritiene un fenomeno nuovo?

R. No, ma nel passato, quando gli obiettivi delle riforme costituzionali erano chiari, puntuali e condivisi sono state promulgate leggi costituzionali senza difficoltà. Dal 1948 ad oggi sono state approvate 38 leggi costituzionali tra cui provvedimenti importanti come le pari opportunità, l’abolizione della pena di morte anche per i reati militari in tempo di guerra, il voto degli italiani all’estero, l’estradizione per delitti di genocidio, il giusto processo, il pareggio di bilancio ecc. I problemi si sono posti quando le riforme si presentavano strumentali o soltanto imparziali e soprattutto quando rispecchiavano interessi di potere particolari e clientelari.

D. La riforma vorrebbe snellire la burocrazia legislativa, ridurre i costi della politica.

R. Purtroppo questa riforma non snellisce e non fa risparmiare. Si sarebbe invece risparmiato molto utilizzando strumenti legislativi ordinari senza scomodare la Costituzione. E anche ammettendo che ci sia qualche risparmio sul piano contabile, la riforma comporta costi enormi  in credibilità delle istituzioni, bilanciamento dei poteri e quindi in democrazia. Non sono costi teorici o morali, a ognuno di tali elementi sono collegate pratiche politiche e amministrative che se non adeguatamente controllate generano corruzione, sprechi, abusi di potere, imposizioni di tasse esose, aumento del debito e dissoluzione dei rapporti di fiducia tra Stato e cittadini. E’ vero, ci è stato detto che   “Abbiamo bisogno di capacità decisionali e di procedimenti legislativi più rapidi e non di un sistema immaginato e pensato a quei tempi, in cui forse si credeva si dovesse decidere raramente”. Ebbene, dobbiamo ricordare che  la rapidità non è sinonimo di migliore qualità o efficacia dei provvedimenti. Anzi. Siamo ancora impantanati  nei problemi creati dalla fretta dei governi e dalle loro false priorità. Inoltre, il sarcasmo fuori posto è sempre una forma di denigrazione e, in questa frase, è chiara la volontà di delegittimare un’Italia che i denigratori  non hanno né conosciuto né studiato.

D. Cosa trascurano?

R. Più che trascurare, in realtà non sanno e quindi non possono nemmeno ricordare. Questo progetto fa parte dello schema di rottamazione non di ciò che non funziona, ma di ciò che non si conosce. Siccome l’ignoranza è molta, non deve stupire che la cosiddetta rottamazione colpisca a vanvera in molti settori. Se i denigratori non possono ricordare, potrebbero ascoltare, ma di solito l’ignoranza va di pari passo con l’arroganza e perciò bisogna accontentarsi di dire cose che non ascolteranno mai. Noi però possiamo ricordare che quel sistema immaginato nel 1948 è stato realizzato e ha preso le decisioni più difficili della nostra storia. Con successi e insuccessi abbiamo recuperato credibilità internazionale, risollevato l’economia, affrontato emergenze naturali senza scandali, combattuto il terrorismo e la mafia, ristrutturato le Forze Armate e le abbiamo spedite in ogni angolo della Terra a rappresentare l’Italia e abbiamo raggiunto il quarto posto fra sette delle maggiori economie (G-7). Poi, con una breve stagione di “decisionisti” e  fantasiosi innovatori abbiamo decuplicato il debito nazionale, aumentato la disoccupazione e il precariato, diminuito la nostra competitività. Infine, grazie alle virtù taumaturgiche del mercato, dei tecnocrati e dei rottamatori abbiamo centuplicato il debito e siamo stati malamente coinvolti in una crisi che non ci avrebbe riguardato così da vicino, se non avessimo avuto immaginifici finanzieri di Stato e speculatori privati rivolti esclusivamente allo sfruttamento delle bolle finanziarie.

D. E oggi come siamo messi?

R. Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria e siamo più deboli in Europa, sminuiti nella capacità di sicurezza,  succubi delle decisioni altrui, allontanati dai tavoli di discussione globali ed europei, ultimi nella graduatoria del G7, incapaci di provvedere al rilancio dell’economia e costretti ad elemosinare non denaro (che nessuno regala), ma la possibilità di fare altri debiti. Non si può addossare la responsabilità di tutto questo solo al sistema bicamerale o ai governi del passato. Negli ultimi dieci anni sono state approvate più leggi richieste dal Governo che quelle promosse dal Parlamento. In alcuni periodi delle legislature passate e di quella presente si è legiferato con le procedure di urgenza su cose che non erano affatto urgenti, si sono blindate leggi e leggine d’iniziativa governativa (109 in questa legislatura), facendo ricorso eccessivo ai colpi di maggioranza, alle deleghe al governo (13 a quello attuale su temi  fondamentali come lavoro, scuola, comunicazione pubblica ecc.) e al voto di fiducia al governo (ben 56 volte negli ultimi due anni e mezzo). Oggi non andiamo a votare per migliorare, ma per  istituzionalizzare un Parlamento defraudato del potere legislativo e assoggettato al potere esecutivo molto di più di quanto non lo sia già ora.

D. Un altro elemento su cui insistono i fautori della riforma è la governabilità. Argomento convincente, a suo parere?

R. La “governabilità è ormai un dogma. Ma non è un’invenzione di oggi. Il tema è stato sollevato per primo da Bettino Craxi (fine anni ‘70), quando con i voti di un partito largamente minoritario voleva guidare per sempre l’intero Paese. Non a caso parlava di governi di legislatura (che stessero al governo “certamente” almeno per turni di 5 anni) o di “governo presidenziale”, pensando di diventare presidente. Ma i governi erano comunque coalizioni di grandi partiti che godevano anche dell’appoggio esterno di alcune opposizioni. La democrazia non era in pericolo, semmai era evidente l’insofferenza di un leader carismatico nei confronti dei grandi partiti. Lo stesso tema fu affrontato da Spadolini nel 1982 in maniera geniale, anche se inattuabile. Anche lui leader carismatico, esponente di un partito abbondantemente minoritario, ma giuridicamente molto più preparato di Craxi, individuò il collante fra le coalizioni, non nell’egemonia del partito più numeroso, ma in una presunta forza istituzionale del Presidente del Consiglio. Di fatto, sostituiva la forza dei partiti con la forza del ruolo di Capo del Governo. Intendeva istituire il “regime del primo ministro” al posto del “regime dei partiti”. “Perché -diceva- il governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche per chi ancora non vota e voterà domani». Era una proposta al limite della liceità costituzionale e valeva finché ci si credeva. Ma lui era Spadolini e governò a modo suo, non per molto, ma senza modificare una sola virgola della Costituzione. Nel caso si fosse resa necessaria una riforma, Spadolini ebbe a dire: “Il governo ricercherà sempre con l’opposizione lo “idem sentire de Constitutione”. Questa riforma è lontana anni luce dall’idem sentire di Spadolini e di tutti i Padri costituenti. Non vuole eliminare “il regime dei partiti”, ma istituire il regime di un partito, anche se oggettivamente non maggioritario, come lo sono tutti i grandi partiti di oggi.

D. E’ stato detto che la riforma è necessaria per realizzare “un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione Europea, Stato e Autonomie territoriali”.

R. Magari lo fosse, e magari fosse stato spiegato chiaramente cosa sarebbe necessario. E’ stato invece raffazzonato un discorso che parla di razionalizzare “alla luce dei provvedimenti già presi in relazione allo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale”. Sono parole testuali della proposta, ma più che un proposito, lo sproloquio sembra una “captatio benevolentiae” nei confronti dell’Europa. Una inutile piaggeria, che non ha più senso visto che l’integrazione europea è più lontana che mai, la governance europea è in crisi grazie anche agli atteggiamenti estemporanei del nostro governo (prima, durante e dopo Bratislava) e che nella cosiddetta riforma non c’è nulla che risponda alle sfide “dell’internazionalizzazione economica”. Oggi in campo internazionale siamo ad un livello di guerra fredda molto vicino alla guerra calda tra blocchi contrapposti, come nel 1946, in Europa, in Asia e quindi in tutto il mondo. Gli equilibri stanno cambiando rapidamente e in modo pressoché incontrollato. Gli stessi Stati Uniti non sanno dove andare e domani forse scopriranno di non voler e non poter andare da nessuna parte. Oggi, in Italia siamo sicuramente in piena guerra fredda interna: da vent’anni siamo prigionieri di una dicotomia fra destra e sinistra che ancora parla di comunismo e fascismo. Grazie all’arroganza di partiti personalizzati il Paese è spaccato apparentemente in due, ma sostanzialmente in cento pezzi.

D. E’ una questione che riguarda esclusivamente i partiti politici?

R. No, è dovuta anche all’avidità dei poteri economici, industriali e finanziari che sostengono i partiti per i propri interessi, i quali non necessariamente coincidono con l’interesse collettivo, meno che mai con il bene pubblico. Ma i partiti hanno un’aggravante: hanno interpretato l’articolo 49 della Costituzione come l’investitura di ciascuno di essi alla rilevanza costituzionale. Il segretario di un partito si sente – e di fatto è stato considerato dagli stessi presidenti della Repubblica – come un “organo costituzionale”. In realtà l’articolo 49 stabilisce la libertà dei cittadini di associarsi in partiti, ma non assegna a essi altra funzione se non quella di permettere che i cittadini concorrano con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La rilevanza costituzionale è dei cittadini, non dei partiti. In realtà i tre partiti maggiori del panorama italiano non assicurano affatto il metodo democratico, ma quello monocratico o al massimo oligarchico, autoritario e personalizzato. Non danno alcuno spazio di dissenso al loro interno e sono da tempo impegnati in una delegittimazione reciproca che ha prodotto la sclerosi delle strutture interne e la completa sfiducia dei cittadini nella politica in generale.

D. Eppure questa riforma è passata con l’avallo del Parlamento.

R. Certo, ma non nella misura necessaria alla sua promulgazione. Tant’è che andiamo al Referendum proprio perché non è stato raggiunto l’accordo richiesto dalla stessa Costituzione. In compenso ci è stato detto che questa riforma ha rispettato tutti i parametri costituzionali e democratici. In realtà, l’iter di questa riforma, come quella bocciata nel 2006, è stato caratterizzato dalla prevalenza del metodo “a colpi di maggioranza”, abbandonando l’equilibrio previsto dalla Costituzione tra leggi “consensuali” e “maggioritarie”.  Si è invece rafforzata la presunta equivalenza fra principio democratico e principio maggioritario. Le modifiche alla Costituzione o alla forma di governo e della rappresentanza (come nel caso della legge elettorale) scaturiscono dalla convenienza della maggioranza di turno: nel periodo 2000-2015, ben nove (su dieci) leggi di revisione della Costituzione sono state approvate con i soli voti della maggioranza parlamentare, senza cercare larghe intese all’interno delle forze.

D. La nuova legge ha il sostegno di intellettuali, sindacalisti, forze economiche e finanziarie.

R. Non mi sorprende. Molti sono in buona fede perché attratti dal canto delle sirene sui risparmi e sulla limitazione dei politici o soltanto dalla voglia di punire il sistema o i partiti avversari. Alcuni poteri cosiddetti forti sono attratti dalla prospettiva di avere un governo a propria disposizione. Altri pensano alla pancia quotidiana e sostengono chi promette di più o elargisce elemosine elettorali. Qui il governo ha buon gioco perché è l’unico in grado di promettere, anche se sa benissimo di non poter mantenere. Ma è soltanto un escamotage che deve durare un mesetto ed è una sorta di competizione sleale perché gli oppositori, non essendo in campagna elettorale per la legislatura, non possono promettere niente altro che la fine del governo. Aumentando così l’incertezza di chi spera nei bonus e la diffidenza degli stranieri.

D. A detta dei fautori del Sì, non vengono alterate le Istituzioni democratiche. E’ così?

R. Secondo la definizione socio-economica più moderna e coerente, lo scopo di una “Istituzione” (e il Senato è una Istituzione) è quello di garantire la corretta applicazione delle  norme stabilite tra l’individuo e la società o tra l’individuo e lo Stato, sottraendole  all’arbitrio individuale e all’arbitrio del potere in generale (Haidar J.I.-2012). Ebbene, questa riforma nega e offende le Istituzioni democratiche: nei fatti stravolge l’impianto istituzionale dello Stato aumentando l’arbitrio individuale, o di un gruppo, e l’arbitrio del potere in generale. Il mio non è un giudizio teorico o di principio. Come uomo, soldato e cittadino con oltre 46 anni di servizio nell’ambito di una istituzione fondamentale come le Forze Armate, deputate alla difesa della Patria, anche in guerra, non posso condividere una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione.

D. Ma la guerra non è un’evenienza remota?

R. E’ vero che sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che ormai scendono in guerra per ogni cosa. Ma anche loro, pur chiamando ‘guerra’ qualsiasi sforzo interno ed internazionale, pur individuando nemici in ogni interlocutore, pur usando gli strumenti di guerra come prima risorsa d’emergenza e pur avendo inventato la guerra preventiva che non previene, ma anzi anticipa la guerra, sono ben attenti ad evitare con cura qualsiasi dichiarazione formale di guerra. Oggi, specialmente da parte dei Paesi europei e della Nato, la guerra si fa senza dichiararla o semplicemente cambiandone il nome. E, comunque, neppure l’impegno della Nato nella difesa collettiva (articolo 5 del Trattato) costringe in modo automatico ad intervenire con le armi. Ogni Paese membro può (e deve) scegliere in che maniera contribuire alla difesa collettiva.

Tuttavia, se la norma che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non lo è affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo caso, l’abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a partire dall’atto più drammatico delle loro funzioni: la deliberazione sulla guerra. Il Parlamento riformato ha uno squilibrio a favore della Camera e questa, per effetto della legge elettorale maggioritaria e dei premi di maggioranza esagerati, ha uno squilibrio a favore del Governo. Di fatto, il nuovo Parlamento e lo stesso Governo cessano di essere organi legislativi rappresentativi di tutto il Paese e perdono la qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome del popolo italiano e quindi anche la facoltà di assumere ogni altra decisione che comporti analoghi sacrifici per tutta la popolazione e il trasferimento di risorse, poteri e funzioni da una istituzione all’altra.

D. Sono squilibri pericolosi ?

R. Nella sostanza sì. Se tali squilibri consentono di accelerare le decisioni del Governo in nome della cosiddetta governabilità, non è detto che favoriscano solo i provvedimenti giusti ed equanimi, adottati in nome e per conto del bene pubblico. Abbiamo continuamente esperienze di provvedimenti ad personam e a favore di gruppi di potere e di avventure che non hanno nulla a che vedere con il bene pubblico. Il Senato riformato  che non è più una Istituzione, perché non ha poteri equilibratori nell’ambito del Parlamento, è una costosa conferenza saltuaria di amministratori locali, la cui legittimazione nell’incarico “complementare” dipende dall’arbitrio di chi li ha  designati. Voto No all’eliminazione dell’equilibrio dei poteri e dei contrappesi istituzionali che di fatto conduce all’arbitrio del potere del partito di maggioranza del momento. Voto No al vilipendio delle istituzioni parlamentari (e non solo) esercitato da un partito che designa parlamentari e senatori non per esigenze di rappresentatività, ma per clientelismo e corruzione. Voto No perché non voglio essere rappresentato in Parlamento e nelle altre istituzioni nazionali ed europee da personaggi ignoranti, compromessi, immorali e pregiudicati. Abbiamo già vissuto il tempo del disprezzo nei confronti delle nostre Istituzioni  quando a occuparle venivano designati amici, clienti e compagni o compagne d’alcova. Me ne sono vergognato profondamente quando in campo internazionale, politico e militare, si lanciavano battutacce sui nostri governanti. Voto No perché ciò non si ripeta. E comunque non si ripeterà con il mio sostegno o la mia indifferenza.

D. Riflessioni come le sue hanno avuto la possibilità di raggiungere i cittadini?

R. Se lo hanno fatto non è certo per merito del Governo o della comunicazione pubblica. Ci avevano detto di voler rispettare le regole democratiche anche nella comunicazione. In realtà le voci di coloro che, come me, hanno servito lo Stato e difeso le istituzioni democratiche con disciplina e onore, e quelle di coloro che, come tantissimi,  hanno lavorato per l’Italia rappresentandone l’eccellenza culturale, tecnologica, economica, istituzionale e di solidarietà sono state soffocate dal vocio della propaganda di Stato. Ben prima della decisione di ricorrere al Referendum il Governo intero ha occupato tutti gli spazi di comunicazione, tramutando il legittimo sostegno a una propria proposta in bagarre affaristica e campagna ideologica a dispetto e scapito dell’equilibrio e dell’unità nazionale. Con il ricorso al referendum, la consultazione si è trasformata in una sfida tra sì e no, a prescindere da cosa significassero. C’è stata la conta degli amici e dei nemici, dei clienti riconoscenti e dei candidati a posti e poltrone accondiscendenti. La giusta perorazione della causa riformistica è stata volutamente personalizzata, fino a farla diventare una scommessa sulla stessa sopravvivenza del Governo. Come tutte le scommesse è stato un gioco, un azzardo, un bluff, un rischio e un ricatto sostenuti da una mobilitazione mediatica senza precedenti. Ogni canale di discussione moderata e costruttiva è stato occupato da comizi e spettacoli celebranti una grande festa della Dis-Unità. Gli spazi d’informazione pubblica (una risorsa di e per tutti) sono stati spesi (anche in senso economico) solo a favore del marketing governativo, in Italia e all’estero.

D. Come definirebbe la sua posizione, conservatrice o progressista?

R. Direi molto progressista. Esprimo il mio No a questa riforma  con spirito costruttivo, perché  non voglio che il mio Paese rimanga intrappolato in un sistema che assegna i poteri dello Stato a una maggioranza risicata e faziosa, frutto dell’allontanamento dei cittadini dalla politica, senza nessun organo di controllo e bilanciamento dei poteri. Mi è stato fatto osservare che in tutti i Paesi del mondo “va al comando” il partito di maggioranza relativa, e che l’evanescenza delle opposizioni non dipende dalla legge elettorale. E’ vero, e infatti non ho mai apprezzato il concetto di un partito “al comando”. I partiti dovrebbero essere al servizio della comunità, esattamente come le istituzioni, i governi e le amministrazioni pubbliche.

Ma anche dove i partiti godono di ampia maggioranza ci sono differenze sostanziali.  Ho vissuto abbastanza a lungo nei due paesi a sistemi opposti per capirne gli effetti: la democrazia americana e il regime del partito comunista cinese. La democrazia americana non è tale perché votano i cittadini, che fra l’altro non votano per eleggere l’uomo al comando, ma perché esistono istituzioni in grado di limitare gli abusi del potere. Il Congresso, a prescindere dalla maggioranza del momento, è il più feroce censore del potere esecutivo. La magistratura suprema segue a ruota, ma una serie di comitati parlamentari hanno poteri che possono indirizzare e raddrizzare la politica del governo. Inoltre, spesso sono gli stessi partiti, i media, le lobby e i comitati di cittadini a limitare i propri leader.

In Cina c’è un partito che occupa tutto e impone la propria politica a tutti. Si avvale di strutture legislative permanenti per gli affari correnti e di un’assemblea annuale dei rappresentanti del popolo per approvare le grandi leggi: si vota per alzata di mano su ogni proposta e si torna a lavorare. C’è anche una sorta di senato: è la Conferenza Consultiva che raggruppa i rappresentanti dei partiti, varie etnie, associazioni popolari, amministratori locali e personalità indipendenti. Non ha alcun potere effettivo ed è diretta dallo stesso Partito Comunista, che comunque la utilizza come foglia di fico per spacciare una parvenza di democrazia. In Cina il vero equilibrio fra i poteri e la garanzia di una dialettica politica si realizzano all’interno del partito stesso che è tutt’altro che monolitico o cristallizzato. L’ostentata ammirazione per il sistema americano da parte del nostro Governo è smentita proprio dalla riforma: il sistema che vuole instaurare con la riforma è lontanissimo da quello americano e vicinissimo al sistema cinese. Con due  differenze: da noi il partito di regime non assicura alcuna dialettica equilibratrice interna e i rappresentanti alla Camera bivaccano in permanenza a Roma.

D. E l’intervento popolare tramite il Referendum?

R. E’ importante ma non sarà determinante finché la partecipazione non sarà veramente significativa. Non si può ricorrere sempre ai referendum per colmare le incapacità della politica, anche perché gli stessi referendum costituzionali, che dovrebbero essere i più importanti, dimostrano la disaffezione popolare nei confronti della politica e s’indeboliscono nella capacità effettiva di rappresentare la Nazione. Alla prima consultazione referendaria sulla Costituzione della nostra storia, il 7 ottobre 2001,  si recò a votare solo il 34,1 % degli aventi diritto e i voti validamente espressi furono per il 64,2 % favorevoli alla modifica costituzionale: erano appena il 21% degli aventi diritto. Alla seconda, quella del 25-26 giugno 2006, votò il 52,30% degli aventi diritto e la legge voluta da Berlusconi fu respinta dal  61,32% dei votanti: appena il 32% degli aventi diritto.

D. Come riassumerebbe le sue motivazioni?

R. Voto No ad una riforma che spacca il paese e prelude ad una frattura ancora più ampia e pericolosa fatta di disprezzo per le Istituzioni, rigetto delle opposizioni, soppressione delle minoranze  e ghettizzazione delle intelligenze non allineate: tutti segni storicamente premonitori di dittatura e  guerra civile.

Voto No perché il sistema proposto è già in atto e non funziona, anzi mortifica le istituzioni e minaccia la democrazia. Soltanto con il No  si può pensare di rettificare questo stato di fatto e avviare la stagione delle riforme equilibrate ed efficaci.

Voto No perché il governo, qualunque esso sia, e le istituzioni nazionali a partire dal 5 dicembre si dedichino a risolvere i problemi strutturali  che gravano sulla nostra nazione, i problemi della ripresa economica, di compattazione sociale e di disaffezione politica e formuli  finalmente un progetto per riunire i cittadini italiani e le forze politiche attorno ad una Costituzione rinnovata ma condivisa.

Voto No oggi per avere domani (e non dopodomani) la possibilità di vedere una riforma seria e corretta.

Voto No perché mi si chiede di esprimermi con un monosillabo su un insieme di elementi disomogenei, appartenenti a materie molto diverse e  dagli effetti indecifrabili se non indagati dal punto di vista tecnico-giuridico. Invece di approfondire e sviscerare tali aspetti, mi si chiede di votare senza considerarli, quasi a voler nascondere il fatto che proprio tra essi  si annidano tutti gli elementi distruttivi e destabilizzanti della riforma. Mi si chiede un voto di fiducia cieca, ideologico, che non lascia a me, e a nessun cittadino libero di ragionare con la propria testa, altra alternativa che il No.

D. Secondo lei, è questa l’ultima occasione per fare le riforme?

R. Il No è l’ultima occasione per  stroncare sul nascere i propositi inaugurali di una stagione di continue ulteriori modifiche alla Costituzione, rese via via più facili e incontrollate da questa stessa riforma, tendenti a stravolgere completamente l’assetto istituzionale del nostro Stato. In questo senso, non mente chi dice che il 4 dicembre non è un traguardo finale, ma uno striscione di partenza. Tuttavia, soltanto con il No parte l’Italia Unita, di tutte le fedi e convinzioni, per riaffermare la Democrazia, la Giustizia e la Libertà volute da tutti gli Italiani che per esse hanno sofferto privazioni, vessazioni, torture e che per esse hanno versato il proprio sangue in guerra e in pace. In caso contrario, con il Sì,  parte la vera corsa al potere assoluto di una maggioranza di palazzo. Anche questa è stata una delle cause storiche delle dittature, delle guerre civili, dei colpi di stato, delle rivoluzioni.

 .

(*) Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata, è stato capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle Operazioni di pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force).

Quando il Kuwait divenne un incendio petrolifero

L’estratto che segue è tratto dal libro di Sebastião Salgado Kuwait: A Desert on Fire, che uscirà il 23 novembre per Taschen e in cui il fotografo brasiliano spiega cosa l’ha spinto a immortalare gli incendi appiccati dai soldati iracheni ai pozzi di petrolio nel 1991, e perché ha deciso di pubblicare queste immagini un quarto di secolo dopo. 

Fu una coincidenza: ero in Venezuela a fotografare le raffinerie quando sentii che i pozzi petroliferi del Kuwait erano in fiamme. Le notizie della catastrofe allarmarono il Venezuela, dove per motivi di sicurezza si impedì l’accesso ai giacimenti agli stranieri—io venni prontamente espulso dalla regione petrolifera intorno a Maracaibo. A quel punto, il mondo intero sapeva che una coalizione militare, guidata dagli Stati Uniti, si preparava a costringere l’esercito iracheno a lasciare il Kuwait. Il successo di quell’operazione avrebbe segnato l’inizio di un’era di instabilità in Medio Oriente che continua tutt’ora.

Non appena le forze alleate entrarono in Kuwait a metà del febbraio 1991, ponendo fine al sogno espansionistico di Saddam Hussein in sole due settimane, mi resi conto che la “vera” storia si sarebbe fatta nei giacimenti petroliferi del Kuwait, dove più di 600 pozzi furono dati alle fiamme e altri danneggiati in modo permanente. Chiamai Kathy Ryan, photo editor del New York Times Magazine, e mi proposi per coprire quella storia. Mi rispose entusiasta, e io iniziai il mio progetto.

a-desert-on-fire-kuwait-photo-book-excerpt-salgado-675-1478791428

Il petrolio era l’alfa e l’omega della storia dell’invasione irachena. Baghdad insisteva sul fatto di avere storicamente diritto ai territori del Kuwait, ma il vero motivo che aveva fatto andare Saddam Hussein fuori dai gangheri era che pensava che la sovrapproduzione di petrolio in Kuwait ne danneggiasse il prezzo sul mercato internazionale. Inoltre, credeva che, nell’esteso giacimento di Rumayla, a cavallo del confine tra Kuwait e Iraq, il Kuwait usasse il cosiddetto “slant drilling” per rubare petrolio dal suolo iracheno. Con l’annessione del Kuwait, l’Iraq non solo avrebbe potuto sfruttarne le riserve petrolifere, ma anche accrescere la propria influenza sul mercato internazionale. Almeno all’inizio, questa era per Saddam Hussein una punizione sufficiente per la famiglia reale del Kuwait detronizzata.

Ma presto dovette cambiare i suoi piani, quando divenne chiaro che il suo esercito sarebbe stato sconfitto da una coalizione internazionale e dall’operazione Desert Storm. Nel gennaio 1991, i soldati iracheni iniziarono ad appiccare fuoco ai pozzi del Kuwait, riuscendo in almeno uno degli obiettivi di Saddam Hussein—far salire i prezzi del petrolio. Il dittatore iracheno pensava anche che sabotare i giacimenti petroliferi avesse un’importanza strategica. Il fumo scuro dei pozzi in fiamme limitava la visibilità per le forze aeree della coalizione, fornendo protezione alle truppe di terra irachene. Inoltre, venne dato l’ordine di scavare lunghe trincee da riempire con petrolio infuocato per rallentare l’avanzata di carri armati e artiglieria pesante della coalizione. Comunque, il 28 febbraio l’occupazione irachena del Kuwait finiva, lasciando dietro a sé i pozzi in fiamme.

(continua sui Vice, qui)

Nel merito. Luigi Ferrajoli «secondo questi l’inettitudine dei governi che si sono succeduti sarebbe colpa della Costituzione?»

(di Lorenzo Dilena per Gli Stati Generali)

Magistrato, professore universitario, allievo di Norberto Bobbio e teorico del garantismo e della democrazia costituzionale di fama internazionaleLuigi Ferrajoli, 76 anni, è il giurista italiano che ha espresso la bocciatura più dura e radicale della legge costituzionale che sarà sottoposta a referendum confermativo il prossimo 4 dicembre.

Professor Ferrajoli, sulla riforma Renzi-Boschi lei ha espresso un triplice No: nel principio, nel metodo, nel merito. Partiamo dal primo punto: che cosa critica in linea di principio nella riforma voluta dal Governo Renzi?

La riforma proposta non è una revisione della Costituzione, ma è un’altra costituzione: vengono cambiati 47 articoli su un totale di 139. E questo non è consentito: l’unico potere ammesso dall’articolo 138 della nostra Costituzione è un potere di revisione. Da questo discende il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un “potere costituito” dalla Carta, in un “potere costituente” non previsto dalla nostra Costituzione.

Una riforma contro la Costituzione della Repubblica del 1948?

Anche a voler tralasciare il fatto pur rilevante che questo Parlamento è stato eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale, resta che la nostra Costituzione non prevede l’approvazione di una nuova costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che decidesse a larghissima maggioranza, ma solo singoli e puntuali emendamenti.

Se, come lei sostiene, questa riforma ha travalicato i limiti dell’articolo 138 perché il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha esercitato la facoltà di rinviare la legge alle Camere e chiedere una nuova deliberazione?

È una domanda che in molti abbiamo sollevato e non ha ancora avuto alcuna risposta. Il presidente Sergio Mattarella avrebbe ben potuto, in base all’articolo 87 della Costituzione, inviare un messaggio alle Camere per ricordare taluni principi elementari: come la necessità che le riforme costituzionali siano approvate con la più ampia maggioranza parlamentare e, per altro verso, il potere del Parlamento di approvare, in sede di revisione, singoli emendamenti, e non una quantità eterogenea di modifiche, a garanzia dell’omogeneità del quesito referendario più volte richiesta dalla Corte costituzionale onde consentire agli elettori di esprimere consenso o dissenso a specifiche revisioni. Ed è paradossale che di questi abusi di potere si sia fatto addirittura promotore il precedente Presidente della Repubblica, che pure aveva giurato fedeltà alla Costituzione del 1948 e che di questa avrebbe dovuto essere il garante.

Senza la determinazione di Renzi, le riforme, di cui si discute da decenni, sarebbero ancora lì ad aspettare, si dice.

È da oltre trent’anni che si cerca di far cadere sulla Costituzione le responsabilità dei governi per le loro pessime politiche. Secondo i fautori dei vari progetti di riforma – che hanno avuto in comune il costante tentativo di indebolire il Parlamento e rafforzare il governo –, la crisi e il discredito dei partiti, la loro corruzione, l’esplosione del debito pubblico, l’aggressione allo stato sociale e ai diritti dei lavoratori, la selezione di una classe dirigente pessima e, in definitiva, l’inettitudine dei governi che si sono succeduti, sarebbero tutta colpa della Costituzione del 1948.

Passiamo al metodo di approvazione. 

Per il modo in cui è stata approvata questa riforma è un oltraggio all’idea stessa di costituzione: le costituzioni dei paesi democratici sono patti di convivenza, stabiliscono pre-condizioni che devono garantire tutti: qualunque costituzione degna di questo nome è tendenzialmente frutto di un consenso generale. Nel ’48, pur nella contrapposizione ideologica fra cattolici, comunisti e liberali, la nostra Carta venne approvata da una maggioranza amplissima: 453 voti a favore e 62 contrari.

Invece che cosa è la riforma di Renzi-Boschi?

È una costituzione approvata da una minoranza, e cioè da un partito che alle ultime elezioni ha preso il 25% dei voti, corrispondente a circa il 15% degli elettori. Questi elettori, grazie ad una legge elettorale dichiarata incostituzionale (il “Porcellum”, ndr) sono stati trasformati in maggioranza. Non solo. È una costituzione approvata strozzando il dibattito parlamentare, a colpi di “canguri” e “tagliole”, fino all’approvazione in un’aula semivuota per l’Aventino delle opposizioni. Per votare No a questa nuova costituzione basterebbe leggerla. Ma è precisamente questo che il quesito referendario, formulato in termini ingannevoli e accattivanti, impedisce di fare.

Viene davvero superato il bicameralismo paritario, come riportato nel quesito sottoposto a referendum?

Il bicameralismo paritario non viene affatto soppresso, ma mantenuto per una lunga serie di leggi, dalle leggi costituzionali alle leggi elettorali e a molte altre. Per le leggi restanti viene sostituito da un bicameralismo imperfetto, cioè da più forme di coinvolgimento del Senato in altrettanti tipi di procedimenti legislativi, con conseguente incertezza e complicazione della funzione legislativa. Si aggiunga che il Senato sarà formato da senatori non eletti dai cittadini ma dai Consigli regionali.

Questa riforma paradossalmente allungherà i tempi anziché accorciarli e farà perdere tempo in contenzioso fra le istituzioni?

Siamo di fronte a un pasticcio che darà vita a incertezza e conflitti, poiché i diversi tipi di procedimenti legislativi sono distinti sulla base delle diverse materie e spesso non è possibile tracciare confini rigorosi fra una materia e l’altra. Il nuovo articolo 70 stabilisce che “i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”. Ma che succederà se i due presidenti non saranno d’accordo? Si rischia di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Cosa farà se il No, da lei sostenuto, dovesse perdere?

La vittoria del sì, accoppiandosi alla nuova legge elettorale (“Italicum”, ndr), sancirebbe la trasformazione della nostra democrazia parlamentare in un sistema interamente incentrato sull’esecutivo. Il Parlamento si trasformerebbe in un mero organo di ratifica: praticamente, anziché essere il Governo a dover ricevere e mantenere la fiducia dal Parlamento, avremmo dei parlamentari che dovrebbero guadagnarsi la fiducia del Governo, se non vorranno rischiare lo scioglimento della Camera e la loro non rielezione. Perciò, se dovesse vincere il Sì, bisognerebbe puntare a una riforma della legge elettorale in senso puramente proporzionale, senza premi di maggioranza né soglie di accesso al Parlamento. Purtroppo, su questa possibilità, non mi faccio illusioni.

Per quelli che «voto sì altrimenti arriva Salvini»

Ne scrive Leonardo sul suo blog, misurato come al solito. E vale la pena leggerlo:

«Invece molti sostenitori di Renzi sembrano sicuri che un successo del Sì proietterà il loro beniamino verso un trionfo elettorale – dopodiché, senza l’impiccio degli imbarazzanti alleati di centrodestra, dei riottosi rimasugli del vecchio Pd e di un senato eletto ancora dai cittadini, finalmente potrà gestire l’Italia come vuole e non potrà che gestirla bene. Ora, questo futuro luminoso è appena a un passo da noi, ma solo se votiamo Sì al referendum: altrimenti tenebre, caos, Bersani e Matteo Salvini. Come tutte le prospettive apocalittiche, anche questa sembra più la proiezione di un desiderio che un’analisi realistica della situazione. Nessuno sa cosa succederà il quattro dicembre: se Renzi perde, potrebbe abbandonare il governo? È possibile (ma non esistono ancora alternative serie a lui, soprattutto nel suo partito).

Se invece vince, continuerà a vincere anche alle prossime elezioni politiche, al più tardi nella primavera 2018? Chi lo pensa sembra sottovalutare il logoramento inevitabile di chi si trova al governo, in anni di crisi. La vittoria dei brexiters, quella di Trump, sembrano puntare in quella direzione. La figura di Renzi appare già abbastanza logorata, eppure chi lo sostiene sembra voler credere che basta fargli vincere un referendum ogni tanto per ringiovanirlo. Soprattutto non mostrano di capire quello che a me sembra un dato di fatto: più vince, meno Renzi è sopportabile. Magari tra un mese vince di nuovo, ma a quel punto a chi non gli vuole bene sembrerà ancora più arrogante. E non può vincere sempre.»

Mi rendo conto di essere, tra i sostenitori del No, un caso molto particolare: per molti si tratta solo di mandare a casa Renzi. Per me il contrario: forse è l’ultima occasione che ho per dare un segnale a Renzi senza mandarlo a casa. Molti sostenitori del Sì sanno benissimo che questa riforma contiene diverse magagne, ma se la fanno piacere perché, dopotutto, se si tratta di salvare Renzi si può anche vandalizzare qualche articolo di Costituzione. Ma rischiamo di ritrovarci nella situazione peggiore: costituzione vandalizzata e, due anni dopo, un Salvini o peggio al governo. Con maggioranza blindata per cinque anni. E un senato irrilevante. Questo per me è un altro grosso motivo per votare No.

(il post è qui)

Parla Bernie Sanders: «Trump? Addolorato ma non sorpreso»

(di Bernie Sanders)

Milioni di americani martedì scorso hanno espresso un voto di protesta, ribellandosi a un sistema economico e sociale che antepone ai loro interessi quelli dei ricchi e delle grandi imprese. Ho dato forte appoggio alla campagna elettorale di Hillary Clinton, convinto che fosse giusto votare per lei. Ma Donald J. Trump ha conquistato la Casa Bianca perché la sua campagna ha saputo parlare a una rabbia molto concreta e giustificata, quella di tanti elettori tradizionalmente democratici. L’esito elettorale mi addolora, ma non mi sorprende. Non mi sconvolge il fatto che milioni di persone abbiano votato Trump perché sono nauseate e stanche dello status quo economico, politico e mediatico.

Le famiglie lavoratrici vedono che i politici si fanno finanziare le campagne da miliardari e dai grandi interessi per poi ignorare i bisogni della gente comune. Da trent’anni a questa parte troppi americani sono stati traditi dai vertici delle aziende. L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione. Molte delle città rurali, un tempo belle, sono ormai spopolate, i negozi in centro chiusi e i giovani vanno via da casa perché non c’è lavoro – tutto questo mentre tutta la ricchezza delle comunità va a rimpinzare i conti delle grandi imprese nei paradisi fiscali. I lavoratori americani non possono permettersi servizi per l’infanzia decorosi e di buon livello. Troppe famiglie sono in condizioni disperate e sempre più spesso la vita si accorcia per colpa della droga, dell’alcol e dei suicidi.

Trump ha ragione: gli americani vogliono il cambiamento. Ma mi chiedo che tipo di cambiamento gli offrirà. Avrà il coraggio di opporsi ai potenti di questo paese, i responsabili delle difficoltà economiche patite da tante famiglie o dirotterà invece la rabbia della maggioranza sulle minoranze, sugli immigrati, i poveri e gli indifesi? Avrà il coraggio di opporsi a Wall Street, di adoperarsi per sciogliere le istituzioni finanziarie “troppo grandi per fallire” e imporre alle grandi banche di investire nella piccola impresa e creare posti di lavoro?
Sarò aperto a riflettere sulle idee proposte da Trump e su come si possa lavorare assieme. Però, siccome il voto popolare nazionale lo ha visto sconfitto, farà bene a dare ascolto alle opinioni dei progressisti. Ricostruiamo le nostre infrastrutture fatiscenti e creiamo milioni di posti di lavoro ben pagati. Portiamo il salario minimo a un livello dignitoso, aiutiamo gli studenti a sostenere i costi dell’università, garantiamo il congedo parentale e per malattia e incrementiamo la sicurezza sociale. Riformiamo il sistema economico che permette a miliardari come Trump di non pagare un centesimo di tasse federali. E non permettiamo più che i ricchi finanziatori delle campagne elettorali comprino le elezioni.
Nei prossimi giorni proporrò anche una serie di riforme per ridare slancio al Partito Democratico. Sono profondamente convinto che il partito debba liberarsi dai vincoli che lo legano all’establishment e torni a essere un partito di base della gente che lavora, degli anziani e dei poveri. Dobbiamo aprire le porte del partito all’idealismo e all’energia dei giovani e di tutti gli americani che lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale. Dobbiamo avere il coraggio di sfidare l’avidità e il potere di Wall Street, delle case farmaceutiche, delle compagnie assicurative e dell’industria dei combustibili fossili.
Allo stop della mia campagna elettorale ho promesso ai miei sostenitori che la rivoluzione politica sarebbe andata avanti. E questo è più che mai il momento giusto. Siamo la nazione più ricca della storia del mondo. Se restiamo uniti senza permettere che la demagogia ci divida per razza, genere o origine nazionale, non c’è nulla che non possiamo realizzare. Dobbiamo andare avanti, non tornare indietro.
Traduzione di Emilia Benghi The New York Times Company