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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Turchia: chiesto l’ergastolo per la scrittrice Asli Erdogan

Tra 15 giorni sapremo se la scrittrice turca Asli Erdogan (non è parente del presidente) sarà condannata all’ergastolo insieme alla linguista Necmiye Alpay e ad altri sette giornalisti ed editori del quotidiano filo curdo Ozgur Gundem, considerato da Ankara la voce della propaganda del partito curdo dei lavoratori (Pkk). In carcere dal 20 agosto Asli è accusata di far parte del Pkk, e di avere utilizzato il quotidiano a fini sovversivi, pubblicando immagini e interviste ai terroristi, ponendo in essere propaganda a favore del terrorismo curdo con l’obiettivo di minare l’integrità e l’ordine economico, giuridico e sociale del Paese.

La scrittrice, in passato, ha lavorato come fisica al Cern ed è tornata in Turchia nel 1996 per dedicarsi ai suoi libri e al giornalismo. Dopo l’arresto aveva fatto giungere notizie terribili sulla sua detenzione.

“Mi trattano in un modo che lascerà danni permanenti sul mio corpo – si legge nella lettera pubblicata sul Daily Cumhuriyet -. Il mio pancreas e il mio sistema digestivo non funzionano come dovrebbero ma non mi viene data la medicina di cui ho bisogno. Sono diabetica e necessito di una nutrizione speciale, eppure qui posso mangiare solo yogurth. Soffro di asma e non mi viene concessa l’ora d’aria”.

In solidarietà con la scrittrice alla fine di settembre alcune librerie italiane hanno aderito all’iniziativa “Scrittura libera”, patrocinata dall’Associazione librai italiani, per leggere brani tratti dal suo solo libro tradotto in italiano due anni fa da Keller: Il mandarino meraviglioso.

Il 19 ottobre, al primo giorno della Fiera di Francoforte, il direttore degli Editori e dell’Associazione dei Librai tedeschi, Heinrich Riethmüller, aveva letto una lettera di Asli Erdogan, che gli era stata recapitata.

“Dietro pietre, cemento e filo spinato – come da un pozzo – vi chiamo: qui, nel mio paese, si lascia avvilire la coscienza con un’inimmaginabile brutalità. Si cerca di uccidere la verità, la coscienza viene calpestata con una brutalità incredibile” si leggeva nel testo.

Secondo l’ultima stima dell’osservatorio indipendente P24, sono 144 i giornalisti al momento in prigione in Turchia. Almeno 168 media sono poi stati chiusi dopo il tentato putsch. Tra questi, il quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem.

(fonte)

Nel merito. A proposito del taglio dei costi con il Senato il Parlamento ha votato 1 miliardo in tank e elicotteri. Un miliardo di euro.

Il Parlamento ha dato il via libera alla spesa di un miliardo di euro per l’acquisto di nuovi carri armati ed elicotteri da attacco per l’Esercito. Lo rende noto Mil€x, il neonato Osservatorio sulle spese militari italiane. Le commissioni Difesa e Bilancio di Camera e Senato hanno concluso l’esame dei nuovi programmi di acquisizione armamenti presentati dal Ministero della Difesa esprimendo parere favorevole (contrario solo il gruppo Cinquestelle). L’Esercito può quindi procedere con l’acquisto dei primi carri armati Centauro 2 prodotti dal consorzio Iveco-Oto Melara al costo di 530 milioni di euro e dei prototipi degli elicotteri da attacco Mangusta 2 prodotti da Leonardo Elicotteri per 487 milioni.

Come di consueto ormai per quasi tutti i maggiori programmi d’armamento della Difesa, a pagare sarà il ministero dello Sviluppo economico, integralmente per quanto riguarda gli elicotteri e prevalentemente per i carri armati. Per i carri Centauro 2 è stata finanziato solo l’acquisito della prima tranche di 50 mezzi (di cui 11 prototipi) ma l’Esercito ne vuole comprare 136. Per gli elicotteri Mangusta 2 il finanziamento riguarda solo 3 prototipi, ma il programma prevede in tutto 48 velivoli. Parliamo quindi di programmi che impegneranno i futuri governi a spendere diversi miliardi di euro.

Molte le perplessità che riguardano questi nuovi mezzi. Innanzitutto i costi elevatissimi, anche tenendo conto dell’inserimento dei costi di “supporto logistico decennale” a carico del produttore. Il Centauro 2 costa quasi 11 milioni a macchina: una cifra altissima, non solo rispetto ai 2 milioni di euro del Centauro 1 e ai 4,4 milioni del carro Ariete (entrambi mezzi degli anni ’90), ma perfino ai 6,6 milioni degli omologhi blindati Freccia (in servizio da pochi anni e ancora in fase di acquisizione). Il Mangusta 2 costa addirittura 162 milioni, quasi dieci volte tanto il Mangusta 1: uno sproposito anche considerando i costi di manutenzione.

I principali dubbi riguardano la reale necessità di comprare queste nuove costosissime macchine da guerra. I 136 carri Centauro 2 si andranno a sommare ai 630 nuovi blindati da combattimento Freccia, a 181 carri armati Ariete e Leopard e 200 carri ‘Dardo’ (per citare solo i mezzi pesanti). Una forza corazzata sovradimensionata rispetto alle esigenze operative nazionali, che infatti risponde ad esigenze di natura diversa, industriale e commerciale.

Come si legge nel documento della Difesa relativo al programma, “la produzione estensiva di sistemi per il cliente nazionale è il prerequisito di referenza indispensabile ad ogni opportunità di vendita all’estero”. Cioè: ne dobbiamo comprare tanti non perché servono all’Esercito, ma per poter lanciare il prodotto sul mercato internazionale. In sostanza lo Stato si mette al servizio dell’industria militare nazionale, prima assumendosi il rischio d’impresa tramite il finanziamento di tutta la fase di progettazione, sviluppo e realizzazione dei veicoli prototipali pre-serie, poi garantendo tramite grosse commesse il finanziamento della fase di industrializzazione e produzione su vasta scala, infine agendo come procuratore di commesse estere.

Stesso discorso per gli elicotteri Mangusta 2, la cui esigenza risulta incomprensibile se si considera che i Mangusta 1 sono stati appena aggiornati alla versione ‘Delta’ compiendo – parole della Difesa – “un salto generazionale” rispetto alla precedente versione in termini di prestazioni e armamento. La logica, anche qui, è puro marketing: “Lo sviluppo del nuovo velivolo – si legge nel documento della Difesa presentato al Parlamento – collocherebbe l’industria nazionale in posizione di vantaggio sul mercato internazionale in una finestra temporale nell’ambito della quale potrebbero essere concretizzate ottime opportunità di collaborazione e/o vendita”.

Il documento cita addirittura l’esempio virtuoso del Mangusta 1 “sulla base della quale è stata sviluppata una versione per l’estero che è stata acquistata dalla Turchia” – che ora, per inciso, li usa per bombardare i villaggi curdi.

(fonte)

E quindi, la Puppato? Intanto l’ANPI la smentisce, pensa un po’.

Toh, guarda un po’:

COMUNICATO STAMPA DELL’ANPI DI MONTEBELLUNA INVIATO OGGI AI QUOTIDIANI

In merito al dibattito sorto intorno alla presunta espulsione della senatrice Laura Puppato dall’ANPI di Montebelluna (TV),e alle molte inesattezze che supportano l’attacco all’ANPI,
in qualità di Presidente della sezione, preciso quanto segue:
al direttivo di Montebelluna non è mai giunta richiesta di rinnovo della tessera ANPI da parte della senatrice Laura Puppato e come ovvia conseguenza nessun nostro direttivo o assemblea di sezione ha mai preso provvedimenti di espulsione.

Catia Costanzo Boschieri Presidente della sezione ANPI “Antonio Boschieri-D’Artagnan” di Montebelluna
Montebelluna 11-11-2016

«La paura e la democrazia diffida del potere»

(di Michele Ainis un pezzo che vale la pena leggere e ritagliare)

LE ISTITUZIONI sono come il corpo umano: per animarle, serve uno spirito che ci soffi dentro. Ma lo Zeitgeist, lo spiritello che governa il nostro tempo, ha il fiato grosso, l’alito cattivo. Succede, quando ti monta in gola la paura. Quando il presente ti sgomenta, il futuro ti spaventa. E quando gli altri, tutti gli altri, t’appaiono come una minaccia, un esercito invasore.

Da qui Brexit, Trump, nonché gli altri sconquassi che si profilano sul nostro orizzonte collettivo. Ma da qui inoltre una domanda, che investe i destini stessi della democrazia. Quali istituzioni nell’epoca dell’insicurezza? E c’è ancora spazio per libertà e diritti mentre prevale la paura?

Non che la democrazia sia una creatura ingenua, senza sospetti né timori. Al contrario: diffida degli uomini, e perciò diffida del potere. Sa che è inevitabile, giacché in ogni società c’è sempre stato chi governa e chi viene governato. Ma al tempo stesso sa che i governanti abuserebbero della propria autorità, se non avessero redini sul collo. L’uomo è un diavolo, non un santo. Sicché occorre una regola che imbrachi il potere, che gli tagli le unghie, che gli impedisca di farci troppo male.
La democrazia nacque così, nella Grecia di 25 secoli fa. Nacque con il sorteggio e con il voto popolare, con la rotazione delle cariche, con i limiti alla loro durata. E nel Settecento fu poi rinverdita dalla teoria di Montesquieu: «che il potere arresti il potere», altrimenti nessuno potrà mai dirsi libero. Come affermava, nel modo più solenne, l’articolo 16 della Déclaration, vergata dai rivoluzionari francesi nel 1789: «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione».

Insomma, la democrazia si fonda su una promessa di diritti. E i diritti, a loro volta, hanno una doppia vocazione. Sono indivisibili, nel senso che spettano a ciascun individuo, perché in caso contrario si trasformerebbero in altrettanti privilegi. Sono universali, nel senso che tendono a superare le frontiere, come mostrano le innumerevoli Carte dei diritti siglate in ambito internazionale. Da qui il tratto forse più essenziale dei sistemi democratici: l’accettazione dell’altro, l’apertura verso lo straniero. Secondo l’antico rituale greco della xenia, l’accoglienza tributata agli ospiti.

Ma adesso questa prospettiva viene revocata in dubbio, spesso rovesciata nel suo opposto. Le istituzioni modellate dai nuovi sentimenti di paura si ripiegano in se stesse, si rinchiudono in atteggiamenti puramente difensivi. Alzano muri, come in Ungheria e in Bulgaria. Erigono barriere alla circolazione delle persone e delle merci, come ha auspicato Donald Trump durante la sua campagna elettorale, rispetto all’immigrazione messicana e ai trattati commerciali con la Cina o con l’Europa. Sono nazionaliste, isolazioniste, xenofobe. Hanno in sospetto il pluralismo delle identità culturali e religiose. Odiano le procedure cui la democrazia affidava la tutela dei diritti, perché quando ti senti minacciato vuoi dal governo una reazione rapida, efficace. E vuoi un governo forte, senza troppi contrappesi. Come negli Usa: Trump ha dalla sua tutto il Congresso, non succedeva ai repubblicani dal 1928.

Tuttavia c’è un paradosso in questa nuova condizione. Perché la democrazia della paura si regge anch’essa su un’attesa di diritti, pur negando diritti agli stranieri. Dice, in sostanza: sono stati loro a toglierci il lavoro, la prosperità, la sicurezza. Dunque ricacciamoli indietro, respingiamoli al di là delle nostre frontiere, se necessario con le maniere spicce; dopo di che ci impadroniremo dei nostri vecchi diritti. Ma allora la domanda è un’altra: può esistere un’entità politica antidemocratica verso l’esterno, che si conservi democratica al suo interno? La storia non ci offre precedenti. Abbiamo conosciuto invece, e molte volte, l’esperienza inversa: per esempio nell’Atene del V secolo, dopo la sconfitta militare nella guerra del Peloponneso.

Ma dopotutto è la democrazia medesima a costituire un’eccezione, una scheggia della storia. A osservare la corsa dei millenni, i regimi teocratici e dispotici esprimono di gran lunga la regola, come la guerra rispetto al tempo di pace. Forse non si tratta che di questo, forse la regola sta riconquistando il suo primato sull’eccezione.

(La Repubblica, 11 novembre 2016)

#Left cosa ci abbiamo messo dentro: Nino Di Matteo che vota no

Numero 46 di Left in edicola (o disponibile nello sfogliatore online qui). Dentro ci trovate la mia lunga intervista con Nino Di Matteo tutta sulla riforma costituzionale e sull’aria greve di questa campagna referendaria. Come al solito il magistrato non lesina giudizi e non si nasconde dietro questa “cortesia istituzionale” che ammanta più di qualcuno. Ci dice che la riforma Renzi-Boschi è invotabile perché pensata  male e scritta ancora peggio, ci spiega i rischi che comporterebbe anche per gli equilibri della Giustizia e, soprattutto, ci indica gli articoli della nostra Costituzione che andrebbero applicati piuttosto che riformati.

Il sommario del numero (con l’apertura tutta sui risultati delle elezioni americane) lo trovate qui. Come al solito siamo tutte orecchie per giudizi, suggerimenti e proposte. Buona lettura.

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Se ne accorge anche Mentana: «così si falsa il referendum»

“Non si può rischiare di falsare questa consultazione cercando un rapporto unilaterale, che è possibile soltanto a chi guida l’istituzione governativa nei confronti degli italiani all’estero” – Così il direttore del Tg La7 Enrico Mentana, dopo che il premier Matteo Renzi ha inviato agli italiani residenti all’estero una lettera con le indicazioni e le istruzioni sulle modalità di voto per il referendum costituzionale. Secondo quanto si apprende, nella lettera sono precisate le ragioni per cui votare Sì, a partire dalla fine del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari – “Teoricamente e seriamente ci vorrebbe una lettera, anzi una busta con dentro due lettere” – precisa il direttore – “Le ragioni del Sì e le ragioni del No, perché raggiungerli solo da un lato comporta il rischio veramente forte di avere qualcuno che nel dibattito referendario fa la parte del leone”

Ecco con chi riscrivono la Costituzione: chiesti 4 anni per Verdini

Massone, lobbista, piduista. La requisitoria del pm che oggi ha chiesto 4 anni per Denis Verdini è uno spaccato del Paese sbrodolante di illegalità e corporazioni. Questo è quello che ha salvato il governo. Questo è quello che la Boschi è corsa a baciare per festeggiare la riforma costituzionale. E noi discutiamo dell’ANPI, intanto. Capite? Leggere per credere:

ROMA – Richiesta di condanna per 18 imputati, tra cui il senatore Denis Verdini e l’uomo d’affari Flavio Carboni, ed una di assoluzione. È quanto chiesto dalla procura di Roma al processo sulla P3, presunto comitato d’affari segreto che puntava ad influenzare e condizionare gli organi costituzionali. I pm Rodolfo Sabelli e Mario Palazzi hanno chiesto nove anni e sei mesi di reclusione per Carboni, otto anni e sei mesi per l’ex giudice tributarista Pasquale Lombardi e l’imprenditore Arcangelo Martino, quattro anni per Verdini.

Queste le altre richieste di condanna sollecitate dalla Procura in relazione a episodi minori, non legati all’associazione per delinquere e destinati in buona parte a cadere in prescrizione nei prossimi mesi: un anno di reclusione per l’ex coordinatore toscano di Forza Italia Massimo Parisi, un anno per il legale rappresentante della società Ste srl Pierluigi Picerno, 2 anni per il presidente di un consorzio Pinello Cossu, un anno per l’allora presidente dell’Arpa Sardegna Ignazio Farris, 1 anno per l’ex Governatore della Sardegna Ugo Cappellacci, 2 anni per l’imprenditore Alessandro Fornari, un anno e mezzo per l’imprenditore Fabio Porcellini. Ci sono poi i presunti ‘prestanomi’ di Flavio Carboni e cioè Giuseppe Tomassetti (un anno), Antonella Pau (3 anni) e Maria Laura Scanu Concas (un anno).

Completano la liste degli imputati l’allora direttore Unicredit di Iglesias Stefano Porcu (chiesta condanna al pagamento di 10mila euro), l’ex sottosegretario Economia del Governo Berlusconi Nicola Cosentino (un anno e 6 mesi), l’ex assessore regionale della Campania, oggi sindaco di Pontecagnano, Ernesto Sica (un anno e 6 mesi), e l’ex primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (5 anni). L’assoluzione è stata chiesta per Marcello Garau, che nella vicenda era coinvolto nella veste di dirigente del comune di Porto Torres.

(Fonte)

 

Nel merito. Ecco le bugie del Sì.

(di Lorenza Carlassare)

Le ragioni del «no» sono persino troppe. Una forte mobilitazione è indispensabile per opporsi a una riforma costituzionale costruita sul falso e sull’inganno che cela la sua reale sostanza, antidemocratica e illiberale, con trucchi miserabili. Lunga è la catena dei «falsi», a cominciare dagli obiettivi dichiarati:

1. Fine del bicameralismo paritario è l’ingannevole slogan. Ma il Senato, in posizione di parità con la Camera esattamente come adesso, partecipa ancora alla più alta forma di legislazione, la revisione della Costituzione e in molti casi alla legislazione ordinaria. Si approvano infatti secondo le regole del bicameralismo paritario leggi di forte rilievo politico: elezione del Senato (art. 55), referendum, Unione europea, ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di senatore, elezioni e ordinamento di comuni e città metropolitane, e altre ancora (art. 70, comma 1). Il Senato, inoltre, in modi vari e differenziati, ha voce sulla legislazione intera.

2. Falso è anche l’altro facile slogan: iter legislativo semplificato, mentre l’unica semplificazione non riguarda il procedimento legislativo, ma la fiducia al governo che sarà data dalla sola Camera. Basta leggere i commi 3-4 del nuovo articolo 70 per rendersi conto di come l’iter legislativo venga «semplificato»: «Ogni disegno di legge approvato dalla Camera deve essere immediatamente trasmesso al Senato», il quale, entro dieci giorni, può disporre di esaminarlo, e, nei trenta giorni successivi «può deliberare proposte di modifica del testo», e in tal caso si torna alla Camera per la pronuncia «definitiva».

Lo schema ha però alcune varianti; a seconda della materia su cui verte la legge e dell’atteggiarsi dei consensi, si prevedono iter legislativi diversi per tempi, termini e maggioranze. In conclusione, per «semplificare», al procedimento attuale si sostituisce una pluralità di procedimenti – sette dice Gaetano Azzariti che ha avuto la pazienza di contarli – più l’ulteriore variante di un possibile intervento del governo nel procedimento legislativo (art. 71, ultimo comma). Incertezze e confusioni apriranno conflitti, che la riforma stessa ritiene inevitabili preoccupandosi di indicare chi dovrà comporli: i presidenti di Camera e Senato d’accordo fra loro. E se non trovassero l’accordo? Una «semplificazione complicante», la si potrebbe definire!

3. È falso che il Senato conti poco e non abbia funzioni di rilievo, come si ripete per toglier peso alle critiche verso la sua inqualificabile composizione (consiglieri regionali che si eleggono fra loro ed eleggono 21 sindaci!). Minimizzarne il ruolo fa parte dell’inganno. Tanto rumore per nulla è l’idea che si vuole accreditare: è inutile perder tempo a discutere sulla composizione di un organo che non conta nulla, che fa cose poco importanti. L’argomento, che si ritorce contro chi lo propone – se il Senato non serve a nulla, perché non abolirlo eliminando le enormi spese di apparato, servizi, sede? – è assolutamente falso.

Il Senato partecipa intanto alla funzione legislativa, la più importante funzione da sempre riservata al popolo sovrano o ai suoi rappresentanti che un sistema democratico non consente sia affidata a un organo scollegato dai cittadini. Proprio questa funzione rende quella composizione più difficile da giustificare, per il costante collegamento di essa con il popolo; un principio antico che attraversa la storia, dai pensatori medievali come Marsilio da Padova, ai massimi giuristi della modernità come Hans Kelsen. L’affermazione di poter fare, da solo, le leggi del suo regno fu una delle accuse a Riccardo II, che poi ritorna negli atti di deposizione di Giacomo II e Carlo I. E su quel principio, risalente agli albori della storia, si basa per intero la nostra struttura costituzionale: la sovranità – disse Meuccio Ruini alla Costituente – «spetta tutta al popolo», e dunque, «il fulcro dell’organizzazione costituzionale» è nel parlamento «che non è sovrano di per sé stesso, ma è l’organo di più diretta derivazione del popolo: e come tale […] ha la funzione di fare le leggi». L’anomala composizione del Senato figlio della riforma, in una democrazia non è assolutamente compatibile con le funzioni ad esso attribuite. Ma il governo non ha consentito ripensamento alcuno.

Al Senato, oltre alla legislazione, restano altre rilevanti funzioni co-stituzionali come l’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali; e qui, addirittura, grazie alla riforma, il Senato aumenta il suo peso e i senatori diventano determinanti in una scelta tanto delicata per l’equilibrio delle istituzioni di garanzia.

4. È falso che la riforma aumenti le garanzie, come si insiste a dire della modifica delle maggioranze necessarie all’elezione del presidente della Repubblica, organo di garanzia che deve essere super partes. Ad evitare che diventi, invece, espressione della maggioranza di governo la Costituzione esige un ampio consenso: per le prime tre votazioni la maggioranza dei due terzi, dal quarto scrutinio in poi, la maggioranza assoluta dei componenti. La riforma invece, a partire dal settimo scrutinio, prescrive la «maggioranza dei tre quinti dei votanti». La modifica è presentata come un vanto della riforma; sostituendo la maggioranza assoluta (metà più uno) con i tre quinti – si dice – si alza il quorum necessario all’elezione del capo dello Stato e dunque si aumenta la garanzia. Una falsità anche questa, ma il trucco è evidente: la nuova maggioranza richiesta è di tre quinti dei «votanti», non più dei «componenti»; il che fa una bella differenza! La norma svuotata di senso rende agevole al governo e ai suoi fedeli eleggere («portarsi a casa», nel linguaggio del premier e della sua ministra) un presidente su misura. Nel segno del comando, si potrebbe dire, dell’unico comando, che non deve trovare ostacoli sul suo cammino; tantomeno un capo dello Stato indipendente, garante della Costituzione!

Ma è solo un tassello del disegno complessivo. Sempre in tema di istituzioni di garanzia, nella legge di riforma la competenza a eleggere cinque giudici della Corte costituzionale non è più del parlamento in seduta comune; tre li elegge la Camera, che ha 640 membri, e due il Senato che ne ha 100. I numeri parlano. Il divario di potere tra Camera e Senato è evidente, com’è evidente la voglia di mettere le mani sulla Corte attraverso i senatori, «uomini di paglia», la cui obbedienza è persino più sicura di quella di deputati, eletti con una legge truccata, ma pur sempre «eletti» dal popolo.

5. È falso che la riforma costituzionale non cambi la forma di governo. È vero che il testo non ne parla, ma il trucco è proprio qui. La trasformazione risulta da un disegno complessivo il cui perno non è la riforma costituzionale ma la legge elettorale, approvata anch’essa con frenetica velocità perché, senza l’Italicum, la riforma costituzionale non poteva raggiungere l’obiettivo finale: verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti.

Siamo di fronte a un doppio inganno (o doppia «furbata»): il primo sta nel modificare la forma di governo in modo indiretto (e meno appa-riscente) con legge ordinaria, la legge elettorale e il suo bel «premio», perno di tutto. Il secondo inganno sta nell’apparente rispetto della condizione richiesta dalla Corte costituzionale per l’attribuzione del premio, l’indicazione di una «soglia». Ma la soglia del 40 per cento prevista dall’Italicum è del tutto fittizia, è apparenza pura, scritta per non mostrare in modo vistoso il contrasto con la sentenza 1/2014. Il 40 per cento in realtà non interessa a nessuno, è un semplice schermo; se non lo si raggiunge, interviene infatti il ballottaggio per il quale nessuna soglia è richiesta. Il trucco è qui, attraverso il ballottaggio il legislatore ha aggirato la sentenza costituzionale: le due liste più votate partecipano qualunque percentuale abbiano ottenuto al primo turno. Così, anche conseguendo un risultato modesto (il 20 per cento o meno) chi vince piglia tutto, e una minoranza esigua, grazie al premio, può dominare il sistema intero: parlamento, governo, istituzioni di garanzia.

Il ballottaggio è la chiave per cambiare la forma di governo, per arrivare in modo traverso all’elezione diretta del premier. Due liste vi partecipano e, nella competizione a due, il vincitore, forte della vittoria, tenderà ad attribuire al voto popolare il valore di un’investitura personale. Così il ballottaggio, fase finale del procedimento di elezione della Camera dei deputati, assumerà il senso di una decisione popolare finalizzata a investire di potere il governo e il suo capo. Il quale – come già Berlusconi – potrà definirsi «l’unto del Signore».

Senza mutare il testo si supera la forma di governo parlamentare; e non per avvicinarsi al modello presidenziale americano col suo sistema di «freni e contrappesi», di limiti reciproci fra «poteri» rigorosamente separati e indipendenti, ma piuttosto al modello autoritario novecentesco che l’Italia ha costruito ed esportato.

6. È falso che la riforma non tocchi la forma di Stato: la democrazia costituzionale ne risulta travolta. Travolta per primo è il sostantivo, «democrazia». I cittadini alla fine sono rimasti senza voce: con un Senato non più eletto dal popolo ma da consiglieri regionali che si eleggono fra loro; con le province abolite che però funzionano ma senza un organo eletto dai cittadini; con una Camera dove, alterata la rappresentanza, domina una maggioranza artificiale creata distorcendo l’esito del voto. Una Camera in cui una simile maggioranza – che può essere una minoranza esigua – è in grado di dominare le istituzioni tutte estendendo la sua influenza oltre la sfera politica, alle stesse istituzioni di garanzia. Così un gruppo di potere può dominare senza trovare limiti politici – le altre forze sono ridotte all’irrilevanza – e neppure limiti giuridico-costituzionali.

Neutralizzati i contrappesi del sistema costituzionale repubblicano, nessun limite infatti è stato creato dal nuovo sistema per contenere l’enorme potere prodotto dai meccanismi distorsivi; nessun freno è posto al concentrarsi di potere nel governo e nel suo capo cui il parlamento non si contrappone, obbedisce. Troppo forte è il vincolo creato dai meccanismi elettorali perché i parlamentari, legati a doppio filo a un vertice da cui dipende la loro rielezione, possano mostrarsi indipendenti.
«Democrazia costituzionale» rischia così di divenire espressione vuota: travolto il sostantivo, è travolto anche l’aggettivo che la qualifica. Il potere, senza limiti e freni, potrà dispiegarsi liberamente, alla faccia del costituzionalismo, della separazione dei poteri, degli «immortali princìpi del 1789», che Mussolini odiava. Non dobbiamo permetterlo!

Il referendum non è – non deve essere – scontro su una persona: non interessa la sorte di Renzi, interessa salvare la «democrazia costituzionale», i nostri diritti, i valori repubblicani. Un triste conformismo vela la vita della Repubblica; la libera stampa, l’informazione tutta già ne risente. Vogliamo liberarci dal pericolo che la nebbia offuschi il nostro orizzonte.

Micromega online, martedì 1 Novembre 2016

Si sbellicavano per Berlusconi. E ora hanno Trump.

“Italia: spaghetti, pizza, mamma, Berlusconi”. Come ridevano gli americani negli anni d’oro del berlusconismo. “Ma come fate con Berlusconi?”, “perché Berlusconi?”, ogni volta con Berlusconi pronunciato con la erre che cadeva e quattro elle polposissime. Gli Usa non si sono mai risparmiati quando c’era da fare ironia sulle gaffe internazionali di Silvio Berlusconi mentre era in carica alla Presidenza del Consiglio italiana e anche le testate giornalistiche (video e della carta stampata) hanno prodotto moltissimo materiale così è normale che oggi, con Trump diventato Presidente, Silvio ricompaia.

“Pensate che Trump sia un disastro? Chiedete di Berlusconi agli italiani”, titolava il primo agosto di quest’anno il quotidiano The Local: nel suo articolo il giornalista John Henderson analizzava “la storia che si ripete” per “mettere in guardia tutti quelli che hanno intenzione di votare Donald Trump”. Sempre con l’obiettivo di mettere in guardia gli elettori americani aveva scritto, quest’estate, anche Eric J. Lyman, firma di peso di USA Today, che in Italia ha vissuto e lavorato per alcuni anni proprio a cavallo del periodo d’oro del berlusconismo: “gli italiani – scriveva Lyman il 3 luglio 2016 – offrono un avvertimento a tutti i cittadini americani ì: pensateci due volte prima di votare Trump”. “I due hanno molto in comune. – scrive USA Today – Sono entrambi miliardari arricchitisi nel settore immobiliare che si sono presentati in politica incarnando il senso del “nuovo” e promettendo di mettere al servizio del Paese il proprio fiuto per gli affari per rivitalizzarne l’economia. Entrambi sono sfacciati e sicuri di sé, con una reputazione di grandi donnaioli. Entrambi vedono nell’immigrazione la colpa dei mali dei propri Paesi e si dimostrano impermeabili alle gaffe che avrebbero sicuramente affondato un politico comune.” “Hanno anche una preoccupazione in comune: – ironizza Lyman – entrambi sono ossessionati dai propri capelli”.

Ancora più pesante è Washington Post che in un pezzo di Rula Jebreal (dal titolo eloquente “Donald Trump è l’America di Silvio Berlusconi”) costruisce parallelismi: “Basterebbero lezioni di storia recente della politica italiana – scriveva il WP il 21 settembre scorso – per preoccupare gli elettori americani sulla possibilità di una vittoria di Donald Trump”. E poi: “chiedete agli elettori italiani che hanno trascorso ben nove anni governati da Silvio Berlusconi che è stato il più longevo primo ministro d’Italia. Ha iniziato come un demagogo ricco sull’orlo del fallimento, la sua celebrità – come per Trump – si è costruita nel campo immobiliare e dell’intrattenimento popolare. Berlusconi si è presentato come uomo forte ma con l’atteggiamento del pacchista, vendendo false promesse di ricchezze e grandezza per tutti. Come Trump Berlusconi si è presentato da estraneo della politica promettendo di riportare il Paese agli standard internazionali che gli competono. «Io sono il Gesù Cristo della politica. Mi sacrifico per tutti» diceva Berlusconi e così Trump ci promette di diventare «il più grande presidente degli USA che sia mai sabato creato»”. Il pezzo non si limita alla cronaca ma lancia anche un appello: “È urgente che l’America impari la lezione italiana. Quando l’Italia ha sottovalutato Berlusconi ritenendolo solo un buffone ignorante, una figura comica inadatta a guidare un Paese alla fine non riuscì comunque a fermarlo”.

(il mio editoriale per Fanpage continua qui)

«Lavoratori sono tutti coloro che hanno la dignità di poter essere dei liberi cittadini»: le parole di Emilio Gentile su Trump (e sulla sinistra)

Che gioiello l’intervista di Donatella Coccoli a Emilio Gentile per Left (la trovate qui):

Non ha affatto paura di Donald Trump il professor Emilio Gentile, anche perché aveva previsto il successo del candidato repubblicano. Anzi, alla fine della telefonata si lascia andare anche a una battuta. «Mi merito anche un piccolo premio Nobel per la profezia azzeccata», dice sorridendo. In effetti, lo storico noto a livello internazionale per i suoi studi sul fascismo, è autore di un libro fondamentale per comprendere la vera natura degli Stati Uniti (La democrazia di Dio, Laterza) in cui mette in evidenza la profonda religiosità degli americani che hanno addirittura nella loro moneta la frase “in God we trust”. Negli ultimi anni Gentile ha analizzato il rapporto tra leader e cittadini (Il capo e le folle, Laterza), e i cambiamenti della democrazia occidentale.

Professor Gentile, lei nel suo ultimo libro In democrazia il popolo è sovrano. Falso! per Laterza, parla di come oggi la democrazia sia diventata sempre più “recitativa”, con il capo che “ci mette la faccia”. Che cosa pensa della elezione alla Casa Bianca di Donald Trump?
Confesso che per me non è stata una sorpresa perché avevo immaginato che i motivi agitati da Trump fossero gli stessi che toccavano moltissimi americani. Sono tutti quei cittadini che non avevano il coraggio di dichiarare apertamente di votare per il candidato repubblicano e hanno dichiarato di votare per Clinton. Forse si sono vergognati di dire apertamente di accettare un candidato che tutta la stampa più autorevole e importante, tutti i canali televisivi e persino lo stesso presidente in carica consideravano un cialtrone o un pericoloso avventuriero, o peggio ancora, uno che rischiava di mettere in pericolo la pace nel mondo. È probabile che dietro a questo voto ci sia stato un risentimento per l’amministrazione di Clinton, per le stesse guerre di Bush e infine la delusione per il presidente Obama.

Chi sono gli elettori di Trump?
È la classe media degli stati centrali che soffre di più della globalizzazione e della riduzione dei salari che ha reso inadeguata la capacità di potere d’acquisto negli ultimi 35-40 anni. Per questo motivo gli americani a un certo punto hanno visto in Trump qualcuno che fosse disposto a gridare contro tutto questo. Senza che dall’altra parte ci fosse un candidato che desse veramente l’assicurazione di cambiare.
Probabilmente un personaggio come Sanders con la sua retorica più confacente ai deboli, ai disperati, avrebbe reso più faticosa l’ascesa di Trump. C’è una cosa che mi ha sorpreso, però.

Che cosa professore?
Il tema della “democrazia recitativa” andrebbe rivisto alla luce di due risultati di queste elezioni. Intanto per la seconda volta perde una candidata che ha il maggior sostegno del maggior partito, che ha il sostegno del presidente uscente, che ha speso un miliardo e 300mila dollari, cioè ha fatto una campagna in cui si è dimostrato che il denaro non sempre garantisce una vittoria. E soprattutto l’altro risultato è il fatto che Trump ha combattuto contro il suo partito. Questo è davvero un fenomeno nuovo. Non ricordo, almeno nel secolo scorso, casi simili. Sì, ci sono stati alcuni presidenti che non erano quelli che il partito desiderava ma non si è mai verificato che un candidato venisse squalificato dal suo stesso partito come è avvenuto in queste elezioni.

E che cosa significa?
È ormai la conferma della tendenza a stabilire un rapporto diretto e quasi personale tra il capo e la folla e a scavalcare le strutture tradizionali. Il capo che sa intuire gli orientamenti della collettività in agitazione. Tra l’altro, è interessante che lui parli di movimento. Anzi, ha suscitato un movimento, è questo che tra l’altro ha detto nel suo discorso.

Quindi anche la forma partito viene meno?
Certo, Trump ha vinto contro il suo partito! Quest’uomo, sostanzialmente dall’esterno, ha conquistato il partito. Qualcosa di molto simile a quello che ha fatto Renzi nel Pd. Quindi si sta verificando ormai – e io posso pensare di essere stato tristemente profetico nel Il Capo e la folla – che la democrazia intesa come un complesso processo che si avvale di stadi intermedi per arrivare a rendere sovrano il popolo attraverso i suoi rappresentanti viene scavalcato da questo rapporto diretto tra un popolo che non si sa che orientamento ha, ma è pur sempre il popolo. Una mia amica americana mi ha detto che il popolo non è sovrano: eh no, questo è il popolo sovrano, solo che il popolo non sempre sceglie come noi vorremmo. Ma quando sceglie, lo fa sovranamente. In questo caso contro il partito, un presidente in carica, contro una candidata fortissima che per la seconda volta viene data per vincente e che ha impiegato una somma di denaro notevolissima. Da questo punto di vista tutte le nostre categorie razionali per spiegare fenomeni come questi saltano completamente.

Che cosa ha determinato la vittoria di Trump? La paura del ceto medio, la progressiva povertà?La paura, e dall’altra parte anche una volontà di riscatto. Lui ha agito come ha fatto Regan dopo Carter. E in questo caso Obama è stato visto come un presidente che ha reso quasi assente l’America oppure l’ha lasciata in balìa a un corso storico che ha visto emergere altre grandi potenze.

Però, come fa notare lei, se ci fosse stato Sanders…
Di fronte a una questione sociale molto forte come quella vissuta dagli Usa adesso, la carta da giocare era quella di Sanders.

È una lezione per la sinistra che non deve abbandonare il proprio popolo?
Questo dovrebbe essere fondamentale. Ormai il problema della sinistra non è più quello di pensare a un popolo inteso come un proletariato ma a tutti coloro che oggi vengono privati della possibilità di essere cittadini. Oggi il tema fondamentale non è la distinzione tra destra e sinistra, ma la nostra costituzione che almeno nei principi che nessuno dice di voler toccare, parla della Repubblica fondata sul lavoro, dove i lavoratori sono tutti coloro che hanno la dignità di poter essere dei liberi cittadini. È questo che ha travolto l’America, loro si sentono sempre meno cittadini. Da questo punto di vista Trump è un uomo di destra che ha usato un linguaggio di sinistra e per questo è stato riconosciuto negli Stati dove ci sono le classi operaie, come la Pennsylvania che ha sempre votato democratico.

Senta professore, ma lei è preoccupato per l’elezione di Trump?
Io sinceramente, pensando al caso di Nixon o di Regan – forse più Nixon – ritengo che i presidenti che si presentano con una faccia trucida, con messaggi violenti, sono quelli che, adattandosi al realismo, riescono poi a fare delle scelte che un presidente di sinistra non può fare. Ad esempio, il discorso dopo la vittoria ha fatto fa vedere un altro Trump. Molto cavalleresco nei confronti di Hilary Clinton, il che è una cosa straordinaria. Ha anche detto che non sarà contro nessuno e cercherà un accordo con tutti. Non ha usato nessuna metafora di tipo aggressivo, polemico, razzista, addirittura ha detto che tutti devono unirsi al di là della razza o della religione. Certo, è un po’ tipico degli americani fare il presidente di tutti, però vedremo quanto farà, tenendo conto anche del fatto che possiede un potere che Obama non ha, avendo tutto il congresso repubblicano. Una cosa è sicura, poi. Lui non è stato protetto dalla destra religiosa, non è molto amato anche perché non rappresenta un esempio illuminante dal punto di vista della morale. Comunque rispondendo alla domanda,  non ho paura, perché la paura viene dalle cose impreviste. Questa era prevista.