Vai al contenuto

Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

La cricca del calcio

criccacalcio

Un’inchiesta di Lirio Abbate:

«Le prove del patto segreto che ha portato a pilotare la spartizione dei diritti televisivi delle partite di calcio del campionato di Serie A vengono descritte da l’Espresso nel numero in edicola da venerdì 22 aprile, in cui si racconta della cricca e delle trattative riservate. Per questi fatti l’Antitrust ha irrogato sanzioni per complessivi 66 milioni di euro ai principali operatori televisivi nel mercato della pay-tv, Sky e RTI/Mediaset Premium, nonché alla Lega Calcio e al suo advisor Infront per l’intesa restrittiva della concorrenza che ha alterato la gara per il triennio 2015-2018, svoltasi nel giugno 2014.

La sanzione più alta è per Mediaset Premium: oltre 51 milioni. Per la Lega 1.944.070, per Infront Italy 9 milioni, per Sky 4 milioni.

Nel servizio pubblicato da l’Espresso viene ricostruito il cartello fra le tv che si dividono i diritti e in questo guazzabuglio di interessi miliardari c’è il vicepresidente esecutivo di Mediaset Pier Silvio Berlusconi, l’amministratore delegato di Sky Italia Andrea Zappia, il numero uno di Infront e advisor della Lega calcio Marco Bogarelli. Con un unico intento: addomesticare, mettendosi d’accordo invece di farsi concorrenza, la gara d’appalto. I risvolti di questo “sistema” sono descritti nelle email dei manager televisivi, acquisiti dall’Autorità garante che ha effettuato l’istruttoria, che il settimanale pubblica e attraverso le quali emergono gli accordi e le trattative riservate.

Dalla documentazione pubblicata da l’Espresso si ricostruisce come Mediaset scenda in campo con le indicazioni fornite da Pier Silvio Berlusconi. Le sue ipotesi sono discusse per posta elettronica fra i manager del gruppo televisivo. I quali adombrano il possibile coinvolgimento di Lega e Infront«a sostegno dei propri interessi come promotori di una negoziazione nei confronti di Sky». Il gruppo del Biscione mette in campo il proprio peso politico ed economico sul “sistema” e l’amicizia del milanista Adriano Galliani con il patron di Infront Marco Bogarelli.

«Parto dal punto di vista di PS (Pier Silvio Berlusconi, ndr) che vorrebbe vedere assegnato lo scenario A+D (piattaforma satellitare e digitale terrestre), tale scenario è perfetto per andare da Sky a negoziare, ma temo, adesso faremo tutte le simulazioni, più complesso e più costoso da realizzare e non più vantaggioso», si legge in una email interna di Mediaset. Che prosegue: «Tutto questo sarà possibile se la Lega e Infront fanno capire a Sky che è più probabile la nostra vittoria». «Condivido quello che scrivi», risponde un altro manager il 7 giugno 2014, «è ovvio, meglio vincere A+D contro Sky che vince A+B (digitale terrestre, ndr), ma A+D va usata per negoziare con Sky e non da usare. Il dubbio ora è meglio vincere A+D, gestire le cause e poi con un punto di forza andare da Sky o far negoziare subito Infront? Credo sia conveniente che negozi Infront così evitiamo le cause, ma Pier (Pier Silvio Berlusconi, ndr) come sembra non è dell’idea, perché sente la vittoria in mano A+D. Questo è il punto! Comunque noi ci metteremo a lavorare agli scenari».

L’Espresso spiega attraverso i documenti utilizzati nell’istruttoria come secondo l’Authority «l’intesa è promossa da Lega e Infront e reca vantaggio principalmente a Mediaset Premium, mentre Sky vi aderisce perché indotta anche dalla condotta delle altre parti». Per il Garante l’intesa è imputabile a tutte le parti del procedimento, ma con ruoli distinti.»

È qui.

#paninarialgoverno Roma, Giachetti e la citazione (sbagliata) di Pasolini

E niente. Anche la citazione è sbagliata.
E niente. Anche la citazione è sbagliata.

Ne scrive Ciro Pellegrino (qui):

“Nell’era dei social la frase è diventata : «Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro. […] T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece».
Il messaggio del candidato sindaco Pd alle Elezioni comunali di Roma è ancora più conciso e drastico: «E tu splendi, invece, Roma». Invece cosa? Invece di non splendere come vorrebbe qualcuno? Chi sono i «campioni dell’infelicità» sottintesi? Sembra una campagna anti-gufi renziani (o anti-marziani, riferendosi all’Ignazio Marino che aleggia e s’aggrappa all’immaginario di Ennio Flaiano).

Pier Paolo Pasolini, lo dice la sua vita e lo dice la sua produzione letteraria e cinematografica, amava Roma. Ma quella frase sullo splendere non era destinata alla Capitale. Lo sono, invece, questi versi del “Pianto della Scavatrice”.

«Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini».

Altro che splendere. Stupenda e misera città era la Roma di Pasolini. Anche se è tutta campagna elettorale, anche se è storytelling (chissà che avrebbe detto PPP di questo termine, vero?) val la pena di ricordare. E non distorcere.”

Regeni lo torturano anche da morto

Schermata 2016-04-20 alle 22.07.19

Caso Regeni, il verdiniano Barani: “Depistaggio. Al Sisi estraneo. Lo dimostra il ritrovamento del cadavere”

Intervista all’emittente Sada El-Balad del verdiniano Lucio Barani sul caso Regeni. Il parlamentare assolve l’Egitto di Al Sisi e accusa i non meglio precisati “servizi segreti deviati” al soldo “di qualche potenza straniera” di un fantomatico complotto. Il motivo della congiura? “Far naufragare i rapporti fra Italia ed Egitto” in modo di sostituire  Roma come partner economico privilegiato del Cairo. Barani dice di avere anche la prova del nove, quella che dimostra la completa estraneità del governo Al Sisi: “Il ritrovamento del cadavere del giovane ricercatore che è stato buttato in mezzo ai rapporti fra i due paesi”. A nome di chi parla il senatore che il giorno prima si è definito pretoriano di Renzi? “A nome di un importante gruppo parlamentare determinante per la maggioranza di governo”. E ora che si ritaglia pure il ruolo di pontiere nella crisi fra i due paesi si schiera con l’Egitto contraddicendo la linea del governo italiano. Arrivando fino a giustificare la reticenza di fornire materiale investigativo ai pm italiani

(fonte)

A proposito: ecco cosa diceva il PD del sindaco di Brescello. Sciolta per mafia.

Coffrini

A futura memoria, anche perché il comune è stato sciolto per mafia, primo in Emilia romagna, un bel record:

«Il Circolo del Partito Democratico di Brescello prende pertanto nettamente le distanze dalle dichiarazioni del primo cittadino fatte nella nota video intervista alla Web-Tv della associazione Cortocircuito, politicamente e culturalmente inaccettabili in relazione al suo ruolo istituzionale, per la sensibilità doverosa, richiesta e necessaria a tutti gli Amministratori PD, come già espresso dalla Federazione Provinciale del Partito Democratico di Reggio Emilia in comunicati precedenti.

Affermiamo tuttavia che siamo pienamente convinti della trasparenza e della piena onestà dell’intero operato politico e istituzionale dell’amministrazione comunale attuale e degli ultimi anni: l’ex Sindaco Giuseppe Vezzani della Lista Civica Pasquino, appoggiata dal Partito Democratico, ha fatto infatti parte del gruppo di lavoro sul tema della legalità istituito dalla amministrazione provinciale, collaborando fattivamente e attivamente al contrasto del fenomeno di infiltrazione mafiosa nelle amministrazioni comunali, siglando un protocollo d’intesa con la Prefettura di Reggio Emilia per la prevenzione dei tentativi d’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti e concessioni di lavori pubblici, in collaborazione con l’allora prefetto di Reggio Emilia, Antonella De Miro.

Non abbiamo perciò alcun motivo per dubitare dell’onestà del Sindaco Marcello Coffrini, che ribadiamo ha compiuto gravi ingenuità e leggerezze in relazione al suo ruolo di primo cittadino, ma nella cui rettitudine confidiamo pienamente: non sussistono ad oggi atti giudiziari di alcun tipo che possano far pensare a collusioni o infiltrazioni mafiose.» (16-04-2015)

«Diciamola tutta, questi presunti “amici di Falcone” dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici»: parla l’autista di Falcone

giuseppe-costanzaUn’intervista da leggere di Alessandro Milan:

C’è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull’ apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci.

Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime.

Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore – Costanza lo chiama così – aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito.

Cominciamo da Riina a “Porta a Porta”?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D’altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un’ idea ce l’ho».

Avanti.

«Presumo che l’attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: “È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia”».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell’incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all’ Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all’Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L’attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare.

Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l’Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all’ Addaura. Viene trovato dell’ esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c’ero».

All’Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l’artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l’esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L’esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l’Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l’orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall’aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All’altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: “Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare”. Lui rispose: “Scusi, scusi” e reinserì le chiavi. In quel momento, l’esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l’unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l’invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. “Buongiorno, sono Maria Falcone”. Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: “Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada”. Ma vedi un po’ che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: “Era un periodo un po’ così. È il passato”. Ventitre anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell’ aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: “È presente con noi Giuseppe Costanza”. Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L’emarginazione c’è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l’ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti “amici di Falcone” dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c’era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L’ho fatto per quell’ uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: “Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?”, per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: “Cosa devo rispondere ai miei nipoti?”».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come “l’autista di Falcone”.

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d’ oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? “L’autista” mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell’ Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c’è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all’ attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c’entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell’ Italia».

Il testimone si inventa un lutto per non testimoniare: la paura, a Roma.

carminati

È una storia che lascia spazio a molte riflessioni quella di Filippo Maria Macchi, l’imprenditore romano che nel 2014 era ricorso a Massimo Carminati per farsi prestare trentamila euro. Aveva tra le mani un affare di oro in arrivo dall’Africa (che poi sfumò) e pensò che un prestito “facile” dalla criminalità potesse essere la strada più semplice. Ma non fu così. E oggi Macchi, chiamato a testimoniare, si dimostra impaurito come ci si aspetterebbe in una storia di mafia del profondo sud di qualche decennio fa; e invece accade a Roma, nella capitale in cui il processo Mafia Capitale viene usato per scagliarsi addosso a qualche candidato sindaco ma in realtà scompare dalla cronaca. Così Macchi prima si inventa un lutto (mai esistito) e poi portato a forza davanti al magistrato nega di avere mai ricevuto le minacce. E attenzione: se non si riesce a dimostrare minacce e intimidazioni cade l’accusa di mafia, che è proprio l’obiettivo degli avvocati di Carminati e compagnia. Quando il pm ha fatto ascoltare in aula le parole che Macchi aveva pronunciato al maresciallo dei Ros che l’aveva contattato per testimoniare («Marescià, sappiamo che queste sono persone che si sò rivalse e che si rivalgono contro chi gli si rivolge contro…») l’imprenditore ha provato a balbettare una scusa, una mezza frase. E invece è la mafia con tutti i suoi effetti. A Roma.