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Gaza, la farsa della tregua e il laboratorio dell’impunità

Gaza brucia ancora, come se la storia non fosse mai servita a niente. La tregua, una farsa utile ai governi per guadagnare tempo, si è dissolta nel fumo delle esplosioni. Netanyahu, sempre più prigioniero della sua stessa guerra, sacrifica tutto, ostaggi compresi, pur di non cedere alla realtà di un fallimento. E l’Europa L’Europa osserva, deplora, e nel frattempo fornisce a Israele il necessario per continuare la mattanza.

Il laboratorio Gaza dimostra che si può fare: si può assediare una popolazione fino a ridurla in macerie, si può condannare alla fame, si può violare una tregua senza pagare alcun prezzo politico. Una scuola di impunità, dove la legge internazionale è carta straccia e il diritto di autodeterminazione non vale per tutti. Non per i palestinesi, non per chi non rientra nella geografia della civiltà che l’Occidente si racconta.

Nel frattempo, a Gerusalemme, le famiglie degli ostaggi riempiono le piazze gridando quello che nessuno al potere vuole ammettere: Netanyahu non ha il mandato per sacrificarli. Ma non c’è spazio per i dubbi quando la sopravvivenza politica si misura in bombardamenti. Netanyahu lo sa e scommette tutto sulla guerra, mentre i cadaveri si accumulano e la comunità internazionale volta la testa dall’altra parte.

La grande illusione era pensare che tutto fosse finito. Ma chi vive sotto le bombe non ha mai avuto il privilegio di illudersi.

Buon mercoledì. 

 

Foto WC

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La tregua è finita, non restate in pace

La tregua era una tregua solo per chi non guardava abbastanza. Per chi poteva permettersi di dimenticare che ogni giorno a Gaza significava assedio, fame, sete, e il suono costante dei droni in cielo. Adesso non c’è neanche più quell’illusione: l’aviazione israeliana ha ripreso i bombardamenti con la forza promessa da Netanyahu e con la complicità di chi si affretta a giustificare l’orrore. Più di 300 morti nella prima notte, decine di bambini, le case che crollano come carta, gli ospedali che ormai non sono più niente se non fosse per i medici che restano, consapevoli che salvarne uno vuol dire condannarne altri mille per mancanza di tutto.

Netanyahu ha deciso che la guerra è più conveniente della pace. Serve a schiacciare l’opposizione interna, serve a negoziare meglio con gli Stati Uniti, serve a ridisegnare il futuro di Gaza con il linguaggio della forza. Hamas non rilascia gli ostaggi e la punizione collettiva diventa la dottrina ufficiale: colpire tutti, donne e bambini inclusi, per dimostrare che Israele non tollera resistenze. Il ministro della Difesa minaccia che “le porte dell’inferno si apriranno” su Gaza. L’inferno lo ha già visto chi ancora scava tra le macerie.

Dicono che non c’era scelta. Dicono che la responsabilità è solo di Hamas. Dicono tante cose. Intanto, gli stessi che parlano di diritto alla sicurezza di Israele guardano altrove mentre un popolo viene annientato con il consenso della comunità internazionale. La tregua è finita. Il massacro continua.

Buon martedì.

Foto AS

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“Più di quanto un essere umano possa sopportare”

L’orrore non si misura solo nel numero di vittime, ma nelle ferite incise sulla dignità umana. Il rapporto intitolato “More than a human can bear: Israel’s systematic use of sexual, reproductive and other forms of gender-based violence since 7 October 2023”, pubblicato il 13 marzo 2025 dalla Commissione d’Inchiesta indipendente delle Nazioni Unite su Israele e i territori occupati denuncia uno schema preciso: la violenza sessuale e di genere come arma di guerra. Oltre la distruzione fisica di Gaza, il documento svela un sistema di oppressione che si accanisce sui corpi delle donne, sulle loro scelte riproduttive, sulla loro stessa esistenza.

Il dossier descrive ospedali materni colpiti, accessi negati alle cure, donne costrette a partorire in condizioni medievali, mentre il cibo e l’acqua vengono usati come strumenti di sottomissione. E poi ci sono i racconti di violenze inflitte come forma di dominio, di umiliazione, di annientamento identitario. Il rapporto documenta casi di stupri, molestie sessuali e altre forme di violenza di genere perpetrate dalle forze di sicurezza israeliane e da coloni nei territori occupati. In particolare, denuncia episodi di violenza sessuale contro uomini e donne palestinesi durante arresti e detenzioni, sottolineando che questi atti sono stati filmati e diffusi come strumento di terrore psicologico. I numeri non sono meri dati: il rapporto documenta oltre 46.000 persone uccise a Gaza, di cui almeno 7.216 donne e un numero imprecisato di persone morte per complicazioni legate alla gravidanza e al parto. Sono la prova di una sistematica violazione del diritto internazionale, che avviene nel silenzio complice di chi dovrebbe garantire la giustizia.

Non si tratta di eccessi, ma di un metodo. Il rapporto afferma chiaramente: “gli attacchi alle strutture sanitarie e il blocco dell’accesso alle cure riproduttive fanno parte di una strategia deliberata di oppressione e controllo della popolazione palestinese”. Un metodo che utilizza la guerra non solo per uccidere, ma per lasciare cicatrici incancellabili su generazioni di palestinesi. Il rapporto lo dice chiaramente: questa non è una serie di episodi isolati, ma un sistema di oppressione consapevole e voluto. Il mondo, ancora una volta, è chiamato a scegliere tra la complicità e la denuncia.

Buon venerdì. 

 

Foto AS

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Guerra in Europa No, guerra nel Pd. E i soliti noti non vedono l’ora

E così, un mercoledì di metà marzo, il Partito democratico si scopre incapace di trattenersi dalla sua natura. A Bruxelles, il delicato voto sul faraonico progetto di riarmo (in ordine sparso) di Ursula von der Leyen è l’occasione per mettere in discussione la segreteria.

Persino il presidente del partito, Stefano Bonaccini, per la prima volta si schiera contro la linea ufficiale e rompe quello che finora era sembrato un patto di non belligeranza con Elly Schlein. Con lui ci sono Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli e Raffaele Topo.

La linea della segretaria era ed è chiara: la sicurezza europea è fondamentale, ma non può passare da una corsa alle armi di 27 singoli Stati, per di più a discapito del già fragile welfare europeo, impoverito da crisi e pandemia. La cosiddetta ala riformista risponde: «Non votare il piano ReArm Europe ci avrebbe isolati». La differenza tra isolarsi e distinguersi è sottile, e su quel crinale si gioca tutto lo scontro.

Verrebbe da pensare, più banalmente, che una componente del partito – la solita, da sempre – non vedesse l’ora di disconoscere una segretaria democraticamente eletta, in vista delle prossime elezioni del 2027. Non vedevano l’ora di farlo, e la guerra, si sa, è da sempre un’ottima occasione di polarizzazione.

Eccola, la nuova vecchia linea politica del partito: usare gli eventi del mondo per logorare la segreteria di turno. Di nuovo, eccoci qua.

Buon giovedì.

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Manifestazione europeista: più bandiere che idee

La politica italiana è riuscita ad attorcigliarsi intorno a una manifestazione proposta da Michele Serra «per l’Europa». L’editorialista di Repubblica, qualche giorno fa, ha lanciato l’idea di «una manifestazione di sole bandiere europee, che abbia come unico obiettivo […] la libertà e l’unità dei popoli europei, per dare almeno l’impressione che esista un’opinione pubblica che si sente europea e non vorrebbe morire stretta nella tenaglia Trump-Putin».

Il Partito democratico guidato da Elly Schlein ha dato la propria adesione, i partiti centristi che usano l’Europa come ritornello ne sono felicissimi e il quotidiano degli Elkann sta investendo molte pagine sull’evento. In effetti, a prima vista, sono molte le persone disposte a manifestare contro l’imperialismo trumpiano e «per la libertà e l’unità dei popoli europei».

Ci sono almeno due evidenti problemi. Il primo è che l’Europa di oggi è la stessa che stringe accordi con i tagliagole in Libia e in Tunisia, la stessa che protegge la democrazia illiberale di Orbán, la stessa che accompagna lo smantellamento del welfare e dei servizi pubblici, la stessa che sventola il riarmo come via primaria per il trionfo democratico.

Poi c’è la diversa Europa che hanno in mente i Socialisti rispetto ai Popolari, per non parlare dei Patrioti o dei Conservatori. Insomma, si manifesta per un’idea che conviene non approfondire per non dividersi. Quindi si manifesta per una sensazione, che ognuno declina diversamente. Basta saperlo.

Buon martedì.

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Urso frena (ma non troppo): il ddl spazio è un regalo per Musk

C’era una volta il sovranismo che difendeva i confini, la patria e il controllo nazionale. Poi, quando si tratta di spazio, le porte si spalancano e l’accoglienza diventa entusiastica, purché il beneficiario abbia il pedigree giusto: Elon Musk, il signore dei satelliti, il magnate che ha fatto della sua impronta planetaria un passe-partout anche per i governi più nazionalisti. Il disegno di legge sulla space economy, approvato alla Camera e in attesa del Senato, è la dimostrazione plastica di come l’ideologia ceda il passo agli interessi, specie quando sono intrecciati a quelli dell’uomo più ricco del mondo.

Il ministro Urso ha provato a frenare l’entusiasmo filo-Musk, ma il risultato è un compromesso che lascia più di una porta aperta. Il silenzio in aula, l’assenza di un confronto vero e la fretta con cui si è arrivati al voto parlano chiaro: l’Italia si appresta a diventare un hub strategico per Starlink senza che nessuno ponga reali condizioni. Il sovranismo, qui, si traduce in accondiscendenza.

Intanto, Fratelli d’Italia cerca di mantenere il punto, ostentando una difesa della sovranità tecnologica che suona più come una foglia di fico. Ma il malumore interno esiste, specie per quel dialogo con Eutelsat che fa storcere il naso ai fedelissimi di Musk. Andrea Stroppa, il suo emissario in Italia, ha già dettato la linea sui social: chi non si allinea, finisce nel mirino.

E mentre il governo parla di strategia spaziale nazionale, la realtà è un’altra: nessun vincolo chiaro, nessuna regia europea e un pezzo di industria italiana pronto a essere svenduto. Lo spazio, in fondo, è l’ultima frontiera del mercato. E anche del sovranismo a geometria variabile.

Buon venerdì. 

Foto WP

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Ustica non è un mistero, è una resa

Ci sono storie che il potere preferisce seppellire sotto il peso del tempo. La strage di Ustica è una di queste. La richiesta di archiviazione non cancella i fatti, ma certifica l’impotenza di uno Stato che ha scelto il silenzio come strategia politica.

Quarantacinque anni di menzogne, insabbiamenti, complicità internazionali. E oggi, ancora una volta, si chiude un fascicolo con la formula più vigliacca: non si può andare oltre per “mancanza di collaborazione”. Come se la verità fosse un bene di lusso concesso solo su gentile richiesta degli Stati alleati.

Le indagini hanno confermato quello che ormai è chiaro da decenni: la notte del 27 giugno 1980 nei cieli sopra Ustica si combatteva una guerra mai dichiarata. Il DC9 dell’Itavia non è esploso per un guasto o per una bomba interna, ma è stato abbattuto in un’operazione militare di cui l’Italia è stata vittima. I radar militari hanno registrato la presenza di caccia stranieri, le testimonianze si sono accumulate, le prove distrutte o sparite nel nulla. Eppure, nessun governo ha mai preteso risposte.

Cosa significa oggi archiviare Ustica Significa inchinarsi, ancora una volta, al ricatto della “ragion di Stato”. Significa accettare che 81 persone siano morte in nome di un equilibrio geopolitico che ancora oggi non può essere scosso. Significa dire ai familiari delle vittime che la loro battaglia per la verità è stata vana.

Servirebbe un sussulto. Un governo che non lotta per la verità è un governo che accetta di essere irrilevante. E l’Italia ha già subito abbastanza umiliazioni.

Buon giovedì.

 

Il relitto dell’areo al Museo della memoria di Bologna, fonte della foto wikipedia

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Meloni, il riarmo e il solito equilibrismo: dire e non dire, esserci e non esserci

Giorgia Meloni, di fronte al piano ReArm Europe, non prende posizione. O meglio, fa il possibile per non farlo. Sa che sfilarsi sarebbe impossibile, ma sposarlo apertamente significherebbe mettersi in rotta di collisione con Matteo Salvini, con la retorica sovranista americana e con un’opinione pubblica italiana che sul riarmo è tutt’altro che entusiasta. Così la presidente del Consiglio resta in bilico: evita di esprimere entusiasmo per il piano della Commissione, ma allo stesso tempo lo sostiene, pretendendo però ritocchi che diano l’illusione di una negoziazione.

La sua vera preoccupazione non è la difesa europea, ma la partita politica interna. Da un lato, vuole blindare l’alleanza con gli atlantisti di Forza Italia e garantire a Guido Crosetto il suo spazio sulla scena internazionale. Dall’altro, teme che la Lega possa cavalcare il tema del “debito per le armi” per rosicchiarle consensi. Così, tra un attacco a Salvini e una dichiarazione strategica sul rischio di avvantaggiare l’industria bellica francese, Meloni costruisce la sua solita narrativa: presente ma distante, ferma ma flessibile. In realtà, prigioniera di se stessa.

 

Buon mercoledì.

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Missione fallita

Dicevano che l’Ucraina avrebbe potuto sconfiggere l’esercito di Putin. Quando gli è stato fatto notare la follia del loro proposito, hanno risposto che una mancata difesa avrebbe piallato l’Ucraina – ed è vero – e che si trattava solo di guadagnare con le armi un’agevole posizione per trattare. Missione fallita.

Dicevano che gli Usa fossero stati e sarebbero stati il faro dell’Occidente, che l’Europa aveva come unico imperativo quello di stargli in scia, che ci avrebbero pensato loro. A chi faceva notare che la strategia dell’Unione europea cameriera dei desideri americani avrebbe portato all’irrilevanza, rispondevano che il patto atlantico (e la Nato) era inossidabile. Missione fallita.

Dicevano che la guerra in Ucraina avrebbe rafforzato l’Europa. Missione fallita. Dicevano che con Putin non bisognava trattare, al diavolo lui, le sue richieste e al diavolo tutti i russi del presente e del passato. Dicevano che bisognava combattere chiunque dialogasse con Putin. Missione fallita.

Dicevano che non era tempo di attivare la diplomazia con voce più alta delle armi perché sarebbe arrivato il momento buono, il momento giusto. Missione fallita. Dicevano che i sacrifici dei cittadini per le armi avrebbero garantito la solidità del multilateralismo e della democrazia occidentale. Missione fallita.

Molti di loro sono gli stessi che leccavano Putin, che sorridevano del suo lettone regalato a Silvio. Sono gli stessi che ora leccano Trump, perché riconoscono lo stesso odore. Hanno fallito su tutto, ora propongono di ripiegare sulle armi.

Buon lunedì.

In apertura, disegno di Marilena Nardi

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L’era dell’eversione internazionale

Donald Trump, dalla Casa Bianca, ha deciso che lui e il suo governo sono al di sopra della legge. Le leggi nazionali e, ancor di più, il diritto internazionale sono insignificanti se si oppongono a chi fa «il bene del Paese» ed è solo lui a decidere cosa sia il bene.

Trump e Putin, novelli campioni dell’autocrazia internazionale, si sono riuniti nella capitale mondiale delle plutocrazie per decidere quale sia la pace giusta per l’Ucraina: riabilitazione dell’imperialismo di Mosca, taglieggiamento dell’Ucraina, disarticolazione dell’Unione europea.

In Italia il governo vuole a gran voce la separazione delle carriere per la giustizia, spiegandoci che magistrati e giudici vanno troppo spesso troppo d’accordo. Sono troppo politicizzati, dicono. Ieri un giudice ha smentito le volontà di un magistrato e la separazione delle carriere è finita nel cesso. Giudice politicizzato pure lui.

Sul banco degli imputati c’è un sottosegretario condannato in primo grado per aver commesso un reato nello svolgimento delle sue funzioni. La sua difesa in tribunale ha spiegato che Delmastro non sapeva, per questo non è stato all’altezza. Meloni se ne frega: per lei il suo sottosegretario è innocente e questo ci dovrebbe bastare.

Nel frattempo Gaza è diventata uno scempio politico, oltre che umanitario. L’ultima proposta è di trasformarla in un parco dei divertimenti senza l’ombra di un palestinese. Intanto la verità è scomparsa: ognuno ha la sua, e chi ha più soldi possiede la più potente.

È il tempo dell’eversione internazionale.

Buon venerdì.

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