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Salvini e la Lega scelgono di non scegliere

Alla fine il conciliabolo della Lega si conclude con un finto ultimatum della Lega a Formigoni: azzeramento Giunta o dimissioni.

Praticamente hanno deciso che Formigoni deve decidere. Come quegli adolescenti che per la paura di lasciare fanno di tutto per essere lasciati e intanto issano la bandiera dell’impresa.

Eppure la spiegazione è semplice: la Lega sa di non avere i voti per raggiungere la decenza nel caso in cui si vada al voto, cerca di ammaestrare il proprio elettorato continuando ad abbaiare sempre più forte ma in realtà ha una paura blu che Formigoni perda la pazienza. Domani Maroni e Salvini metteranno in scena un bel siparietto con Formigoni fingendo l’ennesimo penultimatum che si chiuderà con la solita mediazione. Diranno che la Lega ha la voce grossa e intanto il nuovo corso leghista 2.0 si sarà sdraiato anche su un concorso esterno in associazione mafiosa. Com’è nel DNA della Lega degli ultimi vent’anni.

Noi ci prepariamo alle primarie, intanto.

Scioglierci

Ci sono due aspetti sull’arresto dell’assessore Zambetti per concorso esterno in associazione mafiosa. Distinti ma confusi per dolore e rabbia.

Le persone che hanno rovinato la mia vita in questi ultimi anni dialogano con un assessore che siede poco distante da me in Aula. Non c’entra la responsabilità penale è molto di più: è la difficoltà di raccontarlo ai miei figli. Semplicemente.

C’è il punto politico: smettiamo di credere che sia criminalità organizzata, qui siamo alle macerie democratiche, all’incendio delle regole e per anni nessuno ha voluto vedere la brace. Nessuno. Anche dalle nostre parti abbiamo creduto (in troppi) che fosse roba da commissione o quelle cose lì e invece è il cuore del potere. Per la rabbia e l’indignazione non voglio nemmeno chiedere le dimissioni, vorrei gridare la sconfitta di tutti: la ‘ndrangheta gestisce pacchetti di voti perché la politica non riesce a farlo, le mafie usano le preferenze (un’opportunità che sta nelle regole) battendo gli onesti anche negli strumenti democratici, per dire.

Faccia una cosa il Governo, ma davvero: sciolga Regione Lombardia. Le inchieste degli ultimi anni parlavano di zona grigia, ora cominciano a galleggiare i nomi e i cognomi, la commissione antimafia aveva parlato di consiglieri eletti con i voti delle mafie, Massimo Ponzoni viene definito dagli atti della magistratura “capitale sociale della ‘ndrangheta” e ora Zambetti.

Scioglieteci. Da questo laccio che ogni giorno sembra più un cappio.

Mi dimetto da Podestà. Anzi no.

“Alle 16 conferenza stampa sulle ragioni delle mie dimissioni. Governare una Provincia in queste condizioni è (quasi) impossibile”. Lo scrive sul suo Twitter Guido Podestà, Presidente della moritura provincia di Milano.

Convoca la conferenza stampa e dice: non mi dimetto per responsabilità. Nessuno maligna però che quelle dimissioni gli avrebbero permesso di essere in tempo per candidarsi alle prossime politiche e (come si dice nei corridoi del Pirellone) una telefonata molto in alto di un leader molto basso ha bloccato tutto.

Il bipolarismo è una realtà politica. Cronica. Nel senso clinico però.

Immagina una città di abitanti senza casa

Come un incubo kafkiano in cui la città diventa un enorme lazzaretto e la malattia è la povertà. Ci siamo abituati a leggere le cifre e ci siamo allenati a fare i conti con le statistiche con l’anaffettività dei matematici, ci concediamo di spaventarsi solo davanti a cifre iperboleche e abbiamo perso tutti i gradi intermedi di sdegno e pietà. Un bianco o nero, giusto sbagliato, vero o falso sui dolori che non ammette eccezioni come una sicumera che ha bisogno di essere inumana per esistere.

Così succede che vengano pubblicati i risultati di una ricerca sui “senza dimora” in Italia e i numeri vengano snocciolati con piglio scientifico:

In tutto sono 47648 persone: una città come Mantova per i certificati di mancato “residente della Repubblica”. I dati sono tutti in un articolo di Vladimiro Polchi:

Molti gli italiani. Le persone senza dimora sono per lo più uomini (86,9%), hanno meno di 45 anni (57,9%), nei due terzi dei casi hanno al massimo la licenza media inferiore e il 72,9% dichiara di vivere da solo. Tanti gli italiani, anche se la maggioranza è costituita da stranieri (59,4%): le cittadinanze più diffuse sono la romena (l’11,5%), la marocchina (9,1%) e la tunisina (5,7%). In media, le persone senza dimora dichiarano di trovarsi in tale condizione da 2,5 anni; quasi i due terzi (il 63,9%), prima di diventare senza dimora, viveva nella propria casa, mentre gli altri si suddividono tra chi è passato per l’ospitalità di amici o parenti (15,8%) e chi ha vissuto in istituti, strutture di detenzione o case di cura (13,2%). Solo il 7,5% dichiara di non aver mai avuto una casa.

Dove vivono? Più della metà delle persone senza dimora (il 58,5%) vive nel Nord (il 38,8% nel Nord-ovest e il 19,7% nel Nord-est), poco più di un quinto (il 22,8%) al Centro e solo il 18,8% vive nel Mezzogiorno (8,7% nel Sud e 10,1% nelle isole). Milano e Roma accolgono ben il 71% dei senzatetto. Dopo Roma e Milano, tra i 12 comuni più grandi quello che accoglie più persone senza dimora è Palermo. 

C’è anche chi lavora. Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare: si tratta in gran parte di lavoro a termine, poco sicuro o saltuario. I lavori sono a bassa qualifica nel settore dei servizi (l’8,6% lavora come facchino, trasportatore, addetto alla raccolta dei rifiuti, giardiniere, lavavetri, lavapiatti), nel settore dell’edilizia (il 4% lavora come manovale o muratore), nel settore produttivo (il 3,4% come bracciante, falegname, fabbro, fornaio) o nel settore delle pulizie (il 3,8%). In media, quelli che hanno un lavoro guadagnano 347 euro mensili. E ancora: tra le persone senza dimora, ben il 61,9% ha perso un lavoro stabile, a seguito di un licenziamento o chiusura dell’azienda. 

Perché si finisce per strada? La perdita di un lavoro risulta tra gli eventi più rilevanti del percorso di emarginazione che conduce alla condizione di senza dimora, insieme alla separazione dal coniuge e alle cattive condizioni di salute. Ben il 61,9% dei senzatetto ha perso un lavoro stabile, il 59,5% si è separato dal coniuge e dai figli e il 16,2% dichiara di stare male.

Dentro i numeri c’è il lavoro così precario da non garantire l’accesso ad un luogo in cui stare, c’è la famiglia (sempre osannata) che si sfalda demolendo la cittadinanza di uno dei due, c’è il Nord che è più disabitato del sud nonostante la retorica delle proprie eccellenze, ci sono le cattive condizioni di salute che lo Stato certifica come non sostenibili: sono gli esodati dal diritto di cittadinanza, i nuovi invisibili.

Tutto questo mentre il rapporto ONU sulla fame nel mondo presentato oggi scrive a chiare lettere:

La crescita è necessaria e importante, ma non sempre sufficiente, o rapida. Da qui la necessità di sistemi di protezione sociale per assicurare che i più vulnerabili non siano lasciati da soli ma possano invece partecipare, contribuire e beneficiare della crescita.  Per i più deboli, coloro che spesso non possono trarre immediato beneficio dalle opportunità offerte dalla crescita economica, sono necessarie misure come il trasferimento di denaro, come i buoni pasto o assicurazioni sanitarie.  Le reti di protezione sociale possa far migliorare la nutrizione dei bambini – un investimento che ripagherà nel futuro con adulti più robusti, più in salute e con migliori livelli d’istruzione.  Con reti di protezione sociale a complemento della crescita economica, fame e malnutrizione possono essere eliminate.

Che poi è il cuore politico.

Candidatura minatoria

Non so voi ma il logo della campagna di Bersani per le primarie tutto così a lettere ritagliate e incollate mi inquieta: non si capisce se sia una candidatura minatoria o una candidatura anonima. Una cosa del genere, per dire. Ovviamente si scherza, eh.

Anna Stepanovna Politkovskaja

Uccisa sei anni fa.

Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me.

Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto.

È una situazione a cui non ti abitui, ma impari a conviverci: erano queste le condizioni in cui lavoravo durante la seconda guerra in Cecenia, scoppiata nel 1999. Mi nascondevo dai soldati federali russi, ma grazie ad alcuni intermediari di fiducia riuscivo comunque a stabilire dei contatti segreti con le singole persone. In questo modo proteggevo i miei informatori.

Dopo l’inizio del piano di “cecenizzazione” di Putin (ingaggiare i ceceni “buoni” e fedeli al Cremlino per uccidere i ceceni “cattivi” ostili a Mosca), ho usato la stessa tecnica per entrare in contatto con i funzionari ceceni “buoni”. Molti di loro li conoscevo da tempo dato che, prima di diventare “buoni”, mi avevano ospitato a casa loro nei mesi più duri della guerra.

Ormai possiamo incontrarci solo in segreto perché sono considerata una nemica impossibile da “rieducare”. Non sto scherzando. Qualche tempo fa Vladislav Surkov, viceresponsabile dell’amministrazione presidenziale, ha spiegato che alcuni nemici si possono far ragionare, altri invece sono incorreggibili: con loro il dialogo è impossibile. La politica, secondo Surkov, dev’essere “ripulita” da questi personaggi. Ed è proprio quello che stanno facendo, non solo con me.

L’imboscata
Il 5 agosto del 2006 mi trovavo in mezzo a una folla di donne nella piccola piazza centrale di Kurchaloj, un villaggio ceceno grigio e polveroso. Portavo una sciarpa arrotolata sulla testa come fanno molte donne locali della mia età. La sciarpa non copriva completamente il capo ma non lo lasciava neanche scoperto. Era fondamentale non essere identificata, altrimenti mi sarebbe potuto succedere di tutto. Su un lato della piazza, appesa al gasdotto che attraversa Kurchaloj, c’era una tuta da uomo intrisa di sangue. La testa, invece, non c’era più. L’avevano portata via.

Nella notte tra il 27 e il 28 luglio due guerriglieri ceceni sono caduti in un’imboscata tesa alla periferia di Kurchaloj da alcuni uomini fedeli all’alleato del Cremlino, Ramzan Kadyrov, il primo ministro ceceno. Adam Badaev è stato catturato mentre Hoj-Ahmed Dushaev, originario di Kurchaloj, è stato ucciso. Verso l’alba una ventina di Zhiguli piene di uomini armati hanno raggiunto il centro del villaggio dove si trova il commissariato di polizia. Portavano la testa di Dushaev. Due uomini l’hanno fissata al gasdotto al centro del villaggio e sotto hanno appeso i pantaloni macchiati di sangue. Poi hanno trascorso le due ore successive a fotografare la testa con i cellulari.

La testa mozzata è rimasta esposta per ventiquattr’ore. Alla fine gli uomini della milizia l’hanno portata via, lasciando i pantaloni appesi alla tubatura. Gli agenti dell’ufficio del procuratore generale intanto stavano esaminando la scena dell’imboscata. Gli abitanti del paese assicurano di aver sentito uno degli agenti chiedere a un subordinato: “Hanno finito di ricucire la testa?”. Il corpo di Dushaev, con la testa ricucita al collo, è stato riportato sul luogo dell’imboscata, e l’ufficio del procuratore generale ha avviato l’indagine seguendo le normali procedure investigative. Ho scritto un articolo per raccontare l’episodio, senza fare commenti ma fornendo una ricostruzione dei fatti. Sono tornata in Cecenia proprio quando in edicola usciva il giornale con il mio articolo.

In piazza le donne hanno cercato di nascondermi. Erano sicure che gli uomini di Kadyrov mi avrebbero sparato se avessero saputo che ero lì. Tutte mi hanno ricordato che il premier aveva giurato pubblicamente di uccidermi. Era successo durante una riunione dell’esecutivo: Kadyrov aveva dichiarato di averne abbastanza e aveva aggiunto che Anna Politkovskaja era una donna spacciata. Me lo hanno raccontato alcuni membri del governo. Perché tanto odio? Forse non gli piacevano i miei articoli? “Chi non è dei nostri è un nemico”. Lo ha detto Surkov, il principale sostenitore di Kadyrov nell’entourage di Putin.

“È talmente stupida che non conosce neanche il valore dei soldi. Le ho offerto del denaro ma non lo ha accettato”, ha detto Kadyrov a un mio vecchio conoscente, un ufficiale delle forze speciali della milizia. È “uno dei nostri”, e se ci avessero sorpresi a parlare di certo avrebbe passato dei guai. Al momento di salutarci, fuori era buio. L’ufficiale mi ha pregato di non uscire, perché aveva paura che mi uccidessero. “Non andare. Ramzan è molto arrabbiato con te”. Sono uscita lo stesso. Quella notte a Grozny avrei dovuto incontrare una persona di nascosto.

Si è offerto di farmi accompagnare con un’auto della milizia, ma l’idea mi sembrava ancora più rischiosa: sarei diventata un bersaglio per i guerriglieri. “Ma almeno nella casa dove stai andando sono armati?”, mi ha chiesto con aria preoccupata. Durante tutta la guerra sono stata tra due fuochi. Quando qualcuno minaccia di ucciderti i suoi nemici ti proteggono. Ma domani la minaccia verrà da qualcun altro. Perché mi dilungo su questa storia? Solo per spiegare che in Cecenia le persone sono preoccupate per me, e questo fatto mi commuove profondamente. Temono per la mia vita più di me.

Perché Kadyrov vuole uccidermi? Una volta l’ho intervistato e ho pubblicato le sue risposte senza cambiare una virgola, rispettando tutta la loro incredibile stupidità e ignoranza. Kadyrov era convinto che avrei riscritto completamente l’intervista, per farlo apparire più intelligente. In fondo oggi la maggior parte dei giornalisti, quelli che fanno parte “dei nostri”, si comporta così.

Basta questo per attirarsi una minaccia di morte? La risposta è semplice come la visione del mondo incoraggiata dal presidente russo Vladimir Putin. “Dobbiamo essere spietati con i nemici del reich”. “Chi non è con noi è contro di noi”. “Gli oppositori devono essere eliminati”.

“Perché ti sei fissata sulla storia della testa tagliata?”, mi ha chiesto a Mosca Vasilij Panchenkov, che dirige l’ufficio stampa delle truppe del ministero degli interni, pur essendo una persona per bene. “Non hai altro a cui pensare?”. Mi sono rivolta a lui per avere un commento su Kurchaloj per la Novaja Gazeta. “Lascia perdere, fai finta che non sia successo niente. Lo dico per il tuo bene!”.

Ma come posso dimenticare? Detesto la linea del Cremlino elaborata da Surkov, che divide le persone tra chi “è dalla nostra parte” e chi “non lo è” o addirittura “è dall’altra parte”. Se un giornalista è “dalla nostra parte” otterrà premi e rispetto, e forse gli proporranno perfino di diventare un deputato della duma, il parlamento russo. Ma se “non è dalla nostra parte”, sarà considerato un sostenitore delle democrazie europee e dei loro valori, diventando automaticamente un reietto. Questo è il destino di chiunque si opponga alla nostra “democrazia sovrana”, alla “tradizionale democrazia russa”.

Riferire i fatti
Non sono un vero animale politico. Non ho aderito a nessun partito perché lo considero un errore per un giornalista, almeno in Russia. E non ho mai sentito la necessità di difendere la duma, anche se ci sono stati anni in cui mi hanno chiesto di farlo. Quale crimine ho commesso per essere bollata come “una contro di noi”? Mi sono limitata a riferire i fatti di cui sono stata testimone. Ho scritto e, più raramente, ho parlato.

Pubblico pochi commenti, perché mi ricordano le opinioni imposte nella mia infanzia sovietica. Penso che i lettori sappiano interpretare da soli quello che leggono. Per questo scrivo soprattutto reportage, anche se a volte, lo ammetto, aggiungo qualche parere personale. Non sono un magistrato inquirente, sono solo una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo. I servizi trasmessi in tv e gli articoli pubblicati sulla maggior parte dei giornali sono quasi tutti di stampo ideologico. I cittadini sanno poco o niente di quello che accade in altre zone del paese e a volte perfino nella loro regione.

Il Cremlino ha reagito cercando di bloccare il mio lavoro: i suoi ideologi credono che sia il modo migliore per annullare l’effetto di quello che scrivo. Ma impedire a una persona che fa il suo lavoro con passione di raccontare il mondo che la circonda è un’impresa impossibile. La mia vita è difficile, certo, ma è soprattutto umiliante. A 47 anni non ho più l’età per scontrarmi con l’ostilità e avere il marchio di reietta stampato sulla fronte. Non parlerò delle altre gioie del mio lavoro – l’avvelenamento, gli arresti, le minacce di morte telefoniche e online, le convocazioni settimanali nell’ufficio del procuratore generale per firmare delle dichiarazioni su quasi tutti i miei articoli. La prima domanda che mi rivolgono è sempre la stessa: “Come e dove ha ottenuto queste informazioni?”.

Naturalmente gli articoli che mi presentano come la pazza di Mosca non mi fanno piacere. Vivere così è orribile. Vorrei un po’ più di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo, ricevere ogni giorno in redazione persone che non sanno dove altro andare. Per il Cremlino le loro storie non rispettano la linea ufficiale. L’unico posto dove possono raccontarle è la Novaja Gazeta.

***

Questo articolo è stato scritto per Another sky, un’antologia curata dall’associazione English Pen (www.englishpen.org) che sarà pubblicata nella primavera del 2007 da Profile Books.

Internazionale, numero 665, 26 ottobre 2006

Puttana, negra e clandestina: lo stupro perfetto (e un libro da leggere)

Il libro da leggere è “Le ragazze di Benin City“.

Sul perché leggerlo riporto un articolo di Laura Maragnani, una delle autrici. Non serve altro. No.

Diario del mese, anno VI n. 6, 20-10-2006

Il problema è solo questo, dice Isoke: da dove cominciare a raccontare. 

Da Judith, 14 anni appena, che alla sua prima sera di lavoro sui marciapiedi romani della Salaria è stata stuprata e picchiata dal primo cliente, e poi lasciata sull’asfalto più morta che viva? O da Joy, che era incinta, e che ha perso il bambino che aspettava? Da Gladys, a cui un cliente ha distrutto l’ano violentandola tre-quattro volte di fila? O da Rose, stuprata da chissà quanti e in chissà che modo, fino ad avere l’utero perforato; e che, pure, non osava nemmeno mettere piede in un ospedale per curarsi? 
Non sono le storie che mancano. Anzi, sono perfino troppe, quaggiù, sugli affollati marciapiedi d’Italia.

Gli stupri qui sono roba quotidiana; violenti, se non addirittura atroci; eppure assolutamente invisibili, e dunque assolutamente impuniti: «Perché le ragazze non denunciano mai. E nemmeno vanno al pronto soccorso, a meno di non essere moribonde», spiega Isoke. 
E la voce le trema. Le viene da piangere. 
Isoke ha 27 anni, è alta, mora, bella. Nigeriana. Di Benin City. È da Benin che provengono, a migliaia, le ragazze buttate dal racket sui marciapiedi italiani, 10-12 ore al giorno di macchine e di clienti, esposte in mutande e tacchi a spillo a ogni genere di violenze e di aggressioni. Lei, trafficata come le altre, è riuscita a uscirne e a salvarsi. Oggi vive ad Aosta, sta per sposare un italiano. 

E insieme, lei e io, stiamo scrivendo per l’editore Melampo un libro sulla tratta. Sulla sua esperienza di ieri e sul suo lavoro di oggi: uno, «dare voce a chi non ce l’ha», ossia alle ragazze che ogni sera scendono in strada senza sapere se mai ritorneranno, perché sono «almeno duecento, stando alle cronache dei giornali, quelle che negli ultimi anni sono state accoltellate, strangolate, uccise a furia di botte o di iniezioni di veleno agricolo», senza contare quelle torturate e stuprate e massacrate, ma che in qualche modo sono tornate a casa vive, e dunque non fanno assolutamente notizia; due, «cercare di creare una rete, di trovare insieme un percorso d’uscita, un’alternativa alla strada»; tre, «mettere in piedi una casa-alloggio per le ragazze che non ne possono più». 
Aprirà tra poche settimane, ad Aosta. E si chiamerà, ovviamente, la Casa di Isoke. Sottoscrivete. L’indirizzo è rbc_isoke@yahoo.it . 
Allora, dice Isoke. Questa storia degli stupri etnici. Le ragazze la vivono tutti i giorni, ogni volta che vanno al lavoro. Ogni sera escono di casa con due pensieri in testa: forse questa è la sera che incontro il cliente che mi aiuta, che magari mi risolve un po’ il problema del debito. 
Trenta, cinquanta, sessantamila euro. Il costo che le ragazze pagano per arrivare in Italia, con la promessa di un lavoro che le salverà dalla miseria di Benin City. Arrivano qui, dice, e scoprono che il lavoro è poi sempre uno e uno soltanto, il marciapiede. E sul marciapiede succede di tutto; ma voi non lo sapete. E dunque il secondo pensiero che le ragazze, ogni sera, hanno in testa è questo: speriamo che non mi succeda niente. Ma a una o all’altra qualcosa succede. Sempre. Gli stupri sono la regola. Tutti i giorni, dice Isoke. Tutti i giorni gliene segnalano uno.

Stavamo scrivendo la storia di Osas, arrivata a Torino dopo due anni (due anni? «Sì, due anni interi») di viaggio attraverso l’Africa, su su dalla Nigeria fino al deserto del Sahara. In 60 stipati su un camion, senz’acqua né cibo, e quelli che erano di troppo venivano lasciati giù. Così. A morire. Mentre il camion proseguiva verso il nord del Marocco su una pista punteggiata di ossa e di cadaveri freschi. Arrivata a Torino, Osas è stata buttata sulla strada. Caricata da un cliente. 
Dove andiamo? ha chiesto lui. «Posto tranquillo» ha detto lei; era una delle poche frasi che le avevano insegnato le compagne di lavoro. Solo che il posto tranquillo di lui era una cascina semidiroccata nell’hinterland torinese, spersa nella nebbia e nel freddo. E arrivati lì lui le ha puntato un coltello alla gola. L’ha violentata, picchiata, rapinata. Lei ha urlato e urlato. Da un’abitazione vicina una voce ha gridato: «Ma basta, ma finitela. State zitti». 
E solo dopo che l’uomo se n’è andato qualcuno ha osato mettere il naso fuori. Un ragazzo con un cane. Che vuoi, ha chiesto mentre il cane le ringhiava contro; che cosa è successo. Poi l’ha caricata in macchina e l’ha riportata a Torino. «È stato uno degli uomini più gentili che ho incontrato in Italia» dice Osas adesso. Bene. 
Stavamo scrivendo di Osas quando a Isoke è arrivato un messaggio dalle ragazze di Verona. È sparita Prudence. Arrivata una settimana fa dalla Nigeria. Vent’anni. Analfabeta. Non una parola che sia una di italiano. Prudence non tornava a casa da due giorni. A casa aveva lasciato i suoi vestiti e le sue poche cose. Le compagne di strada la stavano cercando dappertutto. Ospedali, questure. Niente. Fino a che è ricomparsa. Irriconoscibile. Sfigurata dalle botte. Quasi non riusciva a camminare. Che cosa è successo, le ha chiesto Isoke in dialetto ebo. «Mi hanno bucato l’utero, mi hanno bucato l’utero». Prudence riusciva a dire solo questo, ossessivamente. A fatica abbiamo saputo che un cliente l’aveva caricata al suo joint, che è lo spicchio di marciapiede che ogni ragazza ha in dotazione e per cui paga a chi di dovere un affitto mensile che va dai 150 ai 250-300 euro. L’aveva caricata e portata chissà dove. E violentata. E riviolentata. E picchiata. Massacrata. Derubata. Scaricata in un bosco, a chilometri dalla stanzetta che Prudence considerava casa sua. Prudence è rimasta in quel bosco tutta la notte, tutto il giorno dopo. Senza mangiare né bere. Sconciata. Sanguinante. A fatica s’è poi trascinata fino a un campeggio, c’era gente che faceva vacanza, che l’ha riportata a Verona. Lì è finalmente riuscita a orientarsi. È tornata a casa. «Mi hanno bucato l’utero, mi hanno bucato l’utero». 
In ospedale non ci è voluta andare, per paura che la polizia la rimandasse a casa. Rimpatrio forzato. Così com’era, in mutande. A marcire in una prigione di Benin City dove le altre detenute ti violentano con una bottiglia, ridendo e dicendo: cosa è meglio, dicci, questa bottiglia o quello che sei andata a goderti in Italia. Di Prudence non abbiamo saputo più niente. È diffìcile per una donna italiana ascoltare storie del genere. 
Ascoltare Isoke che dice: ogni africana stuprata è un’italiana salvata. È difficile. È orribile. Ma vero. I nostri uomini, gli italiani. Stupratori a pagamento, li chiamano le ragazze sulla strada. Quelli che perché pagano i 25 euro della tariffa standard si sentono in diritto di esigere qualunque cosa. Cazzo ti lamenti, bastarda. I soldi li hai avuti. Succhia. Girati. Apri il culo. E giù botte. Hanno l’ossessione del culo, gli italiani che vanno a puttane.
«Dicono: voglio fare quello che con mia moglie non faccio mai», spiega Isoke. «Scene da film porno. Tutto quello che hanno visto nei film porno e con la moglie non hanno il coraggio o il permesso di fare». Ho pagato, è la frase chiave dello stupratore da 25 euro. E giù botte, se solo dici di no. Gladys non riesce quasi più a camminare. Un cliente le ha sfondato l’ano. Era «come una bestia» dice, l’ha costretta a subire una, due, tre, quattro violenze, a un certo punto Gladys ha sentito «come un distacco, nel profondo». Da quella lacerazione non è più guarita. Ospedale? Cure? Denunce? Ha una paura terribile, Gladys. Non ne vuole sapere. Si trascina sul marciapiede a fatica, ogni sera. Ormai zoppica. E non c’è verso di convincerla ad andare da un medico. Dice: «Se la polizia lo viene a sapere mi rimanda a casa». È la regola. 
Dice Isoke: «A volte le ragazze ridotte molto male finiscono al pronto soccorso. Ma devono veramente essere ridotte molto, ma molto male. Incoscienti. In coma». Al pronto soccorso non è che le trattino coi guanti. Dovrebbe essere rispettata la privacy, certo. Ma chi mai dice che la legge valga anche per le puttane negre clandestine? A volte infermieri e medici sono cattivi, a volte addirittura strafottenti. Chiamano la polizia. 
La polizia prende svogliatamente la denuncia; poi ti da il foglio di via. Sei la vittima di uno stupro. Ma sei anche quella che ne paga le conseguenze. Così le ragazze, appena possono, girano alla larga dalla polizia e dagli ospedali. Tornano a casa più morte che vive. Traumatizzate. Distrutte.

La maman dice: ma di cosa ti lamenti, a me è successo tante volte. E il giorno dopo le rimanda sulla strada, coi lividi e i tagli e i segni dei morsi e delle cinghiate e delle bruciature di sigaretta in bella vista. I clienti a volte si impietosiscono, dice Isoke. Ti danno i soldi, dicono: vai a casa e curati. Allora la maman dice: vedi, anche ridotta così sei in grado di guadagnare. Di cosa mai ti lamenti. Sei scema. Gli stupri di gruppo. Capitano spesso. Tre-quattro per volta, arrivano, ti caricano a forza. Sei fortunata a uscirne viva. A volte gli uomini dicono delle cose, mentre ti stuprano. Cose come: brutta negra. Cazzo vieni a fare qui. Così impari. Startene in mutande a casa tua. Ti faccio vedere io. Schifosa puttana. Chi ti ha mai detto divenire qui. Tornatene nella foresta, insieme alle scimmie. Si sentono in qualche modo dei giustizieri, dice Isoke. Ce l’hanno con te perché sei donna. E nera. E puttana. E debole. Non so perché ma i più violenti, quelli più grandi e grossi, si scelgono sempre le ragazze più leggere e più fragili. Quelle così magre e sottili che sembrano una foglia di mais.
 Se ci provano i ragazzini, 16 anni, 18, bé, dice Isoke, gli molli un pugno da tramortirli e scappi via. I più pericolosi sono quelli dai 25 anni in su. Ottanta-novanta chili. Trent’anni. Quaranta. Quelli che a prima vista non diresti mai che sono stupratori. Che non hanno niente nel vestire che ti allarmi, nulla nell’approccio che ti metta in guardia. Sono quelli che poi dicono: ho pagato. Che magari hanno l’Aids ma non vogliono usare il preservativo, per sfregio, e poi ti mettono incinta. Che dicono negra di merda, adesso ti sistemo io. Che tirano fuori il coltello o la pistola. Che ti bruciano con le sigarette, ti riempiono di pugni, ti portano via la borsetta, i soldi, il cellulare. Che ti lasciano a decine di chilometri da casa tua, nel buio o nella neve. E queste sono soltanto alcune delle cose che ti posso raccontare. Solo ascoltare è mostruoso. E ascoltare non finisce mai. 

Ci sono le mille altre storie della strada, le mille vicine di marciapiede delle ragazze di Benin City: le trans sudamericane, vittima preferita dei nordafricani. Stupro omosessuale, lo chiama pudicamente Isoke. C’è la bambina brasiliana di dieci anni. Ci sono le albanesi violentate coi bastoni e con le bottiglie dai loro magnaccia, per convincerle ad andare sulla strada. C’è un campionario osceno di bestialità maschile, senza filtri e ma e se. E, soprattutto, c’è la paura delle ragazze. Perenne.

Dice Isoke: il primo stupro è diffìcile da superare. Sei distrutta. Qualcosa in te si è rotto per sempre. Però ti consoli dicendoti: mi sono vista morta, eppure sono viva. Al secondo dici: capita. Al terzo dici: è normale. Dal quarto in poi non li conti più. È un rischio del mestiere. Di Prudence, dicevo, non abbiamo saputo più niente. Non è ancora andata in ospedale. Se l’infezione non si aggrava non ci andrà probabilmente mai. La curano le sue compagne di strada e di casa.
Una di queste è Eki, che ha avuto finalmente il coraggio di raccontare: è successo anche a me. Mi hanno stuprata e picchiata e torturata con le sigarette accese. Allora le sue compagne hanno detto: anch’io. Stanno mettendo in comune la paura, lassù a Verona. Stanno cominciando a pensare che forse bisogna trovare il coraggio di sfidare il racket e decidere di smettere. Non che sia facile, dice Isoke. Non lontano da Verona una ragazza che non voleva più saperne del marciapiede, Tessie, è stata costretta dai suoi magnaccia a bere acido muriatico. È finita al pronto soccorso. L’hanno salvata per un pelo. E adesso si ritrova sfigurata e handicappata e quasi muta. Una ragazza africana di villaggio, semplice semplice. Ignorante. Analfabeta. Che diavolo di futuro può trovare in Italia. Ditemelo voi. Poi ci sono le ragazzine. Tredici anni, quattordici. Vergini. Vendute agli italos dalle famiglie che vedono i vicini che fanno una bella vita grazie alle figlie che lavorano in Italia. Che si comprano il motorino. Il Mercedes coi sedili leopardati che quando passa nei villaggi solleva una gran polvere e tutti i ragazzini gli corrono dietro rapiti. 
Quando ‘ste ragazzine arrivano in Italia le maman si mettono le mani nei capelli. Che cosa devo fare con te, che non sai niente. Allora pagano tré-quattro ragazzoni africani, grandi bastardi, dice Isoke, che le violentano in tutti i modi finché non hanno capito e imparato quel che si deve fare sulla strada.
Ora. Vorrei potermi risparmiare almeno questa parte della storia, ma non si può. Gli extracomunitari che raccolgono i pomodori, l’uva, le mele. Dodici, quindici ore di lavoro per sette, dieci, dodici euro. Frustrazione e rabbia pura. 
Vi siete mai chiesti come la sfogano? Sulla Domiziana, dalle parti di Castelvolturno, terra senza dio né legge in provincia di Caserta, le ragazze vivono in catapecchie senz’acqua né luce. Guadagnano 5 o 10 euro a botta. Sono la vittima perfetta dei loro stessi compaesani. Che le schifano, «perché si vendono ai bianchi». 
E non hanno soldi e non le pagano e le rapinano nella certezza della totale impunità. Si vendicano della vita di merda che fanno. Con loro, le ragazze di Benin City. 
Isoke dice: però questo io non lo posso dire. Allora lo dico io. In certe zone la polizia chiude non un occhio ma due, e forse anche tre, avendoli, e pure anche quattro. Va bene che ci siano le ragazze di Benin City: sono uno sfogatoio perfetto, un matematico calmieratore di tensioni sociali ed etniche. Sono la vittima designata, l’agnello sacrificale. Perché ogni africana stuprata è un’italiana salvata. E l’africana stuprata tace. Ha troppa paura per parlare. È perfettamente invisibile e dunque non fa notizia né statistica. Nemmeno di questi tempi, ragazze mie. Pensatele ogni volta che uscite di casa a notte fonda, e soprattutto ogni volta che rientrate. Voi, bianche. Voi, sane e salve.

 

Arrivare a chi la pensa diversamente

Non riusciamo a far sì che il nostro discorso arrivi a chi la pensa diversamente, a suscitare dei dubbi, a far cambiare opinioni, e quindi comportamenti. Ed è anche chiaro che molti non ci provano nemmeno, soprattutto nella politica e nei media. La demagogia del 2000 prevede che si lisci il pelo al proprio pubblico, lo si compatti, gli si dica cosa vuole sentirsi dire, a volte anche in buona fede: e non si metta per niente in conto la necessità di parlare ad altri, di convincere altri, di guadagnare nuova attenzione alle proprie idee e ai propri progetti. Anzi, attitudini di questo genere sono vissute come pubblicitarie, promozionali, persino criticate: scrissi qualche anno fa dell’immagine negativa che circonda la pratica del proselitismo, assurdamente.

Luca Sofri rilancia un tema che discuto da tempo nelle assemblee, convegni e incontri a cui mi capita di partecipare in giro per l’Italia: il coraggio di essere “pop” nel senso più profumato del termine. Popolari perché si riesce ad alzare i temi senza alzare i toni, popolari perché ci si impegna a trasformare in oggetto di chiaccherata sotto casa o al mercato punti e obiettivi che per troppo tempo abbiamo lasciato ai lambiccamenti della politica, popolari perché accendere l’acquolina in bocca agli altri sui nostri impegni è il senso della politica, in fondo.