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La mafia a Brescia, la mafia in Lombardia: «Siamo tutti complici»

da BresciaToday

Parlare di mafia si fa sempre più complicato, i tentacoli della Piovra si fanno sempre più vasti, più di quanto si possa immaginare, “ce li abbiamo fin sotto casa“. Con la complicità di tanti, non solo la classe dirigente, con “i pentiti trattati come eroi”, e la Regione Lombardia che dentro di sé, quasi come una qualità oggettiva, possiede “il concime ideale per la proliferazione mafiosa”. A Castegnato il primo incontro del ciclo Mafie al Nord, con Giuseppe Giuffrida (direttore del Distretto Antimafia di Brescia e responsabile dei beni confiscati di Libera Brescia) e Giulio Cavalli (consigliere regionale di SEL), da sempre impegnati nel tenere alta l’attenzione, per non far chiudere gli occhi, per non “farti voltare dall’altra parte”.

In Lombardia e a Brescia, spiegano i relatori, “siamo stati bravi solo a nascondere tutto sotto la sabbia, a fare finta di niente”, giustificando “imprenditori e politici spericolati, giullari e prostitute” e, come detto, con responsabilità comuni. “Una Regione che ha già perso, la Regione dove si vende e si consuma un terzo della cocaina del Paese, dove le infiltrazioni mafiose cominciano dalle banche, si legano ai ricchi imprenditori ma anche ai poveri, con i ricatti, con l’usura”. Spuntano supermercati “come funghi”, strutture commerciali che “non hanno abbastanza clienti per mantenersi”, un fenomeno inarrestabile che allora “non è solo politico”, sale slot e videopoker “piazzati secondo zone d’interesse, fuori dalle leggi del mercato, come se ci fosse un suggeritore”, panettieri e panifici che “non hanno bisogno di vendere pane per guadagnare”, case e capannoni “prima costruite e poi invendute”.

E ancora le coincidenze che si ripetono, la storia di Daccò “con lo stesso odore di quelle di Fiorani e di Sindona”, i faccendieri “amici degli amici in grado di far valere quando serve il loro legame con quelli che contano”, quando la piccola Denise a soli 20 anni è già testimone di giustizia. Il riciclaggio, la memoria di comodo, problemi “culturali e morali”, il reato 416 in cui “tre o più persone cercano di accrescere il proprio bene privato a discapito del bene pubblico, giù al Nord quasi una costante”, o il 416/bis a cui si aggiungono “minacce e intimidazioni”.

Scelte suicide come “la spinta all’intolleranza verso i deboli e non verso i prepotenti”, frammenti di un puzzle davvero troppo grande di cui però bisogna sfatare i luoghi comuni, “perché sappiamo tutti che Provenzano e Riina erano solo ‘pezzi’, piccole parti di un apparato gigantesco, senza mai sapere chi fossero gli statisti quelli puri, abbiamo avuto paura delle loro ombre, di gente che neanche meritava considerazione”.

Una bruciante conclusione quella di Cavalli e Giuffrida: “La paura può essere lecita, l’indifferenza invece no. Chi non prende posizione è come se fosse un colluso, l’antimafia educata non esiste. La mafia non si combatte con l’impegno straordinario di pochi, si combatte con l’impegno quotidiano di tanti. Prima di tutto dobbiamo imparare a sconfiggere la mafia che c’è dentro di noi”.

La lettera degli uomini della DIA: Ministro chi vuole smantellarci?

C’è un preciso progetto politico nel lasciare allo sbando un ufficio che si occupa di criminalità organizzata? Se lo chiedono gli agenti della Dia e lo hanno chiesto al ministro Cancellieri inviandole una lettera. Una lettera disperata, dai contenuti forti, di chi ancora crede nel proprio lavoro e spera, quantomeno, di trovare risposte. Perché se la Direzione vuol essere seppellita e dimenticata, lasciando carta bianca alla criminalità, qualcuno deve metterlo nero su bianco:

Agghiacciante poi scoprire che vengono creati gruppi di lavoro ad hoc, esterni alla Dia che si appropriano di sue competenze specifiche. L’ufficio della Direzione che controlla i flussi di appalti e di grandi opere, in situazioni ad esempio come quelle post terremoti  –  in cui l’investimento nel mattone diventa un’attrazione irresistibile per riciclare il denaro delle mafie  –  non viene utilizzato.

Al suo posto si creano team per fronteggiare le emergenze (attualmente quella del dopo terremoto in Emilia, tanto per fare un esempio) che fanno capo alla Criminapol. Gruppi di lavoro pagati extra quando già ne esiste uno creato proprio per fare quel tipo di investigazioni. Un’assurdità. E allora gli agenti della Dia domandano al ministro dell’Interno: “Cui prodest il ritorno alla frammentazione di informazioni se non alla mafia stessa e ai suoi sostenitori?”. Già: a chi?

Decoro Urbano 2.0

Un progetto nato poco più di un anno fa (Settembre 2011) che conta già circa 50 comuni attivi per le segnalazioni (e relativo ticket di gestione/soluzione) di degrado urbano con una piattaforma open source & gratuita sia per i cittadini che per l’ente locale. Vedi, scatti, segnali all’amministrazione comunale. Veloce. Tutto quello che serve è qui. L’idea è così semplice e funzionale che capisci subito che basterebbe poco. (Grazie a Ale per la segnalazione)

 

 

Asilo Mariuccia: si erano sbagliati, eh

La Fondazione Asilo Mariuccia ottenne nel 2010 uno «stanziamento» da 600 mila euro dalla Regione Lombardia, quando aveva un «patrimonio netto» di circa 11 milioni di euro, titolo di Stato per circa 1 milione e «disponibilità liquide» di oltre 2 milioni. Lo si legge nel decreto di sequestro firmato dal gip di Milano Annamaria Zamagni, che parla di una «richiesta» di «contributo regionale» ingiustificata dalla «situazione economica» dell’istituto. Gli investigatori della Gdf di Milano, su ordine del gip che ha accolto la richiesta del pm di Milano Tiziana Siciliano, hanno sequestrato 600 mila euro sui conti correnti della Fondazione.

Lo scriveva il Corriere della Sera.

Oggi, sfogliando le brillanti delibere della Giunta Formigoni, scopriamo che ci hanno ripensato. Ovviamente si costituiscono parte civile (e per fortuna) e ovviamente la Regione Lombardia è “parte lesa”. Come in tutti gli ultimi scandali che sono avvenuti, scommettiamo.

Qui la delibera per chi vuole essere curioso.

Sul San Raffaele Formigoni come Schettino

Comunicato stampa
“La crisi occupazionale e sanitaria, che attanaglia i resti del San Raffaele, è la polaroid delle macerie create da un ventennio di politica formigoniana in Regione Lombardia.” Giulio Cavalli affida a una nota il commento a quanto emerso oggi dalle audizioni sul San Raffaele in commissione sanità.

“A quasi 200 giorni dall’acquisto è semplicemente imbarazzante che la nuova proprietà non abbia ancora presentato nessun piano aziendale e che non abbia alcuna idea di futuro della gestione se non quella che passa attraverso tagli e licenziamento del personale.” Continua il consigliere di Sinistra Ecologia Libertà “Le audizioni oggi in commissione hanno reso evidente la falsità di quanto affermato dalla proprietà, di come la qualità del servizio reso ai cittadini sarà intaccato dai 450 licenziamenti previsti: si è definitivamente acclarato che le problematiche, contrariamente a quanto fin qui indicato dalle strutture regionali, non sono solo occupazionali ma anche di presidio sanitario.”

“Formigoni dopo aver utilizzato il San Raffaele come serbatoio di voti con un’attenzione più che sospetta” conclude Cavalli “come uno Schettino qualunque scarica qualsiasi responsabilità sulla struttura, senza neppure tentare di aprire un serio tavolo tra le parti in cui Regione Lombardia sia garante.”

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Mafie, intercettazioni e collaboratori: a chi giova?

Giovanni Conzo, magistrato della DDA di Napoli si chiede (e ci chiede) a chi giova tutto questo:

Oggi lo strumento della collaborazione è l’unica via per sconfiggere definitivamente il clan dei casalesi, e in generale i clan, e soprattutto per capire ed identificare tutti gli imprenditori nel territorio nazionale che hanno accettato i soldi sporchi della camorra e li hanno reinvestiti nell’economia turbando il mercato così distruggendo le imprese oneste che non potevano competere, in crisi di liquidità e con la chiusura dei rubinetti delle banche, con la concorrenza e con l’immissione di danaro degli imprenditori-camorristi.

La collaborazione con la giustizia è lo strumento principale, insieme alla intercettazioni, per dare un nome ed espellere dal Parlamento e dai Comune Italiani quei politici che hanno accettato i voti della camorra, a seguito di uno scellerato patto con il quale si impegnavano, in cambio dei voti a far vincere gli appalti o far aver finanziamenti a imprenditori prescelti ed indicati dai camorristi .

Stiamo tuttavia avendo tante difficoltà proprio in questo momento cruciale.

La riduzione degli stanziamenti per il comparto giustizia, il taglio di fondi per assicurare, ad esempio, una casa ai parenti dei collaboratori di giustizia o ai figli di iscriversi a scuola, persone che non hanno nessuna colpa e che sono costretti a lasciare le proprie terre per recarsi in località protetta e non essere ammazzati, costituiscono eventi che scoraggiano i camorristi e mafiosi ad intraprendere la collaborazione con lo Stato.

Inoltre la legislazione obbliga il pubblico ministero ad interrogare i collaboratori di giustizia in sei mesi facendo dichiarare tutto quello che sanno in questo brave lasso temporale. Insieme alla attività di interrogatorio, noi Pubblici Ministeri dobbiamo istruire i processi, sostenere l’accusa in udienza, redigere richieste di intercettazioni, elaborare richieste di arresto, coordinare la polizia giudiziaria.

Un lavoro immane sempre affrontato con entusiasmo e la consapevolezza che non possiamo risparmiarci, ma dobbiamo dare tutto ed anche di più perché con il nostro lavoro è possibile disarticolare interi clan camorristici e perseguire quella oscura e fitta trama di reti e cointeressenza tra camorra, imprenditoria e politica.

Ma è tutto ogni giorno più difficile.

Alla luce di una recente circolare del Dap non possiamo più convocare i collaboratori nei nostri uffici ma dobbiamo recarci come “globetrotter” nelle carceri di Italia per interrogarli così sottraendo tempo ed energie alle importanti altre attività che prima ho descritto.

Ci viene detto, ad esempio, che non ci sono soldi e dunque dobbiamo restringere in numero dei collaboratori. Ci viene detto che le carceri non sono sufficienti per garantire l’applicazione del regime del carcere duro a pericolosi boss o ad imprenditori collusi.

Mi chiedo perché. Mi domando a chi giovi.

Buca le gomme

Io non so cosa deve succedere d’altro per raggiungere il colmo, non so nemmeno se l’etica sia finita qualche decennio fa e forse noi non ce ne siamo accorti e questi episodi non siano altro che le macerie che cominciano ad emergere e galleggiare ma che un Presidente dell’Aler (Antonio Piazza, uomo PDL a capo dell’Aler di Lecco) parcheggi la sua Jaguar in un posto riservato ai disabili e poi costretto a spostarla per le proteste di un disabile decida di tagliargli le gomme dell’auto mi sembra oggettivamente troppo. Perché qui non si tratta di antipolitica ma di un’insofferenza cronica per un malcostume che qui da noi diventa classe dirigente, per una carriera che sembra inversamente proporzionale allo spessore umano. Altro che meritocrazia, in Italia siamo arrivati alla perversione.

E la piccolezza si legge (ed è ancora più insopportabile) nelle scuse offerte dal dirigente: Venerdì ero a pranzo con 36 disabili. Dal punto di vista dell’azienda lombarda mi sono sempre comportato bene e non è nella mia indole offendere queste persone». Piazza, che faceva parte anche del direttivo provinciale del Pdl, vuole chiudere il capitolo. Le dimissioni? «Sono giustissime infatti le ho date, devo fare atto di penitenza, poi con il tempo, se c’è la passione e la possibilità di ripartire. Ma – aggiunge – c’è gente che ha fatto cose peggio di me ed è ancora lì. Io non sono così. Ognuno nelle proprie scelte è responsabile, io per quello che ho fatto ritengo che sia giusto dimettermi dalle cariche pubbliche che ricoprivo. Cercherò di tornare umile, di ripartire. Gli sbagli fanno crescere. Dice Piazza.

No, caro Piazza, gli sbagli fanno crescere se non sono sempre gli altri a pagarli. Altrimenti si chiamano danni, non errori. E in una Lombardia intollerante con le fragilità e le debolezze forse è arrivato il momento di diventare intolleranti con le prepotenze. Democraticamente intolleranti ma fermi. Perché un dirigente pubblico che taglia le gomme di un disabile non può essere classe dirigente nel Paese che vogliamo costruire. Per questo abbiamo scritto oggi all’assessore competente chiedendo che le dimissioni del presidente Aler vengano accettate il prima possibile e che ne venga data tempestiva comunicazione.

Pensare e ripensare

Si può cominciare da piccole cose. Creare per esempio un fondo a partecipazione pubblica e privata al quale ogni città e i privati cittadini possano accedere attraverso la presentazione di progetti dai risvolti innovativi e sociali. Conosco personalmente tantissime persone che non vedono l’ora di progettare per la loro città e ci sono in giro per il mondo idee incredibili a cui ispirarsi. Orti urbani, progetti di ‘social housing’, costruzioni eco-sostenibili, creazione di spazi sportivi o aree di incontro in aree e fabbricati dismessi. Diamo sfogo alla sperimentazione e riproponiamo poi, in altri contesti, le iniziative che funzionano ed hanno un costo basso per la collettività.

Un’idea semplice di Emanuele Ferragina. Di quelle così semplici da essere rivoluzionarie in un momento asfittico in cui l’innovazione non riesce nemmeno ad essere elaborata.

Se scompare il popolo

Al­l’i­ni­zio del de­gra­do ci so­no la cri­si del­la po­li­ti­ca e la ca­ta­stro­fe dei par­ti­ti di mas­sa fra gli an­ni ’80 e i ’90. Le ha aper­to la stra­da, e pro­prio nel­lo spe­ci­fi­co sen­so che stia­mo usan­do, la pre­cor­ri­tri­ce, de­va­stan­te av­ven­tu­ra cra­xia­na. Poi è in­ter­ve­nu­ta, par­ten­do esat­ta­men­te da lì den­tro (an­che in sen­so stret­ta­men­te so­cio­lo­gi­co) e for­nen­do al tem­po stes­so al­la po­pu­la­ce una mi­ria­de di mo­del­li as­so­lu­ta­men­te sim­pa­te­ti­ci e imi­ta­bi­li, la lun­ga fa­se ber­lu­sco­nia­na. In­fi­ne, più re­cen­te­men­te, è so­prav­ve­nu­ta, in ma­nie­ra for­se ina­spet­ta­ta ma non ir­ri­le­van­te, una for­te com­po­nen­te neo-ve­te­ro­fa­sci­sta: il fa­sci­smo, quel­lo au­ten­ti­co, è sem­pre sta­to por­ta­to­re di una di­spo­ni­bi­li­tà cor­rut­ti­va pro­fon­da.
Il ri­sul­ta­to è sta­to de­va­stan­te: il po­po­lo ita­lia­no si è di­sgre­ga­to in una se­rie di fram­men­ti, spes­so con­trap­po­sti fra lo­ro e ognu­no al­la ri­cer­ca del­la pro­pria per­so­na­le, in­di­vi­dua­le e/o set­to­ria­le ri­cer­ca di af­fer­ma­zio­ne, di de­na­ro e di po­te­re (esi­ste an­che una va­rian­te lo­ca­li­sti­ca di ta­le dis­so­lu­zio­ne, gra­vi­da tut­ta­via an­ch’es­sa di fat­to­ri di cor­rut­te­la: il le­ghi­smo ne rap­pre­sen­ta il frut­to e l’in­ter­pre­te più au­ten­ti­co).
Dal­lo spap­po­la­men­to e dal­la scom­po­si­zio­ne del­la “fi­gu­ra po­po­lo”, e di co­lo­ro che per un cer­to pe­rio­do di tem­po ave­va­no più o me­no le­git­ti­ma­men­te pre­te­so di as­su­mer­ne la rap­pre­sen­tan­za, è emer­so un nuo­vo ce­to so­cia­le, il re­si­duo im­mon­do che so­prav­vi­ve quan­do tut­to il re­sto è sta­to di­ge­ri­to e con­su­ma­to. Il ve­ro, gran­de pro­ta­go­ni­sta del­la cor­ru­zio­ne ita­lia­na è que­sto ce­to so­cia­le, una clas­se ti­pi­ca­men­te in­ter­sti­zia­le, frut­to del­lo spap­po­la­men­to o del­l’e­mar­gi­na­zio­ne o del vo­lon­ta­rio mu­ti­smo del­le al­tre, pri­va as­so­lu­ta­men­te di cul­tu­ra e di va­lo­ri, igna­ra di pro­get­to, de­pri­va­ta al­l’o­ri­gi­ne e se­co­lar­men­te di ogni po­te­re, og­gi fa­me­li­ca­men­te al­la ri­cer­ca di un in­den­niz­zo che la ri­sar­ci­sca del­la lun­ga asti­nen­za (ol­tre che i con­si­gli re­gio­na­li riem­pie fre­ne­ti­ca­men­te gli ou­tlet, inon­da le au­to­stra­de di Suv, aspi­ra ad una vi­si­bi­li­tà da ot­te­ne­re con qual­sia­si mez­zo, non te­me per que­sto né il grot­te­sco né l’o­sce­no, par­la una lin­gua che non è più l’i­ta­lia­no ma una sua ba­star­da, ri­di­co­la ca­ri­ca­tu­ra). In­som­ma, co­me in un in­cu­bo not­tur­no il so­gno ber­lu­sco­nia­no ha pre­so cor­po.
Ta­le clas­se, non so­lo pro­mos­sa ma an­che fu­ri­bon­da­men­te cor­teg­gia­ta da al­cu­ni, ma an­che au­to­pro­mos­sa in­nu­me­ro­si al­tri ca­si, ha co­min­cia­to a in­va­de­re la po­li­ti­ca na­zio­na­le, si af­fac­cia qua e là nei grup­pi di­ri­gen­ti di ta­lu­ni par­ti­ti, sie­de or­mai in ab­bon­dan­za nel­le au­le par­la­men­ta­ri. Ma ha pre­so già di­ret­ta­men­te il po­te­re in nu­me­ro­se real­tà re­gio­na­li, sot­to e so­pra la li­nea del­le pal­me, a te­sti­mo­nian­za del fat­to che il fe­no­me­no è ef­fet­ti­va­men­te na­zio­na­le, non lo­ca­le.

Alberto Asor Rosa su Repubblica di oggi.

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Si candida

Per scacciare il fantasma del Monti bis e trasformare le primarie, da ennesima faida di partito a occasione di svolta per il Paese, ci vediamo al MAV di Ercolano, sabato 6 ottobre alle 18. Accetto la sfida: per vincerla.

Lo dice Nichi Vendola. C’è un candidato con una netta posizione contraria al montismo. Ora le primarie (e il PD, finalmente) devono sciogliere il nodo.