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Dare alla gente quello che vuole

Il codazzo di fotografi, cameramen e cronisti che fa da scorta a Nicole Minetti costituisce, in sé, una delle prove più schiaccianti della mancanza di dignità e di libertà del sistema mediatico così come ci illudiamo di gestirlo e così come lo stiamo subendo, per metà impotenti e per metà complici. Non c’è persona di buon senso, di qualunque orientamento ideologico e livello culturale, che non ritenga futile e dannoso dedicare tempo, tecnologia, parole e pensieri a una figuretta minore della nostra scena pubblica che è stata, a suo tempo, co-protagonista di uno scandalo di regime e oggi è protagonista di niente. Con la sola e spiegabile eccezione della stessa signorina Minetti, nessuno ha interesse a tenere acceso anche un solo riflettore su di lei. Se questo avviene è solo perché il potere (anzi: il dovere) di scegliere che cosa mostrare, di che cosa parlare è progressivamente venuto meno fino a scomparire dentro l’alibi – davvero ignobile – che bisogna “dare alla gente quello che vuole”: ma la gente legge e clicca ciò che le viene offerto, non altro. Non è la gente che fabbrica le notizie, sono i media. Anche il più scalcinato dei bancarellai ha facoltà di decidere quali merci esporre. I media sono gli unici commercianti che danno sempre al cliente la colpa della loro merce avariata.

Michele Serra da La Repubblica del 07/09/2012

#cosaseria un referendum serio

Quindi Idv, Fds e Sel raccoglieranno assieme le firme per il ripristino dell’articolo 18 varato da Monti e Fornero e per l’abolizione dell’articolo 8 dell’ultima manovra d’agosto di Berlusconi, quando il ministro Sacconi ha voluto mutilare la contrattazione nazionale e la democrazia sui luoghi di lavoro. Il partito di Di Pietro aveva già depositato alcuni dei quesiti in Cassazione replicando un’autoreferenzialità già percorsa in occasione dei referendum per la ripubblicizzazione dell’acqua e dei servizi. Stavolta, però, ha accolto l’appello a fare un passo indietro dopo un incontro dirimente stamattina con i metalmeccanici. I quesiti sul lavoro saranno ripresentati nuovamente da un comitato comune perché già era in corso da mesi una discussione tra giuslavoristi (da Gallino a Rodotà ad Alleva) e aree organizzate della sinistra politica e sindacale.

Sarà un caso che insieme si riesca a dire (e fare) cose di sinistra? Sarà un caso che oggi mi siano arrivate molte mail di elettori confortati da questa presa di posizione? Sarà un caso? O, forse, è una cosa seria, come avevamo suggerito un po’ di tempo fa? E un’ultima domanda, senza cattiveria: non manca qualcuno?

Ma adesso basta

E poi, non avere nessun senso del limite e del ridicolo, nel definire la classe dirigente di cui si fa parte, autorevole. L’autorevolezza vuol dire sì influenza, potere, importanza, ma soprattutto credibilità, autorità morale, prestigio. E sinceramente, la classe politica di cui D’Alema è uno dei principali esponenti non ne ha alcuna. Per i motivi che tutti sappiamo, e che hanno portato il Paese al deafult non solo economico, ma soprattutto politico e sociale.

E quindi caro D’Alema, ti abbiamo voluto bene, molto molto tempo fa, ma adesso basta. Forse non lo sai, ma le persone comuni ti trovano insopportabile. Di te e di quelli come te non ne vogliono proprio più sapere. Impara dai grandi della socialdemocrazia europea e diventa conferenziere, e magari riscopriremo quel tratto di intelligenza che ci aveva affascinato.

Ho letto questo passaggio della lettera che Francesco Nicodemo ha scritto per D’Alema (la potete leggere completa qui) e mi sono alzato in piedi ad applaudire. Da solo davanti allo schermo.

Attenzione attraversamento Minetti

Nicole Minetti è l’effetto di una causa che non si vuole analizzare. Non so se si dimetterà o meno il giorno prima di maturare il suo vitalizio come più volte ha ribadito e smentito, ma se le decisioni politiche dipendono dagli umori (e lo dico nell’accezione anche oscena del termine) del suo padrone, si facciano le debite valutazioni. Qui siamo passati dalla privatizzazione delle società pubbliche alla privatizzazione dei vezzi dei padroni.

Oggi Panorama ha raccolto le impressioni sul mancato accesso dei giornalisti nel Consiglio Regionale della Lombardia secondo il nuovo regolamento. Io ho risposto così ma vale la pena leggere tutto il pezzo.

Io valgo perché avevo un sogno e continuo a scottarmi, a tagliarmi le mani e sudare affinché possa avverarsi

Roberta scrive una lettera. E vale la pena lasciare perdere i vecchi contro i giovani e leggerla con attenzione perché dentro ci sono le domande a cui dovremo rispondere. Con chiarezza. Prima delle elezioni.

Il mio nome è Roberta, ma potrebbe essere Lucia, Francesca, Samanta, Teresa, Michela o qualunque altro nome di donna. Ho quasi 22 anni e se dovessero chiedermi cosa farò da grande, la mia risposta è non lo so.  Il mio sogno è sempre stato uno: fare la scrittrice.
Avrei voluto studiare in una grande città, laurearmi, conoscere qualcuno che mi desse la possibilità di crescere e diventare brava, poi lavorare e rendere fieri di me prima i miei genitori, poi me stessa. Chiudo il libro delle favole e torno sulla terraferma, dove i sogni restano sogni e più che vivere bisogna sopravvivere. 

Qualche anno fa mi sono iscritta alla facoltà di lettere di Bari, non la migliore, ma la più accessibile almeno per le mie tasche. Ho frequentato il primo anno e non è andata male. Avevo una media alta, studiava, studiavo. Lo facevo per me.

L’anno successivo ho interrotto gli studi. Mio padre è un operaio, mia madre una casalinga. Una casa in affitto, tre figli sulle spalle. Mio padre ha perso il lavoro e allora ‘Arrivederci Università’. Facevamo la spesa con 15 euro al giorno, dove avrei potuto trovare 500 euro per la nuova iscrizione? Per il libri? Per fare la pendolare? I sogni restano nel cassetto e io sopravvivo.

Ho passato un anno in bilico su un filo pronto a farmi cadere. Non sapere cosa fare da grande a 20 anni era il problema più stupido, io volevo sapere se ce l’avremmo fatta. Volevo sapere se avrei mai più visto mio padre sorridere piuttosto che in depressione piangere senza un lavoro, avrei voluto vedere mia madre smettere di contare gli ultimi spiccioli per arrivare alla fine del mese.

Ho passato un anno ad osservare il mondo e capire che tanto non sarà mai come vorremmo, che la fatica è sempre per chi non se la merita e che l’ingiustizia sarà sempre sovrana. Ho capito che il futuro è il mio e la fortuna non è per tutti, allora se io non sono nata ”fortunata” come tutti i figli di papà del mondo, la fortuna me la creo da sola.

Ho fatto tre lavori al giorno: ho dato ripetizioni private, ho fatto la babysitter, ho lavorato in un bar, in un ristorante, ho distribuito volantini per le strade sotto la neve e con le mani prive di sensibilità a causa del freddo. 5 euro al giorno, a volte 8, al massimo 20.
Non mi interessavano i vestiti nuovi, le serate nei bar, la vita mondana e le cene. Io volevo il secondo anno di facoltà, io volevo la laurea.
”Roberta, qual è stata la tua più grande soddisfazione sino ad ora?” Se dovessero farmi questa domanda io risponderei: Aver lavorato, sacrificato me stessa, il mio sudore e la mia fatica.

Mi sono iscritta al secondo anno e l’ho anche terminato. Ho pagato la mia iscrizione, tutta da sola. Compro libri fotocopiati, per pagarli meno, a volta riesco anche a farmeli prestare. Vado a Bari solo quando è necessario, solo per dare gli esami. Anche il treno costa. Lavoro 12 ore al giorno per 35 euro, faccio la cameriera ed ho i calli alla mano destra perché spesso i piatti sono bollenti e una cicatrice sulla sinistra perché un bicchiere di vetro mi si è rotto tra le mani. Spesso studio di notte e lavoro di giorno. All’università ho chiesto una borsa di studio, ma non credo possa mai essere accettata a causa del mio anno di stop. Per l’università, quindi, sono una comunissima fuoricorso. Una fuoricorso come tante, ma con una vita che nessuno prova a considerare. Ho pagato quasi 400 euro per una Terza Rata ingiusta. Glielo spiegate voi ai Dottori che anche frequentare ha un prezzo, e la media del 30 ce l’ha chi nella vita riesce solo a studiare?
Troppe inutili domande che non avranno mai una risposta o una considerazione. La verità è soltanto una: la vita è ciò che ne facciamo, è il sudore e il sacrificio. I regali, le raccomandazioni, i soldi caduti dal cielo.. li lascio a voi.

Il mio nome è Roberta, ho quasi 22 anni e se dovessero chiedermi cosa farò da grande, la mia risposta è ancora non lo so. Non so se avrò una casa, uno stipendio, una pensione, una famiglia e una carriera. Lavoro 12 ore al giorno e sono felice. Felice di essermi sacrificata per la mia vita e per la mia famiglia. Felice perché io conto più di ogni politico, più di ogni avvocato figlio di avvocati, più di uno qualunque laureato in una università privata. Io valgo perché avevo un sogno e continuo a scottarmi, a tagliarmi le mani e sudare affinché possa avverarsi.

Roberta

Se il mezzo è lo scopo

In altre parole, non si va da nessuna parte se non si rovescia da subito e con intransigenza il rapporto  tra i mezzi e gli scopi: le forze politiche – e le loro possibili vittorie elettorali – sono esclusivamente dei mezzi; le proposte politiche da realizzare sono lo scopo.

Alessandro, oggi.

Impunità alimentare

È stata archiviata l’indagine ministeriale sulla concessione della detenzione domiciliare al manager della sanità siciliana Michele Aiello, condannato a 15 anni e 6 mesi per associazione mafiosa e corruzione e uscito dal carcere, alla fine del febbraio scorso, perché affetto da favismo. I giudici avevano motivato il loro provvedimento sulla base del fatto che il vitto carcerario prevede solo fave e piselli e gli ispettori del ministero della Giustizia non hanno ravvisato alcuna irregolarità nel fatto che il tribunale di sorveglianza dell’Aquila non abbiano imposto alla direzione del carcere di Sulmona, in cui Aiello era detenuto, di consentire al condannato di avere un menu particolare. Né vi sono irregolarità nel fatto che, a fronte del fatto che il carcere non cambiava registro, non era stato proposto il trasferimento di Aiello. L’indagine così è chiusa e a pagare è stato solo il direttore del carcere, Sergio Romice, che in maggio era stato trasferito a Pescara.

Dal Corriere.

A Milano siamo tutti paninari e antimafiosi

Ne avevamo parlato della mafia che brucia in via Celoria a Milano: Loreno Tetti è un ‘paninaro’ che si è ritrovato il camion bruciato per avere testimoniato contro la cosca dei Flachi.

Scrivevamo il 26 luglio:

Forse hanno ragione quelli che si chiedono perché non ci sia stato ancora il tempo di organizzare un presidio almeno per alzare la voce, forse sarebbe il caso di stare vicini per davvero a quelli che denunciano. Soprattutto se sono soli a parlare, soli a testimoniare e poi alla fine bruciano pure, da soli.

Bene, il presidio è arrivato:

Solidarietà a Loreno Tetti. Lunedì 10 settembre 2012 alle ore 13 e 30, in via Celoria 16.

Nella notte tra il 17 e il 18 luglio scorso, il suo furgone è stato dato alle fiamme da ignoti.
Loreno Tetti torna in via Celoria.
Nel corso delle udienze che si stanno tenendo presso la VII sezione penale del Tribunale di Milano in molti non hanno confermato ciò che era emerso durante le indagini, dalle i
ntercettazioni telefoniche e ambientali, nonché dalle stesse dichiarazioni fatte a suo tempo da chi veniva sistematicamente estorto e minacciato dagli uomini del clan Flachi.
Una persona è stata addirittura denunciata durante il suo interrogatorio per calunnia contro i Carabinieri.
Altre persone sono state richiamate in aula ad un atteggiamento non reticente.
Estorsione. Racket. Pizzo.
A Milano, in Comasina, ad Affori, a Città Studi, in Corso Como come in Porta Nuova.
Solo in due hanno confermato in aula, davanti agli imputati, quanto accadeva in diversi quartieri della nostra città.
Una dei due si è trasferita in Francia. L’altro, Loreno Tetti, rientra al lavoro in via Celoria dopo il terribile atto intimidatorio di metà luglio.
Per questi motivi, lunedì 10 settembre 2012 alle ore 13 e 30, ci ritroviamo presso l’autonegozio che ha preso in affitto, di fronte al Dipartimento di Fisica, in via Celoria 16, per manifestargli tutta la nostra vicinanza e riconoscenza.

Per ulteriori adesioni milano@libera.it

Si sono persi l’IMU alla Chiesa. Ma va?

Doveva essere una svolta storica. Per ragioni di equità, ma anche per evitare la procedura d’infrazione dell’Unione europea per aiuti di Stato. Eppure la tanto invocata estensione dell’Imu alla Chiesa rischia di trasformarsi in un clamoroso flop. Il decreto del ministero dell’Economia, atteso per la fine di maggio, ancora non esiste. E senza, dal primo gennaio 2013, la Chiesa continuerà a non pagare l’Imu. Così partiti, sindacati, fondazioni, associazioni. Una beffa.

Lo scrive Repubblica oggi e la notizia rimbalza. Non è solo a questione dei 600 milioni di euro (cifra comunque notevole) a indignare ma, ancora una volta, il voltafaccia delle promesse che vengono puntualmente disilluse.

Se un governo ritiene giusto che la Chiesa non paghi l’IMU non ha che da dirlo e difendere (se ci riesce) le proprie posizioni: giustificare un privilegio che si nasconde dietro la mancata attività di lucro (come se gli italiani invece avessero esercizi commerciali nel proprio salotto, invece) e tenere la barra diritta; invece il governo Monti promette di rivedere la norma e poi senza giustificazioni finge di dimenticarsene l’attuazione.

Sarà che da un governo tecnico ti aspetteresti forse un po’ di serietà, almeno, del tipo che le norme vengano attuate e solo dopo propagandate (è la brutta politica di questi ultimi anni che ha fatto regolarmente il contrario) e sarà che ogni volta che si affronta il tema della Chiesa (si badi bene della Chiesa più che della religione cattolica) in Italia bisogna assistere a questo fastidioso fumo di non detto o di silenziosamente concordato che lascia l’amaro in bocca.

Non ditelo, piuttosto. E’ più dignitoso così.

E’ tutto merito suo

Due parole sul gradimento che crolla di Formigoni e sulla Lombardia. Oggi su Repubblica (se si clicca sull’immagine si ingrandisce, eh):