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Ludovica, i ladri, il suo computer, e la vita dentro

Non so se i ladri in generale hanno rimorsi di coscienza. Non so se leggono gli appelli. In rete, poi, dove di appelli se ne vedono a migliaia, a cascata. E non so nemmeno se possa essere utile metterlo qui. Certo uscire con un sacco nero riempito un po’ di elettronica è equiparabile al finestrino rotto per un’autoradio quando eravamo ragazzini. E’ che ogni tanto succede che negli oggetti più insignificanti (e comodi da rubare) c’è dentro tutta una vita. E allora diventano scomodi e pesantissimi. Non trascinabili. E allora sarebbe bello che si ritrovassero, che ci fosse una restituzione. Come quei finali banali dei film che finiscono come speravi dall’inizio. Ecco, adesso sarebbe il momento.

L’appello:

Hanno rubato le attrezzature e il computer di Ludo. Hanno rubato la vita di Ludo-Ludovica, 6 anni, una malattia senza speranza diagnosticata da tre. Qualche momento in cui ha corso e giocato come tutti i bambini. Poi quella malattia così rara (il morbo di Tay-Sachs),  per la quale non esistono quasi ricerche (e cure), l’ha immobilizzata e resa cieca. Ludo, unica in Italia con quel morbo degenerativo e invalidante,  è diventata un caso amato e sostenuto:  per lei era stato giocato anche il “Derby del Cuore” a maggio del 2011. Perché Ludo per vivere segue una terapia sperimentale in Israele al costo di circa 20mila euro a seduta, coadiuvata da terapie che permettono di curarla anche al rientro.

I ladri che sono entrati in casa di Ludo il 14 agosto a Torvaianica (attorno alle 12) hanno portato via le apparecchiature che servono a mantenerla in vita. E il computer con le immagini di quando era in  salute. Hanno fatto incetta di banale tecnologia con la speranza di raccattare qualche euro.  Il denaro recuperabile da qualcunque ricettatore non vale la vita di Ludo. Immagini, direte. Ma quelle immagini sono la forza per chi le sta accanto.

L’associazione Salvamamme di cui fa parte Roberta, la mamma di Ludovica,  ha lanciato un appello per riavere ciò che è stato rubato. “Contattateci giorno o notte al numero 335321775″, chiede Maria Grazia Passeri, presidente dell’associazione. “Lasciateci in un luogo sicuro questo preziosissimo computer. Passate voce anche a persone che non leggono i giornali e non hanno la Tv”.

Il ridicolo Putin

Sulle Pussy Riot ha ragione da vendere Andrea Riscassi (che mica per niente di Putin un po’ se ne intende visto che dal 2006 ormai sta cercando di tenere viva la memoria di Anna Politkovskaja):

“Hanno terrorizzato i fedeli con la loro “preghiera punk”, hanno gravemente violato l’ordine pubblico, hanno insultato Putin e il Patriarca Kirill, sono state blasfeme insultando Dio. Il tutto filmando e mandando in rete le immagini per rendere il tutto il più pubblico possibile”, queste in pillole le motivazioni della sentenza che le ha condannate a due anni di carcere.
La lettura del dispositivo contro le Pussy Riot è durata ore. Per cercare di spiegare che le tre ragazze non ce l’avevano con Putin ma con la Chiesa.
Una balla colossale visto che il gruppo punk rock aveva già manifestato più volte contro il regime putiniano.
Ma per evitare l’accusa di una sentenza politica i giudici russi (notoriamente indipendenti dal potete politico) hanno pensato di non considerare le motivazioni politiche del gesto, concentrandosi solo su quelle religiose. Non assenti visto che il concerto punk si è svolto nella principale cattedrale moscovita. Ma l’appello alla Vergine Maria era quello di “liberarci da Putin”.
E infatti la condanna per teppismo motivato da odio religioso suona comunque risibile. Le Pussy Riot sono a tutti gli effetti prigioniere di coscienza.
Le tre ragazze, ormai protagoniste dell’immaginario globale, in manette, sotto l’occhio delle telecamere, hanno sorriso e scosso la testa, durante la lettura della sentenza di condanna.
Ma non hanno mai mostrato paura.
Hanno vinto loro.
Il regime putiniano si è coperto di ridicolo in tutto il mondo.

Il processo giusto di Putin alle Pussy Riot

Forse lo sgradevole, enorme effetto della nostra intrusione nei media nella cattedrale è stata una sorpresa per le autorità stesse. In un primo momento, hanno cercato di presentare la nostra performance come uno scherzo tirato da atei militanti e senza cuore. Questo è stato un grave errore da parte loro, perché noi eravamo già conosciute come una band punk femminista anti-Putin, che aveva lanciato i suoi assalti nei media sui simboli principali politici del paese.
Alla fine, considerando tutte le ricadute irreversibili politiche e simboliche causate dalla nostra innocente creatività, le autorità hanno deciso di schermare il pubblico dal nostro pensiero anticonformista. Così è finita la nostra complicata avventura punk nella cattedrale di Cristo Salvatore.
Ora provo sentimenti contrastanti su questo processo. Da un lato, mi aspetto un verdetto di colpevolezza. Rispetto alla macchina giudiziaria, noi siamo nessuno, e abbiamo perso. D’altra parte, abbiamo vinto. Tutto il mondo sa ora che il procedimento penale contro di noi è stato fabbricato ad arte. Il sistema non può nascondere la natura repressiva di questo processo. Ancora una volta, il mondo vede la Russia in modo diverso dal modo in cui Putin cerca di presentarla ai suoi quotidiani incontri internazionali. Chiaramente, nessuno dei passaggi che Putin ha promesso di compiere verso l’istituzione dello Stato di diritto è stata intrapreso. E la sua affermazione che questo tribunale sarà obiettivo e esprimerà un verdetto equo è l’ennesimo inganno per tutto il paese e la comunità internazionale. Questo è tutto. Grazie.

Non so come suonino, ma le dichiarazioni conclusive al processo contro di loro delle Pussy Riot sono da leggere.

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L’antisemita ebreo e le storie minuscole

Si chiama Csanad Szegedi, è un europarlamentare, si è fatto eleggere per la propria fiera postura antisemita. E ha scoperto di essere ebreo. Ne scrive Il Post e ne scrivono in molti oggi. Ma la cosa che mi colpisce è come una personalità politica costruita sugli ideali inumani e amorali dell’antisemitismo (e sono in molti, tra Lega e ex AN, anche qui da noi) sia stato punito non dalla Storia ma dalla propria storia, minuscola e personale.

E ho pensato, sotto il torrido sole di agosto, che mi piacerebbe che la storia (minuscola e delle persone) costringesse questo Paese a riscoprire come la concentrazione di ricchezze, emotività, pregi, fantasia e voglia di fare sia diffusa: da nord a sud, da est a ovest. Rara, forse, solo in pezzi importanti della classe dirigente che è l’oligarchia che ha ottenuto da troppo tempo il condono per la secessione dai propri doveri morali.

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Il manuale per i piantagrane

“Per anni quando mi recavo a rinnovare la tessera d’ingresso annuale al Senato degli Stati Uniti, venivo invitato a compilare due moduli. Il primo richiedeva dettagli biografici, il secondo doveva certificare che avevo firmato il primo sotto giuramento. Ero ben felice per il secondo, perché dove si richiedeva di definire la mia “razza”, scrivevo sempre “umana” nell’apposita casella. Ogni volta si arrivava a un battibecco. “Metta bianca”, mi fu detto una volta – da un impiegato afroamericano, mi si consenta di aggiungere. Spiegai che il bianco non è neppure un colore, figurarsi una razza. Attirai anche la sua attenzione sulla clausola del giuramento che mi obbligava a dichiarare unicamente la verità. “Metta Caucasica”, mi fu suggerito in un’altra occasione. Risposi che non avevo legami col Caucaso e che non credevo affatto in quella antiquata categoria etnologica. Le cose andarono avanti così finché un anno nel modulo non compariva più lo spazio per la razza. Vorrei essere creduto, anche se non è facile. Ti faccio dono di questa storia anche come invito a fare il piantagrane tutte le volte che le probabilità sono favorevoli e talvolta anche quando non lo sono: è un buon esercizio”.

(Christopher Hitchens, Consigli a un giovane ribelle)
(grazie a Mante)

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La donna che morse il cane

Nella prefazione del libro, Alberto Spampinato, direttore dell’associazione Ossigeno per l’informazione, mette l’accento sui rischi e le difficoltà che devono superare i giornalisti “per riferire le notizie più importanti: quelle che nascono in periferia, lontano dalle redazioni dei grandi giornali, e riguardano fatti di mafia, corruzione, malaffare, uso distorto dei soldi pubblici”. Proprio intorno alle redazioni di giornali locali si intrecciano le tre storie dell’e-book. “I giornali locali sono quelli che subiscono maggiormente le minacce e i tentativi di intimidazione, perché raccontano il territorio così come lo vedono”, dice Adinolfi. “Nei giornali locali fare il giornalista è ancora più difficile perché ti trovi ogni giorno a contatto con le persone di cui scrivi”. Adinolfi racconta la sua giornata con Marilena Natale in giro per Casal di Principe: “Entrando in un bar poteva capitare di trovarsi di fronte a un personaggio di cui aveva parlato in un articolo il giorno precedente”.
“I media nazionali dovrebbero attingere dai giornali locali, non lasciarli soli e aiutarli a non essere dimenticati quando accadono queste minacce”, dice. “Spesso c’è la solidarietà del momento ma poi il giornalista si trova a essere solo e a incontrare per strada la persona che l’ha picchiato o minacciato”.

La donna che morse il cane. Storie di croniste minacciate di Gerardo Adinolfi è il libro di tre storie di croniste minacciate: Rosaria Capacchione, Marilena Natale e Marilù Mastrogiovanni. Madri, mogli, figlie, fidanzate. Donne che hanno la sola colpa di aver raccontato con lucidità i fatti e le contraddizioni della loro terra. Ed è un libro importante per non perdere il ‘realismo’ sull’informazione antimafia in Italia. Che è molto più presente di quanto spesso si insista a credere (e far credere) e ha l’odore della minaccia abituale. Ecco, se riuscissimo una volta per tutte a subire meno la fascinazione del pericolo e lo studiassimo come fenomeno da sconfiggere, forse perderemmo un po’ di poesia ma potremo costruire meccanismi di solidarietà difensiva. Militare, istituzionale, civica. Anche perché i dati per le analisi e il dibattito ci sono tutti: l’Osservatorio sui giornalisti minacciati diretto dall’amico Alberto Spampinato da anni monitora gli episodi. E chiede misura e responsabilità. Oltre alla notizia.

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Fanno audience e lo chiamano politica

Su Repubblica, oggi:

Nel­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea (quel­la ita­lia­na in mo­do mol­to vi­si­bi­le) i par­ti­ti po­li­ti­ci, es­sen­zia­li at­to­ri del si­ste­ma rap­pre­sen­ta­ti­vo fin dal­la sua ap­pa­ri­zio­ne nel­l’In­ghil­ter­ra dei Sei­cen­to, han­no mu­ta­to la lo­ro fun­zio­ne­ma non so­no fi­ni­ti co­me spes­so si so­stie­ne; a que­sta lo­ro mu­ta­zio­ne è cor­ri­spo­sta una tra­sfor­ma­zio­ne del­la de­mo­cra­zia da rap­pre­sen­ta­ti­va a ple­bi­sci­ta­ria. Il nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo non è quel­lo del­le mas­se mo­bi­li­ta­te da lea­der ca­ri­sma­ti­ci ma quel­lo del­l’au­dien­ce, l’ag­glo­me­ra­to in­di­stin­to di in­di­vi­dui che com­pon­go­no il pub­bli­co, un at­to­re non col­let­ti­vo che vi­ve nel pri­va­to del­la do­me­sti­ci­tà e quan­do è agen­te son­da­to di opi­nio­ne ope­ra co­me spet­ta­to­re di uno spet­ta­co­lo mes­so in sce­na da tec­ni­ci del­la co­mu­ni­ca­zio­ne me­dia­ti­ca e re­ci­ta­to da per­so­nag­gi po­li­ti­ci. La per­so­na­liz­za­zio­ne­del po­te­re e del­la po­li­ti­ca è un sin­to­mo e un se­gno di que­sta mu­ta­zio­ne. Cir­ca la tra­sfor­ma­zio­ne dei par­ti­ti, es­sa ri­guar­da il lo­ro di­ma­gri­men­to de­mo­cra­ti­co al qua­le cor­ri­spon­de un’o­be­si­tà di po­te­re ma­te­ria­le ef­fet­ti­vo nel­le isti­tu­zio­ni del­lo sta­to, co­me ha mo­stra­to Mau­ro Ca­li­se. Non è per que­sto con­vin­cen­te pre­sen­ta­re la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti co­me una fa­se, or­mai tra­mon­ta­ta, del­la sto­ria del go­ver­no rap­pre­sen­ta­ti­vo (que­sta è la te­si so­ste­nu­ta da Ber­nard Ma­nin). Ve­ro è che es­sa è di­ven­ta­ta a tut­ti gli ef­fet­ti una de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti in­ve­ce che “per mez­zo dei” par­ti­ti.
Il de­cli­no del par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne ha cor­ri­spo­sto al­la cre­sci­ta del par­ti­to-spu­gna che se­gue gli umo­ri po­po­la­ri e li ali­men­ta ad ar­te per me­glio gua­da­gna­re con­sen­so. Il par­ti­to co­sid­det­to li­qui­do è di dif­fi­ci­le con­trol­lo da par­te di sim­pa­tiz­zan­ti e iscrit­ti (i qua­li non di­spon­go­no del re­sto di strut­tu­re e re­go­le per l’ar­ti­co­la­zio­ne in­ter­na del dis­sen­so e del con­trol­lo) e fun­zio­na­le al­l’e­sal­ta­zio­ne del­la per­so­na del lea­der; può far­si isti­ga­to­re di po­li­ti­che po­pu­li­sti­che, se tro­va ciò con­ve­nien­te, in­ve­ce di es­se­re una di­ga che le ar­gi­na co­me era il par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne. Que­sto slit­ta­men­to a li­qui­di­tà e pro­fes­sio­na­liz­za­zio­ne son­dag­gi­sti­ca fa sì che la de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti sia una de­mo­cra­zia pro­te­sa ver­so for­me po­li­ti­che ple­bi­sci­ta­rie. E’ que­sto l’a­spet­to che fa da re­tro­ter­ra al­la tra­sfor­ma­zio­ne dal­la de­mo­cra­zia del par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce.
La de­mo­cra­zia del pub­bli­co o ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce fa le­va sul mu­ta­men­to di si­gni­fi­ca­to del “pub­bli­co” da ca­te­go­ria giu­ri­di­co- nor­ma­ti­vo (ciò che per­tie­ne al­lo sta­to ci­vi­le) a ca­te­go­ria este­ti­ca, co­me di ciò che è espo­sto al­la vi­sta e esi­sten­te in sen­so tea­tra­le. Al­la cen­tra­li­tà del­la vo­ce (par­te­ci­pa­zio­ne co­me ri­ven­di­ca­zio­ne e au­to­no­mia) fa se­gui­to la cen­tra­li­tà del giu­di­zio spet­ta­to­ria­le, una for­ma di po­li­ti­ca che si mo­del­la sul fo­ro ro­ma­no in­ve­ce che sul­l’a­go­rà ate­nie­se. La ri­na­sci­ta di in­te­res­se per le idee che pi­lo­ta­ro­no la cri­si del par­la­men­ta­ri­smo nei pri­mi de­cen­ni del ven­te­si­mo se­co­lo — quan­do la con­ce­zio­ne ple­bi­sci­ta­ria pre­se una con­fi­gu­ra­zio­ne al­ter­na­ti­va al­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va — è un’in­di­ca­zio­ne pre­oc­cu­pan­te del nuo­vo fi­lo­ne di ri­cer­ca teo­ri­ca e ap­pli­ca­zio­ne pra­ti­ca in­ter­no al­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea, un fi­lo­ne an­co­ra una vol­ta cri­ti­co nei con­fron­ti del­la strut­tu­ra par­la­men­ta­re e del­la fun­zio­ne me­dia­tri­ce dei par­ti­ti po­li­ti­ci. Il de­cli­no del­la de­mo­cra­zia del par­ti­to po­li­ti­co e la cre­sci­ta del­la de­mo­cra­zia del pub­bli­co
cor­ri­spon­de a una evi­den­te per­so­na­liz­za­zio­ne del­la lea­der­ship edel­lo stes­so di­scor­so de­mo­cra­ti­co a cui fa eco una con­ce­zio­ne del­la po­li­ti­ca co­me mac­chi­na per la crea­zio­ne del­la fi­du­cia nel lea­der. La cre­scen­te at­ten­zio­ne per le eli­te e per un in­cre­men­to del po­te­re ese­cu­ti­vo ri­spet­to a quel­lo par­la­men­ta­re è in sin­to­nia con que­sto mu­ta­men­to in­ter­no al­la de­mo­cra­zia. Un aspet­to non an­co­ra stu­dia­to sta nel de­cli­no del­la po­li­ti­ca co­me eser­ci­zio di au­to­no­mia a fa­vo­re del­la po­li­ti­ca co­me azio­ne giu­di­can­te. Nel pri­mo ca­so la “vo­ce” era l’or­ga­no di un’a­zio­ne col­let­ti­va che vo­le­va es­se­re di com­pren­sio­ne, di­scus­sio­ne, con­te­sta­zio­ne e pro­po­sta; nel se­con­do ca­so, l’or­ga­no ege­mo­ne è l’“oc­chio”, con la ri­chie­sta di tra­spa­ren­za (del met­te­re in pub­bli­co).
Il ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce ri­sul­ta in un di­vor­zio in­ter­no al­la so­vra­ni­tà tra il po­po­lo co­me in­sie­me di cit­ta­di­ni par­te­ci­pan­ti (con ideo­lo­gie, in­te­res­si e l’in­ten­zio­ne di com­pe­te­re per con­qui­sta­re la mag­gio­ran­za) e il po­po­lo co­me un’u­ni­tà im­per­so­na­le e scor­po­ra­ta che ispe­zio­na e giu­di­ca il gio­co po­li­ti­co gio­ca­to da al­cu­ni e ge­sti­to da par­ti­ti elet­to­ra­li­sti­ci. La par­ti­gia­ne­ria non è espul­sa dal do­mi­nio del­la de­ci­sio­ne; è espul­sa dal fo­rum, nel qua­le il po­po­lo sta co­me una mas­sa in­di­stin­ta e ano­ni­ma di os­ser­va­to­ri che guar­da­no sol­tan­to e non chie­do­no più par­te­ci­pa­zio­ne. La de-co­sti­tu­zio­na­liz­za­zio­ne che que­sto nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo com­por­ta ri­po­sa sul­l’as­sun­to che il ve­ro con­trol­lo de­mo­cra­ti­co sia l’oc­chio po­po­la­re in­ve­ce che le nor­me e gli isti­tu­ti giu­ri­di­ci. Ep­pu­re, co­me ha di­mo­stra­to l’I­ta­lia nel­l’e­ra Ber­lu­sco­ni, non sem­pre que­sto ba­sta.
Il pa­ra­dos­so di in­si­ste­re sul fat­to­re este­ti­co del­l’o­pi­nio­ne pub­bli­ca a spe­se di quel­lo co­gni­ti­vo e po­li­ti­co-par­te­ci­pa­ti­vo — sul­l’oc­chio in­ve­ce che sul­la vo­ce — è di non te­ner con­to del fat­to che le im­ma­gi­ni so­no la sor­gen­te di un ti­po di giu­di­zio che va­lu­ta gu­sti più che fat­ti po­li­ti­ci, ed è quin­di ir­ri­me­dia­bil­men­te sog­get­ti­vo e po­li­ti­ca­men­te inet­to. Il pas­sag­gio dal di­scu­te­re e di­bat­te­re (e vo­ta­re sui pro­gram­mi e quin­di per mez­zo di par­ti­ti-or­ga­niz­za­zio­ne) al guar­da­re e giu­di­ca­re stan­do in una po­si­zio­ne spet­ta­to­ria­le (rea­gi­re agli sti­mo­li pro­dot­ti dal lea­der e da­gli esper­ti di co­mu­ni­ca­zio­ne del par­ti­to li­qui­do) cor­ri­spon­de a un se­gno di ma­les­se­re del­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va più che a una sua mag­gio­re de­mo­cra­tiz­za­zio­ne.
(Il te­sto è una sin­te­si del sag­gio “Dal­la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce” che usci­rà su “Pa­ro­le­chia­ve” a cu­ra di Ma­riuc­cia Sal­va­ti, de­di­ca­to a “Po­li­ti­ca e par­ti­ti”)

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La verità

È un bene raro e prezioso. Per questo qualcuno tende a risparmiarla. Sugli anni 1992-1993, sulle conversazioni tra pezzi che dovrebbero combattersi piuttosto che dialogare. E, se il reato non c’è, sui processi politici che si erano aperti e quando, come e per mano di chi si sono incagliati.
Ma se quel qualcuno è lo Stato diventa tutto più difficile. Una firma per chiarezza forse vale la pena metterla. Anche se la narcotizzazione vacanziera non aiuta. Perché lo spiega bene Andrea Camilleri:
Eh certo, sarebbe bello, ma non facciamo gli ingenui: siccome chi ha trattato con la mafia è ancora al potere, non possiamo certo illuderci che si dia da fare per far emergere la verità. Sarebbe autolesionismo puro. Niente è più difficile che ammettere i propri errori e chiedere scusa. Per questo il potere sta facendo di tutto perché la verità su quel che accadde vent’anni fa non venga alla luce. Gli errori commessi nel 1992-’94 e forse anche dopo dai rappresentanti delle istituzioni sono gravissimi non solo in sé ma anche perché hanno prodotto metastasi cancerose vastissime, ramificate. Lo Stato, diceva Sciascia, non processa se stesso.

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ILVA

Ho già detto che se l’intelligenza umana si impegnasse ad ideare tecnologie rispettose delle esigenze dei lavoratori, invece di fare il contrario, avremmo la soluzione. Oggi si presenta un problema inverso: come adattare agli essere umani un sistema tecnologico ideato per altri obiettivi, e cioè perché ne benefici unicamente la produzione. Sono convinto che se si facesse quel che dico, di lavoro sporco ce ne sarebbe molto meno di quanto Lei afferma. E comunque sia, è evidente che abbiamo due sole alternative: la prima è quella di distribuirlo equamente; la seconda è obbligare una parte della popolazione a fare i lavori sporchi, pena morire di fame. (Noam Chomsky, La società anarchica, p. 65)

Ecco bisognerebbe rileggere Chomsky per leggere la situazione dell’ILVA. Perché diventa difficile pensare ad una tutela del lavoro che non passi dalla tutela dell’ambiente. E non si può pensare alla sopravvivenza quotidiana senza avere negli occhi un futuro potabile.

(magari stando attenti ai funambolismi letterari, eh)

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