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Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre a me.
Le stelle brilleranno uguali e uguali ti indurranno
le notti a dolce sonno.
Il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco
tu guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione mi ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento e pioggia e grandine
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate,
ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite a bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici; già. I nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri,
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono di fuori
Il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro,
il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.

Da minima & moralia. “Testamento” del greco Kriton Athanasulis (Tripoli, Arcadia 1917 – Atene 1979) è una delle sue poche tradotta in italiano (da Filippo Maria Pontani). Uscì per la prima volta nella raccolta Due uomini dentro di me (1957).

Tiro Mancino: sfasciare Palermo

«A settembre a Palermo saranno azzerati anche tutti i vertici investigativi dei carabinieri. Verranno trasferiti in 4 e sostituiti con ufficiali senza alcuna esperienza in fatto di mafia. Perderemo le memorie storiche dell’Arma e questo contribuirà a renderci ancora più soli. In 34 anni di magistratura non ho mai visto una cosa del genere». Lo dice Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo.

Lo spread dell’antimafia più preoccupante degli ultimi anni. Si direbbe.

Quello strano imbarazzo di Monti sulle intercettazioni

Lo scrive Andrea Fabozzi su Il Manifesto. Con parole centrate e misurate:

Mettendosi al fianco del Quirinale, invece, Monti annulla anche formalmente quella sana distanza tra il Colle e palazzo Chigi che non è un fatto formale ma di sostanziale garanzia. Il presidente della Repubblica, com’è noto, è irresponsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni: lo prevede la Costituzione per consolidarlo nella funzione di garanzia. Tant’è vero che gli atti del presidente per essere validi devono essere controfirmati dal governo, il che comporta che palazzo Chigi non sia una dependance del Quirinale ma debba mantenere la sua autonomia di giudizio e una certa distanza. Anche nel caso di questo governo «del presidente».
Particolarmente imprudente, poi, è la decisione di schierare l’esecutivo in pendenza del giudizio sul conflitto di attribuzione che Giorgio Napolitano ha proposto alla Consulta contro i magistrati di Palermo. Giudizio assai delicato, come ha spiegato ieri l’ex presidente della Corte Gustavo Zagrebelsky che ha invitato il capo dello stato a ritirare il suo ricorso. Zagrebelsky lo ha scritto su Repubblica con tutta la prudenza del caso, dicendosi certo che il «discredito, l’isolamento morale e l’intimidazione dei magistrati» che indagano sulla trattativa stato-mafia è una conseguenza lontana dalle intenzioni del capo dello stato. E tuttavia l’ha scritto, sul quotidiano che in questi mesi è stato il più vicino al presidente Napolitano, grazie soprattutto agli articoli del fondatore Eugenio Scalfari. Monti invece non ha avuto nessuna prudenza.

Cento anni fa Elsa Morante (tentata da Achille)

Che il segreto dell’arte sia qui? Ricordare come l’opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Ché forse tutto l’inventare è ricordare. (Roma, 23 gennaio 1938, da Diario 1938, a cura di Alba Andreini, Einaudi)

Elsa Morante è da cent’anni. Ed è bello ricordarla con le parole di Cesare Garboli:

«Sono anch’io responsabile, come tanti altri, di scarso interesse e poca, pochissima attenzione nei confronti delle poesie di Elsa Morante. Responsabile come tanti di aver sottovalutato Alibi […]. Queste poesie contravvengono a tutto giò che mi piace: trasudano e respirano stile libero, musica interna, onda e movimento interiore. Il pedale, il piede su cui ci si appoggia è melodico, è un adagio prosastico, narrativo, informativo, cantato tra il falsetto e il naturale e solfeggiato con la stessa civetteria, salvo che la Morante scavalca subito le graziucce, sorpassa il lezio, si lascia alle spalle il lamento animale, la voce querula, il fare espiatorio, e anche lo strazio, così novecentesco, di chi sta sempre a riva e parla alle onde. La Morante, anche in poesia, è tentata da Achille; è un Achille che va di persona a trovare la madre, e si tuffa nei flutti, senza pensarci due volte […]. Questa capacità di sfidare i pericoli, di farsi incantare dal mare aperto e di navigare a tu per tu con le bufere trascina il linguaggio di Alibi in una zona infetta, molto poco frequentata dalla tradizione poetica del Novecento. Il fondamento, la legittimazione di Alibi è una capacità di amare senza risparmio, una capacità insolita, e quasi mostruosa, di regalarsi all’amore. È un tratto di originalità che fa di Alibi un’avventura, una sfida e un duello con le parole e non l’esercizio di una dilettante. […] Diversamente da ogni altro album di poesie femminili, l’argomento di Alibinon è la memoria o il diario dei fatti del cuore; protagonista è sempre il futuro, la conoscenza, la divinazione, la spiegazione data a se stessa di un destino sempre più simile a una condanna e a un inferno – e se c’è qualcosa che non finisce di sorprendere, in questo album capovolto e mostruoso, è che la pitonessa che si arrovella sulle fatture e i filtri, e fa versi simili alle cantilene e ai sortilegi che accompagnano la magia, non smette per questo di essere una ragazza sognatrice che vuole l’amore e aspetta la felicità. Ma questa è l’anima di Alibi, che la Morante non vuol vedere e tiene sotto chiave in fondo a se stessa. La ragazza che il cielo ha voluto fantastica, per quanto possa aspettare la felicità e sognare l’amore, non sa pensare e immaginare la vita se non in forme di terribile vaticinio. (Dall’introduzione a “Alibi” di Cesare Garboli)

 


Quando sotto l’ILVA che non c’era l’acqua faceva il rumore dei tamburi

Dicono: come avete fatto a costruire un quartiere sotto la fabbrica? Ma Tamburi era lì già da prima. E sapete perché si chiama così? Perché era il quartiere dove arrivavano le acque dell’acquedotto del Triglio e irrompevano chiare e cristalline nelle strade, facendo il rumore dei tamburi. Ditelo, ditelo a chi non ha studiato”.

Ancora applausi, a piene mani, in una piazza che per molti giorni è stata descritta come popolata da fanatici ultras di periferia e invece è gremita di distinte signore con i giornali sotto il braccio, volontarie di Legambiente col cappellino giallo e verde, anziani in bicicletta, ragazzi dei movimenti con i dreadlocks e le telecamere digitali e molte, moltissime, mamme con i bambini. “Vedi, mamma, quanta gente? Però dovevamo essere di più”, spiega una di loro al figlio di dieci anni, mentre gli passa una bottiglietta di acqua ghiacciata, perché il sole è di fuoco e i più piccoli vorrebbero scappare a tuffarsi in acqua dagli scogli di San Vito.

Ma i bambini sono il simbolo che la piazza si tiene stretto. Perché è il loro futuro che qui è in discussione, ripetono dal palco le ragazze del Comitato, mostrando i disegni dei bambini di oncologia pediatrica dell’ospedale Moscati. Tanti, troppi, ben al di sopra della media. “I casi più gravi andiamo a curarli al nord. A Roma o all’Istituto tumori di Milano. E quando arriviamo i medici ci dicono: ancora un altro bambino da Taranto? E voi perché non fate niente?”.

Nel frattempo a piazza Vittoria sono arrivati i ministri, Corrado Passera e Corrado Clini. Arroccati col presidente Vendola e uno stuolo di politici locali, da Raffaele Fitto a Nicola Latorre, in una prefettura che sembra un castello di mattoncini rossi sul mare e che si può guardare solo da lontano, perché le transenne sono dappertutto a sbarrare il passaggio.

La politica cerca soluzioni concrete, perché comunque la si voglia mettere, anche al netto della feroce crisi economica che lo stop alla produzione economica scatenerebbe (come dimostrano gli scioperi e i blocchi degli operai che sono continuati anche nelle ultime ore), l’Ilva non si spegne in un giorno. E come ripete Vendola da giorni: “Pensare di chiuderla significherebbe fare i conti con il più grande cimitero industriale d’Europa”. Oggetto di inquinamento anch’esso, insomma, di cui nessuno però si occuperebbe, è il sottotesto del presidente della Regione.

Ma quello che un’intera città contesta allo sbarco degli esponenti del governo Monti è l’ingerenza nei confronti della magistratura. Gli esponenti del Comitato scandiscono al microfono una lezione di diritto costituzionale: “Ci hanno insegnato che la separazione dei poteri è sacra. Allora rispettiamola. Il potere esecutivo e quello giudiziario non devono interferire. Lasciamo lavorare i magistrati”.

La cronaca della manifestazione a Taranto ieri. Sparita in televisione e recuperata su Pubblico.

Tredicimilacinquecento

Tredicimilacinquecento morti durante le traversate dei mari che promettono una migrazione a buon fine. I numeri sono di Human Rights Watch.

Tredicimilacinquecento morti sono un genocidio senza padroni negli stessi mari che bagnano le coste dei nostri ferragosto. Dietro ai “flussi”, “respingimenti”, la legge “Bossi-Fini” e tutto il resto ci sono loro: sono due volte il paese in cui apriamo il teatro tutti i fine settimana. E sono un fallimento per tutti. Sicuro.

Quanto internet c’è in Assange

Prova a raccontarlo (riuscendoci) nel suo blog Mantellini. Perché se diventa chiara la metonimia diventano più chiare le ragioni per difenderlo.

Pubblicare sul web documenti autentici ricevuti da terzi non è una colpa, da qualsiasi lato la si osservi. Quello che resta dopo è molto peggio ma ugualmente reale. È la rappresentazione inedita che per un breve periodo Wikileaks ci ha dato di un mondo corrotto e perduto, un carrozzone che noi stessi abbiamo creato e di cui non abbiamo avuto occasione di vergognarci abbastanza; diplomazia, doppiogiochi, agenti corroti, omicidi, tragedie e crudeltà inutili viste dal display di un elicottero da combattimento e poi ostinatamente negate.

Tutto questo schifo sopravviverà alla fine di Julian Assange e di Wikileaks. E poco importa se un tribunale di cartone nei giorni scorsi ha dichiarato illegittimi i blocchi che Visa e Mastercard avevano imposto ai loro clienti desiderosi di aiutare Assange a suo tempo (ormai è tardi) in nome di una etica di rete anch’essa temuta come la peste nei palazzi del potere. Il diavolo a volte si racchiude nei giri del cronometro, posticipare è più che sufficiente.

Nelle prossime settimane quando penseremo all’annientamento di Assange in corso d’opera, dovremo per forza di cose pensare anche all’annientamento di Internet in quanto luogo di una alternativa identitaria, dove le miserie delle diplomazione mondiale potevano essere descritte senza imbarazzi eccessivi e dove questa cronistoria generava poi conseguenze.

Internet come Assange, in bilico come Assange fra cattiva reputazione in qualche misura meritata e sogni di libertà e di un mondo migliore, cancellati dagli sporchi traffici dietro i quali nessuno è innocente. Non il governo USA che trama da tempo per mettere le mani sull’uomo che come pochi ne ha mostrato le miserie, né i suoi sodali in giro per le diplomazie europee. Non i giornali che in questi giorni si affannano a descrivere i nuovi indecenti compagni di viaggio di Assange, da Vladimir Putin al presidente dell’Ecuador Correa noto persecutore di giornalisti, ignorando sia la disperazione dell’australiano abbandonato a sé stesso, sia il contributo di trasparenza e verità che i cablogrammi di Wikileaks hanno imposto al mondo dell’informazione prima ancora che a chiunque altro.

Con Assange ingabbiato in una stanza dell’ambasciata ecuadoregna a Knightsbridge (i peggiori cronisti raccontavano in questi giorni perfino i pasti dei ristoranti alla moda recapitati all’ambasciata) viene chiusa a doppia mandata anche una certa idea della rete Internet. La Internet imperfetta ma autentica che amiamo ma che spaventa orribilmente i peggiori di noi

#primailnordsubitodopoCL

Roberto Formigoni ce l’ha fatta: alla fine è riuscito a farsi invitare all’annuale meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. Sicuramente ha aiutato la “sponsorizzazione” di almeno ottantamila euro dei cittadini lombardi. Dice Maroni (e i suoi) #primalnord, in questo caso il nord è arrivato dopo #primailnordsubitodopoCL. Ne ho parlato con Il Fatto Quotidiano, l’intervista la trovate qui.

Ludovica, i ladri, il suo computer, e la vita dentro

Non so se i ladri in generale hanno rimorsi di coscienza. Non so se leggono gli appelli. In rete, poi, dove di appelli se ne vedono a migliaia, a cascata. E non so nemmeno se possa essere utile metterlo qui. Certo uscire con un sacco nero riempito un po’ di elettronica è equiparabile al finestrino rotto per un’autoradio quando eravamo ragazzini. E’ che ogni tanto succede che negli oggetti più insignificanti (e comodi da rubare) c’è dentro tutta una vita. E allora diventano scomodi e pesantissimi. Non trascinabili. E allora sarebbe bello che si ritrovassero, che ci fosse una restituzione. Come quei finali banali dei film che finiscono come speravi dall’inizio. Ecco, adesso sarebbe il momento.

L’appello:

Hanno rubato le attrezzature e il computer di Ludo. Hanno rubato la vita di Ludo-Ludovica, 6 anni, una malattia senza speranza diagnosticata da tre. Qualche momento in cui ha corso e giocato come tutti i bambini. Poi quella malattia così rara (il morbo di Tay-Sachs),  per la quale non esistono quasi ricerche (e cure), l’ha immobilizzata e resa cieca. Ludo, unica in Italia con quel morbo degenerativo e invalidante,  è diventata un caso amato e sostenuto:  per lei era stato giocato anche il “Derby del Cuore” a maggio del 2011. Perché Ludo per vivere segue una terapia sperimentale in Israele al costo di circa 20mila euro a seduta, coadiuvata da terapie che permettono di curarla anche al rientro.

I ladri che sono entrati in casa di Ludo il 14 agosto a Torvaianica (attorno alle 12) hanno portato via le apparecchiature che servono a mantenerla in vita. E il computer con le immagini di quando era in  salute. Hanno fatto incetta di banale tecnologia con la speranza di raccattare qualche euro.  Il denaro recuperabile da qualcunque ricettatore non vale la vita di Ludo. Immagini, direte. Ma quelle immagini sono la forza per chi le sta accanto.

L’associazione Salvamamme di cui fa parte Roberta, la mamma di Ludovica,  ha lanciato un appello per riavere ciò che è stato rubato. “Contattateci giorno o notte al numero 335321775″, chiede Maria Grazia Passeri, presidente dell’associazione. “Lasciateci in un luogo sicuro questo preziosissimo computer. Passate voce anche a persone che non leggono i giornali e non hanno la Tv”.

Il ridicolo Putin

Sulle Pussy Riot ha ragione da vendere Andrea Riscassi (che mica per niente di Putin un po’ se ne intende visto che dal 2006 ormai sta cercando di tenere viva la memoria di Anna Politkovskaja):

“Hanno terrorizzato i fedeli con la loro “preghiera punk”, hanno gravemente violato l’ordine pubblico, hanno insultato Putin e il Patriarca Kirill, sono state blasfeme insultando Dio. Il tutto filmando e mandando in rete le immagini per rendere il tutto il più pubblico possibile”, queste in pillole le motivazioni della sentenza che le ha condannate a due anni di carcere.
La lettura del dispositivo contro le Pussy Riot è durata ore. Per cercare di spiegare che le tre ragazze non ce l’avevano con Putin ma con la Chiesa.
Una balla colossale visto che il gruppo punk rock aveva già manifestato più volte contro il regime putiniano.
Ma per evitare l’accusa di una sentenza politica i giudici russi (notoriamente indipendenti dal potete politico) hanno pensato di non considerare le motivazioni politiche del gesto, concentrandosi solo su quelle religiose. Non assenti visto che il concerto punk si è svolto nella principale cattedrale moscovita. Ma l’appello alla Vergine Maria era quello di “liberarci da Putin”.
E infatti la condanna per teppismo motivato da odio religioso suona comunque risibile. Le Pussy Riot sono a tutti gli effetti prigioniere di coscienza.
Le tre ragazze, ormai protagoniste dell’immaginario globale, in manette, sotto l’occhio delle telecamere, hanno sorriso e scosso la testa, durante la lettura della sentenza di condanna.
Ma non hanno mai mostrato paura.
Hanno vinto loro.
Il regime putiniano si è coperto di ridicolo in tutto il mondo.