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Il decalogo antimafioso

Ieri sera con Nando dalla Chiesa abbiamo presentato il suo libro La convergenza (da leggere, per chi crede che sia urgente studiare le mafie prima di passare all’antimafia e perché c’è bisogno di analisi oltre la retorica). Il decalogo antimafioso contenuto nel libro dovrebbe essere il pizzino obbligatorio degli onesti:

1. FORMATI
Occorre diventare conoscitori del fenomeno per capirlo ed interiorizzarlo, creando così le fondamenta sulle quali costruire il nostro comportamento come pensiero autonomo e non come rito.
2. INFORMATI
Una volta gettate le basi il nostro comportamento deve essere guidato dall’informazione, non facile da acquisire, perché la stampa è a volte collusa e tende a tacere gli episodi mafiosi ed a depistarne la vera origine, attribuendo alle cause più varie, vendetta, rivalità politiche od amorose quelli che sono invece omicidi di mafia.

3. COLTIVA LA SENSIBILITA’ CIVILE (Creare capitale sociale)
Come nel Vangelo il seme che cade sul terreno sbagliato non fruttifica, così se la nostra azione si svolge in un ambiente insensibile a certe tematiche anziché provocare consenso provocheremo solo fastidio.

Una volta preparati si tratta di agire, su molti fronti, da quello dell’informazione

4. DIFFONDERE L’INFORMAZIONE
Ovviamente una volta che noi ci siamo informati dobbiamo condividere, comunicandoli, gli elementi in nostro possesso.

5. ORGANIZZA E PARTECIPA ALLE CAMPAGNE D’OPINIONE E DENUNCIA
Le campagne d’opinione e denuncia hanno un grosso impatto perché, non è possibile ignorarle e vengono portate avanti da forze più numerose dei singoli sono molto efficaci, anche perché possono trovare spazio sui mezzi d’informazione che trovano difficile ignorarli.

6. CONSUMA IN MODO CONSAPEVOLE
Il consumare in modo consapevole è uno dei modi più efficaci per ridurre i guadagni del sistema mafioso: partecipare ai GAS acquistando direttamente da chi produce, dato che la mafia guadagna molto nell’intermediazione, acquistare da chi rifiuta il sistema del pizzo, boicottare chi è contiguo a mafiosi sono atteggiamenti molto efficaci.
E non solo in questo campo: se i cittadini boicottassero oggi Unicredit, accusato di aver tenuto comportamenti quantomeno scorretti nei confronti del Comune di Milano, cioè nei nostri confronti, saremmo sicuri che questi comportamenti non si ripeterebbero.
Addiopizzo è riferimento ed esempio di ciò che si può fare.
Il consumo critico si può esercitare in due modi: premiando e/o evitando.

  • Chi premiare: le attività commerciali ed i professionisti che denunciano o che si comportano secondo legalità (ad esempio, chi rilascia le fatture senza difficoltà).
  • Chi evitare: evitare richiede attenzione ed informazione. Edilizia, ristorazione-divertimento (ristoranti/bar/pizzerie/discoteche) e sanità sono i campi in cui le mafie investono di più e riciclano i loro capitali. Informarsi prima di scegliere una clinica in cui curarsi (il settore sanitario è un campo in cui le mafie sono molto attive, emblematico il caso Calabria, ma non solo). Informarsi prima di frequentare catene di locali, di pizzerie o di bar che sorgono all’improvviso (domandarsi da dove può venire tanta abbondanza di liquidità).
7. CONTROLLA LA LEGALITA’
Il controllo della legalità è compito delle istituzioni, ma il cittadino che vive nella zona vede tutti i giorni cosa succede, dal cantiere al nuovo negozio… e quindi riesce ad intravedere molte cose in anticipo, da cui ricavare informazioni da fornire alle istituzioni.
8. SPENDI IL TUO VOTO
La mafia cede i suoi pacchetti di voti ai candidati in cambio naturalmente di favori, senza distinzione di partito, anzi in tutti i partiti.
Così noi dobbiamo utilizzare il nostro voto in funzione antimafia.
Ma soprattutto la lotta alla mafia non può essere condotta dai singoli ed allora

9. APPOGGIA CHI LOTTA
Nelle istituzioni e fra i cittadini c’è chi combatte la mafia. Un’attività rischiosa e faticosa soprattutto quando magari si lotta contro apparati istituzionali.
Per questo c’è bisogno di una forte motivazione per non cedere al “ma chi me lo fa fare”, l’orgoglio ed il senso del dovere sono alla base della motivazione, ma l’indifferenza l’abbatte.

10. NON AGIRE MAI DA SOLO
Non siamo i ragazzi della via Pal, la mafia è pericolosa e diffusa. Oggi ci sono associazioni e movimenti che la combattono e che appoggiano chi la combatte riducendone il rischio.
E come la mafia fa il calcolo costi benefici così anche noi lo facciamo, tenendo conto che ogni lotta è costosa, per formarsi e per informarsi, per la logistica dei GAS, … ma teniamo conto che i benefici della mafia sono i nostri costi, e finché lei sarà in attivo noi saremo in passivo. Nella lotta alle mafie è importante che le denunce siano fatte in gruppo, dividendosi le responsabilità. Denunce isolate, di persone sconosciute all’opinione pubblica sono facilmente attaccabili dai mafiosi. Il bilancio rischio/beneficio diventa invece più oneroso per il mafioso se deve attaccare gruppi, in particolare se ne fanno parte persone note. Operare in gruppo è perciò importante, non solo per l’incolumità del singolo, ma anche per dare più possibilità di successo alla denuncia.

La dittatura e le sue lezioni

Ho voluto fortemente che Matteo Pascoletti fosse dei nostri per Non Mi Fermo. Perché Matteo non ha analisi mediate: scrive e sputa, alla De André. Il suo pezzo di oggi su dittature e i suoi figli ne è un esempio. La stagione berlusconiana ha imposto nel paese un leaderismo allergico al confronto, e quindi debolissimo sul versante della democraticità. Un leaderismo che ha sdoganato, nella comunicazione pubblica, l’insulto, la denigrazione, l’oscenità sfoggiata, indebolendo dunque ulteriormente gli anticorpi offerti dalla logica e dal pensiero critico. Indebolendosi quest’ultimi, la tendenza a delegare di volta in volta al leader la soluzione a un problema percepito soprattutto sul piano emotivo, e la cui complessità non si è in grado di sviscerare, è diventata prassi sociale. Non è un caso, sospetto, che sia alta la fiducia a Monti e bassissima la sfiducia nei partiti, come se il dato non tenesse conto che il Presidente del Consiglio, per far passare i provvedimenti, deve passare proprio per quei partiti. Del resto, come si può vedere in questo articolo di la Repubblica, la maggior parte degli italiani non percepisce il Governo Monti come governo di centrodestra o di centrosinistra. Quindi l’opinione pubblica italiana è culturalmente predisposta a un leader forte, ed è portata dallo stato di crisi e dai valori trasmessi dalla politica di questi ultimi anni ad essere emotivamente indisposta verso dialogo e confronto, o quanto meno disabituata. Ma questo leader forte non può essere Monti, perché la dipendenza dagli attuali partiti segna, a mio avviso, il limite invalicabile e la natura temporanea della narrazione dei “tecnici estranei alla politica”. Il resto qui.

Cavalli e l’innocenza di Giulio. “La mafia? Senza politica non esisterebbe”

di Lorenzo Lamperti  (da Affari Italiani)

Giulio Cavalli, consigliere regionale Sel in Lombardia oltre che scrittore e autore teatrale, parla conAffaritaliani.it di mafia, politica e legalità: “Non si deve guardare solo alle colpe  penali, in Italia c’è bisogno di un ritorno a un codice morale. La vera legalità non è quella delle leggi che vengono spostate un po’ più in là ogni anno per salvare il politico di turno”.

Dice la sua su concorso esterno e concussione: “Altro che limitarli, io li rafforzerei. Penso, per esempio, al reato di favoreggiamento culturale”. La mafia che rapporto ha con la politica? “Non esisterebbe senza di lei. E oggi le mafie sono in ottima salute…” E presenta il suo nuovo libro “L’innocenza di Giulio”: “Dire che Andreotti è innocente, significa dire che è innocente tutta l’Italia degli ultimi cinquant’anni. Che cosa mi fa paura? Il pensiero di come sarà ricordato dai nostri figli. Senza le giuste chiavi di lettura non sapranno riconoscere gli Andreotti di oggi”.

L’INTERVISTA

Che cosa ha rappresentato e che cosa rappresenta Giulio Andreotti per il nostro Paese?

“Rappresenta un metodo sperimentato di fare politica. Un metodo che ha dimostrato di produrre grandi risultati, peraltro. Circoscrivere il fenomeno Andreotti a Giulio Andreotti significa un tentativo, in malafede, di personalizzare una storia che invece è tutta italiana”.

Il tuo libro contiene già dal titolo un riferimento al discostamento dalla realtà dei fatti per quanto riguarda Andreotti. Si parla di innocenza quando invece, come scrive anche il procuratore capo di Torino Caselli nella prefazione, i suoi reati sono stati prescritti. Credi che questo sia un elemento sconosciuto ai più?

“Ma sì, credo che se chiedi in giro nove persone su dieci non sanno come sono andate realmente le cose. Il processo parla di fatti storici, documentati. Questi fatti non devono per forza corrispondere a colpe giudiziarie ma sono parte della storia di questo Paese. Il problema però è che sono stati sempre trascurati, perché si è preferito fare la guerra tra schieramenti partitici diversi. Anche qui assolutamente in malafede. Il problema non è se Andreotti sia innocente o colpevole di fronte al codice penale e al codice di procedura penale. Il problema vero è un altro: l’Italia ha voglia di reimparare a esercitare il diritto e il dovere di valutare le opportunità? Cioé, ha voglia di diventare intollerante non solo con gli albanesi e i rom ma anche con i politici inopportuni? Questo libro cerca di risvegliare quel senso. Io non mi permetterei mai di giudicare gli elementi giudiziari, anche perché credo che gli atti parlino già da soli e non abbiano bisogno di commenti. Però dal punto di vista etico e penale secondo me c’è tanto da dire su una politica vissuta come sistema che mette in collegamento pezzi più o meno legali di questo Paese. Su questo la riflessione è dovuta”.

Nel tuo libro parli da una parte di una tendenza a minimizzare certi elementi, come le cattive frequentazioni dei politici e dall’altra invece di un’altra tendenza la quale porta a dire che Ambrosoli “se l’è cercata”. Credi che queste due tendenze siano prettamente italiane?

“Io credo che all’innocenza di Andreotti hanno aspirato in tanti, non solo lo stesso Andreotti. In fondo l’Italia voleva un grande condono. In fondo, se è innocente Andreotti fondamentalmente è innocente l’Italia di questi ultimi 50 anni. Dover riconoscere che il comportamento di Andreotti è risultato inopportuno significa riconoscere che noi cittadini italiani siamo stati un po’ troppo poco vivi, poco vigili”.

Oggi esistono nuovi Andreotti?

“Io ho scritto il libro perché spero che i miei figli conoscano non tanto Andreotti ma che invece sappiano riconoscere gli andreottismi. Non è un tiro al piccione contro Andreotti. E se per andreottismo si intende sedersi a tavola con gruppi più o meno apertamente criminali e considerarli buoni alleati per gestire il consenso sul territorio allora è meglio stare in guardia da questo pericoloso sistema”.

Secondo te come sarà ricordato Andreotti dalla gente comune?

“Ecco, questa è la cosa che mi fa paura. Noi siamo stati molto bravi nella commemorazione, colpevole da una parte e innocentista dall’altra, ma ci siamo dimenticati di esercitare la memoria. Io mi auguro che ai nostri figli rimangano le chiavi di lettura per porsi delle domande sugli Andreotti di ieri e sugli Andreotti di oggi”.

Quali sono i rapporti tra mafia e politica?

“La mafia senza politica non potrebbe esistere. E oggi le mafie sono in ottima salute. Quindi…”

Tu oltre che un attore e scrittore sei anche un consigliere Sel della regione Lombardia. Proprio in queste settimane abbiamo assistito a una serie impressionante di accuse nei confronti di politici del Pirellone. E d’altra parte la presenza mafiosa è sempre più diffusa. Nonostante questo i cittadini del Nord faticano a pensare alla mafia come a qualcosa di concreto. Come si fa a cambiare questo atteggiamento?

“E’ un compito che spetta a tutti. A noi narratori, ma anche a noi politici. Ecco io ho questo conflitto di interesse… ci si riuscirà a cambiare le cose quando l’argomento mafia non sarà un argomento solo per tecnici ma diventerà un argomento dei più, un qualcosa del quale parlano le sciure al bar mentre giocano a carte. La mafia deve essere un argomento che entra nell’ordinario e che tocchi tutti. Così dimostreremo che corruzione, riciclaggio e criminalità organizzata sono le diverse evidenze dello stesso minimo comune denominatore mafioso e assumono forme diverse, anche eleganti, a seconda della regione nelle quali operano”.

A proposito degli intrecci tra mafia e “colletti bianchi”, che cosa ne pensi di un argomento caldo come il reato di concorso esterno in associazione mafiosa?

“Non vado a giudicare le sentenze, però io non solo credo che il reato di concorso esterno debbe essere invece rinforzato, penso anche che bisognerebbe tornare a pensare al favoreggiamento culturale e imprenditoriale alla mafia. Io quindi estenderei la questione a tutti gli ambiti. E poi voglio sottolineare l’importanza del giudizio morale. L’opportunità non è un elemento che si lega al terzo grado di giudizio, ma ne prescinde. L’opportunità è un concetto sul quale in questo Paese è morta gente come Pio La Torre”.

Negli ultimi giorni si è parlato tanto del reato di concussione. Pensi che sarebbe giusto accorparlo a quello di corruzione, rischiando così di pregiudicare il processo Ruby?

“E’ sempre la stessa questione. Io timidamente vorrei parlare di legalità, una parola abusata. Se per legalità intendiamo il rispetto delle leggi anche di quelle non scritte dello stare democraticamente insieme allora mi va bene, ma se parliamo di legalità nel senso di rispetto solo delle leggi scritte in un Paese che le ha spostate ogni mese o ogni anno di un metro un po’ più in là per riuscire a sfamare il potentato di turno allora resto molto perplesso. Bisognerebbe cominciare a essere molto rigorosi: negli atteggiamenti e nelle interpretazioni legislative. Credo che a prescindere dai giudizi della magistratura noi dobbiamo comunque chiederci se in Italia la classe politica e dirigente ha uno spessore etico e morale oppure no”.

Su questi temi come sta operando la giunta Pisapia?

“Mi sembra che abbia alzato l’attenzione e che sia riuscita a trasformare una procedura amministrativa nel germe di una rivoluzione che vuole essere culturale e collettiva”.

Quanto fa paura l’arte alla mafia?

“Caponnetto diceva che il mafioso teme molto di più di essere raccontato piuttosto dell’ergastolo. Di fronte alla

«Andavamo a giocare alla cava radioattiva»

PAOLA VILARDI: “A me non risulta che ci sia presenza di radioattività, ma qualora questo elemento…Voglio ricordare…”

Come non le risulta? La radioattività è già stata trovata…

PAOLA VILARDI: No, ma voglio dire…la radioattività c’è dappertutto.

Quanti sono i siti contaminati dalla radioattività?

PAOLA VILARDI: Guardi, io…le giuro che questa è…Allora: il problema della radioattività…”

PAOLA VILARDI: “Io non ho questo allarmismo e questa preoccupazione”.

PAOLA VILARDI: “È per quello che spero che certe cose negative non ci siano”.

(Dall’intervista a Popolare Network dell’Assessore all’Urbanistica, Ambiente ed Edilizia del

Comune di Brescia, Paola Vilardi, giugno 2011)

Paola Vilardi, assessore all’Ambiente del comune di Brescia, spera che il problema della radioattività non ci sia. Ma secondo l’ARPA ci sono più di cento siti con scorie radioattive in provincia di Brescia. E la popolazione non ne sa nulla: quelli noti sono soltanto cinque. Due dei cinque siti si trovano nel centro abitato di Brescia, compreso quello con la radioattività più alta mai registrata: l’ex cava Piccinelli di via Cerca. Le prime rilevazioni fatte nel febbraio ’98 direttamente sulle polveri radioattive avevano fatto impazzire i contatori Geiger: più di 100 μSv/h, il valore massimo rilevabile dallo strumento. Pochi giorni fa l’esame delle acque di falda sotto alla cava radioattiva hanno dato una buona notizia: niente Cesio nell’acqua. Ma i dati sono per certi aspetti inspiegabili. Andrea Tornago racconta una vicenda tutta lombarda

PER ASCOLTARE: http://bracebracebrace.files.wordpress.com/2012/03/localmente-mosso-23-02-12-rpop.mp3

 

Andreotti, un imputato troppo innocente: la prefazione di Gian Carlo Caselli per ‘L’innocenza di Giulio’

Pubblichiamo la prefazione di Gian Carlo Caselli al libro “L’innocenza di Giulio” di Giulio Cavalli, Chiarelettere, Milano 2012.

di Gian Carlo Caselli

Lo ammetto. Sono un mostro. Nel senso latino di monstrum: un essere fuori dell’ordine naturale. Eh sì, perché sono l’unico giudice in Italia (credo al mondo) che può «vantare» una legge scritta apposta per lui, contro di lui. Nel paese delle leggi ad personam, che hanno inquinato il sistema violando i principi fondamentali dell’ordinamento e la stessa regola di «buona fede legislativa», troviamo – tanto per non farci mancare nulla – anche una legge «contra personam», scritta apposta per impedirmi di partecipare alla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia dopo che Piero Luigi Vigna era scaduto dall’incarico.

Perché tutta questa attenzione? Detto e ripetuto pubblicamente da fior (si fa per dire) di uomini politici: dovevo pagare il processo al senatore Andreotti perché, come capo della Procura di Palermo – dove avevo chiesto di essere mandato dopo le stragi Falcone e Borsellino – avevo osato indagare e poi processare il Divo Giulio. La legge «contra personam» sarà poi dichiarata incostituzionale e cassata dal nostro ordinamento, ma frattanto i giochi erano ormai irreversibilmente fatti: io (il mostro) estromesso dal concorso, senza che nessuno trovasse nulla da ridire, né chi si vedeva tolto dai piedi un concorrente, né il Csm che aveva accettato disinvoltamente di concludere una procedura inquinata da un cambiamento delle regole a partita aperta e ormai quasi conclusa.

Peccato che da «pagare», per il processo Andreotti, non ci fosse un bel niente. Al contrario, la conclusione del processo dà sostanzialmente ragione all’accusa, che perciò non ha nulla da farsi perdonare, anzi. Vero è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani è convinta (in perfetta buona fede, perché questo le è stato fatto credere con l’inganno) che Andreotti sia innocente. Di più: vittima di una persecuzione che lo ha costretto a un doloroso calvario di una decina d’anni per l’accanimento giustizialista di un manipolo di manigoldi. Ma la realtà vera è ben diversa, come anche questo lavoro di Giulio Cavalli facilmente dimostra.

Per parte mia, cosa dire di più? Può essere utile una breve storia del processo. In primo grado l’imputato Andreotti viene effettivamente assolto. Di fatto per insufficienza di prove, ma assolto. Contro l’assoluzione ricorrono la Procura della repubblica e la Procura generale. La Corte d’appello di Palermo riforma la sentenza del tribunale. L’imputato è dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra per averlo «commesso» (sic) fino al 1980; il delitto è commesso ma prescritto, e solo per questo motivo all’affermazione di colpevolezza non segue la condanna. Dopo il 1980 la Corte conferma l’assoluzione.

Contro la sentenza d’appello ricorre in Cassazione l’accusa, perché vuole che la colpevolezza sia riconosciuta anche dopo il 1980. Ma in Cassazione (attenzione!) ricorre anche la difesa. È la prova provata che fino al 1980 non c’è stata assoluzione. Non esiste al mondo, infatti, che l’imputato assolto ricorra contro se stesso. Se lo fa, è per ottenere un’assoluzione vera (non spacciata come tale in favore di telecamere urlando «E vai!»). Ora, poiché la Suprema corte ha confermato definitivamente e irrevocabilmente la sentenza d’appello, è semplicemente falso sostenere che Andreotti è stato assolto. Fino al 1980 è stata provata la sua responsabilità per il delitto – ripeto – di associazione a delinquere con Cosa nostra. Fatti gravissimi, meticolosamente elencati e provati per pagine e pagine di motivazione, sfociano nel dispositivo finale. Dimenticavo: ricorrendo in Cassazione l’imputato avrebbe potuto rinunciare alla prescrizione, ma si è ben guardato dal farlo. Forse perché troppo… innocente.

La sentenza che pochi hanno letto

Andiamo a rileggere l’ultima pagina della sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003 (poi confermata in Cassazione) che, a quanto pare, in pochissimi hanno letto e moltissimi non hanno mai voluto o potuto conoscere.

I fatti che la Corte ha ritenuto provati in relazione al periodo precedente la primavera ’80 dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunziati; ha omesso di denunziare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza. […] Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi fatti, la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo. […] Si deve concludere che ricorrono le condizioni per ribaltare, sia pure nei limiti del periodo in considerazione [cioè prima della primavera del 1980, nda], il giudizio negativo espresso dal tribunale in ordine alla sussistenza del reato e che, conseguentemente, siano nel merito fondate le censure dei pubblici ministeri appellanti. Non resta, allora, che […] emettere, pertanto, la statuizione di non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del sen. Andreotti estinto per prescrizione.

All’università insegnavano (e forse ancora si insegna) che la pronuncia di Cassazione «facit de albo nigrum… aequat quadrata rotundis». Latino facile, evidentemente ignorato dai commentatori della sentenza Andreotti. Eppure, che le parole sono pietre e quelle della Cassazione addirittura macigni lo sanno tutti. Persino… er Monnezza. Mi riferisco a uno dei polizieschi anni Settanta interpretati da Tomas Milian. Per convincere un amico, il maresciallo Giraldi urla: «Aò, quello che te sto a di’ è Cassazione!». Come a dire, non puoi dubitarne. Evidentemente ciò che vale per er Monnezza non vale per il resto del nostro paese.

Dunque «è Cassazione» il fatto che, per un congruo periodo di tempo, il senatore Andreotti è stato colluso con Cosa nostra. Questa verità dovrebbe rimanere scolpita nella memoria del paese, specialmente se parliamo di una persona che per sette volte è stata presidente del Consiglio e per ventidue volte ministro. E invece no. Queste parole sono state sapientemente esorcizzate, stravolte, cancellate. Le sentenze (emesse in nome del popolo italiano) vanno motivate affinché il popolo possa sapere per quali motivi appunto si viene assolti o condannati, ma anche perché il popolo possa conoscere i fatti che stanno alla base dei motivi per cui una persona è chiamata a rispondere di determinate azioni di fronte a un tribunale. Qui il popolo è stato truffato.

Dalla motivazione di tutte le sentenze – anche da quella di primo grado, che assolve per insufficienza di prove – emerge una realtà sconvolgente: scambi di favori e, soprattutto, riunioni (per discutere di fatti criminali gravissimi) con capimafia del calibro di Stefano Bontate, provate dalle veridiche dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, testimone oculare di uno di questi incontri. Realtà sconvolgenti, consacrate (ribadisco) da una sentenza passata in giudicato.

Sarebbe lecito – almeno – attendersi riflessioni, dibattiti, confronti, analisi. Sarebbe opportuno chiedersi cosa mai sia successo davvero in quella stagione. Su che cosa si sia basato, almeno in parte, il meccanismo del consenso nel nostro paese. Niente di tutto questo. Tutto è stato cancellato, nascosto.

Se ne è parlato soltanto per stravolgere i fatti, da parte di tutti: autorevoli leader politici, illustri opinion maker, finanche vertici istituzionali. Dopo la cosiddetta «assoluzione» è stata una corsa alle telefonate di congratulazioni, alle pubbliche e stucchevoli attestazioni di stima. Il massimo dell’impudenza lo raggiunge il presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centaro che – all’indomani della sentenza della Corte d’appello – dichiara pubblicamente: «Il grande dibattito mediatico, che si è sovrapposto e ha sostituito il processo, ha seguito i ritmi dell’“analisi politica” (già sperimentata per la valutazione delle responsabilità per le stragi del 1992 e del 1993), pervenendo a un tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità malamente sbugiardato [corsivo mio, nda] dalle pronunce giurisdizionali. Ciò ha comportato, comunque, l’insinuarsi di ombre e veleni. L’unico risultato è stata una crescente confusione nei cittadini e un senso di sfiducia nelle istituzioni, a fronte di affermazioni perentorie poi rivelatesi infondate in corso d’opera». Centaro ha visto un altro processo, vive in un altro mondo.

La verità negata

La verità è fatta a brandelli. E la sinistra non è stata da meno. Una forza politica che ha sempre fatto della «questione morale» un punto (apparentemente) fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l’ha a dir poco rimossa. Anna Finocchiaro, ad esempio, ha liquidato come «inutile perdita di tempo la discussione sulle vicissitudini giudiziarie del senatore Andreotti».

Clemente Mastella, ineffabile ministro della Giustizia, ha dichiarato che «invece di parlare della sentenza di Palermo, ad Andreotti bisognerebbe fare un monumento». In questo Mastella è stato ampiamente soddisfatto. Sulla vicenda processuale si è innestato un processo di santificazione mediatica con la sapiente e sottile tessitura dello stesso Andreotti. Grazie alla connivenza di molta politica e di molta informazione egli è riuscito a far passare in secondo piano i gravi fatti evidenziati dal processo, fino a cancellarli.

Ha esibito se stesso in mille circostanze su un’infinità di media, cerimonie e manifestazioni, rivitalizzando così il profilo di un grande statista di prestigio internazionale, apprezzato da molti (Vaticano in primis). Fino a sfiorare la nomina alla presidenza del Senato, dopo essere stato designato per rappresentare l’Italia ai funerali di Boris Eltsin. Senza disdegnare, nel contempo, incursioni da star nel mondo della pubblicità, facendo il testimonial della famiglia per la Chiesa cattolica o prestandosi, al fianco di una procace attrice, a promuovere una marca di cellulari.

Il risultato è stato una sorta di dilagante giudizio parallelo, nel quale il senatore ha cercato – riuscendoci – di offrire di sé un’immagine di altissimo profilo incompatibile con le bassezze processuali rimestate da piccoli giudici. Anzi – verrebbe da dire – dentro le quali grufolavano piccoli giudici. Una strategia che ha pagato, perché ha trovato un’infinità di sponde, che hanno stravolto la verità, massacrando la logica e il buon senso.

Con una conseguenza che va ben oltre il perimetro del processo Andreotti. Parlare di assoluzione, anche a fronte delle gravissime responsabilità provate fino al 1980, non è solo uno strafalcione tecnico. Significa in realtà legittimare (per il passato, ma pure per il presente e il futuro) una politica che contempla anche rapporti organici con il malaffare, persino mafioso. Per poi stracciarsi le vesti se non si riesce – oibò! – a sconfiggere la mafia. Lo ha sottolineato il corrispondente dell’«Economist» David Lane in un’intervista rilasciata al «Venerdì di Repubblica»: premesso che «i politici e i media hanno raccontato un’altra storia, come se la Suprema corte avesse detto che [Andreotti] era innocente», Lane si chiede che cosa questo fatto comporti «sulla determinazione nella lotta al crimine», e risponde che si tratta di «un messaggio chiaro, che piace ai mafiosi».
Ovviamente non è con messaggi di questo tipo che si vince la guerra alla mafia.

L’intelligente ironia di Giulio Cavalli, dunque, ci offre non solo preziosi elementi di conoscenza di una verità dolosamente nascosta. È anche un antidoto potente contro una patologia che affligge pesantemente il nostro paese: la perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, l’irresponsabile sottovalutazione del pericolo che si corre quando si occulta il passato. In sostanza, una mancanza continuativa di coscienza etica, fino all’eclissi della questione morale.

Le convenzioni dell’amore

In un periodo di forte crisi economica, in Italia non c’è spazio per interrogarsi sui sentimenti e sui modelli di famiglia emergenti, mentre un legislatore ed un politico attento ai cambiamenti sociali partirebbe proprio da quei dati, perché la trasformazione economica investe anche il profilo culturale e sociale di un paese. Non si può modificare, infatti, ciò che ci circonda, se non si parte da un processo di cambiamento che coinvolge sé stessi, le proprie convinzioni e la modifica dei clichè tramandati dalle generazioni precedenti, tutti protesi alla criminalizzazione delle condotte che ledevano “la moralità pubblica e il buon costume”.
La Cassazione, con la sentenza n. 4184, si è espressa in tema di matrimoni tra omosessuali, con una soluzione che tenta di accontentare sia il mondo cattolico, arroccato su una posizione che vieta l’amore tra soggetti dello stesso sesso (che pure si annida sempre più negli ordini sacerdotali) e le richieste incalzanti di riconoscimento che arrivano dal mondo gay.
La Suprema Corte evidenzia come non sia possibile, per gli omosessuali, con l’attuale legislazione, «far valere il diritto a contrarre matrimonio, né il diritto alla trascrizione del matrimonio celebrato all’estero», specificando però che questa «intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende non più dalla loro ‘inesistenza’, e neppure dalla loro invalidità, ma dalla loro inidoneità a produrre quali atti di matrimonio, appunto, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano». Un’ escamotage, dunque, che riconosce le unioni omosessuali, non consentendone esplicitamente, tuttavia, l’applicazione nel nostro ordinamento. 

Ne scrive Manila sul sito di Non Mi Fermo.

Milano, presidio contro i fortini dei clan

Un elenco di novecento nomi, quelli delle vittime di mafia, letto a due passi da una delle enclavi della criminalità organizzata a Milano, lo stabile di viale Montello 6. L’iniziativa è dell’associazione Libera, che nella diciassettesima Giornata della memoria e dell’impegno antimafia ha raccolto i cittadini in un presidio a sostegno di Denise Cosco, la figlia ventenne di Lea Garofalo, rapita e sciolta nell’acido dopo aver deciso di testimoniare contro i Cosco, il clan che occupa lo stabile di viale Montello. Presenti all’iniziativa anche il sindaco Giuliano Pisapia e il consigliere regionale Giulio Cavalli (Sel), che ha ricordato la mozione votata ieri al Pirellone: “La Regione si farà carico degli studi di Denise Cosco”. “È molto significativo essere qui”, ha spiegato Ilaria Ramoni di Libera, anche avvocato di Denise Cosco, “ed è importante soprattutto che ci siano molti coetanei di Denise”. Ma nonostante la sentenza sull’omicidio di Lea Garofalo si avvicini, in viale Montello 6 i Cosco ci sono ancora. Più della metà dei 126 immobili dello stabile sono ancora occupati abusivamente. “Gli sfratti ci sono stati”, spiega il presidente della Commissione antimafia del Comune David Gentili, “ora la responsabilità è del prefetto” di Franz Baraggino

L’antimafia dal basso

Il progetto scomparso (E21), ne parla Arthur qui. In cosa consiste E21? In un portale accessibile gratuitamente da tutti che mette a disposizione spazio per discussioni ed elaborazione di proposte, ma anche segnalazioni o denunce. Il tutto con la possibilità di geolocalizzare su delle mappe interattive il lavoro che si sta elaborando. Cosa significa in concreto? Significa che se il mio Comune aderisce alla sperimentazione io posso entrare nel sito e dare il mio contributo. Gli esempi di come possa essere utilizzato sono molteplici: ho una proposta da fare su una determinata questione? Apro una discussione, inserisco i dati che servono, spiego la mia idea. Vedo nel mio Comune un fosso utilizzato come discarica abusiva? Lo fotografo e carico l’immagine localizzandola sulla mappa. Voglio segnalare un bel progetto? Posso scrivere un articolo e postarlo sul sito.

Nonmifermo non è stata solo l’occasione per parlare di E21 (qui il video), ma è stata soprattutto l’opportunità di tradurre l’idea in qualcosa di concreto: dopo solo pochi giorni, abbiamo in Regione un’interrogazione per conoscere l’attuale situazione riguardante il progetto. La proposta adesso è azione politica.

Regione Lombardia sosterrà gli studi della figlia di Lea Garofalo: Denise non sei sola

“Denise Cosco è la figlia di Lea Garofalo, rapita e sciolta nell’acido il 24 novembre del 2009 dai complici del marito ‘ndranghetista Carlo Cosco.

Da quando, con grande coraggio e dignità, si è costituita parte civile al processo contro il padre insieme alla nonna materna, alla zia e al Comune di Milano, Denise vive sotto protezione, condannata a sparire e a nascondersi per salvarsi.

E’ così che porta avanti la sua dignitosissima battaglia, in silenzio, lontana dall’antimafia televisiva per il grande pubblico.

Ed è per questo che ci rende orgogliosi aver ottenuto, con il voto unanime alla nostra mozione, un impegno concreto del Consiglio regionale sulla sua vicenda: Regione Lombardia, assicurandole almeno quella possibilità di studiare cui lei tiene così tanto, le restituisce un pezzettino di normalità.

Farsi carico in modo diretto delle vittime è la strada migliore per rivendicare la dignità e la civiltà delle istituzioni di fronte alle mafie.

Al di là dell’aspetto meramente economico di quello che sarà il sostegno regionale al percorso formativo di una giovane, coraggiosa testimone di giustizia, il vero significato di questo passaggio – come ha ben compreso la sorella di Lea, il cui ringraziamento ci commuove – è il messaggio fortemente simbolico: Denise non è sola”.

Milano, 20  marzo 2012

Razzismo e neonazismo travestiti

Queste cose, messe in fila, mi fanno pensare come il razzismo sia da combattere proprio sul terreno della politica, perché è in questa che si infiltrano i nuovi nazisti: in “innocenti” movimenti indipendentisti, regionalisti, addirittura “cattolici”. Ma la dimensione è straordinariamente europea. Se anni fa succedeva in Francia quello che potete vedere nel video e oggi accade la stessa cosa in Repubblica Ceca, forse è il caso che ci facciamo carico di una consapevolezza: lavorando nel “sottobosco” della politica, i razzisti di estrema destra hanno più penetrazione e più coesione “europea” di quanta non ne abbiano i partiti che cercano (o dicono di cercare) una direzione comunitaria che sia unica sul percorso della legalità.

Quello che possiamo fare noi, anti-razzisti per natura, è armarci per lavorare nell’estremamente piccolo, nel locale, per stanare ovunque si nascondano questi personaggi, soprattutto quando si nascondono nelle “amministrazioni dei piccoli Comuni”, senza paura di chiamarli per quello che sono: razzisti, neonazisti, neofascisti. Ricordare a loro e a chiunque li ascolti che essere razzisti è innanzitutto anticostituzionale (articolo 3, articolo 8, articolo 10), prima ancora che stupido.

Francesco ne scrive partendo dai documenti. Da leggere per non poter dire di non sapere.