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Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea

Fa ancora discutere la sedia non concessa alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen mentre il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel invece si godeva il suo posto d’onore con il sultano turco Recep Tayyip Erdoğan. Quello sgarbo è stata anche l’occasione di ricordare al mondo come il leader turco stia progressivamente fiaccando i diritti delle donne nel suo Paese, partendo da quel 2016 in cui disse che le donne fossero “da considerarsi prima di tutto delle madri”, relegandole al loro medievale scopo riproduttivo e poi fino ai giorni scorsi in cui il suo governo ha annunciato tronfio il ritiro dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

In Turchia tra l’altro si contano in media circa due femminicidi al giorno e le donne, complice anche la pandemia, hanno sempre minor accesso al mondo del lavoro e alla politica. Insomma, quello sgarbo ha radici profonde e ben venga quella sedia che è mancata per ricordarcelo. Nella discussione generale però sembra scomparso il motivo per cui l’Ue ha scelto di incontrare Erdoğan e il fatto non è secondario perché il sultano turco evidentemente può permettersi certi atteggiamenti, forte del suo ruolo internazionale. Allora bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, di scriverlo che Erdoğan altro non è che l’esecutore materiale della folle politica europea che ha delegato alla Turchia l’esternalizzazione delle frontiere europee per controllare il flusso migratorio in modi anche poco leciti.

Nel 2016, in piena crisi migratoria, Bruxelles, su spinta soprattutto della Germania, ha firmato un accordo che garantiva 6 miliardi di euro alla Turchia per trattenere i migranti nei propri confini (si stima che siano almeno 4 milioni di persone) e grazie a quell’accordo tutti i migranti irregolari che arrivavano sulle isole greche attraverso il confine turco sono stati riportati in Turchia. Quei soldi hanno lo stesso odore di quelli che arrivano alla cosiddetta Guardia costiera libica (sì, proprio quella che Draghi ha blandito pochi giorni fa) per fare da tappo in Africa. Soldi che rendono ancora più forti governi che non hanno nulla di democratico e che non hanno nulla da spartire con i valori europei eppure tornano utili per essere i sicari dell’Unione europea. C’è qualcosa di più di quella sedia che manca. Giusto un anno fa, a marzo del 2020, Erdoğan ha ricattato l’Europa sulla gestione dei flussi per alcune partite geopolitiche come quella siriana e per reclamare altri soldi.

La Grecia aveva denunciato la Turchia di “spingere” verso la sua frontiera i migranti e alla fine l’Ue per garantire la propria “fortezza” ha deciso di continuare a foraggiare la Turchia: la presidente garantisce «la continuità dei fondi. E se la Turchia rispetta gli impegni, previene le partenze, prevede i rientri dalla Grecia, i fondi Ue garantiranno ancor più opportunità», dice la nota ufficiale. Del resto già a settembre Bruxelles aveva inserito un passaggio significativo nella sua proposta su asilo e immigrazione scrivendo nero su bianco che lo stanziamento di fondi alla Turchia «continua a rispondere a bisogni essenziali. Essenziale sarà perciò che l’Ue dia alla Turchia un sostegno finanziario continuativo». Su quella stessa linea si è assestato anche Mario Draghi che fin dal suo primo discorso pubblico a febbraio disse che gli accordi per esternalizzare le frontiere (che tradotto significa pagare anche Erdoğan) erano fondamentali per controllare l’immigrazione.

Da tempo diverse organizzazioni umanitarie, tra cui anche Amnesty International, giudicano la politica europea sulle frontiere disumana oltre che totalmente fallimentare eppure nessuno è mai riuscito a mettere in discussione questo modello che si annuncia valido anche per il futuro. Ad Ankara l’Ue ha manifestato anzi la volontà di rafforzare i legami economici con la Turchia, ha concesso la revisione del sistema di visti in ingresso nell’Ue e un’unione doganale per favorire il passaggio delle merci. Quando a von der Leyen è stato chiesto dei diritti calpestati in Turchia la presidente ha risposto: «I diritti umani non sono negoziabili. Vorremmo che la Turchia rivedesse la decisione di uscire dalla convenzione di Istanbul e che rispettasse i diritti umani». Insomma, siamo alle raccomandazioni per quanto riguarda il rispetto dei diritti e ai soldi fumanti invece per contenere i disperati. Forse se Erdoğan fa il bullo non è solo colpa sua.

L’articolo Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea proviene da Il Riformista.

Fonte

Caro Renzi, ora chiarisca una volta per tutte i suoi rapporti con l’Arabia Saudita

“Mi impegno a discutere i miei incarichi internazionali, ma dopo la fine della crisi di governo”. Parole, opere e solite omissioni del solito Matteo Renzi, pronunciate quando si infiammò la polemica per i suoi rapporti con l’Arabia Saudita. La polemica si infiammò quando si scoprì che il senatore di Italia Viva guadagna almeno 80mila euro all’anno per partecipare alle conferenze dell’FII Institute, un organismo controllato dal fondo sovrano saudita, e dopo la pubblicazione di un video in cui Renzi, di fronte al principe Mohammed Bin Salman, si ritrovava a magnificare un presunto “nuovo Rinascimento” di una nazione che secondo la Freedom House, un think tank americano di orientamento liberale, in un indice di libertà che va da 0 a 100 si ferma a 7 (la Russia di Putin, per dire, è a 20, l’Iran raggiunge 17, l’Egitto 21, l’Italia è a 89).

È la stessa Arabia Saudita che secondo Amnesty International detiene, tortura e giustizia migliaia di persone ingiustamente. La stessa nazione che nel suo consolato fece a pezzi l’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi nell’ottobre del 2018 su mandato (lo dice l’Onu) proprio del principe saudita Bin Salman, colui che paga profumatamente Renzi come testimonial.

La crisi politica è finita, ora si attende con ansia che il leader di Italia Viva risponda alle domande e ai dubbi dei giornalisti: “Prendo l’impegno di discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi internazionali, delle mie idee sull’Arabia Saudita, di tutto. Ma lo facciamo la settimana dopo la fine della crisi di governo”, disse Renzi nel pieno della polemica, con quel suo solito difetto di ritenere prioritarie solo le proprie priorità. Non è questo il momento?

E ha ragione il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, quando scrive “è vero che Renzi ci ha abituato in questi anni a dire molte cose senza poi farle, dall’abbandono della politica se avesse perso il referendum fino al capolavoro del Mes, comunque noi rimaniamo in attesa della conferenza stampa sul Rinascimento Saudita…”.

Siamo qua, stiamo aspettando un chiarimento che è molto più “politico” di quello che si vorrebbe lasciare intendere poiché siamo curiosi di sapere cosa c’entri l’Arabia Saudita con il riformismo declamato da Renzi, cosa pensi del peso dei diritti umani in un Paese e come veda l’architettura fondamentale di una democrazia degna di chiamarsi tale. Senatore Renzi, lei che ama così tanto le luci della ribalta: i riflettori e i microfoni sono accesi, manca solo lei. Forza, coraggio.

Leggi anche: 1. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 2. Se Renzi vivesse in Arabia Saudita (di Selvaggia Lucarelli) / 3. Quel rapporto con il principe d’Arabia Saudita: la crociata di Renzi sui servizi ora diventa sospetta (di Luca Telese) 

L’articolo proviene da TPI.it qui

Ingiusti perfino nel vaccino

Nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito, denuncia People’s vaccine alliance

Ne dovevamo uscire migliori ne usciremo probabilmente vaccinati. Noi. Noi saremo vaccinati perché il caso ha voluto che nascessimo in quella parte di mondo che se lo può permettere, eppure proprio durante la pandemia (che è stata e che continua a essere globale) abbiamo scritto, ascoltato e discusso centinaia di volte sull’esigenza di garantire una copertura vaccinale che fosse solidale e non seguisse solo secondo le logiche di mercato. I dati, per ora, dicono tutt’altro.

I numeri ce li dà People’s vaccine alliance, l’organizzazione formata da Amnesty international, Frontline aids, Global justice now e Oxfam: secondo le loro stime nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito.

Il ruolo del razziatore, manco a dirlo, spetta ovviamente all’Occidente che è riuscito ad accaparrarsi in tempo tutte le dosi che servono. I Paesi ricchi con appena il 14% della popolazione mondiale si sono già assicurati il 53% dei vaccini più promettenti: il Canada addirittura è riuscito a ottenere dosi in tale quantità da poter vaccinare ogni cittadino cinque volte, mentre l’Unione europea 2,3 volte.

Ben 67 Paesi a reddito medio-basso e basso rischiano di essere lasciati indietro sebbene 5 – Kenya, Myanmar, Nigeria, Pakistan e Ucraina – abbiano registrato quasi 1,5 milioni di contagi. «A nessuno dovrebbe essere impedito di ottenere un vaccino salvavita a causa del Paese in cui vive o della quantità di denaro che possiede», dice Sara Albiani di Oxfam Italia: «Senza un’inversione di marcia, miliardi di persone in tutto il mondo non riceveranno un vaccino sicuro ed efficace contro il Covid-19 negli anni a venire».

E a proposito di vaccini ha ragione Heidi Chow, di Global Justice Now quando dice che «tutte le case farmaceutiche e gli istituti di ricerca che stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino devono condividere i dati, il know-how tecnologico e i diritti di proprietà intellettuale in modo che sia prodotto un numero sufficiente di dosi sicure ed efficaci per tutti. I governi devono anche garantire che l’industria farmaceutica anteponga la vita delle persone al profitto».

Non è una questione da poco: sull’equità della distribuzione del vaccino si gioca la credibilità mondiale e lo spirito di solidarietà mondiale. Quello che qualcuno diceva che sarebbe arrivato e invece, non è una sorpresa, non c’è. Oppure quello che gli altri dicono che non sia importante, sempre per quella vecchia storia di essere nati dalla parte giusta del mondo.

Notate: un argomento così enorme viene discusso pochissimo, proprio nel momento in cui tutti discutono delle loro piccole facezie. Tutto così gretto, tutto così basso, tutto così ingiusto.

Buon giovedì.

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Uomini che ammazzano donne

Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Una ogni tre giorni. E le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno aggravato il fenomeno

I numeri emergono dal VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia. Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Qualcuno oggi strumentalmente vi dirà che sono meno delle 99 donne dello scorso anno ma in realtà sono diminuite le vittime femminili della criminalità comune (da 14 a 3 nel periodo gennaio-ottobre 2020) mentre risulta sostanzialmente stabile il numero dei femminici di familiari (da 85 a 81) e, all’interno di questi, il numero dei femminici di di coppia (56 in entrambi i periodi); in aumento (da 0 a 4) anche le donne uccise nel contesto di vicinato. Per dirla facile facile: nel 2020 l’incidenza del contesto familiare è dell’89%, superando l’85,8% dell’anno scorso.

La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni (pari al 66,2% dei femminici di familiari e al 48,7% del totale delle donne uccise) e 56 negli ultimi dieci mesi (pari al 69,1% dei femminici di familiari e a ben il 61,5% del totale delle donne uccise). Gli autori sono “per definizione” nella quasi totalità dei casi uomini (94%), con valori che nel corso dei singoli anni oscillano tra il 90% e il 95%. Le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno fortemente modificato i profili di rischio del fenomeno: osservando i dati relativi ai femminicidi familiari consumati nei primi dieci mesi di quest’anno si rileva come il rapporto di convivenza, già prevalente nel 2019 (presente per il 57,6% delle vittime), raggiunga il 67,5% attestandosi addirittura all’80,8% nel trimestre del dpcm Chiudi Italia. Quando, tra marzo e giugno, ben 21 delle 26 vittime di femminicidio in famiglia convivevano con il proprio assassino.

L’omicidio però è spesso solo l’atto finale di una violenza che si consuma. Il femminicidio all’interno della coppia è spesso soltanto il culmine di una serie di violenze pregresse: violenze psicologiche (20%), violenze fisiche (17,7%), stalking (13,3%) e violenze note a terzi (11,1%). Violenze però denunciate solo nel 4,4% dei casi.

Poi c’è la violenza delle parole, sì anche quella. Nel suo rapporto Barometro dell’odio Amnesty International ha analizzato i commenti sui social. Le donne continuano a essere vittime di una società profondamente maschilista e sessista, nei luoghi pubblici, all’interno delle mura domestiche e anche sul web. Guardando al dibattito in modo ampio, su oltre 42.000 post e tweet analizzati, più di 1 su 10 (il 14%) è offensivo, discriminatorio o hate speech. Di questi il 18% rappresenta un attacco personale a un influencer, uomo o donna, tra quelli osservati; nel caso delle influencer, tale incidenza sale al 22%. Un terzo di questi ultimi commenti è sessista e si concretizza in attacchi contro i diritti di genere, la sessualità, il diritto d’espressione. Comuni gli insulti di carattere “morale” che bollano la donna come immorale o “prostituta”, che la classificano per il modo di vestire o per la sua vita sentimentale. A partire dalla presa di posizione di queste donne contro la discriminazione di genere, a favore del diritto all’aborto, o alla parità tra i sessi o alla libera espressione delle proprie scelte sessuali.

Scrive Amnesty: «In sostanza, si aggredisce la donna che si presenta come autonoma e libera nelle proprie scelte, o perché la stessa si esprime a favore della altre categorie fatte oggetto d’odio, come accade con migranti e musulmani. Una vera e propria catena di montaggio dell’odio, che mette insieme idee, comportamenti, identità, scelte che rappresentano i diritti e le libertà delle persone, per farle oggetto di pubblico ludibrio e di discriminazione violenta».

Buona giornata contro la violenza sulle donne. Con i numeri in mano.

Buon mercoledì.

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Il fascismo non esiste. Miliardesima puntata

Alba Dorata, il partito greco di estrema destra, con il leader ammiratore di Hitler, è un’organizzazione criminale. Lo ha dichiarato il Tribunale di Atene con una sentenza epocale

Brutta fine gli amici neofascisti di Alba Dorata, il partito di estrema destra greco che è arrivato a essere addirittura la terza forza politica del Paese e che ieri, con una sentenza epocale e che dovrebbe essere un monito per tutti, è stato dichiarato a tutti gli effetti un’organizzazione criminale. Sono ben sette gli ex deputati, tra cui anche il leader Nikos Michaloliakos che sono stati giudicati boss dediti all’organizzazione e alla gestione di un’organizzazione criminale che si è travestita da forza politica e che è riuscita addirittura a prendere una caterva di voti. Anche per gli altri ex parlamentari non è finita bene visto che sono stati condannati comunque per avere “partecipato” alla banda. Giorgos Roupakias, membro del partito, è stato condannato per l’omicidio del rapper antifascista Pavlos Fyssas nel 2013, l’evento che ha di fatto aperto le indagini.

Forse conviene anche ricordare che durante il processo (68 le persone processate) si è anche valutata la serie di violenze che sono state perpetrate nel corso degli anni, centinaia di aggressioni ai danni di attivisti antifascisti, di immigrati, di esponenti di sinistra, di omosessuali. Membri di Alba Dorata erano già stati giudicati colpevoli per l’uccisione ad Atene di un fruttivendolo pakistano, Ssazad Lukman, nel gennaio 2013. L’organizzazione è accusata anche del tentato omicidio di Abouzid Embarak, un pescatore egiziano, nel giugno 2012.

«Giornata storica per la giustizia in Grecia e in Europa: il leader e altri sei alti funzionari di Alba Dorata (ex parlamentari) dichiarati colpevoli di far parte di un’organizzazione criminale. La violenza razzista e i crimini d’odio non possono e non devono più essere tollerati», ha scritto Amnesty International.

Forse conviene anche ricordare che durante il processo per difendersi Michaloliakos, 62 anni, negazionista dell’Olocausto e ardente ammiratore di Hitler, ha descritto Alba Dorata come un partito patriottico.

Forse vale anche la pena ricordare che il processo tenuto in Grecia è di fatto il più grande processo contro un partito di ispirazione fascista dai tempi del processo contro i nazisti a Norimberga dopo la Seconda guerra mondiale.

Questo per tutti quelli che dicono che “il fascismo non esiste”. Qui siamo alla miliardesima puntata, più o meno.

Buon giovedì.

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A proposito di Dana

Lo scorso 17 settembre all’alba a Bussoleno, in Valsusa, è stata arrestata nella sua abitazione Dana Lauriola attualmente nel carcere Le Vallette di Torino per scontare una pena detentiva di due anni, a seguito di una condanna definitiva per “violenza privata” e “interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità” per un’azione dimostrativa pacifica realizzata il 3 marzo 2012 sull’autostrada Torino-Bardonecchia, all’altezza del casello di Avigliana, alla quale parteciparono attivisti del movimento No Tav, in protesta contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità.

Cosa ha fatto Dana? Era il 3 marzo 2012 e la tensione in Val di Susa era altissima per l’incidente occorso a un attivista, Luca Abbà, inseguito da un poliziotto e folgorato su un traliccio. Vengono organizzate manifestazioni di protesta e di solidarietà e tra queste circa 300 manifestanti si sono diretti a Avigliana, dice la sentenza del tribunale: «occupando l’area del casello, rendendo inefficienti gli impianti di videosorveglianza e bloccando con nastro adesivo le sbarre di pedaggio in modo da consentire il passaggio continuo dei veicoli in transito». Dana, dice sempre la sentenza «ponendosi alla testa dei manifestanti, con l’utilizzo di un megafono intimava agli automobilisti di transitare ai caselli senza pagare il pedaggio indicando le ragioni della protesta» (così la sentenza 28 marzo 2017 del Tribunale di Torino che ha quantificato in 777 euro il danno patrimoniale riportato dalla società concessionaria dell’autostrada per mancata riscossione dei pedaggi).

Dana Lauriola viene condannata a due anni di carcere. È incensurata per cui si presume che, avendo partecipato a una manifestazione pacifica, possa, come sempre succede, accedere a misure alternative. Qui si entra nell’assurdo. Le vengono negate misure alternative per la mancata presa di distanza di Dana dal Movimento No Tav (pur in un quadro di revisione critica «delle modalità con le quali porre in essere la lotta per le finalità indicate») e il luogo della sua abitazione, prossimo all’epicentro dell’opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione). In sostanza a Dana vengono contestati i suoi ideali politici e il luogo in cui abita. Una cosa mostruosa. Quando ho letto la sentenza mi sono detto che sicuramente i difensori della libertà, quelli che scrivono tutti i giorni sulle proteste in giro per il mondo, si sarebbero preoccupati anche di Dana. Niente.

Amnesty International dice: «Esprimere il proprio dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere. L’arresto di Dana è emblematico del clima di criminalizzazione del diritto alla libertà d’espressione e di manifestazione non violenta, garantiti dalla Costituzione e da diversi meccanismi internazionali. È urgente che le autorità riconsiderino la richiesta di misure alternative alla detenzione e liberino immediatamente Dana Lauriola, arrestata ingiustamente per aver esercitato il suo diritto alla libera espressione e a manifestare pacificamente».

Non lo sentite tutto questo silenzio intorno?

Buon venerdì.

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“A Beirut, come a Damasco, è morta la speranza”: parla lo scrittore siriano Shady Hamadi

Shady Hamadi è uno scrittore di origine siriana e da sempre è un attento osservatore del Medio Oriente. Esilio dalla Siria. Una lotta contro lindifferenza”, edito da Add Editore è il suo ultimo libro.

Lesplosione a Beirut ha acceso le voci di solidarietà falsi cortesi degli esponenti politici con strafalcioni come quello di Manlio Di Stefano. Che sensazione ti provoca la superficialità della politica italiana sul Medio Oriente?
Mi provoca delusione perché l’Italia ha, geograficamente e storicamente, un ruolo di primo piano nei rapporti con il Medio Oriente. Geograficamente perché siamo la porta verso l’Europa; storicamente a causa della presenza araba, durata secoli, nel sud Italia. Gli sbagli eclatanti, come quello di Di Stefano, stanno diventando una prassi (a destra e a sinistra) che non solleva neanche più l’indignazione. Ricordo gli elogi di Renzi al suo “amico”Al Sisi, poco prima della morte di Regeni. O, ancora prima, nel 2011 Franco Frattini che elogiava la Siria per la sua stabilità durante l’ondata delle primavere arabe. Il risultato è davanti a tutti noi.

Come valuti la politica estera del governo italiano?
Sclerotica perché c’è incoerenza nelle azioni della Farnesina a causa della nostra instabilità politica. Prendiamo l’Egitto. Con Renzi, prima dell’uccisione di Regeni, i rapporti erano idilliaci. Ucciso il ricercatore, abbiamo virato completamente. Salvo poi rimandare l’ambasciatore al Cairo. Oggi che cosa rimane del nostro approccio verso l’Egitto, la questione della tutela dei diritti umani? Nulla, a parte la vicenda di Patrick Zaki che non cade nel dimenticatoio grazie all’attenzione di alcuni movimenti di sinistra e Amnesty.

Come valuti lattenzione della politica occidentale sul Medio Oriente?
Dovevamo accompagnare i paesi arabi verso una transizione, sostenendo quel corpo sociale che si chiama società civile ma non lo abbiamo fatto. Preferiamo ancora oggi sostenere militari che con la forza riportano lo status quo antecedente. Guardiamo alla Libia. Parte della comunità internazionale sostiene Haftar; altri Sarraj. All’interno dell’Unione Europea ci sono Stati che, seguendo il proprio interesse nazionale, sostengono gruppi differenti.

Cosa bisognerebbe avere il coraggio di dire/fare?
Abbiamo sbagliato. L’ammissione di colpa dovrebbe arrivare da chi si è seduto in parlamento in Italia come nella Ue. Hanno sbagliato nel guardare al Medio Oriente con i soliti preconcetti: se non c’è un dittatore c’è il fondamentalismo. Come se questi arabi non fossero capaci di emanciparsi da questi due mali, creando una terza via che li conduca verso la democrazia. Il male assoluto, secondo questa vulgata alla Magdi Allam, sarebbe l’Islam. Semplicisticamente sarebbe la religione a bloccare ogni trasformazione.

Da scrittore, con la tua storia, come valuti questo momento internazionale?
É una restaurazione. A Beirut come a Damasco manca la speranza. Sto parlando proprio del sentimento. Sperare di cambiare, di migliorare vita… la gioventù vive nel pessimismo. Questo stato di cose ha prodotto un aumento vertiginoso dei suicidi. Decine di giovani si tolgono la vita esausti non solo di vivere nella miseria ma di non vedere mai un cambiamento. Di chi è la responsabilità di queste morti?

Che ne pensi del rifinanziamento italiano alla Libia?
Abbiamo Salvini che grida contro gli sbarchi. Vuole che si fermino ma lui ed altri hanno firmato per il rifinanziamento della guardia costiera libica da più parti accusata di gestire il traffico di migranti con le mafie locali. Diamo soldi ai trafficanti. Ho idea che chi grida alla chiusura dei porti voglia il contrario. I migranti servono come merce di scambio elettorale, in barba alla sofferenza di quei nei lager.

In Italia haisentito” razzismo?
Personalmente no. Mi definisco da sempre sirio-brianzolo anche se ultimamente mi sento solo brianzolo. Penso che gli italiani non siano razzisti. Credo esista molta ignoranza. Molti politici la sfruttano perché viviamo in una epoca di slogan e non di discorsi culturali. Vede, oggi non vogliamo prenderci la briga di capire perché un nigeriano scappa da Lagos o un siriano da Aleppo. Vogliamo tutto subito, anche le spiegazioni. Il politico improvvisato che ormai dilaga nei talk show e nelle aule un tempo frequentate da Berlinguer, regala slogan. È un ignorante, che non sa che i libici abitano in Libia e che Pinochet non era il dittatore del Venezuela. Non è umile. Infatti non chiede scusa. Dobbiamo ripartire dalla cultura.

Leggi anche: 1. Libano: devastante esplosione al porto di Beirut. Le impressionanti immagini della deflagrazione / 2. Libano, ferito un militare italiano in un’esplosione al porto di Beirut / 3. Libano, esplosione al porto di Beirut: incidente o attentato? Tutte le ipotesi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada è una filantropa e saggista italiana, ex presidente di Emergency e figlia dei fondatori Teresa Sarti Strada e Gino Strada. La guerra la conosce perché l’ha vissuta da sempre in prima persona. L’abbiamo intervistata per TPI.
Cecilia Strada, alla fine l’Italia ha deciso di vendere armi all’Egitto. Come la vede?
Molto molto molto molto male. Sposo in toto la richiesta di Amnesty e di Rete Disarmo che chiedono almeno che se ne parli in parlamento. È una cosa contraria agli interessi dei cittadini italiani, qui si tratta di essere furbi non semplicemente disarmisti. C’è la legge 185/90 che dice che non si vendono armi a chi ha interessi contrari all’Italia e questo è il caso dell’Egitto, poiché in Libia non sostengono la stessa parte in causa: è una cosa poco furba oltre che poco etica. Vendere armi significa sostenere quello che l’Egitto sta facendo al suo interno (torture, ragazzi scomparsi, ammazzati, studenti come Regeni e Zaky). La legge dice che non potresti vendergli armi salvo diversa delibera del Consiglio dei ministri sentite le Camere, quantomeno che se ne parli in parlamento, è la legge, non è un sogno da pacifista. Gli interessi dell’Italia sono maggiori degli interessi delle fabbriche d’armi.

Di Maio ha definito l’Egitto un “partner imprescindibile”…
Partner imprescindibile su cosa? E poi bisogna decidere quali sono gli standard, chiediamo ai nostri partner il rispetto dei diritti umani? C’è un ragazzo italiano morto, le autorità hanno ostacolato le indagini, ridurre tutto al fattore economico è miope, non si fa l’interesse del proprio Paese.
Il pacifismo è sparito dall’agenda politica?
Il pacifismo non occupa spazio se non quando viene usato per dare del sognatore a qualcun altro. Il pacifismo è la non violenza, è riflettere sul modo in cui stiamo insieme, cercare il modo di evitare i conflitti, immaginare delle società alternative. Questo non c’è mai stato ed è un peccato. Sono comunque soldi, si dice, servono per l’economia italiana, ma se si investe nel civile il ritorno è maggiore rispetto al militare: se l’obbiettivo è creare posti di lavoro allora si investano fondi nel civile, come nelle energie alternative, l’investimento dà più posti di lavoro dell’industria bellica.

Intanto rimane in piedi la questione libica e continuano gli sbarchi…
Il Covid faceva paura e non c’era bisogno di inventarsi il nemico, Ong o migrante. Però gli sbarchi sono continuati, in numeri piccoli – poco più di 3mila persone da gennaio a oggi – ma ci sono stati, come anche le segnalazioni di naufragi difficilissimi da verificare perché non ci sono navi in mare che possano testimoniare, ci sono diversi casi di omissione di soccorso e almeno una strage a Pasquetta di una nave lasciata alla deriva con 12 persone morte dopo 5 giorni che chiedevano aiuto. Altri casi di cui non si saprà niente. Ora Mediterranea è tornata in mare, Sea Watch è ripartita poche ore prima con imponenti misure di sicurezza.
L’immigrazione tornerà a essere tema di scontro politico?
Dipende da quanto i politici sentiranno il bisogno di strumentalizzare facendo politica sulla pelle della gente. Io sto ancora aspettando la discontinuità promessa da questo governo, io ero in mezzo al mare sulla Mare Jonio di Mediterranea quando si insediò questo governo. I decreti sicurezza sono ancora lì. Non permetteremmo mai che dei bambini bianchi rimanessero su una nave dopo essere stati torturati, violentati e tenuti prigionieri. Discontinuità vuol dire stracciare gli accordi con la Libia: c’è una gravissima violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, delle leggi, della Costituzione. I lager andrebbero evacuati e il sistema smantellato e bisognerebbe aprire canali d’accesso sicuri e legali sconfiggere il traffico di uomini. Tra l’altro non va bene che il soccorso in mare non venga fatto dagli Stati ma dalle Ong, non è normale.

Però in Parlamento alcuni si sono inginocchiati
Su questo ci penso da qualche giorno. I nostri parlamentari sanno chi è George Floyd, benissimo. Ma cosa sanno di Soumayla Sacko? Cosa sanno delle vittime del razzismo qui? Le vittime del nostro razzismo sistemico qualcuno le conosce? Possiamo interessarci a questo? Se sentiamo questo problema sollevato negli Usa allora dobbiamo guardarci intorno: i neri sono quelli nel Mediterraneo e quelli schiavi delle mafie nei campi a disposizione della grande distribuzione. Altrimenti inginocchiarsi servirà a poco.

Leggi anche: 1. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni /2. Regeni, Di Maio risponde alle accuse: “La vendita delle armi all’Egitto non è conclusa” /3. Patrick Zaky, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia

4. “Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego /5. Torino, aggredita a 15 anni sul bus perché nera: “Il razzismo c’è anche in Italia”

L’articolo proviene da TPI.it qui

L’Europa secondo Amnesty

(dal rapporto annuale 2016-2017 di Amnesty International, qui)

Il 30 novembre 2016, Ahmed H, un siriano che viveva a Cipro, è stato processato con accuse di terrorismo a Budapest, capitale dell’Ungheria. È stato accusato di aver provocato gli scontri tra polizia e rifugiati, a seguito dell’improvvisa chiusura del confine ungherese con la Serbia, a settembre 2015. L’accusa ha fatto riferimento al legame suggerito dal governo tra richiedenti asilo musulmani e la minaccia terroristica. In realtà, Ahmed H era lì soltanto per aiutare i suoi anziani genitori siriani a fuggire dal loro paese devastato dalla guerra. Preso nella mischia, ha ammesso di aver lanciato pietre contro la polizia ma per la maggior parte del tempo, come hanno testimoniato numerose persone, aveva cercato di calmare la folla. Ciò nonostante è stato condannato, diventando così il simbolo, spaventoso e tragico, di un continente che sta voltando le spalle ai diritti umani.

Ancora più a est, figure forti al potere da lunga data hanno stretto ancora di più la presa sul potere. Le costituzioni di Tagikistan, Azerbaigian e Turkmenistan sono state modificate per estendere la durata dei mandati presidenziali. In Russia, il presidente Vladimir Putin ha continuato a cavalcare l’ondata di popolarità generata dalle incursioni russe in Ucraina e dalla sua nuova influenza a livello internazionale, mentre nel frattempo indeboliva la società civile del suo paese. In tutta l’ex Unione Sovietica, la repressione del dissenso e dell’opposizione politica è proseguita in modo costante, colpendo obiettivi precisi.

Gli eventi più tumultuosi della regione hanno avuto luogo in Turchia, che è stata scossa da continui scontri nel sud-est, da una serie di attentati dinamitardi e sparatorie e da un violento tentativo di colpo di stato a luglio, dopo il quale l’atteggiamento del governo verso i diritti umani ha avuto un drammatico peggioramento. Attribuendone la responsabilità a Fethullah Gülen, una volta alleato e ora acerrimo nemico, le autorità turche si sono mosse velocemente per annientare il vasto movimento che egli aveva creato. Circa 90.000 dipendenti pubblici, la maggior parte dei quali sospettati di essere gulenisti, sono stati licenziati con un decreto esecutivo. Almeno 40.000 persone sono state sottoposte a custodia cautelare, tra le accuse diffuse di tortura e altri maltrattamenti. Con la chiusura di centinaia di mezzi d’informazione e Ngo e l’arresto di giornalisti, accademici e parlamentari, il giro di vite ha progressivamente spostato il suo obiettivo oltre il colpo di stato, per reprimere altri dissidenti e voci filocurde.

Persone in movimento

Dopo l’arrivo via mare di poco più di un milione di rifugiati e migranti nel 2015, gli stati membri dell’Eu hanno deciso di ridurne drasticamente il numero nel 2016. L’obiettivo è stato raggiunto ma a pagarne l’alto prezzo, che era stato messo in conto, sono stati i diritti e il benessere delle persone in cerca di protezione.

A fine dicembre erano circa 358.000 i rifugiati e i migranti che avevano passato i confini per entrare in Europa. Il numero di coloro che hanno scelto la rotta del Mediterraneo centrale è leggermente aumentato (fino a circa 170.000 persone) ma c’è stato un forte calo degli arrivi sulle isole greche (da 854.000 a 173.000 persone), quasi interamente a causa dell’accordo per il controllo dell’immigrazione, siglato a marzo tra l’Eu e la Turchia. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha stimato che circa 5.000 persone siano morte in mare nel 2016, una cifra record rispetto alle circa 3.700 del 2015.

L’accordo tra Eu e Turchia è stato l’emblematica risposta dell’Eu alla cosiddetta “crisi dei rifugiati”. Alla Turchia sono stati offerti sei miliardi di euro per sorvegliare le proprie coste e accettare il ritorno dei richiedenti asilo che erano riusciti a raggiungere le isole greche. L’accordo ha avuto come presupposto l’affermazione falsa che la Turchia offriva ai richiedenti asilo tutte le protezioni alle quali avrebbero avuto diritto nell’Eu. Con un sistema di asilo a malapena funzionante e quasi tre milioni di rifugiati siriani che già lottavano per andare avanti, quell’affermazione ha testimoniato la volontà dell’Eu d’ignorare i diritti e le condizioni di vita dei rifugiati, per seguire i propri fini politici.

Anche se il numero di nuovi arrivati è ​​diminuito fino a una media di poche migliaia al mese, la capacità di accoglienza delle isole greche è rimasta ancora gravemente carente. A fine anno, circa 12.000 rifugiati e richiedenti asilo erano bloccati sulle isole, in centri improvvisati e sempre più affollati, insalubri e pericolosi. Le pessime condizioni di vita hanno periodicamente scatenato rivolte all’interno dei campi, mentre alcuni sono stati attaccati da residenti, accusati di essere legati a gruppi di estrema destra. Le condizioni dei circa 50.000 rifugiati e migranti nella Grecia continentale sono state solo parzialmente migliori. A fine anno, la maggior parte aveva trovato rifugio nelle strutture ufficiali di accoglienza, che tuttavia erano per lo più costituite da tende e magazzini abbandonati e inadatte a viverci per più di pochi giorni.

Mentre l’anno volgeva al termine, l’accordo tra Eu e Turchia era ancora in vigore ma sembrava sempre più fragile. Era ormai chiaro, tuttavia, che questo era stato solo una prima linea di difesa. La seconda iniziativa per fermare l’arrivo di persone in Europa è stata la chiusura della rotta balcanica sopra la Grecia, a marzo. La Macedonia e altri paesi balcanici sono stati persuasi a chiudere le frontiere e sono stati supportati in questa operazione da guardie di frontiera provenienti da diversi paesi europei. Inizialmente, la mossa è stata caldeggiata dal primo ministro ungherese Viktor Orbán e poi ripresa dall’Austria. Per molti leader europei, la miseria dei rifugiati intrappolati in Grecia era chiaramente il prezzo da pagare per scoraggiare l’arrivo di altri.

La mancanza di solidarietà verso i rifugiati e verso alcuni altri stati membri è stata un tipico esempio delle politiche migratorie della maggior parte dei paesi dell’Eu, che sono stati uniti nei programmi per limitare gli ingressi e accelerare i ritorni. Questo è diventato evidente con il fallimento del programma di ricollocazione, di cui l’Eu si era fatta vanto. Adottato dai capi di stato a settembre 2015, allo scopo di distribuire le responsabilità dell’accoglienza per la gran quantità di rifugiati che arrivava in un piccolo numero di paesi, il piano prevedeva entro due anni il trasferimento in tutta l’Eu di 120.000 persone, provenienti da Italia, Grecia e Ungheria. Dopo che l’Ungheria ha respinto il progetto, ritenendo che sarebbe stato meglio semplicemente chiudere del tutto i propri confini, la sua quota è stata riassegnata a Grecia e Italia. A fine 2016, solo circa 6.000 persone erano state trasferite dalla Grecia e poco meno di 2.000 dall’Italia.

Il programma di ricollocazione era affiancato da un’altra iniziativa dell’Eu, lanciata nel 2015: “l’approccio hotspot”. Questo piano, ispirato dalla Commissione europea, prevedeva grossi centri di registrazione in Italia e in Grecia, dove identificare e prendere le impronte digitali dei nuovi arrivati, valutare rapidamente le loro esigenze di protezione e quindi trattare le loro domande di asilo oppure trasferirli in altri paesi dell’Eu o ancora rimandarli nel paese di origine (o, coloro che arrivavano in Grecia, rimandarli in Turchia). Quando la parte del piano relativa alle ricollocazioni è a tutti gli effetti fallita, l’Italia e la Grecia sono state lasciate sole ad affrontare enormi pressioni affinché prendessero le impronte digitali, esaminassero i casi e rimpatriassero quanti più migranti possibile. Sono stati registrati episodi di maltrattamenti durante la raccolta delle impronte digitali, detenzione arbitraria di migranti ed espulsioni di massa. Ad agosto, un gruppo di 40 sudanesi, molti provenienti dal Darfur, è stato rimpatriato, poco dopo la firma di un memorandum d’intesa tra la polizia italiana e quella sudanese. Al loro arrivo in Sudan, i migranti sono stati interrogati dal servizio d’intelligence e sicurezza nazionale sudanese, un’agenzia implicata in gravi violazioni dei diritti umani.

La spinta a rimpatriare il maggior numero di migranti possibile è diventata sempre più un elemento chiave della politica estera dell’Eu e degli stati membri. A ottobre, l’Eu e l’Afghanistan hanno sottoscritto l’accordo di cooperazione “Joint Way Forward”, siglato nel contesto di una conferenza di donatori. L’accordo obbligava l’Afghanistan a collaborare al rimpatrio di richiedenti asilo afgani respinti (il tasso di riconoscimento dell’asilo per gli afgani è sceso nella maggior parte degli stati, nonostante la crescente insicurezza nel paese), compresi i minori non accompagnati.

Il ruolo centrale della gestione della migrazione nella politica estera dell’Eu è stato dimostrato da un altro documento, il “Quadro di partenariato”, approvato dal Consiglio europeo a giugno. Il piano proponeva di utilizzare gli aiuti, il commercio e altre risorse per fare pressione sui paesi, affinché riducessero il numero di migranti in arrivo sulle coste dell’Eu e, al tempo stesso, di negoziare accordi di cooperazione per il controllo delle frontiere e di riammissione, anche con paesi che violavano regolarmente i diritti umani.

La spinta a esternalizzare la gestione dei flussi migratori in Europa è andata di pari passo con misure per limitare, a livello nazionale, l’accesso all’asilo e ai relativi benefici. La tendenza è stata particolarmente evidente nei paesi nordici, che in passato erano stati generosi: Finlandia, Svezia, Danimarca e Norvegia hanno introdotto modifiche regressive alla loro legislazione in materia d’asilo; la Norvegia ha addirittura dichiarato l’intenzione di dotarsi della “politica sui rifugiati più rigorosa di tutta l’Europa”. Finlandia, Svezia e Danimarca, così come la Germania, hanno tutte limitato o ritardato l’accesso al ricongiungimento familiare per i rifugiati.

I paesi membri più vicini alle principali frontiere esterne dell’Eu hanno adottato le misure più drastiche. A gennaio, il governo austriaco ha annunciato un tetto di 37.500 domande di asilo per il 2016. Ad aprile, una modifica alla legge sull’asilo ha conferito al governo il potere di dichiarare lo stato di emergenza, in caso di massicci arrivi di richiedenti asilo, permettendo la valutazione accelerata delle domande alla frontiera e il rimpatrio immediato di quelli che non ottenevano protezione, senza l’obbligo di fornire una motivazione ponderata.

Il deterioramento del sistema d’asilo europeo ha toccato il punto più basso in Ungheria. Dopo la costruzione di una recinzione lungo la maggior parte del confine con la Serbia, realizzata a settembre 2015, e dopo aver modificato la legislazione in materia di asilo, nel 2016 il governo ungherese ha inaugurato una serie di misure che hanno provocato violenti respingimenti alla frontiera con la Serbia, detenzioni illegali all’interno del paese e pessime condizioni di vita per le persone in attesa al confine. Mentre il governo ungherese spendeva milioni di euro per una campagna pubblicitaria xenofoba a sostegno del fallito referendum per rifiutare il programma di ricollocazione dell’Eu, i rifugiati sono stati lasciati a languire. Le procedure d’infrazione, avviate dalla Commissione europea per le molteplici violazioni del diritto comunitario e internazionale in materia di asilo, a fine anno erano ancora aperte.

All’estremità opposta dell’Europa, in Francia, l’aumento progressivo dei richiedenti asilo e migranti nella “giungla” di Calais e lo smantellamento del campo a ottobre sono divenuti un simbolo del fallimento delle politiche europee sulla migrazione, proprio come i campi sovraffollati sulle isole greche di Lesbo e Chio e i ripari improvvisati davanti alle barriere di filo spinato dell’Ungheria.

I notevoli sforzi della Germania per dare riparo e valutare le richieste d’asilo di quasi un milione di persone, giunte nel paese l’anno precedente, sono stati forse l’unica risposta positiva di un governo alla “crisi dei rifugiati” in Europa. Nel complesso, sono stati i comuni cittadini a mostrare la solidarietà che mancava ai loro leader. In innumerevoli centri d’accoglienza in tutta Europa, decine di migliaia di persone hanno dimostrato più e più volte che esisteva un’altra visione rispetto al dibattito sempre più astioso sulla migrazione, basata sull’accoglienza e il sostegno a rifugiati e migranti.

Controterrorismo e sicurezza

In Francia, Belgio e Germania, oltre un centinaio di persone sono state uccise e molte altre ferite in attacchi violenti. Sono state colpite dagli spari di uomini armati, fatte saltare in aria da attentatori suicidi e deliberatamente travolte mentre camminavano per strada. I governi di tutta Europa sono stati sempre più sotto pressione per garantire il diritto alla vita e consentire alle persone di vivere, muoversi e pensare liberamente. Tuttavia, per mantenere queste libertà essenziali molti paesi hanno messo in atto misure antiterrorismo che indebolivano i diritti umani e gli stessi valori che erano sotto attacco.

Il 2016 è stato testimone di un profondo cambiamento di modello: dall’idea che sia compito dei governi garantire la sicurezza in modo che le persone possano godere dei loro diritti, si è passati a quella per cui i governi devono limitare i diritti delle persone al fine di garantire la sicurezza. Il risultato ha ridisegnato in modo pericoloso i confini tra i poteri dello stato e i diritti delle persone.

Uno degli sviluppi più allarmanti è stato lo sforzo da parte degli stati di rendere più facile il ricorso allo “stato di emergenza” e il suo prolungamento. L’Ungheria ha aperto la strada, con l’adozione di una normativa che prevede vasti poteri esecutivi in ​​caso di dichiarazione dello stato di emergenza, tra cui il divieto di organizzare riunioni pubbliche, severe restrizioni alla libertà di movimento e il congelamento dei beni senza controllo giudiziario. A luglio, il parlamento bulgaro ha approvato, alla prima votazione, una serie di misure simili. A dicembre, la Francia ha prolungato per la quinta volta lo stato di emergenza, imposto dopo gli attacchi del novembre 2015. I poteri di emergenza sono stati significativamente ampliati con l’estensione approvata a luglio, che ha reintrodotto le perquisizioni nelle abitazioni senza preventiva approvazione giudiziaria (una misura che era stata eliminata in una revisione precedente) e nuove possibilità di vietare le manifestazioni per motivi di pubblica sicurezza, utilizzate in vario modo per impedire le proteste. A dicembre, il governo ha reso noti i dati: dal novembre 2015 erano state effettuate 4.292 perquisizioni e 612 persone erano state assegnate alla residenza obbligatoria. Questi numeri hanno fatto sorgere il timore che i poteri di emergenza fossero stati utilizzati in modo sproporzionato.

Misure una volta considerate eccezionali sono state incorporate nel diritto penale ordinario in diversi stati europei. Tra queste figuravano il prolungamento del periodo di detenzione preventiva per le persone sospettate di terrorismo, in Slovacchia e Polonia, e la proposta del Belgio di fare altrettanto per ogni tipo di accusa. Nei Paesi Bassi e in Bulgaria è stato proposto al parlamento d’introdurre misure di controllo amministrativo per limitare la libertà di movimento delle persone, senza previa autorizzazione giudiziaria. Applicati per la prima volta nel Regno Unito e in Francia, tali controlli, che in alcuni casi equivalevano ad arresti domiciliari, sono stati imposti in base a documenti di sicurezza secretati, non consentendo così alle persone colpite di contestare efficacemente in tribunale i provvedimenti, che avevano effetti dannosi sulla loro vita e su quella delle loro famiglie.

Centinaia di persone sono state perseguite, in violazione del diritto alla libertà d’espressione, per reati quali la giustificazione o la glorificazione del terrorismo, spesso per commenti pubblicati sui social network, in particolare in Francia e meno frequentemente in Spagna. Una proposta di Direttiva europea sulla lotta al terrorismo, che a fine anno era ancora in attesa di adozione, avrebbe portato alla proliferazione di norme analoghe. In Germania è stata presentata una proposta per vietare una generica “promozione del terrorismo”, mentre in Belgio e nei Paesi Bassi sono stati presentati disegni di legge in parlamento per l’introduzione di reati simili.

In tutta Europa, gli stati hanno notevolmente incrementato i poteri di sorveglianza, a dispetto delle numerose sentenze della Corte di giustizia dell’Eu e della Corte europea dei diritti umani, secondo le quali la sorveglianza occulta e l’intercettazione e la conservazione dei dati di comunicazione violavano il diritto alla riservatezza, a meno che non fossero basate su un ragionevole sospetto di attività criminali gravi e nella misura strettamente necessaria per dare un contributo efficace alla lotta contro tali attività. Entrambe le corti hanno ripetutamente affermato che la legislazione nazionale in materia di sorveglianza deve fornire sufficienti garanzie contro gli abusi, compresa l’autorizzazione preventiva da parte di un tribunale o di un’altra autorità indipendente. Il Regno Unito ha introdotto forse i più ampi poteri di sorveglianza di massa e mirati con la legge sui poteri investigativi, adottata a novembre. Comunemente indicata come “lo statuto del ficcanaso”, la legge consentiva una vasta gamma di pratiche d’intercettazione, interferenza e conservazione dei dati definite in modo vago e imponeva alle aziende private nuovi requisiti per archiviare i dati di comunicazione. Tutti i poteri previsti dalla nuova legge, sia quelli mirati che quelli collettivi, potevano essere autorizzati da un ministro del governo dopo la revisione, nella maggior parte ma non in tutti i casi, di un organo semigiudiziario, composto da membri nominati dal primo ministro. A dicembre, la Corte di giustizia dell’Eu ha stabilito che la normativa di sorveglianza del Regno Unito violava il diritto alla riservatezza.

Oltre al Regno Unito, nel corso dell’anno, anche Austria, Svizzera, Belgio, Germania, Russia e Polonia hanno adottato nuove normative in materia di sorveglianza, introducendo tutti, con minime variazioni, ampi poteri per raccogliere e conservare dati elettronici e condurre attività mirate di sorveglianza, nei confronti di gruppi specifici definiti in modo vago o persone sospettate, con poca o nessuna supervisione giudiziaria o di altro genere. A fine anno, anche i Paesi Bassi e la Finlandia avevano analoghe proposte legislative in attesa dell’esame del parlamento.

Discriminazione

In tutta Europa, i musulmani e i migranti sono stati esposti a profilazione razziale e discriminazione da parte della polizia, sia in virtù dei poteri antiterrorismo sia durante le normali operazioni di mantenimento dell’ordine, anche nei controlli d’identità.

Le iniziative per combattere l’estremismo violento, che spesso hanno incluso anche obblighi di segnalazione da parte d’istituzioni pubbliche, hanno rischiato d’isolare le comunità musulmane e di limitare la libertà d’espressione. La Bulgaria e il parlamento svizzero hanno adottato norme che vietavano l’uso del velo integrale in pubblico. A fine anno, un analogo progetto di legge era in attesa d’esame da parte del parlamento olandese ma anche in Germania è stata avanzata una proposta simile. In Francia, molti comuni della costa hanno cercato di vietare l’uso del “burkini” sulle spiagge. Le disposizioni discriminatorie sono state cancellate dal consiglio di stato ma un certo numero di comuni ha mantenuto il divieto nonostante il suo pronunciamento.

Diversi paesi europei hanno visto aumentare il numero dei crimini d’odio nei confronti di richiedenti asilo, musulmani e cittadini stranieri. In Germania si è verificato un brusco aumento degli attacchi contro i centri di accoglienza per richiedenti asilo e nel Regno Unito il numero di crimini d’odio è salito del 14 per cento nei tre mesi successivi al referendum di giugno, sull’uscita del paese dall’Eu (Brexit), rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

I rom hanno continuato a subire discriminazioni diffuse in tutta Europa nell’accesso all’alloggio, all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’occupazione. Sono rimasti esposti agli sgomberi forzati in tutta l’Europa centrale ma anche in Francia e in Italia. Sebbene sia aumentata la tendenza dei tribunali a pronunciarsi in favore delle comunità sgomberate, le loro decisioni raramente hanno portato miglioramenti per le persone colpite. Nella Repubblica Ceca ci sono stati sviluppi positivi: sotto l’impulso di una procedura d’infrazione dell’Eu, a settembre, con l’inizio dell’anno scolastico, sono entrate in vigore una serie di riforme per ridurre l’eccessiva presenza dei rom nelle scuole speciali.

Ci sono stati progressi, anche se incostanti, per i diritti delle persone Lgbti. La Francia ha adottato una nuova legge che ha eliminato i requisiti medici per il riconoscimento legale del genere, mentre la Norvegia ha concesso questo diritto sulla base dell’autoidentificazione. Misure analoghe erano previste in Grecia e in Danimarca. Un certo numero di paesi ha approvato norme per garantire il rispetto dei diritti delle coppie omosessuali e le adozioni del secondo genitore. L’Italia e la Slovenia hanno adottato leggi che riconoscevano le unioni di coppie omosessuali. Il 12 giugno, nella capitale ucraina Kiev, si è tenuta senza incidenti la marcia del Pride Lgbti, grazie al sostegno delle autorità cittadine e alla massiccia protezione della polizia. Alla marcia hanno preso parte circa 2.000 persone ed è stata la più grande manifestazione di questo genere mai tenuta in Ucraina.

Sul fronte opposto, in Uzbekistan e Turkmenistan, gli atti omosessuali consensuali sono rimasti reato. In Kirghizistan, il progetto di legge sull’introduzione del reato di “promozione di un atteggiamento positivo” verso le “relazioni sessuali non tradizionali” era ancora in discussione in parlamento e, con un referendum tenuto a dicembre, è stato approvato l’inserimento nella costituzione di una norma che vietava i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Gruppi conservatori, sempre più organizzati e a volte sostenuti dallo stato, hanno opposto una forte resistenza ai cambiamenti. Il presidente della Georgia ha bloccato una proposta di referendum per cambiare le definizioni costituzionali di matrimonio e famiglia, con l’obiettivo di escludere esplicitamente le coppie omosessuali, ma in Romania la Corte costituzionale ha permesso di portare in parlamento una proposta analoga. A giugno, pochi giorni dopo che 3.000 persone avevano sfilato nella “Marcia per l’uguaglianza”, per celebrare il Pride baltico del 2016 a Vilnius, un’identica proposta di modifica della costituzione della Lituania è stata approvata dal parlamento, nella prima delle due votazioni richieste.

Anche per i diritti delle donne i progressi sono stati intermittenti. La violenza sulle donne è rimasta dilagante, nonostante il costante miglioramento delle tutele legislative. Bulgaria, Repubblica Ceca e Lettonia hanno firmato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne (Convenzione di Istanbul), che è stata ratificata da Romania e Belgio. Tuttavia, con un enorme passo indietro, il governo polacco ha annunciato l’intenzione di ritirarsi dalla Convenzione, pur avendola ratificata soltanto un anno prima e nonostante sia stato stimato che, nel paese, ogni anno fino a un milione di donne sono vittime di violenza. Il partito al governo ha anche limitato i diritti sessuali e riproduttivi. Dopo uno sciopero generale delle donne, svoltosi il 3 ottobre, il parlamento polacco ha respinto un disegno di legge che proponeva un divieto quasi totale di aborto e la criminalizzazione delle donne e delle ragazze che avevano abortito e di chiunque le avesse assistite o incoraggiate ad abortire. In Irlanda, gli appelli a rivedere la legislazione molto restrittiva sull’aborto hanno acquisito sempre maggiore slancio, mentre il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha esortato il paese a depenalizzare l’aborto. A Malta, l’aborto è rimasto reato in ogni circostanza.

Libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica

In tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica, la repressione del dissenso, delle opinioni critiche e dell’opposizione politica è rimasta la norma. In Uzbekistan, Turkmenistane Bielorussia, pur rimanendo forte, la repressione non è particolarmente peggiorata rispetto agli anni precedenti. In Tagikistan e Kazakistan si è verificato un marcato peggioramento, mentre in Russia e Azerbaigian la tendenza alla repressione, ormai di lunga data, si è rafforzata. In Ucraina, i mezzi d’informazione filorussi hanno subìto sempre maggiori attacchi, mentre in Crimea e in Russia sono state severamente represse le voci filoucraine e tatare. In Turchia, la libertà d’espressione è stata limitata in modo violento, in seguito al fallito colpo di stato. I Balcani sono rimasti un luogo pericoloso per i giornalisti d’inchiesta, decine dei quali hanno subìto procedimenti giudiziari e pestaggi per aver denunciato gli abusi, mentre all’interno dell’Eu, Polonia, Ungheria e Croazia hanno rafforzato il controllo sulle emittenti pubbliche.

La Russia ha continuato a stringere il cappio intorno alle Ngo, utilizzando campagne mediatiche diffamatorie e la “legge sugli agenti stranieri” per colpire le più critiche. Decine di Ngo indipendenti che ricevevano finanziamenti esteri sono state aggiunte alla lista degli “agenti stranieri”, portando il numero totale a 146, di cui 35 hanno chiuso definitivamente. La pubblica accusa ha aperto il primo caso penale per “evasione sistematica degli obblighi imposti dalla legge” nei confronti di Valentina Čerevatenko, fondatrice e presidente dell’Unione delle donne del Don. Anche la libertà di riunione pacifica ha continuato a essere strettamente controllata.

Il Kazakistan ha utilizzato per la prima volta disposizioni di diritto penale per colpire dirigenti di Ngo. Sono state arrestate decine di “organizzatori” e centinaia di partecipanti alle proteste, svoltesi ad aprile e maggio contro il nuovo codice fondiario. In violazione del diritto alla libertà d’espressione, sono aumentate le azioni penali per commenti pubblicati sui social network, mentre diversi importanti giornalisti sono stati condannati, con l’accusa di aver “consapevolmente diffuso informazioni false” e appropriazione indebita. A gennaio 2016 sono entrate in vigore le modifiche alla legge sulle comunicazioni, che hanno obbligato gli utenti di Internet a installare sul proprio computer un “certificato di sicurezza nazionale”, che ha permesso alle autorità d’ispezionare le comunicazioni e di bloccare l’accesso ai contenuti che giudicavano illegali.

In Tagikistan, le autorità hanno messo in atto un importante giro di vite sulla scia della repressione del Partito della rinascita islamica del Tagikistan, messo al bando: 14 suoi dirigenti sono stati condannati a lunghe pene detentive per accuse di terrorismo, durante processi segreti. Ad agosto, il governo ha emanato un decreto, valido per cinque anni, con cui si è attribuito il diritto di “regolare e controllare” il contenuto di tutte le reti televisive e radiofoniche, attraverso la commissione statale per le trasmissioni. La sorveglianza sui difensori dei diritti umani si è fatta sempre più forte e mezzi d’informazione e giornalisti indipendenti hanno subìto intimidazioni e vessazioni da parte della polizia e dei servizi di sicurezza. Le autorità hanno continuato a ordinare ai fornitori di servizi Internet di bloccare l’accesso a certi portali di notizie e social network, mentre un nuovo decreto ha richiesto ai fornitori di Internet e agli operatori delle telecomunicazioni d’incanalare i loro servizi attraverso un nuovo centro unico di comunicazione, gestito dalla società di proprietà statale Tajiktelecom.

L’Azerbaigian ha continuato a reprimere gli attivisti dell’opposizione, le Ngo per i diritti umani e i mezzi d’informazione indipendenti. Sono stati rilasciati 12 prigionieri di coscienza ma altri 14 erano ancora in carcere a fine anno, tra cui Ilgar Mammadov, la cui condanna è stata confermata a novembre dalla Corte suprema, nonostante il verdetto della Corte europea dei diritti umani che ne chiedeva il rilascio. Ad Amnesty International è stato negato l’ingresso nel paese, come già accaduto in Uzbekistan e Turkmenistan. Le proteste pubbliche hanno continuato a essere gravemente limitate; le poche manifestazioni che hanno avuto luogo sono state disperse dalla polizia con un uso eccessivo della forza e attivisti politici sono stati arrestati per averle organizzate.

In Ucraina, i mezzi d’informazione sono stati generalmente liberi ma un certo numero di organi di stampa, quelli percepiti come filorussi o sostenitori dei separatisti e quelli particolarmente critici nei confronti delle autorità, hanno subìto molestie. I giornalisti indipendenti non hanno potuto lavorare in Crimea, dove le autorità russe occupanti hanno continuato a limitare gravemente i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica. I tatari di Crimea sono stati vittime di particolare repressione.

Il rispetto della libertà d’espressione si è fortemente deteriorato in Turchia, soprattutto dopo la dichiarazione dello stato di emergenza a seguito del fallito colpo di stato di luglio. Centodiciotto giornalisti sono stati arrestati e rinviati in custodia cautelare e 184 mezzi di comunicazione sono stati chiusi definitivamente e in modo arbitrario, con decreti esecutivi. La censura su Internet è aumentata e, a novembre, con un decreto esecutivo, sono state chiuse 375 Ngo, tra cui gruppi per i diritti delle donne, associazioni di avvocati e organizzazioni umanitarie.

Impunità e responsabilità

Tortura e altri maltrattamenti sono stati diffusi in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica; in alcuni sono stati introdotti nella legislazione miglioramenti solo sulla carta ma l’impunità è rimasta la norma. La prospettiva di un accertamento delle responsabilità per le violazioni su larga scala, commesse dalle forze di polizia e di sicurezza durante le proteste di Euromaydan nel 2013-2014, di Gezi Park nel 2013 e nel corso degli scontri etnici in Kirghizistan meridionale nel 2010, si è affievolita in Ucraina, è rimasta remota in Turchia ed è scemata fino a svanire in Kirghizistan.

Nell’Eu, l’individuazione delle responsabilità per la complicità nel programma di rendition gestito dagli Stati Uniti è rimasta lontana, nonostante i procedimenti in corso dinanzi alla Corte europea dei diritti umani. A fine anno, nessuno era stato riconosciuto penalmente responsabile di coinvolgimento nella detenzione illegale e nella tortura e altri maltrattamenti di sospetti terroristi in Polonia, Lituania o Romania.

Sebbene negli ultimi 10 anni avesse compiuto notevoli progressi per l’eliminazione della tortura nei luoghi di detenzione, in Turchia c’è stato un aumento allarmante delle denunce, sulla scia del fallito colpo di stato. Con migliaia di persone detenute dalla polizia, in modo ufficiale e non, le segnalazioni di gravi percosse, violenza sessuale, stupri e minacce di stupro sono state costantemente e inverosimilmente negate dalle autorità turche.

Pena di morte

Verso la fine dell’anno, il presidente turco Recip Tayyip Erdoğan ha promesso di portare in parlamento la proposta di reintroduzione della pena di morte, nonostante le numerose condanne a livello internazionale e gli obblighi della Turchia in quanto stato membro del Consiglio d’Europa. La Bielorussia, l’ultimo stato europeo a effettuare esecuzioni, ha messo a morte quattro persone nel corso dell’anno, nonostante il governo avesse, non per la prima volta, diffuso voci incoraggianti circa la sua imminente abolizione. In Kazakistan, un uomo è stato condannato a morte con l’accusa di terrorismo.

Conflitti e violenza armata

A novembre, nella sua analisi preliminare sui combattimenti in Ucraina orientale, l’Icc ha concluso che equivalevano a un conflitto armato internazionale. Si sono sporadicamente verificati alcuni scontri ma la situazione generale è rimasta militarmente e politicamente in stallo. Le autorità del Donbass, appoggiate dalla Russia, hanno mantenuto una pressoché totale autonomia. A fine anno, la Missione di monitoraggio dei diritti umani in Ucraina delle Nazioni Unite ha stimato a quasi 10.000 il numero delle vittime, di cui almeno 2.000 civili. Sia le autorità ucraine, sia le forze separatiste in Ucraina orientale sono ricorse alla detenzione illegale di civili sospettati di appoggiare la fazione opposta o per impiegarli nello “scambio di prigionieri”. Tutte le persone, di cui si sapeva che erano segretamente detenute dalle forze ucraine, sono state rilasciate entro la fine dell’anno.

Ad aprile, una breve serie di scontri è scoppiata tra l’Azerbaigian e l’Armenia, nella regione separatista del Nagorno-Karabakh, appoggiata da quest’ultima. I combattimenti sono durati quattro giorni e hanno provocato un piccolo numero di vittime militari e civili, reciproche recriminazioni e piccole conquiste territoriali per l’Azerbaigian.

Le autorità turche hanno continuato a condurre operazioni pesantemente militarizzate in numerose aree urbane in tutto il sud-est della Turchia, in risposta allo scavo di trincee e all’erezione di barricate da parte di gruppi affiliati al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partiya Karkeren Kurdistan – Pkk), verso la fine del 2015. La maggior parte di queste operazioni sono terminate entro giugno, quando i coprifuoco di 24 ore e l’uso eccessivo della forza, anche con armi pesanti, avevano già provocato centinaia di vittime civili, la distruzione su larga scala delle aree residenziali e lo sfollamento forzato di quasi mezzo milione di persone.

A fine anno erano ancora in corso gli scontri tra il Pkk e le forze turche al di fuori delle aree urbane, così come gli attacchi sporadici del Pkk contro edifici governativi, poiché non c’è stato alcun segno di ripresa del processo di pace interrotto nel 2015. La prospettiva di una nuova trattativa è stata minata da un pesante giro di vite sui mezzi d’informazione curdi, sulla società civile e sull’opposizione politica, anche attraverso l’uso dei poteri di emergenza adottati dopo il fallito colpo di stato di luglio.

5 numeri sulla pena di morte

penadimorte

1.634
Il numero di prigionieri messi a morte nel 2015, afferma Amnesty, al netto dei dati cinesi: sono 573 in più rispetto al 2014 e il numero più alto registrato negli ultimi 26 anni.Tra i cinque paesi che hanno messo a morte più persone figurano, Cina (1000+), Iran (977), Pakistan (326), Arabia Saudita (158), Usa. Sono quindi ascrivibili a tre paesi, l’89% di tutte le esecuzioni registrate nel 2015.

Cresce comunque complessivamente il numero dei paesi che tornano a uccidere: in Ciad e Oman sono ripartite le esecuzioni dopo diversi anni senza morti. Stesso quadro per Bangladesh, India, Indonesia e Sudan del Sud, dove non c’erano state esecuzioni nel 2014.

1.998
Il numero delle  persone condannate a morte nel 2015, in 61 paesi, secondo le rilevazioni di Amnesty. Un numero in calo rispetto agli anni precedenti e in particolare rispetto al 2014 ma su cui pesa anche una certa difficoltà di confermare i dati in alcuni paesi.

20.292
Alla fine del 2015, sono almeno 20.292 le persone detenute nei bracci della morte in tutto il mondo.

4
I paesi diventati totalmente abolizionisti, a prescindere dai reati: sono FigiMadagascarRepubblica del Congo e Suriname, afferma il report. Si attestano quindi tra i paesi completamente abolizionisti, che ormai sono 102.

28
il numero delle esecuzioni negli Stati Uniti: è in ribasso rispetto agli anni precedenti e calano anche le nuove condanne che si attestano a 52, il numero più basso dal 1977. Texas (13), Missouri (6), Georgia (5), Florida (2), Oklahoma (1), Virginia (1) sono i paesi in cui sono andate in scena le esecuzioni. Dei 35 stati appartenenti all’Organizzazione degli stati americani, solo gli Stati Uniti d’America hanno eseguito condanne a morte.

(fonte)