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arte

Un’esigenza culturale

Mi ha molto colpito l’articolo di Maria Teresa Santaguida sul patrimonio culturale italiano e sulle condizioni di una reale valorizzazione che passi attraverso un’evoluzione dei cittadini oltre che delle amministrazioni. Dice la Santaguida che deve nascere “un’esigenza culturale” e proprio su questa definizione rimane a nudo questa Italia che non legge, non osserva e non gode di arte e cultura. Siamo esigenti nel lavoro, con i figli, con i colleghi con i propri compagni e abbiamo abdicato invece alla bellezza:

Alcuni dati sulla comparazione dei flussi turistici fra Italia e altri paesi del mondo dimostrano che il nostro paese, riconosciuto come grande contenitore di valore artistico e culturale a livello mondiale, non riesce tuttavia a produrre risultati economici soddisfacenti. Secondo gli studi presentati alla conferenza sul tema tenuta da Banca d’Italia nel 2012 i flussi turistici Italiani nel decennio 2000-2010 si sono ridotti dal 9 al 4% (incidenza del turismo internazionale in Italia), quelli degli USA sono rimasti al 9%, e persino paesi colpiti dalla crisi come la Spagna dimostrano risultati migliori. Tra il 2000-2010 la quota di mercato dell’Italia sugli introiti turistici mondiali è scesa dal 5,8 al 4%, con una riduzione di quasi il 30 per cento. Questioni politiche e sociali che coinvolgono il sistema Paese sono probabilmente alla radice di questa mancata messa a valore, tanto che le aree a maggiore specializzazione turistica, ma con maggiori problemi, cioè quelle del Sud, subiscono gli arretramenti più ampi. Ma si deve andare oltre: consapevolezza e cittadinanza attiva La tutela e gli investimenti non bastano, però. Bisogna creare un’esigenza personale e sociale. La creazione di questa esigenza è, ad esempio, fra gli strumenti individuati alla conferenza di Montreal: perché il Paesaggio Culturale sia tutelato e valorizzato le autorità hanno l’obbligo di stimolare ed incentivare la consapevolezza dei cittadini e la loro azione e partecipazione diretta. I cittadini dovranno essere propulsori di questo stimolo e recettori finali, fruitori e trasmettitori contribuendo all’amministrazione partecipata del patrimonio. Ecco il senso dell’interazione effettiva fra patrimonio, paesaggio e biodiversità. Interazione che incontra intimamente i diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalla Universal Delcaration of Human Rights, all’articolo 27: “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”. Si prenda il caso della ricostruzione del centro storico de L’Aquila dopo il terremoto del 2009: la rimessa in sesto degli edifici storici della città non è solo un’opera di ricostruzione architettonica, ma ha un profondo valore sociale ed umano. Ricostruire l’Aquila ed i paesini del Cratere Aquilano significa ricreare una comunità umana attiva e dinamica. Valorizzazione della biodiversita’ culturale come motore di rilancio Ecco perché la questione del patrimonio culturale come bene comune e della sua gestione si trova dunque al centro di un rivoluzione civile: l’investimento in cultura genera fruitori attivi e non passivi e dunque sviluppo. Da ciò dipende il senso di comunità, della coscienza singola e collettiva e di quella nazionale. Una comunità coesa, benestante e attiva, integrata con il proprio territorio e il proprio paesaggio corrisponde ad una dinamica economica più vincente: le persone saranno in grado di fare scelte consapevoli, di raggiungere standard lavorativi superiori e dunque più produttivi. I risultati di una migliore conservazione, valorizzazione e fruibilità del patrimonio e della biodiversità culturale potrebbero essere sorprendenti, costituendo il vero motore di una generale ripresa, economica e civile. di Maria Teresa Santaguida

Ps in bocca al lupo al nuovo progetto pagina99.it, l’inizio mi sembra promettente.

Se chiude Charta

Ho appreso con ritardo della chiusura della casa editrice indipendente Charta di Giuseppe Liverani e Silvia Palombi. Charta è un pezzo di intelligenza e di eleganza dell’editoria made in Italy (ne racconta la storia Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano qui) che ancora una volta non riesce a galleggiare in un mercato (e, se concesso, in un Paese) che non sembra più capace a vendere qualità. E la notizia è pessima: se in crisi economica nemmeno la qualità riesce a vedere la luce allora le strade possibili si riducono drasticamente perché con la chiusura di Charta non si acutizza semplicemente il già difficile mercato dell’editoria ma soprattutto “perde” un modo di intendere il lavoro. Basta leggere la lettera aperta di Giuseppe Liverani sul sito per capirlo:

head_italianCHARTA CHIUDE

Lettera aperta dell’Editore

Alla fine di dicembre, dopo 21 anni e mezzo Charta, casa editrice indipendente, verrà messa in liquidazione.

Potevamo trovare un modo più delicato per dirlo, più diplomatico, metaforico, girarci un po’ intorno, forse, ma è la verità nuda e cruda o, se preferite, pura e semplice, né più né meno.

Siamo sereni perché abbiamo fatto bene il nostro lavoro, eticamente e professionalmente; malgrado la crisi abbiamo accettato con coraggio la sfida della concorrenza radicandoci sul mercato internazionale senza ritagliarci piccoli spazi in patria, andando controcorrente. Abbiamo capito fin dal primo giorno che pensare in piccolo non sarebbe servito a nessuno.

Fino all’ultimo abbiamo difeso e esportato in tutto il mondo un autentico Made in Italy, un mestiere prezioso, un’eccellenza tutta italiana, un prodotto fatto di idee e qualità che dura nel tempo senza inseguire le mode.

Tutto senza aiuti istituzionali, peraltro -è bene dirlo- mai richiesti, e con le banche sempre più impegnate a tagliare finanziamenti, essenziali per produrre e continuare a esportare. Non solo, ma applicando interessi a volte da usura, come ormai non è più un mistero per nessuno. Senza contare i livelli di tassazione ormai asfissianti.

In questi giorni il ‘fuori tutto’ (la vendita speciale di libri a prezzi imbattibili riservata alla community di Charta) sta rendendo più lieve un momento decisamente difficile: la gioia di centinaia di persone, dagli adolescenti agli ultraottantenni, che affollano il magazzino per scegliere e portarsi via pile di libri ci irradia di energia e conferma che il nostro catalogo è estremamente vitale e pieno di long sellers in ottima salute.

Siamo contenti come bambini, forse come solo ai tempi della prima donazione a Cuba (Centro Wifredo Lam di L’Avana, 2008) quando i nostri libri diventarono una mostra itinerante che attraversando tutta l’isola ha reso felici migliaia di giovani che li hanno sfogliati, ammirati e attentissimi.

Non vi sarà difficile immaginare quindi con quale stato d’animo andiamo verso la fine di quest’anno.

Non ci lamentiamo per partito preso, siamo però consapevoli che aver prodotto ostinatamente i nostri libri in Italia, e nel rispetto della legge, ha impoverito le casse di Charta.

Non ci riconosciamo più in un mondo dove trionfa la finanza invece del lavoro e la competizione sconfina sempre di più nella concorrenza sleale e nel conflitto di interesse, come sempre più spesso avviene in Italia.

Non ci piace questo mercato sempre più distorto, diseguale, ingiusto e corrotto, in un Paese dove vivere e lavorare nella legalità sembra quasi un lusso per pochi utopisti, una fissazione romantico-sentimentale.

Non siamo rassegnati, siamo rattristati perché lasciamo questo mestiere, un’arte, in una situazione a dir poco imbarazzante.

Oggi affermo, senza rischiare di essere considerato un demagogo, che la nostra serietà e la nostra etica ci hanno lentamente ma inesorabilmente buttato fuori dal mercato.

Quasi tutti quelli che costituiscono la community di Charta saranno dispiaciuti, chi non ha letto dentro e in mezzo alle righe che da tempo lanciamo da questa e-mail si sorprenderà. Eppure più di una volta ci è sembrato di essere stati fin troppo espliciti.

Dal 14 luglio 1992 sono un bel po’ di numeri: anni, mesi, giorni, ore, artisti, autori, redattori, grafici, traduttori, correttori, litografi, cartai, tipografi, legatori, magazzinieri, corrieri, camion, treni, aerei, navi che hanno contribuito alla bellezza dei nostri 917 titoli (il 90% dei quali in inglese!) per centinaia di migliaia di pagine tradotte in quasi tutte le lingue del mondo e distribuite in tutti i continenti, dall’Irlanda al Sudafrica, dalla Cina alla Nuova Zelanda, dagli USA al Cile.

Doveroso ringraziare tutti, dai soci attuali a quelli di un tempo, dai dipendenti ai collaboratori di Charta, quelli che si sono avvicendati in questi anni e quelli che hanno vissuto tutta la nostra avventura.

Doveroso ringraziare New York e gli americani tutti, che hanno creduto in noi, ci hanno accolto e riconosciuto per il nostro valore, mai come stranieri, in una terra piena di contraddizioni difficili da digerire ma con un’incessante voglia di fare e riuscire senza avere o pretendere santi protettori.

È la nostra buona reputazione, conquistata nel corso degli anni, che ha portato all’acquisizione entusiastica, da parte di svariate istituzioni culturali americane, delle donazioni di nostri libri, prima fra tutte la Library of Congress di Washington dove sta trovando casa l’intero nostro catalogo.

Charta Books non è stata una sigla di comodo ma una società sana e attiva che è cresciuta sui mercati internazionali fino ad approdare in Cina, lungo la via della seta… attirando, anno dopo anno, ingenti investimenti stranieri verso il nostro Paese.

Prima di salutarvi ci teniamo a dirvi due o tre cose: stiamo lavorando ad alcuni titoli nuovi che usciranno nel corso dei primi mesi del 2014; le donazioni a istituzioni culturali proseguiranno anche nell’anno nuovo; un container con diecimila volumi partirà alla volta di Cuba; il ‘fuori tutto’ proseguirà nella nostra libreria Charta Books di via della Moscova 27 fino a tutto febbraio.

Infine è di questi giorni un riconoscimento importantissimo che ci onora e riempie di orgoglio, e che forse ci siamo meritati col nostro impegno editoriale senza confini: l’acquisizione dell’intero catalogo da parte dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia.

Charta è una bella storia scritta a più mani che come tutte le storie ha un inizio e una fine, i nostri libri continueranno a raccontarla.

Giuseppe Liverani

Grand Hotel Ermo Colle

Sembra fantascienza. Fantascienza horror. Una ricca possidente terriera (Maria Dalla Casapiccola, e il nome è degno del miglior Molière) vuole trasformare l’ermo colle dell’Infinito di Leopardi in un nuovo complesso residenziale. Dovrebbero esserci i buoni che combattono, no? E invece…

In Sovrintendenza sono disperati: «Non abbiamo i soldi, non abbiamo personale, non siamo in grado di gestire tutti i casi che ci arrivano», e allora la signora Dalla Casapiccola ha giocato sul velluto e, in poche udienze, ha ottenuto il permesso per fare quello che vuole con la casa colonica, che tra le altre cose è a un tiro di schioppo da un altro simbolo leopardiano: la torre del passero solitario. Un problema – quello della mancanza di fondi – che si presenta sempre uguale davanti ad ogni questione che riguarda i beni culturali sparsi lungo la penisola: Pompei cade a pezzi, ogni volta che dal sottosuolo delle città emerge qualche testimonianza del passato si preferisce coprire tutto e continuare i lavori, i pochi precari della cultura che dispongono di un contratto hanno stipendi da fame. Il paese che, secondo diverse statistiche, dispone della maggior parte dei beni artistici e culturali del pianeta Terra preferisce sempre voltarsi dall’altra parte. L’ultima carta da giocare prima dell’arrivo del cemento è un ricorso al Consiglio di stato. La Sovrintendenza sta lavorando a ritmo febbrile per produrre una documentazione convincente da depositare entro i primi di ottobre: bisogna dimostrare che, i progetti presentati dalla signora Dalla Casapiccola snaturerebbero un’area dall’indiscutibile valore storico e culturale, vincolata da sessant’anni. Detta così potrebbe anche sembrare una cosa semplice, ma il giudizio espresso dal Tar è un precedente inquietante. L’Infinito che scopre i suoi confini; un naufragare molto poco dolce, in questo mare di cemento.

Niente Coppi senza i Carrea

In morte di Andrea Carrea, detto Sandrino forse per affrontare con un diminutivo la solennità del suo corpaccione contaidno, 89 anni, nato a Gavi ma cresciuto a Cassano Spinola, si è ricordato l ultimo gregario storico di Fausto Coppi e quindi di un certo ciclismo. Il penultimo ad andarsene era stato, poco più di un anno fa, Ettore Milano, 86 anni, anche lui di quella provincia di Alessandria che ha dato allo sport italiano campioni enormi di ciclismo e calcio, con una concentrazione di talenti che forse meriterebbe un qualche studio serio: Girardengo, Coppi, Baloncieri, Giovani Ferrari, Rivera

Milano, erre “roulée” alla francese proprio come Rivera e come tanti di quella provincia (idem per Parma), era in corsa il paggio psicologo di Coppi, Carrea era il suo diesel da traino e spinta.

Scelti entrambi, per aiutare il Campionissimo, da Biagio Cavanna detto l orbo di Novi Ligure, il massaggiatore cieco che tastava i muscoli e indovinava le carriere (e a Milano diede pure la figlia in sposa).

I due non avevano vinto mai in prima persona, Fausto vinceva anche per loro che lavoravano per lui portandogli in corsa acqua,panini,conforti vari, tubolari, amicizia. Un giorno al Tour de France del1952 Carrera si trovò, ”a sua insaputa”come uno Scaiola del ciclismo, in maglia gialla.

Un gendarme lo pescò in albergo per portarlo alla vestizione. Carrrea si scusò con Coppi per eccesso di iniziativa, avendo fatto parte di un gruppetto, teoricamente innocuo, di fuggitivi non ripresi.

Il giorno dopo il suo capitano gli prese, come da copione, la maglia gialla scalando l Alped Huez e arrivò da dominatore a Parigi. Un cantante ciclofilo, Donatello, che ha fatto anche Sanremo, ha composto una canzone splendida che è un sogno di bambino e dice: “Un giorno, per un giorno, vorrei essere Carrea”.

Il gregario nel ciclismo non c è più, almeno nel senso classico: libertà di rifornimento continuo dalle ammiraglie, licenza per ogni assistenza tecnica in corsa, severità della giuria quando, specialmente in salita, ci sono troppe spinte per i capisquadra, che facevano chilometri senza dare una pedalata, hanno procurato dignità aduna collaborazione che non è più umiliante e servile, e che consiste soprattutto nel pedalare con accelerazioni giuste al momento giusto, nell aiutare, aprendogli un tunnel nell aria, il capitano quando è il momento di tirare per rimediare aduna sua défaillance o rafforzare una sua iniziativa. Nello sport tutto i gregari sono di tipo nuovo.

Diceva Platini genio del calcio: “Importante non è che io non fumi, è che non fumi Bonini”. Il quale Bonini gli gocava dietro, riempiva il campo del suo gran correre, cercava palloni per servirglieli. Adesso i grandi gregari del calcio, alla Gattuso, guadagnano bene, sono stimati, cercati. Coppi lasciava comunque ai gregari tutti i suoi premi, e così li ha fatti ricchi.

Chi è adesso il gregario? Nell automobilismo il pilota che esegue gli ordini di scuderia, lascia passare il compagno che ha bisogno di punti, fa da “tappo” mettendosi davanti a chi lo insegue, e al limite “criminoso” sbatte fuoripista il concorrente pericoloso.

Nel ciclismo è ormai quello che sa propiziare il sonno al campione nelle dure prove a tappe, sa dargli allegrie o comunque distensione in corsa. Nel mondo dell atletica il gregario si chiama lepre, ed è pagato, nelle corse lunghe,per tenere alto il ritmo nella prima parte, sfiancando gli avversari e propiziando un tempo di finale di eccellenza: poi può ritirarsi. Sta sul mercato, è ingaggiabile anche al momento, per una corsa sola.

Nella scherma magari è quello che tiene per il campione il conteggio delle vittorie regalate in tornei di ridotta importanza o comunque prospettanti al campione stesso una eliminazione ormai sicura, gli fa il calcolo dei crediti e dei debiti così messi insieme nel rapporto con avversari importanti, gli dice quando è tempo di “passar vittoria”.

Il gregario nuovo può anche arrivare a sperimentare su se stesso il prodotto dopante o il prodotto coprente, correndo dei rischi. Ma la sua funzione diventa sempre meno materiale. E si deve ricordare che il prototipo altamente psicologico del gregario che dà serenità, oltre a procurare una buona compagnia negli allenamenti, tiene quattro gambe anzi zampe. E un cavallo: si chiamava Magistris, era un quasi brocco, ma senza di lui vicino, in pista come nella stalla,il favoloso Ribot era nervoso, tirava calci e nitriva di rabbiosa tristezza.

La bellezza come senso di appartenenza

Architettura è quel che ci sta intorno. Noi – come tutti quanti – ci passiamo la vita dentro. (Louisa Hutton)

2vv5nhjUn articolo di Antonio Monestiroli su Repubblica che lascia una visione “politica” della bellezza, delle città, dell’urbanistica:

IN QUESTA confusione è necessario che ogni cittadino, prima di pensare di non essere all’altezza di giudicare, si faccia forte della propria esperienza. Affidarsi alla propria esperienza vuole dire giudicare i nuovi edifici allo stesso modo in cui giudichiamo i vecchi e cioè rispetto alla loro utilità e bellezza. L’utilità tutti sanno cosa è, la bellezza meno. Anche se c’è un modo molto semplice di definire la bellezza di un edificio: considerarla l’espressione della finalità dell’edificio stesso, che va oltre la sua utilità immediata, che pure è importante, che riguarda il suo significato culturale. Per capirci meglio pensiamo a un edificio straordinario come il Duomo di Milano, molto amato dai milanesi non solo per il suo aspetto esteriore, ma per il suo magnifico interno. Io credo che sia proprio la forma del suo interno a essere espressiva di un’idea di comunità che già appartienea tuttie che quando viene riconosciuta in un luogo dà un senso di pace e di benessere. Tutti gli edifici ben costruiti provocano in noi un’emozione: nei grattacieli è l’orgoglio della costruzione a provocarla, nella casa è il senso di appartenenza a un luogo. Ma perché questi nuovi e ingombranti edifici costruiti a Milano non provocano alcuna emozione? Il perché va cercato nelle premesse alla loro costruzione: la loro finalità non è quella di essere espressivi di alcunché ma quella di essere attraenti, qualità questa che per l’architettura è nefasta. Oggi i cittadini pagano il prezzo di una scarsa competenza dei progettisti che hanno lavorato a Milano, di una certa assenza dell’ amministrazione pubblica negli anni passatie di una ingiustificata libertà d’azione degli imprenditori, che hanno dimostrato di non avere alcuna attenzione per la città in cui hanno operato.

(Grazie a Daniele per la segnalazione)

Solo una lettera d’amore

giulio cavalli 15 giugno-784459Hanno cercato di convincermi in tanti, per prima la vita, che bisogna attrezzarsi per essere sempre pronti alla difesa in quella posa tutta innaturale dove le spiegazioni sono sempre pronte in vasetto nel frigorifero per giustificarsi: spiegare le azioni prima che succedano, mi dicono, perché la vita pubblica è un gioco di  misure che premia gli ammennicoli e i lambicchi e conviene fare così, con le fragilità ben nascoste dentro le mutande e nel portamonete.

Pensavo qualche giorno fa, perso in un parcheggio sotterraneo come un lombrico, che nella vita ho fatto le mie cose migliori quando non ho avuto modo o tempo di imbavagliare le mie fragilità: mi sono sentito un buon padre mentre mi commuovevo sull’orlo della favola in cui si addormentano i miei figli, sono stato un buon figlio quando non sono riuscito a trattenere la gratitudine e sono un amico sincero quando confesso di non riuscire. E’ un peccato mortale essere umano, in pubblico poi, mi dicono, è un peccato mortale non seguire il copione che dovresti imparare per essere confortante senza preoccuparsi di essere credibile.

E’ successo che mi sono innamorato: innamorato dell’ebrezza di essere almeno un secondo all’altezza delle parole che scrivo, innamorato di spiegare le idee come una tovaglia aperta per una tavolata con le persone più vicine senza preoccuparsi della spendibilità pubblica, innamorato della mia incoscienza dei sogni che mi è stata sempre così fedele da volerla come compagna di vita, innamorato del profumo sulle isole in cui mi sento a casa senza architettare come travestirle. Non importa che capelli ha, come si chiama, da dove viene e dove vogliamo andare. Sono fiero di essermi innamorato dei miei sogni più imprudenti.

Hanno cercato di convincermi in tanti, per prima la vita, che un personaggio pubblico deve avere la grana fotografica dei film che riguardi cento volte di seguito per come è come te lo aspetti. Ho sprecato tempo sotto il palco a nascondere il filo del microfono perdendomi la gioia della mia inquietudine bambina poco prima della scena, ho finto in politica di provare un certo misurato sdegno per personaggi che sono un conato di disgusto, ho perso tempo a nascondere la mia paura, una paura fottuta, davanti alla miopia delle reazioni delle minacce più che delle minacce stesse, ho perso tempo ad ascoltare lezioni di anaffettività che voleva essere marketing della comunicazione, ho creduto per qualche anno che la misura giusta fosse un compromesso tra le linee che mi disegnavano altri.

Vedi cara, pensavo di avere perso la fantasia di pensarmi leggero (con una scorta leggera, se proprio è obbligatoria) o di credere davvero che gli affetti sono i nodi che non stringono ma sciolgono tutto il resto. Ho creduto esaurita l’immaginazione di portarmi la verità come unica spiegazione possibile e non conta se qualche volta sai per certo che sarà perdente: giochiamo ad un altro gioco, e ci invidiano così.

Ho perso le mie ore migliori ad ascoltare chi mi voleva convincere che il cinismo è una buona armatura e adesso mi prendo i miei anni con le mie rughe e la mia penna fragile. Non ci può essere arte dove va di moda vergognarsi della felicità. Non importa che capelli ha, come si chiama, da dove viene e dove vogliamo andare. Sono fiero di essermi innamorato dei miei sogni più imprudenti.

Il funerale ‘food’ del Teatro Smeraldo a Milano /2

Gianmario Longoni, storico direttore artistico del Teatro Smeraldo, risponde all’assessore D’Alfonso (qui trovate la discussione procedente completa). La saga continua. E (per fortuna) anche alcune importanti puntualizzazioni:

Caro D’Alfonso, ti conosco poco (visto che siamo passati al tu in privato continuo in pubblico), ma sicuramente più di quanto tu conosca me, quindi non permetterti di accampare maliziosi sottintesi economici circa la mi a personale tragedia e la perdita del teatro da parte della città, io visto che prima delle elezioni avevo promesso che in caso di vittoria di Pisapia avrei provato a resistere, sicuro dell’aiuto dei miei “compagni”, ho resistito e ho fatto la fine del giapponese sull’isola, non ci sto a farte la figura del fesso o, per me peggio, dello speculatore.

Le banche mi hanno costretto a vendere puntandomi il fucile alla testa e io, visto che pago i miei debiti, ho preso l’unica offerta buona eticamente e possibile; più bassa del 40% rispetto a quelle dello scorso anno per non parlare del passato meno prossimo.

come assessore al commercio e visto il tuo passato professionale direi che di affari te ne intendi più di me e sai bene anche i termini della vicenda, sicuramente la qualità commerciale della vicenda Eataly oggi è innegabile ma non può essere paragonata ad un teatro, soprattutto all’(ex) primo teatro italiano.

oggi lo smeraldo diventa un supermarket di qualità e lusso, gradito a tutti gli amici e i nemici…

domani chissà, di certo è solo che qui un teatro non lo farà più nessuno, soprattutto un teatro non finanziato e partecipato dal pubblico dove nessun politico può piazzare amici in consiglio d’amministrazione o a fare i direttori generali a carico dei cittadini.

Un bene per la politica direi! io non vi ho votati per questo, e credo neppure gli altri milanesi , se volevamo un’ imitazione della Moratti o di Pillitteri guardavamo tra i galeotti e non tra gli avvocati.

il casino in piazza l’hanno combinato i pupazzi del PDL ma nessuno di voi ha posto rimedio e l’imbarazzata (neppure troppo) assenza dell’ultimo anno da parte di una giunta che voglio ancora considerare “mia” è colpevole, inventarsi poi un valore “commerciale” nella morte del mio teatro è davvero qualcosa di qualunquista e grottesco.

Se c’è la volontà politica, come sai, lo Smeraldo può rinascere in zona senza costi pubblici (così i soldi dei milanesi li possiamo dare tutti agli Arcimboldi) e a vantaggio della zona Garibaldi che non è mai stato un “food district” ma è sempre stata la “Smeraldo District”.

con Ossequio

Gianmario Longoni

Dignità e cultura per il teatro campano

Una petizione sacrosanta per Napoli, la Campania, e la cultura.

Una Comunità veramente democratica deve affermare rapporti sani e trasparenti fra pubbliche amministrazioni e cittadini, e quindi tra istituzioni e mondo della cultura e dello spettacolo, nel rispetto delle leggi nazionali e dei trattati internazionali, adeguando costantemente la normativa verso il miglioramento della qualità della vita di tutti i cittadini.
Il sistema Italia consolida invece, in particolare nel Meridione, un divario abissale fra principi e pratiche, legalità e quotidianità, diritti e accesso agli stessi, norme e comportamenti, attività legislative e diritto costituzionale, nello specifico, manifestando un legame di sudditanza della Cultura verso Potere.

La Fondazione Campania dei Festival è un esempio eclatante di quest’anomalia europea: calata dall’alto dalle amministrazioni regionali degli ultimi dieci anni, ha reso le altre amministrazioni locali e gli organismi di controllo complici passivi di un sistema di progettazione culturale autoreferenziale e non partecipato. Dalla sua costituzione ad oggi la Fondazione si è aggiudicata, in regime di sospensione della concorrenza, notevoli fondi ministeriali, 41Mln euro di fondi europei, l’uso gratuito di strutture pubbliche e la supremazia nel settore delle arti sceniche in Campania, accumulando, al tempo stesso, debiti o insolvenze che minano la credibilità sua e di Napoli.
E infine, con il nuovo Statuto (approvato in giunta regionale il 30 dicembre 2011), la Fondazione diventa uno “strumento operativo regionale sottoposto alla dipendenza economica e funzionale della Regione Campania”.
È una veste più consona agli affidi diretti della Regione, ma le finalità e le attività si confermano di natura estranea ad una pubblica amministrazione e duttili agli interessi di singoli fiduciari. Il nuovo Statuto nasce da osservazioni inerenti il progetto “La Campania dei Festival verso il Forum Universale delle Culture” (Dgr 645/11) e tenta di legittimarlo.
Ma è qui che la Regione Campania, tramite la Fondazione, viola palesemente le regole normative.

Bilancio Lombardia 2012: tutto come previsto

“Che in Lombardia la corsa fosse finita, era ormai chiaro da tempo. E ora c’è anche il bilancio 2012 a confermarlo inequivocabilmente, con la forza dei numeri.

Tutte le previsioni delle finanziarie regionali dal 2010 a oggi si sono rivelate scritte sulla sabbia, cancellate, ogni anno di più, certamente anche da tagli e ricadute nazionali, ma soprattutto dall’incapacità di Formigoni e della sua Giunta di cambiare passo, di costruire un nuovo modello.

Occorrono politiche industriali lungimiranti, a partire dal sostegno ai settori più innovativi. E invece non se ne vede traccia. La Jabil, per fare un solo ma significativo esempio, fa banda larga ed è occupata dagli operai licenziati via fax. Va bene garantire per l’anno a venire gli ammortizzatori, ma dalla Regione ci si aspetterebbe interventi ben più strutturali sulla crisi, sul rilancio produttivo e sullo sviluppo.

Occorre un investimento di peso sulla scuola pubblica, perché gli studenti sono il futuro del Paese. E invece Formigoni di nuovo regala milioni di euro – per la prima volta in calo da 51 a 33, ma comunque ancora tantissimi – ai pochi che frequentano le private, consueto bacino elettorale. Respingendo le nostre richieste di spostarne almeno 22 sul potenziamento dei servizi socio-educativi per l’infanzia, sull’acquisto di strumenti tecnologici per disabili, sui contributi per lavori socialmente utili.

Occorrono politiche sociali attente, capaci di difendere la dignità della vita delle persone disabili. E invece si promettono 70 milioni in campagna elettorale perché torna utile, si mantengono per un anno, ma per il 2012 si riducono di 30 milioni, mettendo a rischio il finanziamento dei servizi sociali essenziali da parte dei Comuni e persino sottraendosi al confronto con le associazioni, a partire dalla Ledha, che da mesi lo chiedono.

Occorre salvaguardare il territorio e migliorare la qualità della vita dei lombardi. E invece Regione Lombardia è schiacciata da pesanti inchieste giudiziarie che raccontano di tangenti, rifiuti pericolosi nascosti sotto l’asfalto e improponibili discariche di amianto, in barba alla salute dei cittadini e all’integrità dell’ambiente. Mostrandosi completamente sorda, in questa previsione per il 2012, anche alle nostre richieste di restituire indipendenza e funzioni di polizia giudiziaria all’Arpa nonché di rifare la brutta legge sui servizi idrici dello scorso dicembre, accogliendo l’esito referendario di giugno sull’acqua pubblica”.

Milano, 21 dicembre 2011

Artisti per caso. A gratis. In tempi d’Expo

Arriva a grandi passi (ma per davvero?) EXPO 2015 e, come ci dicono in molti, dovremmo esultare per le “enormi occasioni occupazionali” (parole di Letizia Moratti). La prima, tutta artistica come piace alla Milano cultural-chic tutta da bere, è un bando che parla di lavoro, di opportunità ma si è dimenticato i soldi. I soldi mica per arricchirsi, proprio i soldi per camminare su quel bordo che sta tra l’essere occupati e l’essere usati.

Per questo è stata aperta una raccolta firme che vi invito a promuovere con i vostri blog e i vostri siti. Intanto aspettiamo una risposta ad una nostra interrogazione.
L’Expo 2015 parte col piede sbagliato, e propone un bando rivolto al mondo dello spettacolo (teatro, danza, cabaret, ecc.) i cui vincitori avranno la possibilità di esibirsi gratis e, non solo, dovendosi pure pagare i contributi previdenziali Enpals.

Come sempre il problema non è la mancanza di fondi, perchè quelli, a maggior ragione nell’impresa Expo (a cui sono destinati circa 1.5 miliardi di fondi pubblici), ci sarebbero, quanto un atteggiamento della politica locale assolutamente ostile ed arrogante nei confronti dello spettacolo dal vivo. Sono anni ormai che le amministrazioni pubbliche in Lombardia chiedono agli operatori dello spettacolo dal vivo di lavorare gratis, o al massimo con un insignificante rimborso, facendosi belli di organizzare eventi culturali nella città. Le politiche culturali devono avere come scopo primario la crescita del proprio territorio, non il suo sfruttamento.

Questo bando è un’offesa all’intelligenza di chi lavora nel settore dello spettacolo, e chiediamo che sia ritirato o che sia previsto un compenso per gli artisti che saranno selezionati. Gli investimenti destinati a Expo 2015 sono una grande sfida per migliorare la qualità di vita di tutti i cittadini di Milano e Lombardia, compresi gli operatori della cultura.

Alcune highlights del bando:

– nel bando si legge di una “formula partecipativa”, che si esplica qualche parola dopo con il “lavoro a gratis”;

– si legge che la scadenza è il 31 gennaio e la data della performance il 5 febbraio e che gli artisti selezionati beneficeranno della promozione (come si fa a promuovere un’artista e uno spettacolo con meno di 5 giorni a disposizione?);

– si legge che gli artisti selezionati, oltre a non ricevere alcun compenso, dovranno produrre la loro agibilità, su cui dovranno pagare le ritenute sociali (Enpals). Così facendo non solo lavoreranno gratis, ma pagheranno per lavorare!

I firmatari di questo comunicato si impegnano quindi a costituire un gruppo di osservazione del rapporto tra politiche culturali e Expo 2015, affinché Expo sia davvero un momento di crescita per tutti, per i cittadini che amano la cultura, e per gli operatori per cui la cultura è il pane di cui vivere.

Firma anche tu per sostenere questa protesta.

http://www.firmiamo.it/expocultura