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Mediaset/Vivendi: liberisti con i diritti degli altri e capitalisti senza capitali

 

Fanno sorridere questi capitalisti turboliberisti che d’improvviso diventano nazionalisti e per niente globali. I Berlusconi si lamentano della scalata di Bolloré al loro impero televisivo e improvvisamente il mercato globale (che hanno alimentato e elogiato per anni) diventa il peggiore dei mali. Insomma, questi sono liberisti solo se riescono a stare sulla cresta dell’onda del liberismo altrimenti diventano subito filocubani.

Coerenti con l’interesse personale, sempre: quando si è trattato di svendere i diritti dei lavoratori ci accusavano di avere uno sguardo troppo limitato e ora basta un francese come Bolloré per sentirli strillare urlando all’invasore.

E poi capitalisti ma per finta: il capitale fondamentale in questo Paese è la possibilità di mischiarsi con la politica rendendola convergente agli interessi della propria azienda. Liberisti a libertà alterna e capitalisti senza capitali. Perfetti. Bene così.

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

Jobs act, Italicum, responsabilità civile dei magistrati: Berlusconi lo diceva. Renzi lo fa. (Left in edicola da sabato, eh)

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Il numero che abbiamo preparato per le edicole di questa settimana (da sabato, eh). Ci abbiamo messo dentro il Presidente Narciso e molto altro. Tra le altre cose sono onorato  di avere avuto l’occasione di scrivere il monologo di carta di questa settimana con il partigiano (e Parlamentare Europeo) Emmanouil Glezos. Ecco l’indice:

IL CAVALIERE MATTEO

Jobs act, Italicum, responsabilità civile dei magistrati: ma se l’avesse fatto Berlusconi?
di Luca Sappino

Eccitato da Sergio
C’è grande feeling tra Renzi e Marchionne.
di Checchino Antonini

Lasciate lavorare il bullo
Arriva Renzi: il linguaggio diventa pop.
di Giulio Cavalli e Giorgia Furlan

l’intervista
In sella contro la mafia
Giuseppe Cimarosa, nipote di Messina Denaro: «Vivo di teatro».
di Giulio Cavalli

criminalità
La bufala è servita. Dai clan
La mozzarella fra truffe e camorra. Il punto sulle agromafie con Caselli.
di Francesco Maria Borrelli e Raffaele Lupoli

politica
Alternativa cercasi
I fuoriusciti 5Stelle in cerca di un partito.
di Ilaria Giupponi

inghilterra
Elezioni, dizionario sintetico
Guida pratica prima del voto di maggio.
di Massimo Paradiso

Il candidato che sfotte Farage
Il comico Al Murray sfida il leader Ukip.
di Virginia C.Grieco

l’analisi
Iran in fumo
Consumo record di droghe e pene severe.
di Maziyar Ghiabi

siria
Damasco ignorata
Parla il capo dei non jihadisti Khoja.
di Umberto De Giovannangeli

nigeria
Tratti di corruzione
La storia di Dotun Oloko, che denuncia i traffici illegali.
di Giacomo Zandonini e tavole di Claudia Giuliani

sessualità
Pillola libera tutti
Storia dell’inventore dell’anticoncezionale più famoso del mondo.
di Pietro Greco

Ribelli alla natura
I nuovi orizzonti della fecondazione assistita raccontati da Edoardo Boncinelli.
di Simona Maggiorelli

Il sesso delle millennial
Le serie tv che formano le ragazze.
di Giorgia Furlan

letteratura
A lezione da Pinocchio
I maestri irregolari da Collodi a Bergson.
di Filippo La Porta

musica
A tempo di libertà
Incontro con Jovica Jovic.
di Tiziana Barillà

Sarò strano

Schermata 2013-03-02 alle 20.58.52Ma in una giornata come questa, con un Governo in bilico sulle decisione di troppo poche persone (collegate chissà come con i loro eletti e i loro elettori), con una situazione di lavoro e impresa che sta pagando (se ci riesce) questa terra di mezzo come l’ennesima tappa in salita di una crisi che non vede nemmeno l’ombra della speranza dell’arrivo, con un tasso di disoccupazione e produzione che ricorda baratri di altri tempi, con l’ennesimo femminicidio quotidiano, con Berlusconi che definisce (per l’ennesima volta, ma non abituiamoci) la magistratura “un cancro” e con tutto il resto, ecco, in una giornata come questa che il dibattito politico tra Grillo, Bersani e Renzi sia sul finanziamento dei partiti e i tagli alla casta mi fa pensare che forse sarò strano io e che l’agenda della politica segue meccanismi redazionali piuttosto che di responsabilità. Aspettando magari una parola anche dalla nostra parte, a sinistra.

Una normalizzazione mafiosa e anche sociale (editoriale per “I Siciliani giovani”)

La discussione in corso sul ruolo della magistratura e sugli argini permessi ai magistrati nell’esprimere giudizi politici è la ciclica riproposizione di uno scontro che sembra essere diventato inevitabile in Italia. Un campo di battaglia tra favorevoli e contrari, una tribuna (spesso televisiva) di tifosi delle diverse fazioni che si esibiscono nella continua delegittimazione l’uno dell’altro e ha portato alla banalizzazione di fondo da cui sembra così difficile uscire: ci si dice che in questo Paese esistano poteri buoni e poteri cattivi, dimenticandosi le persone che li interpretano. E il risultato è fatto: giustizialismo contro il partito antiprocure, antipolitica contro politicismi e, quando il gioco sembra farsi duro, complottisti contro innocentisti. E sotto spariscono i fatti, le persone, i riscontri e alla fine la verità.

Ricordo molto bene una mia discussione qualche anno fa quando mi capitò di essere “accusato” da alcuni colleghi teatranti di scrivere spettacoli con giornalisti di giudiziaria e giudici, “è compito degli intellettuali la cultura, mica dei giudici” mi dissero. Erano colleghi che stimo, gente che scrive spettacolo preferendolo all’avanspettacolo, che ha un senso alto dell’arte e della cultura, per dire, ma quello che mi aveva colpito era l’eccesso di difesa legittimato dalla presunzione di un’invasione di campo che non poteva e non doveva essere tollerata. Confesso anche che il concetto di intellettuale oggi, nel 2012 in un’Italia culturalmente berlusconizzata alle radici, è un tipo che mi sfugge perché si arrotola troppo sugli scaffali o nei salotti televisivi di una certa sinistra piuttosto che tra le idee della gente. Un nuovo intellettuale imborghesito e bolso che mostra il suo spessore nel “l’avevo detto” piuttosto che anticipare i tempi come quei belli intellettuali che si studiavano a scuola. C’è la mafia a Milano, l’avevo detto, c’è la massoneria tra le righe del Governo, ve l’avevo detto, c’è l’Europa antisolidale, ve l’avevo detto e via così come una litania di puffi quattrocchi che svettano come giganti per il nanismo degli avversari.

C’è un momento storico negli ultimi decenni che ha svelato l’arcano: 1992-93, le bombe, Falcone e Borsellino, la mafia, Palermo che si ribella, la Sicilia che rialza la testa e per un momento si sente abbracciata da una solidarietà nazionale come non sarebbe più successo. La gente che decide di non potere stare a guardare e la magistratura che cerca la vendetta con la verità: due mondi così distanti, con regole e modi così diversi, spinti dallo stesso sdegno e uniti nella stessa ricerca. Ma non comunicanti. Il popolo con la fame dei popoli, quella tutto e subito, per riempire la pancia di quel dolore e avere almeno una spiegazione e la magistratura ingabbiata tra i veti, la politica, i depistaggi e i falsi pentiti e le leggi che non lasciano spazio all’urgenza democratica. Forse gli intellettuali ci sono mancati proprio lì. Chi poteva avere il polso di quegli anni così caldi e aveva gli occhi per metterci in guardia dai demoni che si infilano nei grandi cambiamenti storici: sono rimasti isolati, inascoltati o morti ammazzati. E tutto intorno un allineamento rassicurante, come chiedeva il popolo sotto le mura; come se la “normalizzazione” non sia stata solo mafiosa ma anche e soprattutto sociale. La rassicurazione normalizzante è stata l’ultima chiave di lettura collettiva. Poi la frantumazione, prima composta come quando si saluta per tornare a casa fino al cagnesco muso contro muso degli ultimi vent’anni.

Per questo mi incuriosisce ascoltare il dibattito sui modi e le parole della magistratura che non tiene conto del percorso che ci ha portato fino a qui, della polvere che si è appoggiata su verità che cominciano a mancare come un lutto piuttosto che un viaggio. Tutto condito con un’etica slegata dalla storia, dagli interpreti della classe dirigente che abbiamo dovuto digerire e dai protagonisti che ci siamo trascinati legati al piede da quegli anni. Non esiste un modus operandi decontestualizzato dal mondo, non sarebbe concepibile nemmeno per un filosofo utopista con fiducia illimitata negli uomini. C’è un tempo per alzare la voce, dopo anni di latitanza degli intellettuali asserviti troppo spesso al padrone di turno, un buco da colmare per tenere in piedi i pilastri della democrazia. Come dice bene Gian Carlo Caselli ci sono stagioni che impongono la parola. E ci vuole la schiena diritta per portarla in tasca, la parola.

(pubblicato per I SICILIANI GIOVANI, il numero è scaricabile dal sito)

La sparizione degli intellettuali di destra

Per tutti quelli che (come me) hanno creduto che troppo spesso intellettuali, opinionisti o professori seguaci del berlusconismo fossero troppo spesso semplici cameriere dei vincitori Tafanus propone una carrellata che sembra una galleria degli orrori. O forse una carrellata di incompresi opportunisti. Anche perché l’intellettuale, come diceva Kant: “non ha da portare lo strascico del re, ma la lanterna avanti al re”. E qui invece sembravano tutti preoccupati di trovare un posto caldo sotto la sottana. E in un momento di passaggio che di liberatorio ha solo le assenze sarebbe pericoloso decidere di abdicare dalla memoria sui protagonisti ‘culturali’ di questi ultimi vent’anni. Uomini tutti di un pezzo come Marcello Pera che dopo avere incarnato il radicalismo della questione morale durante Mani Pulite ha pensato bene di recarsi nel 2004 sulla tomba di Bettino Craxi parlandone come di un ‘monumento nazionale’ e (sempre in quell’anno) dichiarò “Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini“. Nel 1994 (e fino al 2008) divenne senatore di Forza Italia, poi Popolo della Libertà. Poi ha ispirato la legge sul ‘giusto processo’ (perché nella Berlusconeide televisiva gli intellettuali tornavano utili come titolisti per nascondere meglio la polvere sotto il tappeto) e oggi si è disintegrato come molti dei suoi. E ricordarcelo è fondamentale.

Ecco la soluzione: far girare la patonza

“Vedi Gianpaolo – si legge nella trascrizione del quotidiano tratta dagli atti dell’inchiesta – ora al massimo dovremmo averne due a testa. Perché ora voglio che anche tu abbia le tue, se no io mi sento sempre in debito. Tu porta per te e io porto le mie. Poi ce le prestiamo. Insomma, la patonza deve girare”. Ci salverà l’economia della patonza.

Vattene. In tutte le lingue.

Geh nur, was Besseres kann Italien gar nicht passieren! Lo dicono in tedesco. La lingua della culona inchiavabile.
Un presidente del consiglio che si fa organizzare festini con minorenni. Che si fa ricattare da ruffiani. Che getta nel fango il suo paese e che vorrebbe scappare via dall’Italia. Finora in Germania ci si è più meravigliati che indignati di questi ed altri passi falsi del premier. Però con il suo stile di vita e la sua politica Berlusconi danneggia l’Italia e con essa l’Unione Europea. Non deve stupire che lui la pensi in maniera completamente diversa, dato che fa parte della sua complessa personalità, rimandare le questioni spiacevoli, ignorare i problemi e minimizzare gli errori.

Renzi, proprio lui

… non capisce. «Non capisco quest’ansia della sinistra che mi dà di Berluschino, di trovare un nemico. È proprio questa sinistra che facendo così è molto berlusconiana».

La (brutta) favola di Re B. e la manovra

Il pifferaio magico ha convocato i suoi topi, gli ha ordinato di firmare il saccheggio e poi di scendere in strada chiamandolo ‘responsabilità’.

Senza nessuna analisi, senza fingere postura da economista dell’ultima ora:

Hanno detto per anni che tutto andava bene e che la crisi era solo nella testa della sinistra disfattista e sulla bocca dei parassiti pidocchiosi che infestano la scuola, gli uffici pubblici e che pensano solo a scioperare. Li hanno applauditi.

Poi ci hanno detto che la crisi c’era (e che in fondo lo sapevano ma non volevano creare allarme) e che non è mica una cosa italiana ma che tutta l’europa (anzi, l’universo mondo) andava a picco e intanto indicavano la Grecia che stava a galla come un tonno rinsecchito che nuota senza pinne. E tutti hanno detto – hai visto, poveretta la Grecia, noi stiamo in piedi grazie al nostro Presidente.

Hanno scritto la prima manovra per risanare il Paese (ci dicevano). Bene.

Male, anzi, ci siamo sbagliati. Hanno scritto la seconda. Anzi, l’hanno scritta mentre l’Europa li teneva per un orecchio come la maestra con l’alunno che scrive cento volte ‘responsabilità’. Bene, questa volta ci siamo.

Anzi no, hanno riscritto la seconda, qualche aggiustamento, ci vuole responsabilità – diceva – e tutti uniti (dopo averlo scritto cento volte aveva imparato a pronunciarla oltre che scriverla). Qualcuno ha iniziato ad avere comunque qualche dubbio ma comunque, ci dicevano, non toccheremo le pensioni. L’importante è che chi ha di più paghi di più e poi via le provincie piccole (tranne le nostre) e i comuni, anzi no, il federalismo le salveremo, viva l’identità locale, non può essere mica un costo, e sono usciti con una macelleria sociale (ter) che tocca le pensioni, cancella il contributo di solidarietà (cioè chi guadagna di più semplicemente guadagna di più), e cancella le province forse sì, forse no, non si sa quando, ma serve un’unità d’intenti e responsabilità (rieccola) dell’opposizione. E forse hanno sbagliato anche i conti. In compenso non si sono aumentati nemmeno il prezzo dell’insalata alla mensa del reame.

Il re è uscito sul balcone e ha urlato ‘manovra più equa’.

Qualcuno disse – beh, almeno non ci hanno tassato il pane, gli è bastato il 1 maggio e il 25 aprile.

Crescita, equità e giustizia sociale: il 6 settembre in piazza  per andare a riprendercele.