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A Chiaiano camorra, massoneria e Stato si fanno discarica

Camorra, massoneria, pezzi deviati dello Stato e della cosiddetta buona società. C’è tutto questo dietro la realizzazione della discarica che, stando agli annunci dell’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi e dell’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, sarebbe stata una delle principali mosse per uscire definitivamente dall’emergenza rifiuti in Campania.

Parliamo della discarica di Chiaiano, a nord di Napoli, uno sversatoio la cui apertura ha mobilitato migliaia di persone, attivisti, associazioni, famiglie. Dalle indagini condotte dai carabinieri del Noe di Napoli coordinati dai pm della dda Antonello Ardituro e Marco del Gaudio, emerge uno scenario che appare trasversale e che mette in fila clan, pubblica amministrazione, professionisti insospettabili e anche la massoneria. Dagli atti dell’indagine emergono filmati che mostriamo nella videoinchiesta, e che documentano come gli argini della discarica venissero realizzati utilizzando terreno e rifiuti e fossero quindi assolutamente inadatti a contenere il percolato. Camion prelevavano scarti e immondizia da cantieri stradali, li stoccavano in un area per poi trasferirli a Chiaiano. Volendo semplificare i rifiuti avrebbero dovuto contenere e arginare altri rifiuti.

L’assenza di argilla

«La nostra indagine – spiega il comandante del Noe Paolo di Napoli – ha messo in risalto il mancato utilizzo dell’argilla nella costruzione degli argini della discarica. L’argilla avrebbe garantito l’impermeabilizzazione della discarica. Miscelare il tutto con terreno e rifiuti significava minare la tenuta del percolato. L’attività degli indagati consentiva perciò un doppio guadagno: da un lato i rifiuti provenienti dai cantieri stradali non venivano sottoposti a trattamento e poi i rifiuti stessi venivano venduti alla pubblica amministrazione come terreno vegetale o materiale argilloso per fare gli argini della discarica. Da un lato abbiamo una truffa ai danni della pubblica amministrazione, dall’altra abbiamo delle false certificazioni fatte dagli stessi funzionari pubblici che avevano attestato la corretta esecuzione dei lavori».

I casalesi e gli insospettabili

Nell’inchiesta spuntano figure assolutamente insospettabili come un ufficiale di polizia giudiziaria della DIA, nominato anche consulente della commissione parlamentare sui rifiuti e un professionista consulente di molti magistrati della dda e paradossalmente, uno dei consulenti nell’indagine sulla discarica romana di Malagrotta insieme con il perito che si è occupato (questa volta da solo) di redigere una consulenza tecnica approfondita, scrupolosa e importante per le indagini proprio sulla discarica di Chiaiano. Al centro dell’inchiesta un imprenditore, Giuseppe Carandente Tartaglia e la sua società, la Edilcar. Secondo le indagini CarandenteTartaglia, originariamente legato a personaggi di vertice dei clan Nuvoletta, Mallardo e successivamente anche del Polverino, era riuscito ad intrecciare rapporti anche con la cosca casalese capeggiata da Michele e Pasquale Zagaria. Per quest’ultimo clan in particolare, Carandente Tartaglia prestava un rilevante contributo organizzativo come imprenditore operante nello strategico settore della gestione del ciclo legale ed illegale dei rifiuti, controllato dal clan dei casalesi e dalla famiglia Zagaria. In questo modo i casalesi potevano partecipare alle attività imprenditoriali del settore attraverso le sue aziende. E così proponeva ed acquisiva commesse ed appalti rivelandosi capace, anche attraverso i necessari contatti istituzionali, di affrontare e risolvere i momenti di emergenza succedutisi nel tempo in Campania.

«Complessa vicenda imprenditoriale e criminale»

Scrivono i pm Ardituro e Del Gaudio nella richiesta di misura cautelare: «Giuseppe Carandente Tartaglia, o se si vuole la sua azienda, la Edilcar hanno saputo governare la complessa vicenda imprenditoriale e criminale della quale è parte anche la realizzazione e la gestione della discarica di Chiaiano coordinando gli interventi pubblici e dell’imprenditoria privata per l’utile proprio e della criminalità organizzata». Per i magistrati gli imprenditori facenti capo alla famiglia Carandente Tartaglia ebbero di fatto un ruolo centrale nella costruzione della discarica di Chiaiano, individuata nel 2008 come sito necessario per tamponare la persistente emergenza rifiuti verificatasi nei mesi precedenti.

«La questione rifiuti: il tesoretto di parte della politica»

Eppure già nel 2008 un funzionario della prefettura Salvatore Carli, più volte negli anni intimidito per le sue battaglie anticamorra, aveva inviato una relazione sulle cointeressenze della criminalità organizzata nella Edilcar all’allora prefetto di Napoli Alessandro Pansa, anche se poi nel 2009, nel corso di una riunione del GIA (gruppo interforze antimafia del quale Carli faceva parte ma che in quella occasione non era presente) fu rilasciata una informativa antimafia liberatoria proprio a favore dell’impresa di Carandente Tartaglia. Per gli inquirenti, gli imprenditori Carandente Tartaglia sono stati nel tempo protagonisti di un rilevante intreccio di interessi che ha visto convergere le aspettative della criminalità organizzata e l’appetito di numerosi soggetti, anche istituzionali. La questione rifiuti in Campania – scrivono ancora i pm – è una vicenda «che si fa fatica a definire realmente dettata dall’emergenza a meno di non snaturare la nozione medesima del termine, poiché è evidente che non può essere qualificata tale una vicenda che ha impegnato gli ultimi vent’anni della vita istituzionale, non solo locale, e degli interessi dei cittadini. Resta il fatto che la questione rifiuti ha rappresentato il tesoretto, anche elettorale, di una parte della classe politica regionale, la cassaforte della camorra ed in particolare dei capi del clan dei casalesi, oltre che la fortuna di alcuni selezionati (dalla politica e dalla camorra) imprenditori del settore».

Le intercettazioni

Sconcertano alcune intercettazioni che sembrano evidenziare che i titolari della Edilcar sapessero con anticipo che avrebbero ottenuto l’appalto. Infatti, un componente della famiglia di imprenditori dei rifiuti, Mario Carandente Tartaglia viene intercettato mentre insiste con gli altri interessati affinché accettino l’esproprio dei terreni nella zona: «Vi sarà un guadagno economico per tutti e principalmente per la nostra ditta che prenderà l’appalto che le consentirà di lavorare per molti anni». Concetto che questa stessa persona ribadisce anche alla sorella Elena, detta Pupetta: «Pupè, bello chiaro chiaro… quello lo ha preso l’impresa nostra».

La massoneria

L’indagine parte dall’aspetto relativo ai collegamenti con la criminalità organizzata ma da qui si è aperto uno scenario ulteriore e inaspettato: collegamenti con soggetti appartenenti alla massoneria utilizzata sia per superare fasi di stallo dei pagamenti per lo stato di avanzamento dei lavori della discarica sia per poter ottenere altre commesse. Un pentito, Roberto Perrone, riferisce ai magistrati di essere in possesso di informazioni su Carandente Tartaglia e sui suoi rapporti con i Polverino, anticipando anche i rapporti istituzionali e di natura massonica. Si tratta di componenti della loggia della Losanna, una delle più antiche fra le 20 logge del Grande Oriente d’Italia. La affiliazione a questa loggia secondo gli inquirenti, giustifica una fittissima rete di conoscenze distribuite a diversi livelli nei settori e apparati della vita pubblica, fra soggetti legati strettamente al dovere di obbedienza ed al vincolo della fratellanza. Uno dei personaggi frequentati da Carandente Tartaglia, ricopriva nella Losanna, la carica di secondo sorvegliante, figura che insieme con il primo sorvegliante e il “maestro venerabile” compone il “consiglio delle tre luci”, una sorta di organo direttivo della Loggia. Non è la prima volta che la massoneria entra in una indagine su camorra e rifiuti: infatti in passato erano emersi rapporti tra Gaetano Cerci e Cipriano Chianese, imprenditori ritenuti fedelissimi del boss casalese Francesco Bidognetti e Licio Gelli. Il contatto serviva a garantire il trasporto e l’interramento di rifiuti tossici provenienti dalle industrie del centro-nord Italia in provincia di Caserta, attraverso l’impresa Ecologia 89.

L’amarezza degli attivisti

Questi intrecci di malaffare e queste storie di ormai abituale scempio ambientale lasciano una ferita aperta tra gli attivisti napoletani: «Noi eravamo visti come i criminali – spiega Palma Fioretti, attivista della Rete Commons – come le donne della camorra che venivano schierate dagli uomini a protezione loro. Bertolaso disse che la discarica di Chiaiano sarebbe stata un esempio virtuoso per tutta l’Europa, uno degli impianti più efficienti. Molti di noi sono stati indagati per le nostra attività contro la discarica. Eravamo visti come i trogloditi che non capivano che questa era una risoluzione definitiva al problema dei rifiuti in Campania».

(corriere.it, 26 agosto 2014)

L’educazione camorrista

Un articolo da tenere di Giovanna Sorrentino per “Il Mattino”:

Torre Annunziata. «Se non stai zitto ti sparo al petto», si sente urlare per gioco da un bambino al suo cuginetto. Parole dette a gran voce nel cortile interno di Palazzo Fienga, torre di guardia del clan Gionta a torre Annunziata. Tre bambini giocano con pistole e mitra giocattolo, seduti sulle scale situate di fronte all’entrata principale. Francesco prende in giro Nicola chiamandolo «femminuccia» perché ha paura di un cane. Nicola risponde all’offesa puntandogli la pistola contro. «Stai zitto, o ti sparo».

Tutti i bambini del mondo giocano con le armi per imitare le scene dei film. Pochi però, hanno visto davvero un adulto puntare una pistola contro qualcuno. E loro, i piccoli che vivono a Palazzo Fienga, sono tristemente abituati a queste scene di violenza. Crescono nei rioni dimenticati, dove spaccio e cultura del crimine sono la faccia della camorra vera, chiusa nelle quattro mura di una roccaforte pericolante.

A raccontare le loro storie sono i volontari dell’oratorio dei Salesiani, ad sempre in trincea per strapparli in tempo alla morsa della malavita. Babypusher, vedette della droga: queste le loro mansioni. Fin dai primi anni di età vengono portati sui luoghi degli agguati perché devono abituarsi alla violenza.

Di notte spesso si svegliano di soprassalto perché i militari fanno irruzione nelle loro case: gli portano via i genitori, perché accusati di essere camorristi. «È capitato che le forze dell’ordine siano entrati nelle loro stanze mentre dormivano, rovistando sotto i loro cuscini alla ricerca di armi o droga. Per loro questo diventa un trauma – racconta Luciano Donadio, coordinatore dell’oratorio dei Salesiani nella Basilica della Madonna della Neve, a pochi metri da Palazzo Fienga.

Verso i sette anni arriva la prima responsabilità: devono girare per i quartieri dello spaccio a controllare se arrivano le “guardie”. Non possono avvicinarsi alle forze dell’ordine per accettare regali, altrimenti vengono etichettati come “venduti” dai più grandi. Verso i 14 anni imparano a sparare dove nessuno li vede».

Scegliere la cattiva strada però, spetta a loro. «I genitori non li obbligano a prendere quella sbagliata – prosegue Donadio – se la trovano davanti e non hanno niente da perdere, perché hanno perso già tutto. Devono solo conquistare qualcosa: il bene o il male». I soldi facili, la sensazione di «grandezza» che si prova quando il rispetto è dovuto perché si è figlio o il nipote del boss: questi i motivi che portano i ragazzi a seguire la via della criminalità, nei quartieri senza futuro.

La camorra dietro i farmaci anticancro

Organizzazioni criminali, tra cui la camorra, sarebbero dietro un grande traffico di farmaci anticancro rubati e contraffatti in Europa. E’ la rivelazione del Wall Street Journal, che cita fonti italiane. Si tratterebbe di una rete organizzata e molto estesa che starebbe preoccupando moltissimo medici e farmacisti, in quanto i farmaci contraffatti sarebbero conseguentemente inefficienti o persino letali.

Una strategia internazionale. Il Wall Street Journal cita il direttore dell’Agenzia del Farmaco italiana, Domenico Di Giorgio, secondo il quale i furti di farmaci registrati negli ultimi mesi in varie parti di Europa non sarebbero incidenti isolati ma farebbero parte di una strategia precisa di varie organizzazioni criminali, tra cui la camorra e altri clan dell’Europa orientale, oltre a un non meglio precisato cittadino russo residente a Cipro. “C’entra sicuramente il crimine organizzato”, ha detto Di Giorgio al Wsj. L’indagine è condotta con i Nuclei Antisofisticazioni e Sanità (Nas) dei Carabinieri.

I furti di farmaci. Secondo fonti dell’inchiesta, “i farmaci vengono rubati negli ospedali o dai camion utilizzati per la distribuzione” per poi essere passati a un grossista italiano, come aveva già spiegato un mese fa l’Ema, senza però arrivare ai mandanti dei furti e a quella che sembrerebbe una regia coordinata a livello internazionale. Durante l’inchiesta è emerso che fino a cinque camion al mese carichi di farmaci anticancro sarebbero stati trafugati in Italia. Gli autisti avrebbero fornito giustificazioni insufficienti sulla sparizione della merce.

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Il casalese: Nicola Cosentino

Il comunicato stampa della Procura:

nicola_cosentino_no_arresto_645“Nelle prime ore della mattinata odierna nell’ambito di un’articolata indagine coordinata da questa Procura della Repubblica, i carabinieri del reparto operativo – nucleo investigativo di Caserta hanno eseguito un’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di sei indagati e degli arresti domiciliari nei confronti di altri sette, tutti ritenuti responsabili, a vario titolo, di estorsione (art. 629 C. P.), Concussione (art. 317 C. P.), Illecita concorrenza con violenza o minaccia (art. 513 Bis c. P.), Calunnia (art. 368 Bis c. P.), Favoreggiamento personale (art. 378 C. P.),

Riciclaggio (art. 648 Bis c. P.), Con l’aggravante del metodo mafioso (art. 7 L. 203/91).Le persone tratte in arresto si identificano in Cosentino Giovanni, Cosentino Nicola, Cosentino Antonio, Falconetti Vincenzo, Letizia Giacomo, Schiavone Vincenzo, tutti funzionari dell’ufficio tecnico del Comune di Casal di Principe, Letizia Luigi, funzionario della Regione Campania, Adamiano Giovanni, Sorrentino Bruno, dipendenti della Kuwait Petroleum Italia, Zagaria Pasquale, Zagaria Antonio, S. M. P.

L’indagine, svolta dal 2011 ad oggi, ha consentito di ricostruire l’illecita attività di gestione di impianti di distribuzione carburanti svolta dalle società “Aversana petroli”, “Aversana gas” e “Ip service”, cui sono interessati, Antonio, Giovanni e Nicola Cosentino. Gli indagati, con il concorso di dirigenti pubblici, funzionari regionali e del comune di Casal di Principe, nonché con la complicità di funzionari della società petrolifera Kuwait petroleum italia (Q8), due dei quali destinatari del provvedimento cautelare, si assicuravano il rapido rilascio di permessi e licenze per la costruzione degli impianti, anche in presenza di cause ostative.

Gli stessi, attraverso un sistema di coercizioni in danno di amministratori e funzionari pubblici locali, costringevano le pubbliche amministrazioni competenti (comune di Casal di Principe e Regione Campania) ad adottare atti amministrativi illegittimi per impedire o rallentare la creazione di altri impianti da parte di società concorrenti. Di estrema importanza, al fine della compiuta ricostruzione dei fatti, é stata la collaborazione della parte offesa Luigi Gallo, titolare di una stazione di servizio in corso di costruzione in Villa di Briano, le cui dichiarazioni accusatorie hanno trovato ampi e significativi riscontri nelle investigazioni svolte dalla polizia giudiziaria.

La vicenda, tuttavia, ha formato oggetto anche di dichiarazioni di collaboratori di giustizia, l’approfondimento delle quali ha richiesto accertamenti particolarmente complessi che, partendo dall’acquisizione della copiosa documentazione riguardante l’apertura di due impianti di distribuzione, sia presso il comune di Casal di Principe (per quanto attiene i Cosentino) che presso il comune di Villa di Briano (per quanto riguarda il Gallo) sono proseguiti con attività d’intercettazione e di escussione sia della parte offesa che di coloro che, a vario titolo, avevano preso parte alle attività istruttorie relative al rilascio delle autorizzazioni richieste dal Gallo e dai Cosentino.

Il nucleo essenziale della vicenda (integrante delitti di estorsione e di concorrenza illecita) ruota intorno alla pratica di autorizzazione, ottenuta da Gallo Luigi dal comune di Villa di Briano, alla apertura di un impianto di carburanti, autorizzazione che di fatto paralizzava la possibilità per i fratelli Cosentino di averne una analoga dal confinante comune di Casal di Principe per ragioni legate alla mancanza della distanza minima di 5 km richiesta dalla normativa dell’epoca.

Antonio, Giovanni e Nicola Cosentino istigavano, allora, Falconetti Vincenzo e Schiavone Vincenzo, dirigenti dell’utc di Casal di Principe a rilasciare comunque ed illecitamente all’Agip petroli (società partner dei Cosentino ai quali in seguito avrebbe ceduto l’impianto e volturato le licenze) un’autorizzazione edilizia (le successive varianti in corso d’opera e l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto) con palesi vizi di legittimità ed in mancanza dei principali pareri previsti dalla legge (vv. Ff., Anas), al fine di indurre il Gallo a recedere dalla sua iniziativa imprenditoriale.

Le minacce nei confronti della persona offesa sono state reiterate nel tempo, anche dopo l’entrata in vigore della legge numero 133/2008, con cui il settore della distribuzione di carburanti era stato liberalizzato, sicché la apertura di nuovi impianti non poteva più essere bloccata per via amministrativa attraverso il meccanismo del rispetto delle distanze minime fra impianti. Cosentino Giovanni e Nicola, attraverso minacce dirette nei confronti del Gallo ed indirettamente, attraverso l’utilizzazione strumentale del rapporto preferenziale e di sostanziale assoggettamento da essi instaurato con l’Adamiano e il Sorrentino, funzionari e rappresentanti di zona della Kuwait petroleum italia, in più occasioni, minacciavano e intimidivano il Gallo, condizionandolo nella realizzazione della propria attività economica.

Le indagini hanno consentito di accertare, l’esistenza di analoghi episodi così da evidenziare un vero e proprio ‘sistema’ criminoso capace di incidere profondamente sul regolare andamento del mercato ed hanno soprattutto evidenziato una illecita posizione di vantaggio, in cui si trovavano ad operare le ditte riconducibili alla famiglia Cosentino, derivanti da tre diversi e convergenti fattori: – in primo luogo, dal ‘canale privilegiato’ di cui questa poteva godere nella interlocuzione con le pubbliche amministrazioni preposte al rilascio delle licenze edilizie e amministrative; si è infatti accertato che gli interessi della Aversana petroli e delle imprese collegate sono stati tutelati attraverso l’espletamento di pratiche amministrative sempre veloci e prive degli ostacoli burocratici generalmente frapposti ai concorrenti, sfociando in alcuni casi nell’omissione della verifica della regolarità delle stesse.

In questo ambito si è rivelato decisivo il potere politico di Nicola Cosentino e quello criminale promanante dal rapporto stabile che l’ex parlamentare ha potuto vantare con il clan dei Casalesi. In secondo luogo, dalla possibilità di poter negoziare con le società petrolifere operanti su scala internazionale, specie la Kuwait petroleum italia (q8), in posizione analogamente privilegiata, sia per la notevole potenza economica di cui sono capaci le società dei Cosentino, sia per l’influenza politica e criminale della famiglia, che consente al colosso dei petroli di fare affidamento su gestori che garantiscono al massimo grado il buon andamento degli esercizi di distribuzione del carburante, pur in una zona controllata dalla criminalità organizzata. Con ciò determinandosi, di conseguenza, una situazione di notevole svantaggio per le iniziative private provenienti da altri imprenditori del settore i quali, o sono stati costretti a rinunciare alla propria impresa (come nel caso di Gallo Luigi) o sono stati costretti a realizzarla in partnership con gli stessi Cosentino (come nel caso di Vozza Francesco o del c. Di G. Amodio Piero, gestori di impianti in Casagiove).

In terzo luogo, dallo stabile rapporto di cointeressenza di Nicola Cosentino ed in misura minore anche del fratello Giovanni con esponenti del clan dei Casalesi, con alcuni dei quali fra l’altro sussistono rapporti di parentela e/o affinità documentata dalle ordinanze di custodia cautelare già contestate all’ex parlamentare per gravissimi reati e dalla contestazione, operata in questa sede, in danno di Giovanni Cosentino, di riciclaggio del denaro del clan attraverso il sistema del cambio assegni. Dall’indagine è emerso che i vertici del clan avevano imposto agli affiliati il divieto di operare estorsioni ai danni degli impianti riconducibili ai Cosentino (così, ad esempio, l’impianto gestito dal c. Di g. Amodio in Casagiove, l’impianto gestito da Piccolo Giuseppe in San Cipriano d’Aversa), a differenza di quanto avveniva per i loro concorrenti. In atti è infatti documentata una estorsione di notevole entità operata dal clan Zagaria nei confronti di Gallo Luigi.

La contestazione prende in esame una serie di condotte tenute dagli indagati, anche in tempi diversi. In particolare Cosentino Nicola e Stasi Maria Elena, convocavano il sindaco di Villa di Briano, Zippo Raffaele, nell’ufficio del prefetto di Caserta, al fine di intimargli di provvedere alla rimozione dall’incarico del tecnico comunale geom. Nicola Magliulo, colpevole sia di avere contribuito al rilascio della autorizzazione al Gallo che di avere resistito alle incessanti pressioni esercitate dai Cosentino e da Letizia Luigi per revocarla, pena azioni ritorsive del Cosentino e della stessa prefettura contro l’amministrazione comunale di Villa di Briano.

Antonio e Giovanni Cosentino, unitamente a Letizia Luigi, esercitavano, in modo coordinato con l’azione posta in essere da Nicola Cosentino e dal funzionario prefettizio Stasi, indebite ed illecite pressioni, sia sul sindaco che su tutti gli addetti dell’utc di Villa di Briano (Tornincasa e Magliulo), affinché si addivenisse alla revoca-sospensione dell’autorizzazione edilizia del Gallo; Antonio Cosentino inoltre presentava una denuncia strumentale presso la autorità giudiziaria di Santa Maria Capua Vetere nella quale, venivano evidenziati presunti abusi dell’amministrazione comunale di Villa di Briano atti a favorire il Gallo nel rilascio di licenze relative al suo distributore, denuncia che seppure in seguito archiviata, nell’immediato determinava un pronto accesso della pg presso gli uffici del comune di Villa di Briano per acquisire atti ed informazioni relativi alla pratica dl Gallo, con conseguente ulteriore rafforzamento dello stato di soggezione indotto nella pa di Villa di Briano.

Dalle indagine è emersa dunque la spregiudicatezza dei fratelli Cosentino nelle gestione del loro potere economico e l’asservimento a tale scopo del concorrente potere politico accumulato da Nicola Cosentino e del rapporto di scambievole interesse con esponenti del clan dei Casalesi. Quanto alle esigenze cautelari, il Gip ha ritenuto significativo il fatto che Nicola Cosentino si sia attivamente interessato per l’andamento degli affari delle imprese di famiglia, circostanza finora sempre negata dallo stesso indagato e l’ulteriore circostanza costituita dalle risultanze dell’analisi di alcuni recenti tabulati telefonici che danno atto dei frequenti contatti del Cosentino, anche nel periodo in cui era agli arresti domiciliari, con importanti esponenti della politica e delle istituzioni locali e nazionali, comprovandosi in tal modo il persistente svolgimento, da parte dello stesso, di attività politica.

Determinante è stata altresì considerata l’attività di inquinamento probatorio posta in essere da Giovanni Cosentino in concorso con Reccia Enrico, concretizzatasi nella presentazione di una querela, da parte del primo, fondata sulla registrazione di un colloquio eseguita dal secondo in maniera preordinata e su istigazione dello stesso Cosentino, volta a screditare il Gallo. Il Gip ha espressamente escluso qualsivoglia volontà diffamatoria e calunniatoria da parte di quest’ultimo. Al Cosentino Giovanni è stata poi contestata una continuata attività di riciclaggio in favore del clan dei Casalesi, svolta attraverso il meccanismo del cambio degli assegni di provenienza illecita con denaro contante. In sostanza, così come è emerso da plurime e convergenti dichiarazioni, esponenti di primo piano del clan casalese, incassati – a seguito di attività illecite (per lo più estorsive ed usurarie) – titoli ed assegni (talora post-datati) direttamente, o attraverso loro incaricati, hanno consegnato gli stessi al Cosentino ricevendone in cambio, nel giro di pochi giorni, moneta contante di valore corrispondente. Si è trattato di un sistema attraverso cui il Cosentino, stabilmente, ha agevolato il sodalizio casalese che è stato rifornito di denaro sicuro ed immediatamente utilizzabile.

A Pasquale e Antonio Zagaria ed a S. M. P. (noto imprenditore di Villa Literno) sono state contestate due ipotesi estorsive, la prima relativa ad una tangente di dieci milioni di lire, ed all’imposizione dell’affidamento dei lavori di scavo e realizzazione nel sito destinato ad ospitare l’impianto di carburanti del Gallo alle imprese gestite di fatto dai fratelli Zagaria Pasquale ed Antonio, con il pagamento di una somma complessiva di circa centomila euro; la seconda legata al tentativo di costringere Gallo Luigi a mantenere la società che aveva iniziato con S. M. P. e che invece il Gallo aveva deciso di sciogliere proprio a seguito dei contrasti sorti in relazione alle richieste estorsive formulate dagli esponenti del clan Zagaria. Durante l’esecuzione dei provvedimenti sono state eseguite anche perquisizioni a soggetti coinvolti nella presente vicenda investigativa, ma non destinatarie di misura cautelare, attraverso cui è stato possibile rinvenire documenti utili al proseguo delle indagini.

Dei 13 provvedimenti di custodia cautelare due saranno notificati a Zagaria Antonio e Pasquale (fratelli del più noto Michele), già detenuti per altra causa”.

A proposito di Don Diana

E della memoria che non va semplicemente commemorata ma soprattutto esercitata, si parla in queste ore dell’intervista che Augusto Di Meo ha rilasciato a corriere.it. Di Meo è il testimone oculare dell’omicidio di Don Peppe Diana (avvenuto nella chiesa di San Nicola il 19 marzo del 1994 a Casal Di Principe) che subito dopo l’omicidio per mano della camorra ha deciso di denunciare. E’ sempre la vecchia solita storia dei cittadini che si ritrovano a rispettare la legge per poi navigare tra la solitudine e un eroismo che reca solo problemi. Forse Don Diana avrebbe voluto che ci si prendesse cura di quelli che hanno preso alla lettera il suo insegnamento, oltre alla celebrazione annuale della sua morte. No?

Camorra, Stato e quell’altra trattativa

La fonte è il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti:

«In quegli anni (era il 1981, ndr) un coraggioso giudice istruttore, Carlo Alemi, nello svolgere le indagini venne posto in un assoluto e grave isolamento, addirittura con un ambiente ostile come quello della Procura dell’epoca, che gli remava contro». «Quando, dopo anni, pentiti del calibro di Pasquale Galasso e Carmine Alfieri conffrmarono che a trattare con Raffaele Cutolo e con le Brigate Rosse furono apparati dei servizi segreti – ha proseguito Roberti – noi pm recuperammo l’istruttoria e la sentenza-ordinanza scritta da Alemi, avendo totale conferma di quanto egli era riuscito ad accertare. E questa fu la prima vera “trattativa” tra Stato e mafia. La verità è che già in quell’occasione si volle stendere un velo di omertà con la complicità di apparati dello Stato. E fu necessario allora un intervento del presidente Pertini perché non si realizzasse un accordo scellerato con le Br e si riuscisse a spedire Cutolo all’Asinara. Niente, nella storia del nostro Paese è slegato: ma da allora a oggi se grandi passi sono stati compiuti lo si deve anche al sacrificio di magistrati come Livatino, Falcone e Borsellino».

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Non solo pizze: la camorra gioca a calcio con il “principe” Giannini

Giuseppe-GianniniL’ex calciatore della Roma e della nazionale italiana Giuseppe Giannini è tra gli indagati per il reato di frode sportiva con l’aggravante della finalità mafiosa in relazione alla partita Gallipoli-Real Marcianise, disputata nel 2009 e valevole per l’ultima giornata del campionato di Lega Pro Prima divisione, girone B. La circostanza è emersa dalle indagini sulle attività del clan Contini, che hanno portato questa mattina all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 90 persone. Dalle indagini svolte dai carabinieri di Roma è emersa l’attività illecita che sarebbe stata realizzata nel maggio 2009 da Salvatore Righi e dal figlio Ivano, finalizzata a truccare il risultato della partita a favore del Gallipoli, che con la vittoria guadagnò la promozione diretta in serie B.

La pizza della camorra

ciro-slide-31Maxi operazione questa mattina all’alba della Direzione Investigativa Antimafia contro il clan camorristico dei Contini.

In Campania, Lazio e Toscana sono in corso di esecuzione ordini di arresto per 90 persone e il sequestro di beni per un valore di 250 milioni. Sono tutte accusate di far parte della famiglia camorristica considerata fra le più influenti e potenti a Napoli.

Si tratta della più importante indagine mai realizzata con riguardo alle complessive attività criminali del clan camorristico Contini ed alle operazioni di reinvestimento economico di gruppi camorristici in attività d`impresa, non solo a Napoli ed in Campania, ma anche a Roma ed in Toscana.

Roma si è svegliata con una maxi operazione in corso: coinvolte numerose attività commerciali legate alla malavita, molto frequentate, anche da turisti, perché si trovano in zone molto strategiche. Solo nel centro della capitale sono stati messi i sigilli a 25 attività, tra bar e ristoranti.

Nel mirino sono finiti la gran parte della catena “Pizza Ciro” e “Ciro pizza”, collegati al riciclaggio delle famiglie camorriste.

Uno dei 90 destinatari della misura cautelare emessa nell’ambito di indagini coordinate dalla Direzione nazionale antimafia sul reimpiego di capitali illeciti da parte del clan Contini si è suicidato. L’uomo, un
43enne che abitava in via Banfi a Roma, ha detto alle forze dell’ordine che gli notificavano il provvedimento di sentirsi male e di voler prendere un bicchiere d’acqua, ma ha aperto la finestra e si è lanciato nel vuoto.

L’operazione è coordinata dalla Direzione nazionale antimafia e dalle Direzioni distrettuali di Napoli, Roma e Firenze. A eseguire gli ordini della Dia sono stati impiegati personale della squadra mobile della Questura e del Gico della Gdf di Napoli, dei Carabinieri di Roma, della polizia e della Gdf di Pisa.

Il clan Contini aveva trovato un modo molto singolare per riciclare i soldi del traffico di droga e della contraffazione. Oltre agli investimenti nei ristoranti e nei negozi di lusso, la cosca di Eduardo Romano e Patrizio Bosti aveva acquistato aree di servizio. Nella notte ne sono state sequestrate trenta in tutta Italia, molte delle quali sono a Napoli. Cento dei 250 milioni di euro sono stati trovati nella disponibilità degli affiliati arrestati nella notte, così come auto di lusso e soprattutto orologi preziosi.