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corruzione

La Lega è cosa loro

Si sciacqui la bocca chi accosta la Lega alla mafia» dice Matteo Salvini in quasi tutte le conferenze stampa degli ultimi giorni. E una schiera di cronisti proni pronta a ritrasmettere a tutto volume queste parole del ministro dell’Interno, come se bastasse la sua autoassoluzione per nascondere il marcio che continua ad uscire da un partito che è riuscito nella miracolosa impresa di rivendersi nuovo nonostante decenni di berlusconismo e un presente che fa accapponare la pelle.

L’arresto di Paolo Arata, ad esempio, ha che fare con la mafia fin dall’accusa. Si rimane garantisti, certo, e l’arresto non equivale a una condanna ma l’accusa di intestazione fittizia, con l’aggravante di mafia, corruzione e autoriciclaggio è bell’e scritta, e il fatto che secondo i magistrati lo stesso Arata sia socio occulto del re dell’eolico Vito Nicastri fa pensare inevitabilmente alla criminalità organizzata.

Sono anni che Vito Nicastri viene considerato la testa di legno del boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro e sono anni che i giudici di Palermo lo ritengono uno dei finanziatori della sua latitanza oltre che essere il suo prestanome. Non so come il ministro Salvini chiamerebbe un’indagine del genere m…

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola dal 21 giugno 2019


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È morto De Michelis ma non è cambiato nulla

Ebbene sì, anche Gianni De Michelis da morto è stato fatto santo. E vabbè, funziona così qui da noi: muore qualcuno e diventa una brava persona. Che abbia patteggiato 1 anno e 6 mesi per corruzione sulle autostrade venete e che abbia patteggiato 6 mesi nello scandalo Enimont non interessa nessuno. In quest’epoca tutta passata allo specchietto retrovisore ci ritroviamo perfino a rimpiangere politici che intascavano mazzette, prenotavano aerei per portarsi in giro qualche dozzina di fanciulle e che si arricchivano con la politica. Che popolo straordinario che siamo.

Come se Tangentopoli e l’implosione del Psi siano stati semplicemente una passeggiata e come se le condanne fossero fumus persecutionis Gianni De Michelis viene onorato come personaggio di un politico che non c’è più. Eppure non preoccupatevi. È ancora tutto qui. Avete letto le parole del procuratore Francesco Greco sui 43 arresti di settimana scorsa? «In Lombardia, politici locali e imprenditori si appoggiano, e a volte sono collusi, con cosche della ‘ndrangheta», presente sul territorio. È emersa infatti una sinergia tra cosche e imprenditori”.

Sono cambiati gli interpreti ma lo spartito sembra essere sempre lo stesso. Sono passati ventisette anni da Tangentopoli ma la differenza sostanziale è che ciò che si faceva prima per il partito ora si fa preferibilmente per accumulo personale. E ci siamo abituati talmente tanto che non ci facciamo più caso. Non hanno creato scandalo i quarantanove milioni di euro spariti della Lega figurarsi se non rimpiangiamo De Michelis. È naturale, verrebbe da dire.

La corruzione, la politica, pezzi della criminalità organizzata continuano ad andare a braccetto (aspettiamo con ansia l’evoluzione del caso Siri) solo che ora non ci si vergogna nemmeno più: assuefatti al malaffare ci siamo abbassati a sperare semplicemente nel buon cuore di chi ci governa ma con una buona narrazione anche un Comune decimato dalle inchieste come quello di Roma alla fine riesce ad uscirne pulito come se nulla fosse.

Provate a pensarci, oggi nessuno si scomoderebbe nemmeno a lanciare monetine. Una frase indignata, e via, in attesa dei prossimi che risultino convincenti nel proporci un cambiamento. E tutto si fa superficialità e immagine.

E intanto la politica va a ramengo. E il Paese, ovviamente, dietro.

Buon martedì.

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Attilio Fontana: il governatore quasi “corrotto” a sua insaputa


Nella bufera giudiziaria in atto in Lombardia, il governatore della Lombardia Attilio Fontana è parte offesa per quanto riguarda un presunto tentativo di istigazione alla corruzione nei suoi confronti, ma risulta indagato per abuso d’ufficio per un incarico assegnato a un suo socio di studio legale. Un Presidente di Regione che non si accorge di subire un tentativo di corruzione è assolutamente inadatto a ricoprire l’incarico che si trova a svolgere. Fontana, comunque vada a finire l’eventuale processo, ha dimostrato di essere un inetto.
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Arresti in Lombardia: altro che locomotiva d’Italia


Novantacinque persone indagate a vario titolo per associazione per delinquere aggravata dall’aver favorito un’associazione di tipo mafioso, finalizzata a corruzione, finanziamento illecito ai partiti, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, false fatturazioni per operazioni inesistenti, auto riciclaggio e abuso d’ufficio. Ma davvero La Lombardia è la locomotiva d’Italia? Ma davvero non sarebbe il caso di tenere gli occhi ben aperti prima di magnificare una regione che ormai da un decennio si trascina di arresto in arresto?
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Caro Salvini, per combattere la mafia ti bastava una telefonata

Senza bisogno di sfilare per le strade di Corleone, tra l’altro giocando sull’assioma Corleone=mafia che è il giochetto più stupido e ignorante sulla questione mafie oggi in Italia, Matteo Salvini poteva fare una telefonata al suo sottosegretario Armando Siri per dimostrare di voler combattere efficacemente la mafia senza bisogno di scomodare le forze di Polizia (impegnate a scorazzarlo nella sua campagna elettorale permanente piuttosto che occuparsi della sicurezza del territorio).

Dentro la vicenda Siri (e lo diciamo sciacquandoci la bocca mica per la Lega ma per l’orrore di cui sono imbevuti gli atti processuali) ci sono già dei fatti, al di là della presunta corruzione che dovrà essere poi provata in tribunale, che puzzano di mafia lontano un chilometro ed è un dispiacere che il ministro dell’Interno abbia deciso di non occuparsene preferendo l’ennesima sfilata.

Nicastri (colui che chiese e ottenne dall’imprenditore Arata la promessa di inserire una nuova norma per il biometano) aveva già pronta una società ad hoc per sfruttare l’eventuale emendamento di governo. Questo è un fatto. Ed è un fatto che nelle intercettazioni Arata (grazie anche al ruolo del figlio all’interno della Lega) abbia promesso quella norma in cambio di denaro. Questi sono fatti su cui il ministro Salvini non può fare finta di niente, bontà sua.

Così come non può fingere di non sapere che Nicastri (per diretta corrispondenza suggeritore della norma che avrebbe dovuto fare passare la Lega) sia ritenuto un prestanome di Matteo Messina Denaro e uno dei finanziatori della sua latitanza.

C’è quindi una questione giudiziaria e una questione di opportunità che il ministro ha a disposizione per “liberare il Paese dalle mafie” come promette da mesi e come ha ripetuto pur di non parlare della Festa della Liberazione.

Salvini vuole sconfiggere la mafia? Perfetto, provi a capire perché il biometano per qualcuno andava insistentemente inserito nel contratto e risulterà utile come non lo è mai stato per scoprire che la mafia non sta a Corleone ma si infila tra i colletti bianchi che fungono da anelli di congiunzione con la politica, quelli stessi che già Falcone e Borsellino avevano capito come fossero ben più indispensabili dei mafiosi con la coppola e la lupara.

Farebbe così, un ministro dell’Interno. Chiamerebbe il suo sottosegretario, chiederebbe spiegazioni e ce ne darebbe conto.

Buon venerdì.

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A proposito della Libia

Il solito bravissimo Nello Scavo per Avvenire:

Restano ancora molte domande sul “dirottamento” della petroliera con 108 migranti sbarcati a Malta. Gli investigatori de La Valletta stanno riesaminando le dichiarazioni dell’equipaggio, e in particolare la posizione del comandante libico. Intanto dalla Libia arrivano altre accuse ufficiali sul trattamento inumano riservato dalle autorità ai migranti.
A La Valletta su una cosa le indagini concordano: i migranti non volevano tornare in Libia ed erano disposti anche a gettarsi dalla nave. Timori più che fondati. Dopo le smentite di Onu e Ue al ministro Salvini, che in una direttiva aveva considerato la Libia come «Paese affidabile», arrivano adesso nuove valutazioni dalla missione Onu a Tripoli e dall’Altro commissariato per i diritti umani, che descrivono condizioni orribili.
Il 21 marzo nel corso di un aggiornamento nella sede Onu di Ginevra, il segretario generale aggiunto per i Diritti umani, Andrew Gilmour, ha rinnovato la preoccupazione: «I migranti vengono sottoposti a “orrori inimmaginabili” dal momento in cui entrano in Libia». Gilmour ha confermato la veridicità della relazione dell’Unsmil, la missione delle Nazioni Unite a Tripoli, che a dicembre aveva documentato «gravi violazioni dei diritti umani e abusi sofferti da migranti per mano di funzionari statali e membri di di gruppi armati, così come le atrocità commesse dai trafficanti». La quotidianità per i migranti è fatta di continue «torture e maltrattamenti» che anche nei centri di detenzione governativi «continuano senza sosta». 

Gilmour ha anche riferito di avere incontrato in Niger nei giorni scorsi un gruppo di «migranti e rifugiati recentemente liberati dalla detenzione in Libia». Ognuno di loro, «donne, uomini, ragazze e ragazzi, era stato stuprato o torturato, molti ripetutamente con scariche elettriche. Tutti hanno testimoniato sulla tecnica estorsiva diffusa, in base alla quale i torturatori costringono le vittime a chiamare le loro famiglie a cui fanno ascoltare le urla dei propri cari che, minacciano, continueranno fino a quando pagheranno un riscatto». Il giorno prima, riferendo davanti al Consiglio di sicurezza Onu a New York, l’inviato del Palazzo di vetro a Tripoli, Ghassam Salamé, ha confermato il deterioramento delle condizioni di vita per i migranti e per i libici: «Si stima che 823.000 persone, inclusi migranti e 248.000 bambini, abbiano bisogno di assistenza umanitaria in Libia». Parole che raramente ottengono una reazione delle autorità di Tripoli, al contrario di quanto avvenuto con una intervista nella quale Salamé accusava di corruzione la classe politica del Paese. Un nervo scoperto che ha visto reagire un’alleanza inedita. Di «insulto» hanno parlato l’Alto consiglio di Stato libico (Hsc) la Camera dei Rappresentanti (Hor), organismi che di solito si danno battaglia ma che davanti all’accusa di arricchirsi grazie alla propria posizione, hanno ritrovato l’unità. Salamé ad Al Jazeera aveva affermato che «i leader politici in Libia sono corrotti in maniera indicibile. Usano i loro posti per prendere il denaro e investirlo a loro beneficio all’estero».
L’attenzione internazionale, però, è spostata su Malta e il “dirottamento” di cui sono accusati i migranti. Il tribunale della Valletta ha confermato gli arresti con l’accusa di terrorismo per tre delle persone fermate al momento dello sbarco del mercantile “El Hiblu 1”, dirottato verso Malta mentre stava apparentemente riportando verso la Libia un gruppo di 108 naufraghi. Si tratta di un 19enne e due minorenni di 16 e 15 anni. Secondo l’accusa, i tre hanno preso possesso della nave «con minacce e intimidazioni». Fonti militari maltesi dicono che non sono state però trovate armi e non è stata opposta alcuna resistenza al momento dell’abbordaggio da parte delle forze speciali maltesi. Secondo il codice penale maltese il dirottamento di una nave è un «atto di terrorismo» ed è questa l’accusa che è stata confermata oggi a carico dei tre arrestati.
Il capitano della nave non è indagato ma fonti di polizia hanno detto al “Times of Malta” di «non poter escludere» che il comandante libico abbia fornito una versione di comodo, e potrebbe rischiare l’accusa di traffico di esseri umani.

La vergognosa vicenda di Concita De Gregorio, raccontata da Concita

Non me ne vorrà Repubblica se riporto per intero l’incedibile vicenda dell’ex direttrice de l’Unità. Parliamo tanto di libertà di stampa ma poi quando c’è da perdersi nei gangli della vecchia burocrazia stiamo tutti zitti. E magari sarebbe tempo che il PD battesse un colpo. Ecco qua:

(di Concita De Gregorio, la Repubblica, 10/02/2019) Questa storia non riguarda me, riguarda voi. Servono sei minuti di attenzione, so che sono molti. Vi chiedo di rischiare. Il tema è la libertà di informazione. Non vi fermate. Pensate allo spot del Super Bowl, quello del Washington Post: «La democrazia muore nell’oscurità». È su Youtube: «C’è qualcuno che racconta i fatti a ogni costo». Gli americani fanno queste cose meglio di tutti al mondo. «La conoscenza ci dà potere. Sapere ci aiuta a decidere. Conoscere ci libera». I giornali si fanno per chi è governato, non per chi governa. Nella pratica (anche da noi, come ovunque) la minaccia a chi «racconta i fatti a ogni costo» arriva in due modi. Diretto. Una pistola puntata. È facile da riconoscere. C’è un criminale che dice: ti ammazzo. C’è qualcuno da proteggere, una scorta da dare. «Non si può togliere», quattro parole. «Restituitela», una parola. Sono tanti i giornalisti coraggiosi sotto scorta. Non serve nominarli, vi vengono a mente subito, siamo pronti in ogni istante a difenderli. Secondo modo. Minaccia economica. Subdola, invisibile. Non toglie la vita, toglie quello che serve per vivere. Per indicarla non c’è un hashtag che generi like. Il potere ha dalla sua una legge di settant’anni fa. 1948. Consente a chi ha più soldi di minacciare chi ne ha meno: ti tolgo tutto, e poi vediamo se hai ancora voglia di parlare. Quando un giornale fa il suo lavoro il potere prova a zittirlo. Ci sono due modi. Primo: querela per diffamazione. Hai detto di me il falso, ti querelo. La querela è penale, dunque personale: si può querelare solo chi ha scritto la cosa. Il tribunale accerta e chi ha sbagliato paga. (Mi costa parlare di me, ma: in trentacinque anni di lavoro non ho mai perso, personalmente, una causa per diffamazione). Secondo modo: la causa civile per risarcimento danni. Questa si può esercitare anche verso chi ha responsabilità “oggettive”: l’editore, che pubblica, e il direttore, che ha il dovere di controllare quel che si pubblica. Si chiama responsabilità per omesso controllo ed è giusta (anche se in giornali di 40 pagine è tecnicamente impossibile controllare tutto. Il direttore delega. Se sbaglia a delegare paga). Chi ha molto potere usa come minaccia le azioni civili. Fa continuamente causa a chi gli dà fastidio. Esempio: un presidente del Consiglio, poniamo, miliardario, fa causa a un sito chiedendo ogni volta un milione di eu- ro. Lo fa anche se sa di aver torto: anzi, soprattutto. Si dicono “azioni temerarie”. La Fnsi, quando Santo della Volpe la guidava, se ne è occupata strenuamente. Poi Ossigeno, piccola associazione di grande coraggio. Intimidazione, perché i soldi sono pignorati in attesa del giudizio definitivo. Cioè: intanto ti congelo la somma, poi aspettiamo di vedere chi ha ragione. Possono passare dieci, vent’ anni. Chi deve garantire? L’editore, naturalmente. Perché se l’editore guadagna non ripartisce gli utili tra i dipendenti. Ugualmente, se perde non può scaricare i suoi debiti. Rischio d’impresa, si chiama. Ora: quella legge di 70 anni fa dice che il cronista, il direttore e l’editore sono responsabili “in solido”. Vuol dire che ogni parte deve garantire per l’intero. Se ci sono tutti si divide, se qualcuno manca: quello che c’è paga per tutti. È il mio caso: pago da otto anni la parte dovuta dall’editore. Questa legge deve essere cambiata. Mette in pericolo chi scrive e chi legge, voi. Settant’anni fa il mondo era un altro. Non c’erano Internet, il web. C’era il lavoro dipendente tutelato. Oggi un cronista che denuncia la tratta di esseri umani, le mafie, la corruzione politica lavora spesso “pagato a pezzo”. Nessuno è in grado di sostenere personalmente l’offensiva economica dei poteri che denuncia. È un sistema che dissuade il giornalista dal “raccontare i fatti a ogni costo”. Due parole, infine, sul caso Unità. Sono stata chiamata a dirigere il giornale da Renato Soru, l’editore, nel 2008. Non avevo tessere di partito, mai avute. Mi sembrava giusto fare la mia parte, diciamo così, di “servizio civile”. Non mi è convenuto: guadagnavo di più prima, ho guadagnato — dopo — assai meno degli uomini che fanno lo stesso lavoro. L’ho diretto dal 2008 al 2011. In quei tre anni era al governo il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Il giornale ha dato fastidio e ha subìto moltissime azioni temerarie. Negli anni successivi è andato al governo il centrosinistra. Le cause civili contro l’Unità sono diminuite, è comprensibile. Dal 2008 al 2011 l’Unità ha condotto battaglie di mobilitazione civile, grazie a una redazione e a collaboratori generosi e appassionati, che sono arrivate a coinvolgere dieci volte il numero dei suoi lettori. Quando vendeva 50mila copie raccoglieva mezzo milione di firme. Di tante campagne e per tutte voglio ricordare quella condotta da Alessandro Leogrande, che scriveva per il giornale, contro la legge Bossi-Fini: portò in piazza migliaia di persone. Dopo di me e prima della chiusura dell’Unità sono passati sette anni e sei direttori. Dal 2011 ho affrontato in tribunale centinaia di udienze e pagato in attesa di giudizio somme dovute dall’editore “cessato”. L’editore, Nie, difatti non c’è più. Se anche facessi, come dovrei, azione di rivalsa non troverei nessuno. Chi ha intentato causa e pignorato si chiama Silvio o Paolo Berlusconi, generale Mori, Angelucci, Mediaset, potrei continuare ma è chiaro. In molti casi, nei vari passaggi di proprietà del giornale, chi aveva una causa in corso e non faceva più parte della redazione non è stato avvisato delle scadenze giudiziarie e non si è potuto difendere, trovandosi direttamente di fronte ai pignoramenti. Chi era Nie? Formalmente non il Pd. È tuttavia arduo sostenere, come alcuni dirigenti in questi anni hanno fatto, che il Pd sia estraneo all’Unità: sarebbe incomprensibile anche per gli elettori. Quando Renzi era al governo è stata avanzata una proposta di riforma della legge del ’48: si è “arenata” al Senato. In questi giorni è stata ripresentata. Auguriamoci che abbia miglior sorte in condizioni ostili. Molti mi hanno chiesto in questi giorni perché abbia aspettato tanto a raccontare. È stato perché quel che la vita ti mette di fronte si affronta, direi. Perché la giustizia si cerca in tribunale. I soggetti istituzionali, chi doveva sapere, sapeva. Mi hanno chiesto come mai non mi sia fatta tutelare. L’unica tutela che conosco è quella del rigore nel lavoro. «Dietro ogni sospetto c’è una cattiva intenzione repressa», ci diceva a scuola la prof. Sarebbe un bello slogan per uno spot del Super Bowl. Forse un po’ criptico in tempi di attenzione labile, ma bello.

Lo zelo di Zuccaro (contro le ONG)

A Catania devono essere sparite le emergenze: niente criminalità, niente roghi tossici, niente corruzione, niente mafia, niente di niente. Il procuratore Zuccaro da due anni ha individuato negli sbarchi l’unico vero problema del Paese e fa niente se il suo battersi strenuamente sia utile solo alla pancia di chi sui migranti ha lucrato (fino a diventare il primo partito) e non abbia nessun risultato giuridico: ciò che conta è il rumore.

Da due anni per Zuccaro non esistono mafia e corruzione: l’emergenza si chiama ONG


A Catania devono essere sparite le emergenze: niente criminalità, niente roghi tossici, niente corruzione, niente mafia, niente di niente. Per la stampa (e anche grazie alle avventate dichiarazioni del procuratore Zuccaro) da due anni ha individuato negli sbarchi l’unico vero problema del Paese e fa niente se il suo battersi strenuamente sia utile solo alla pancia di chi sui migranti ha lucrato (fino a diventare il primo partito) e non abbia nessun risultato giuridico: ciò che conta è il rumore.
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“Ecco cosa succede a Vittoria, il mix perfetto di mafia e politica” (di Paolo Borrometi)

(un articolo di Paolo Borrometi sul recente scioglimento per mafia di Vittoria, fonte)

Vittoria è la nona città per popolazione della Sicilia e ospita il Mercato ortofrutticolo più importante del Sud Italia, il secondo d’Italia. Una polveriera, l’ho più volte definita. Baricentrica per molteplici interessi che abbracciano l’intero Paese.

Da qui, da questo splendido lembo di terra, vengono immesse nella filiera nazionale frutta e verdura che poi arrivano sulle nostre tavole, tramite il “triangolo dell’ortofrutta” dei mercati, Milano, Fondi e Vittoria.

Grazie a questa “triangolazione” arriva un pomodoro ciliegino, una melanzana o un frutto, sulla tavola di un milanese, di un veneto, di un romano. Indistintamente.

Provengono dal lavoro e dal sudore della fronte di imprenditori e di braccianti agricoli che, per la stragrande maggioranza, sono onesti lavoratori, ma la contaminazione mafiosa inizia dalla base, sin dalla raccolta, con i caporali.

Il patto che reggeva la pax mafiosa

Le mafie fanno “squadra” e non si fanno la guerra. Così nel ragusano – ed a Vittoria in particolare – si è passati da centinaia di morti ammazzati negli anni novanta, agli accordi di ferro dei nostri anni. Sono diventate una vera e propria holding: stidda e cosa nostra si dividono gli affari locali, la ‘ndrangheta gestisce la cocaina e la camorra (sarebbe più giusto parlare dei casalesi) gestiscono i trasporti (come dimostrano le recenti operazioni di polizia.

L’attenzione delle istituzioni per questo territorio è stata ad “ondate”, così si è passati dal negazionismo o, ancor peggio, dal riduzionismo, fino alla grande attenzione a seguito della strage di San Basilio (2 gennaio 1999). Poi, passati quegli anni, nuovamente poco o nulla. Negli ultimi tre anni, dopo le condanne a morte dei clan vittoriesi nei miei confronti, una nuova ondata di arresti. Ogni operazione aveva sempre come protagonisti i mafiosi inseriti fra la filiera del mercato e la politica, un bubbone che tardava ad esplodere.

La pace viene rotta. Dalla Dia

Tutto cambia nel bel mezzo delle ultime elezioni Amministrative del 2017 quando, dopo il primo turno e prima del ballottaggio, la Finanza di Catania irrompe nella tranquillità del ragusano. Ad essere interessati dagli avvisi di garanzia l’ex sindaco Giuseppe Nicosia, il fratello Fabio (già consigliere provinciale e primo degli eletti al Comune), i due candidati alla carica di primo cittadino, Francesco Aiello (che poi verrà archiviato dalle accuse) e l’attuale sindaco, Giovanni Moscato. Oltre a loro i boss Giovambattista Puccio e Venerando Lauretta, entrambi già condannati per associazione mafiosa, e due pluripregiudicati considerati “vicini al clan” dagli inquirenti.

I pentiti raccontano: c’è un accordo con la politica

Dal lavoro dei finanzieri, per delega della Distrettuale Antimafia di Catania, è emerso con chiarezza l’intreccio affaristico-politico-mafioso. “Ha condizionato e orientato le scelte elettorali anche prima delle elezioni amministrative del 2016”. Si leggeva nel decreto del Giudice delle Indagini Preliminari. A suffragare il quadro, le parole di alcuni collaboratori di giustizia.

I fratelli Nicosia avrebbero ricevuto a Vittoria il sostegno elettorale della “Stidda” sia nelle amministrative del 2006 e 2011, sia nelle regionali e nazionali del 2008 e 2012. Il convogliamento dei voti, secondo quanto venne accertato dalle indagini, sarebbe stato ricompensato con l’assegnazione di appalti e posti di lavoro. Soprattutto negli affari della nettezza urbana e nella filiera del Mercato.

A volte sbagliano. Ma avviene di rado

Un “patto scellerato”. Così che venne definito dagli inquirenti quello con la politica. Mafia che, negli ultimi anni, ha sempre favorito le elezioni dei diversi candidati: prima con Giambattista Ventura e Venerando Lauretta (i due reggenti del clan che mi volevano morto e per questo condannati), poi con Giambattista Puccio (detto “Puccio u ballarinu”). In elezioni in cui venivano candidati proprio i pregiudicati, come il caso di Raffaele Giunta che si ritirò dall’ultima contesa per il consiglio comunale dopo una mia inchiesta giornalistica. Eppure nelle intercettazioni Giunta, nonostante il ritiro, tranquillizzava l’ex sindaco che non avrebbero perso i suoi voti: “per votare a Nicosia io gli do anche il culo… e te lo dico ora… e lo dico sempre”. E Nicosia, indirizzandolo verso il fratello candidato in una lista civica, gli spiegava “dillo che devono votare Nuove idee, no Partito democratico… a volte sbagliano”. A volte sbagliavano, appunto. Ma non sbagliarono.

Il primo sindaco di destra

Vinse il primo sindaco di destra della storia della città, Giovanni Moscato, che per telefono rassicurava gli “amici” dei Nicosia. “Tu gli puoi dire ai picciotti che in questo momento votare me non è tradire i Nicosia è solo stare tranquilli con la famiglia punto e basta”. Con la famiglia, appunto.

Ed infatti i Nicosia, secondo l’accusa, “avrebbero appoggiato Moscato in virtù di un accordo politico con lo stesso, al fine di mantenere la propria egemonia sulle decisioni amministrative”.

Lo scambio politico-mafioso

Tutto fino a giugno di quest’anno quando arrivò l’avviso di conclusione indagine per gli indagati: confermata l’ipotesi di reato relativa allo scambio elettorale politico-mafioso per tre degli indagati fra cui il fratello dell’ex sindaco della città.

Per gli altri politici coinvolti, ovvero l’ex sindaco Nicosia, l’attuale sindaco Giovanni Moscato e due dirigenti del Pd locale, furono contestati episodi di corruzione elettorale. E con l’avviso di conclusione indagini si concluse anche il lavoro della commissione d’accesso al Comune che, nella relazione finale, chiese lo scioglimento per l’ente.

Oggi arriva una risposta

Troppo forti le collusioni con politici che avevano fatto patti con il diavolo, cioè i clan mafiosi. Quei politici che spesso hanno attaccato il lavoro giornalistico di chi cercava di fare solo il proprio dovere. Troppo spesso in solitaria.

Si, perché la mafia in quella zona della Sicilia, la più ricca, non esiste. Quindi come può fare accordi con la politica?
Una domanda che trova la risposta oggi, con la notizia dello scioglimento del Comune, “in ragione delle riscontrate ingerenze da parte della criminalità organizzata”. Così come recita il comunicato stampa ufficiale del Consiglio dei Ministri.