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corruzione

«Non è per questo che gioco a calcio, e non rimarrò seduto a fare niente. Il razzismo non dovrebbe mai, mai essere accettato.»

Mesut Özil ha annunciato la sua intenzione di lasciare la nazionale di calcio della Germania. La sua lettera d’addio vale la pena di essere letta per questioni che esulano dal calcio:

Le ultime due settimane mi hanno dato tempo per riflettere e per pensare agli eventi degli ultimi mesi. Voglio quindi condividere i miei pensieri e i miei sentimenti riguardo a quello che è successo.

Come molte persone, ho origini in più di un paese. Nonostante sia cresciuto in Germania, le radici della mia famiglia sono in Turchia. Ho due cuori, uno tedesco e l’altro turco. Durante la mia infanzia, mia madre mi insegnò a essere sempre rispettoso e a non dimenticare mai da dove venissi, e questi sono ancora i valori a cui penso oggi.

A maggio incontrai il presidente Erdogan a Londra, durante un evento di beneficienza sull’istruzione. C’eravamo incontrati per la prima volta nel 2010, dopo che lui e Angela Merkel avevano guardato insieme la partita tra Germania e Turchia a Berlino. Da allora le nostre strade si sono incrociate molte volte in giro per il mondo. La foto di me ed Erdogan causò un’ampia risposta sui media tedeschi, e nonostante alcune persone mi avessero accusato di mentire e di essere disonesto, l’avevamo scattata senza alcun obiettivo politico. Come ho detto, mia madre non ha mai lasciato che dimenticassi le mie origini, i miei valori e le tradizioni della mia famiglia. Per me fare una foto con il presidente Erdogan non riguardava la politica o le elezioni. Ero io che portavo rispetto all’istituzione più importante nel paese della mia famiglia. Il mio lavoro è fare il calciatore, non fare politica, e il nostro incontro non fu un atto di sostegno ad alcuna politica. Parlammo della stessa cosa di cui abbiamo parlato ogni volta che ci siamo incontrati – il calcio – e del fatto che anche lui fu un calciatore da giovane.

Nonostante i media tedeschi abbiano descritto le cose in maniera differente, la verità è che non incontrare il presidente sarebbe stato un atto irrispettoso verso i miei antenati, che so sarebbero orgogliosi di dove sono oggi. Per me non importava chi fosse il presidente, importava che lì ci fosse il presidente, e basta. Avere rispetto per i ruoli politici è una cosa che sono sicuro che sia la Regina che la prima ministra Theresa May condividano quando Erdogan fa loro visita a Londra. Sia che fosse stato il presidente tedesco o quello turco, le mie azioni non sarebbero state diverse.

So che questo potrebbe essere difficile da capire, visto che nella maggior parte delle culture il leader politico non può essere separato dalla persona. Ma in questo caso è diverso. Qualsiasi risultato fosse uscito dalle ultime elezioni, o da quelle prima delle ultime, mi sarei comunque fatto scattare la foto.

Sono un calciatore che ha giocato in tre dei campionati più difficili al mondo. Sono stato fortunato a ricevere grande sostegno dai miei compagni e dallo staff tecnico mentre giocavo in Bundesliga, nella Liga e nella Premier League. E in più, in tutta la mia carriera, ho imparato a trattare con i media.

Molte persone parlano delle mie prestazioni, molti applaudono e molti criticano. Se un giornale o un opinionista trova delle mancanze nel mio gioco, lo posso accettare: non sono un giocatore perfetto e questo spesso mi motiva a lavorare e ad allenarmi più duramente. Ma quello che non posso accettare sono i giornali tedeschi che danno la colpa alla mia doppia origine e a una semplice foto per un cattivo Mondiale di tutta la squadra.

Certi giornali tedeschi stanno usando le mie origini e la foto con il presidente Erdogan come propaganda di destra per rafforzare la loro causa politica. Per quale altro motivo dovrebbero usare le foto e i titoli su di me come spiegazione diretta per la nostra sconfitta in Russia? Non criticano le mie prestazioni, non criticano nemmeno le prestazioni della squadra, criticano solo la mia discendenza turca e la mia istruzione. Questo supera una linea personale che non dovrebbe mai essere oltrepassata, e i giornali stanno provando a rivoltare la nazione tedesca contro di me.

Quello che trovo deludente è il doppio standard che hanno i media. Lothar Matthaus (capitano onorario della nazionale tedesca) si incontrò con un altro leader mondiale pochi giorni prima e non ricevette alcuna critica dai media. Nonostante il ruolo che ricopre all’interno della DFB (la nazionale tedesca), non gli chiesero di spiegare pubblicamente le sue azioni e lui ha continuato a rappresentare i giocatori della Germania senza che gli fosse rivolto alcun rimprovero. Se i media pensavano che io avessi dovuto lasciare la nazionale ai Mondiali, allora a lui avrebbero dovuto togliere l’onorificenza di capitano onorario, o no? Sono le mie origini turche a rendermi un obiettivo più valido?

Ho sempre pensato che una “partnership” implicasse il fatto di sostenersi, sia durante i momenti buoni che nelle situazioni dure. Ho finanziato un progetto perché i bambini immigrati, bambini provenienti da famiglie povere e non, potessero giocare a calcio insieme e imparare le regole sociali della vita. Ma giorni prima dell’avvio del progetto sono stato abbandonato da quelli che erano i miei “partner”, che non volevano più lavorare insieme a me. Inoltre la scuola ha detto ai miei collaboratori che non mi volevano più lì, perché avevano paura di quello che avrebbero potuto fare i media con la mia foto con il presidente Erdogan, specialmente con la destra in ascesa a Gelsenkirchen [la città tedesca dove è nato Özil]. Questo mi ha davvero ferito. Nonostante fossi stato un loro studente quando ero giovane, mi sono sentito indesiderato e indegno del loro tempo.

Inoltre ho rinunciato a un altro partner. Visto che sono anche uno sponsor della DFB, mi avevano chiesto di prendere parte a video promozionali dei Mondiali. Ma dopo la mia foto con il presidente Erdogan mi hanno escluso dalla campagna e hanno cancellato tutte le attività promozionali che erano state fissate. Per loro non era più una buona cosa essere visti con me e hanno definito la situazione “crisi gestionale”. Tutto questo è ironico, perché un ministro tedesco ha detto che i prodotti promozionali sarebbero stati ritirati. Ma nonostante fossi stato criticato e mi fosse stato chiesto chiesto di giustificare le mie azioni dalla DFB, non mi fu mai chiesta alcuna spiegazione ufficiale e pubblica dallo sponsor della DFB. Perché? Faccio bene a pensare che questo sia peggio di una fotografia con il presidente del paese della mia famiglia? Cosa ha da dire la DFB su tutto questo?

E come ho già detto, i “partner” dovrebbero rimanere vicini in ogni situazione. Adidas, Beats e BigShoe sono stati estremamente leali ed è stato incredibile lavorarci insieme. Hanno superato le polemiche senza senso create dalla stampa tedesca e hanno continuato a sviluppare i nostri progetti in maniera così professionale che mi è davvero piaciuto farne parte. Durante i Mondiali, ho lavorato con BigShoe e ho aiutato 23 bambini a sottoporsi a operazioni di enorme importanza in Russia, cosa che avevo già fatto in precedenza in Brasile e in Africa. Questa per me è la cosa più importante che faccio come giocatore di calcio, ma i giornali non trovano spazio per parlare e sensibilizzare su temi di questo tipo. Per loro il fatto che venga fischiato e che faccia una foto con un presidente è più importante che aiutare i bambini a sottoporsi a operazioni chirurgiche in diverse parti del mondo. Anche loro hanno diversi modi di aumentare la consapevolezza e raccogliere fondi, ma scelgono di non farlo.

La cosa che mi ha frustrato di più negli ultimi due mesi è stato il trattamento che ho subìto dalla DFB e in particolare dal presidente della DFB, Reinhard Grindel. Dopo che uscì la mia foto con il presidente Erdogan, chiesi a Joachim Low [allenatore della nazionale di calcio tedesca] di accorciare le mie vacanze e andare a Berlino per elaborare e diffondere un comunicato congiunto per mettere fine a tutte le speculazioni e chiarire le cose. Nonostante cercassi di spiegare a Grindel i miei valori culturali, le mie origini e quindi le ragioni dietro alla foto, lui si mostrò molto più interessato a parlarmi delle sue visioni politiche e sminuire la mia opinione. Nonostante le sue azioni fossero state paternalistiche, fummo d’accordo che la cosa migliore era quella di concentrarsi sul calcio e sui Mondiali che stavano arrivando. Questo è il motivo per cui non partecipai alla giornata dei media della DFB durante le fasi preparatorie dei Mondiali. Sapevo che i giornalisti mi avrebbero attaccato, parlando di politica e non di calcio, anche se l’intera questione era stata considerata finita da Oliver Bierhoff [ex calciatore e oggi team manager della nazionale di calcio tedesca] in un’intervista televisiva fatta prima della partita contro l’Arabia Saudita a Leverkusen.

Durante quel periodo mi incontrai anche con il presidente della Germania, Frank-Walter Steinmeier. A differenza di Grindel, il presidente Steinmeier fu professionale e sinceramente interessato a quello che avevo da dire sulla mia famiglia, sui miei valori e sulle mie decisioni. Ricordo che l’incontro fu solo tra me, Ilkay [İlkay Gündoğan, calciatore tedesco di origine turca, centrocampista del Manchester City e della nazionale tedesca] e il presidente Steinmeier, con Grindel che si era agitato per non avere avuto la possibilità di promuovere i suoi interessi politici. Mi accordai con il presidente Steinmeier sul fatto di diffondere un comunicato congiunto sulla questione, in quello che doveva essere un altro tentativo di andare avanti e concentrarsi solo sul calcio. Ma Grindel era risentito che non fosse stato il suo team a diffondere il primo comunicato, e seccato che l’ufficio stampa di Steinmeier avesse preso la guida di tutta questa storia.

Dopo la fine dei Mondiali, Grindel è stato messo molto sotto pressione riguardo alle decisioni che aveva preso prima dell’inizio del torneo, e giustamente. Di recente, ha detto pubblicamente che avrei dovuto spiegare ancora una volta le mie azioni e mi ha dato la colpa dei risultati insoddisfacenti della nazionale in Russia, nonostante a me avesse detto a Berlino che era una storia già finita. Sto parlando ora non per Grindel, ma perché lo voglio. Non ho più intenzione di fare il capro espiatorio per la sua incompetenza e incapacità di fare bene il suo lavoro. So che mi voleva fuori dalla nazionale dopo quella foto, ed espresse pubblicamente la sua posizione su Twitter senza nemmeno ragionarci troppo o parlarne, ma Joachim Low e Oliver Bierhoff presero le mie parti e mi difesero. Agli occhi di Grindel e dei suoi sostenitori, sono tedesco quando vinciamo, ma quando perdiamo sono un immigrato. Questo perché, anche se pago le tasse in Germania, dono strutture alle scuole tedesche e vinco i Mondiali con la Germania nel 2014, non vengo ancora accettato nella società. Sono sempre stato considerato “differente”: nel 2010 ricevetti il “Bambi Award” come esempio di integrazione di successo nella società tedesca, nel 2014 ricevetti un “Silver Laurel Leaf” dalla Repubblica federale di Germania e nel 2015 fui “Ambasciatore tedesco del calcio”. Ma non sono tedesco? Ci sono criteri per essere pienamente tedesco che non soddisfo? Il mio amico Lukas Podolski e Miroslav Klose non vengono mai descritti come polacco-tedeschi, perché invece io vengo definito come turco-tedesco? È perché si parla di Turchia? Perché sono musulmano? Penso che il punto sia qui. Se si parla di turchi-tedeschi si stanno già distinguendo le persone che hanno una famiglia che proviene da più di un paese. Io sono nato e mi sono istruito in Germania, quindi perché le persone non accettano che sono tedesco?

Le idee di Grindel si possono trovare anche da altre parti. Bernd Holzhauer (un politico tedesco) mi definì “goat-f*ker [espressione molto offensiva nei confronti dei musulmani, che non ha un equivalente italiano] a causa della mia foto con il presidente Erdogan e per le mie origini turche. Werner Steer, amministratore delegato del teatro tedesco di Monaco, mi disse di levarmi di torno e andare in Anatolia, il posto in Turchia da cui partono molti immigrati. Come ho già detto prima, criticarmi e maltrattarmi a causa delle mie origini è una linea vergognosa da superare, e usare la discriminazione come strumento di propaganda politica è qualcosa che dovrebbe portare immediatamente alle dimissioni di quegli individui irrispettosi. Queste persone hanno usato la mia foto con il presidente Erdogan come un’opportunità per esprimere le loro tendenze razziste che in precedenza avevano nascosto, e questo è pericoloso per la società. Non c’è niente di meglio che il tifoso tedesco che dopo la partita contro la Svezia mi disse, “Ozil, verpiss, Dich Du scheiss Türkensau. Türkenschwein hau ab”, più o meno “Ozil, fottiti merda turca, togliti dalle palle maiale turco”. Non voglio nemmeno citare le e-mail di odio, le telefonate piene di minacce e i commenti sui social media che la mia famiglia e io abbiamo accettato. Tutto questo rappresenta una Germania del passato, una Germania non aperta a nuove culture, e una Germania di cui non sono orgoglioso. Sono fiducioso che molti tedeschi orgogliosi che vogliono una società aperta saranno d’accordo con me.

Riguardo a te, Reinhard Grindel, sono deluso ma non sorpreso dalle tue azioni. Nel 2004, quando eri un membro del Parlamento tedesco, dicesti che il “multiculturalismo è in realtà un mito e una eterna bugia”, votasti contro una legge per la doppia nazionalità e per punire la corruzione, e dicesti che la cultura islamica era diventata troppo radicata in molte città tedesche. Questo è imperdonabile e non si può dimenticare.

Il trattamento che ho ricevuto dalla DFB e da molti altri mi ha portato a decidere di non volere più indossare la maglia della nazionale tedesca. Mi sento non voluto e penso che quello che ho raggiunto fin dal mio esordio internazionale nel 2009 sia stato dimenticato. Persone con idee così razziste e discriminatorie non dovrebbero poter lavorare nella più grande federazione calcistica al mondo, che ha molti giocatori con famiglie con doppia origine. Atteggiamenti del genere semplicemente non riflettono i giocatori che in teoria queste persone dovrebbero rappresentare.

È con enorme dispiacere che annuncio quindi che a causa degli eventi recenti non giocherò più per la Germania a livello internazionale, almeno finché sentirò di subire atteggiamenti razzisti e irrispettosi. Indossavo la maglia tedesca con grande orgoglio ed entusiasmo, ma ora non più. È stata una decisione estremamente difficile da prendere, perché ho sempre dato tutto ai miei compagni di squadra, allo staff tecnico e alle brave persone della Germania. Ma visto che gli alti funzionari della DFB mi hanno trattano in questo modo, offendendo le mie origini turche e trasformandomi in maniera egoistica in uno strumento di propaganda politica, allora basta. Non è per questo che gioco a calcio, e non rimarrò seduto a fare niente. Il razzismo non dovrebbe mai, mai essere accettato.

Due tre cose su Pittella

Veloci, veloci, in attesa ovviamente che si svolga il processo (mentre, per inciso, la questione dei soldi della Lega è già sentenza, vale la pena ricordare): il fatto che due fratelli abbiano in mano una regione (Gianni e Marcello lì sono come Tutankamon stava all’Egitto) è una cosa deplorevole, che non lo vogliano capire quelli del PD lascia più che basiti; la sanità è la cassaforte di ogni presidenza regionale (di soldi e di voti) e sono decenni che sentiamo parlare di iniziative per la trasparenza, poi alla fine non succede mai niente; che la politica regionale decida le nomine nel campo della Sanità è un tema che forse bisognerebbe avere voglia di risolvere una volta per tutte, piuttosto legittimandole, oppure mettendo in atto strumenti che funzionano davvero; le carte della Procura (le sto studiando in questo preciso istante) disegnano per Pittella un ruolo centrale.

Per farsi un’idea vale la pena riprendere qualche pezzo. Come scrive Fiorenza Sarzanini sul Corriere:

«Dobbiamo accontentare tutti»: era questo il suggerimento del governatore della Basilicata Maurizio Pittella per governare il sistema sanitario nella sua Regione. E proprio seguendo questo metodo avrebbe gestito le nomine e gli appalti. Nell’ordinanza di custodia cautelare il giudice evidenzia il «Sistema di corruzione e asservimento della funzione pubblica a interessi di parte su sollecitazione di una moltitudine di questuanti». Poi specifica come «Deus ex machina di questa distorsione istituzionale nella sanità lucana è proprio il governatore Marcello Pittella che influenza le scelte gestionali delle aziende sanitarie e ospedaliere interfacciandosi direttamente con i direttori generali che sono stati nominati con validità triennale dalla sua giunta».

Le intercettazioni rivelano come il Governatore si occupasse di gestire sia le nomine dirette sia i concorsi pubblici. Uno dei metodi utilizzati e svelato dalle indagini della Guardia di Finanza era quello di decidere le assegnazioni dei posti «gonfiando» il punteggio ottenuto dai candidati ma anche falsificando i verbali delle commissioni in modo da far risultare che tutti i componenti fossero presenti.

L’Ansa:

«Il “deus ex machina’ della “distorsione istituzionale” che si è verificata nella sanità lucana è il presidente della regione Marcello Pittella. Lo scrive il Gip di Matera Angela Rosa Nettis nell’ordinanza d’arresto per il governatore della Basilicata sottolineando che Pittella “non si limita ad espletare la funzione istituzionale formulando gli atti di indirizzo politico per il miglioramento e l’efficienza” della sanità regionale, “ma influenza anche le scelte gestionali” delle Asl “interfacciandosi direttamente con i loro direttori generali” tutti da lui nominati»

Il Fatto Quotidiano:

Quinto “collettore” delle raccomandazioni di Pittella – Il commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto (in precedenza direttore generale della stessa Asm) è “il collettore delle raccomandazioni che promanano” da Pittella. Così il procuratore Argentino, nella conferenza stampa sull’operazione, spiega i rapporti tra il governatore e Quinto, in carcere con le accuse di corruzione e turbata libertà degli incanti. Dal 29 maggio 2017, si legge nell’ordinanza, ha saputo di essere intercettato e gli inquirenti ritengono sia stato avvisato dal senatore Salvatore Margiotta che aveva appena incontrato. “Molto altro ancora si sarebbe appreso di tale malgoverno del potere e della funzione pubblica se non ci fossero state illecite ingerenze – si legge nell’ordinanza – Tuttavia due mesi di captazione sono bastati a disvelare le dinamiche interne di una sfrontata gestione di uno dei settori nevralgici della Pubblica amministrazione”. Quinto, da commissario della Asm, intrattiene – secondo gli inquirenti – “significativi rapporti con altre figure politiche e religiose di spicco”, spiega il pm Argentino. E in carcere è finita anche la direttrice amministrativa della stessa Asm, Maria Benedetto.

“La politica nella sua accezione negativa e distorta” – La ratio che muove ed è al centro di questo sistema, scrive ancora il giudice Angela Rosa Nettis, è “sempre la stessa”: vale a dire “la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivoma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale”. E’ la politica infatti “che condiziona pesantemente” la gestione delle Asl lucane “ed in particolar modo le procedure selettive per assumere personale nella sanità”. E questo “non solo al fine di ampliare il consenso elettorale ma anche allo scopo di ‘scambiare’ favoriai politici di pari schieramento che governano Regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania“. E se questo è il quadro, conclude il gip, il “deus ex machina di questa distorsione istituzionale” è proprio il governatore Pittella.

 

La vigliaccheria del forte con i deboli, debole davanti ai forti

«Salvini è stato eletto in Calabria, durante un suo comizio a Rosarno tra le prime file c’erano uomini della famiglie Pesce, storica famiglia della ‘ndrangheta affiliati alla famiglia Bellocco, potentissima organizzazione di narcotrafficanti. Non ha detto niente, da codardo non ha detto niente contro la ‘Ndrangheta. Ha detto che Rosarno è conosciuta nel mondo per la baraccopoli e che quello è il suo problema, un feudo ‘ndranghetista da decenni. Questo è Matteo Salvini»: non poteva dirlo meglio ieri Roberto Saviano, dove sia tutta la vigliaccheria del peggior ministro degli Interni mai avuto in Italia, che ancora una volta monopolizza il dibattito pubblico coagulando le diverse fazioni e spargendo bile, questa volta sulla scorta di Saviano.

Matteo Salvini è una “truffa politica”, mediaticamente “un pacchista”, uno di quelli che nel piazzale dell’autogrill ti convince di poter avere qualche sfizio costoso a un prezzo inimmaginabile, pronto poi a svignarsela nel tempo in cui ci si accorge di avere acquistato un mattone al posto di un’autoradio.

Come tutti gli “uomini senza qualità” ha bisogno di un nemico per esistere poiché la sua idea è il niente. Solo che, come si conviene agli spargibile di quart’ordine, non ha nemmeno il polso per prendersela con i cattivi che contano quindi si ostina a proiettare come fonte di tutti i mali gli ultimi del mondo: lascia in mare aperto donne e bambini e non ha trovato un secondo per dire qualcosa sull’italianissimo Paolo Di Donato che ieri con altri 4 è stato arrestato a Benevento con l’accusa di truffa ai danni danni dello Stato, falso e corruzione per essersi arricchito sulla pelle dei migranti. Non ha le palle di dirci qualcosa sul vecchio amico Roberto Formigoni (che la Lega ha servito strisciando per anni) a cui ieri sono stati sequestrati 5 milioni di euro per la corruzione che stava dietro la gestione dei rinomati ospedali Maugeri e San Raffaele. Non ha avuto la decenza di discutere in Europa (dove per anni è stato profumatamente pagato per oziare nella sua perenne campagna elettorale via social) il trattato di Dublino che ora contesta. Non gli scappa un solo cenno di dissenso per i ricchi del mondo che continuano ad arricchirsi sulle spalle di un mondo in rovina. Non ha nemmeno un briciolo di coraggio per scrivere un tweet su quanto sia immensamente grande (rispetto a quello di cui si occupa tutto il giorno tutti i giorni) il mercato delle mafie e della corruzione.

Salvini non parla di mafiosi, corrotti e corruttori perché ne è piena la storia del suo partito, dei suoi predecessori, dei suoi alleati nei comuni e nelle regioni e di alcuni suoi attuali sostenitori. Salvini scarica Giulio Regeni perché se la fa sotto se Al Sisi fa la voce grossa. Salvini imita Trump e quello, per rendere chiaro quanto non se lo fili nemmeno di striscio, riesce addirittura a fare i complimenti all’invisibile premier Conte. Salvini dichiara di avere l’onore di incontrare papa Francesco e quello lo smentisce. Salvini l’altro ieri ha applaudito i carabinieri che a Lamezia hanno arrestato 5 rom ma non li ha applauditi (disdetta, erano sempre loro) quando confiscarono i beni alla moglie del suo deputato Furgiuele per reati di mafia.

Tutto così: uno strabico per viltà che non centra mai l’obiettivo grosso e che confida sul fatto che le piccole disperazioni bastino per sembrare un rivoluzionario. E invece sotto il rumore delle sue sparate cova il silenzio si cattivi che contano. E se ne accorgeranno tutti, prima o poi. Anche quelli che oggi, suoi alleati, sperano che qui fuori ci si dimentichi che il silenzio è complice.

Buon venerdì.

(P.s. per quelli che dicono «rispondendogli gli fate un piacere»: risponderemo colpo su colpo, tutti i giorni se servirà, come abbiamo già scritto qui e come dice chiaramente la copertina del numero in edicola da oggi)

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/06/22/la-vigliaccheria-del-forte-con-i-deboli-debole-davanti-ai-forti/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’onestà con garbo di Maran

Ieri il sindaco di Milano Beppe Sala ha dichiarato di avere parlato con il suo assessore Pierfrancesco Maran e di avere saputo da lui «che in realtà non c’è stata nessuna offerta» e basta leggere le intercettazioni che riguardano il costruttore Luca Parnasi, arrestato ieri nell’ambito dell’operazione che riguarda la costruzione del nuovo stadio a Roma, per accorgersi come gli “ambasciatori” spediti a Milano si fossero resi conto fin da subito che non c’era spazio per mettere in pratica nel capoluogo lombardo una pratica corruttiva.

«Siamo andati a parlare con l’assessore Maran, quello di Milano, no? – racconta Giulio Mangosi al telefono con una tale Valentina – E Simone (Contasta, anche lui agli arresti, ndr) che gli prova a vendere alla Tecnocasa un appartamento… e quello dice, amico mio no! Cioé qua funziona così… qua se tu mi dici che la cosa la riesci a fare è perché la puoi fare, a me non mi prendi per culo perché io non mi faccio prendere… io… io non voglio essere… non voglio prendere per il culo chi mi ha votato. Siamo andati dall’assessore a fare una figura (incomprensibile) cioè proprio, sembravamo i romani… quelli sai… dei centomila film che hai visto? I romani a Milano»

I due se la ridono: «peggio di Totò», dicono.

Eppure tra l’odore dell’inchiesta romana (che bisognerà poi vedere come andrà a finire) si coglie un dato significativo che era andato perduto: non sono tutti uguali, no, e distinguere per non confondere sarebbe un primo passo per recuperare ecologia nel dibattito politico. E non sono diversi i milanesi dai romani (come Mangosi prova a convincersi al telefono per giustificarsi) e non sono nemmeno diversi gli appartenenti di una fazione rispetto all’altra: semplicemente anche nella politica (così come in tutti i campi) esistono persone che praticano l’onestà con garbo e con misura, senza farne un vessillo da sventolare come clava contro gli avversari.

La corruzione endemica del nostro Paese (così come gli stretti rapporti con le mafie) non è affare di un solo partito e tantomeno un tema da usare per concimare la propaganda: si combatte (se davvero si vuole combattere) con i comportamenti e con i prerequisiti morali che dovrebbero essere richiesti a qualsiasi pezzo di classe dirigente di questo Paese. Che gli amichetti di Parnasi trovino incredibile che la corruzione non sia normale è il campanello d’allarme di cui la politica dovrebbe occuparsi (al di là dei risvolti giudiziari). Che la politica riparta dai comportamenti (più che dagli annunci e dalle dirette Facebook) sarebbe una buona pratica per tutti.

Buon giovedì.

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Hanno sbagliato tutti. Ma splendidamente

Ha sbagliato Di Maio. Ma come al solito ci metterà parecchio ad accorgersene. Si è affidato a Salvini (lui che guida il Movimento che diceva “mai con con nessuno”) che è la sintesi della vecchia politica con tutta la modernissima xenofobia che scuote l’Europa. Di Maio si è fidato di Salvini ha avuto bisogno di Salvini (perché no, non ha vinto le elezioni, appunto) e ci è cascato in pieno: davvero c’è qualcuno che pensa che Salvini non sappia benissimo che questa crisi di governo porterà il centrodestra a governare tranquillamente dopo le prossime elezioni (per la gioia di Berlusconi e soci)? Davvero c’è qualcuno che è convinto che se Salvini sarà il prossimo presidente del consiglio designato si impunterà su Savona (che non proporrà nemmeno)? Davvero c’è qualcuno che non ha capito che Conte serviva proprio per avere un premier debole da far cadere alla bisogna senza intaccare il proprio consenso? Non scherziamo, su. Ma non si preoccupi Di Maio: è già stato mangiato dal duo Di Battista-Grillo. Ma come al solito ci metterà parecchio ad accorgersene.

Ha sbagliato l’opposizione (ah sì, c’è un’opposizione?) che ha lasciato il campo libero per intere settimane e non ha trovato niente di meglio che parlare di spread per sventolare l’inefficienza del potenziale governo gialloverde. Aiutando così l’ipotesi dei poteri forti contro il governo del cambiamento l’opposizione è apparsa assente, solo in attesa di interventi d’altri e inevitabilmente ben poco attraente in occasione di prossime elezioni. Ascoltare poi lezioni di Costituzione da quelli che hanno provato a stravolgerla non è stato un gran spettacolo. Diciamo.

Ha sbagliato anche Salvini. Sì. Ma non se ne accorgerà nessuno. Incaponirsi su Savona (Mattarella avrebbe accettato Giorgetti che della Lega salviniana è un uomo di punta, per dire) è roba da bambini dell’asilo ed è un comportamento indicativo di un fallimento programmato. Ma non se ne accorgerà nessuno e sarà molto difficile riuscire a raccontarlo.

Berlusconi forse l’ha indovinata, ancora una volta. Alle prossime elezioni rischia di essere al governo (anche se appena sotto a Salvini) come un Conte qualsiasi ma con un curriculum molto più corposo e per niente inventato: corruzione, falso in bilancio e vicinanza agli uomini di mafia sono esperienze che contano, qui da noi.

Ha sbagliato Renzi. Ritirato per finta e fiero dei suoi errori giudicati dagli elettori. Ma gli elettori sono cretini, dicono i suoi. E tra qualche mese andranno dai cretini a richiedere il voto. Pensa te.

Alla fine che succede? Succede che oggi al Colle sale Carlo Cottarelli, un economista, perché qui da noi è l’economia che governa la politica mica il contrario.

E Salvini gode.

Avanti così.

Buon lunedì.

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Resistere oggi è (anche) non permettere di intossicare la Storia

Piuttosto che scrivere sul 25 aprile oggi, di questi tempi varrebbe la pena leggere, studiare, ostinatamente ricordare, ricordare ad alta voce, resistere all’intossicazione che qualcuno insiste nel propagare per rammollire la Storia e così anche i valori di quella Storia e della Resistenza.

Nel 2004 Giorgio Bocca scriveva:

«C’è da mesi una campagna di denigrazione della Resistenza: diretta dall’alto, coltivata dai cortigiani. Il loro gioco preferito è quello dei morti, l’uso dei morti: abolire la festa del 25 aprile e sostituirla con una che metta sullo stesso piano partigiani e combattenti di Salò, celebrare insieme come eroi della patria comune Giacomo Matteotti ucciso dai fascisti e il filosofo Gentile, presidente dell’accademia fascista, giustiziato dai partigiani, onorare insieme le vittime antifasciste della risiera di San Sabba e quelle delle foibe titine. Proposte da comitati di reduci che evidentemente non hanno mai sentito parlare dei lager in cui i fascisti, prima e dopo l’armistizio, hanno chiuso decine di migliaia di cittadini colpevoli unicamente di essere di etnia slovena. L’argomento delle nostre deportazioni è talmente poco conosciuto che il presidente del consiglio Berlusconi può permettersi di parlare di un Mussolini che «mandava gli antifascisti in vacanza sulle isole». L’uso dei morti per dimostrare che le idee per cui morirono gli uni si equivalgono a quelle per cui morirono gli altri è inaccettabile. La pietà per i morti è antica come il diritto dei loro parenti e amici a piangerli, ma non è dei morti che si giudica, ma di quando erano vivi e stavano al fianco degli sterminatori nazisti. Ricostruiamo l’unità della patria, dicono, dimentichiamo la guerra civile, sostituiamo alle fazioni la unità della democrazia. Ma la democrazia dov’è? Che democrazia è questa autoritaria che si va affermando nel nostro Paese? Ai suoi sostenitori basta che il governo non apra i suoi lager, che non fucili gli oppositori, che non soffochi tutte le voci critiche per gridare che la democrazia è salva. Ma la mutazione autoritaria è sotto gli occhi di tutti, anche dei rassegnati o indifferenti: i personaggi della televisione invisi al potere cacciati o tacitati, gli autori di libri all’indice berlusconiano esclusi dalla televisione e ignorati dai giornali (…). E anche la corruzione più pesante e sfacciata, i prestiti bancari, i ricatti della pubblicità, le concorrenze mafiose».

Lo scriveva 14 anni fa. Se notate che sia ancora terribilmente attuale avete il senso di quanto ciò che abbiamo fatto non sia abbastanza.

Buon 25 aprile.

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Cittadini=elettori: l’equazione che sfugge alla sinistra

Sì, è vero, ieri moltissimi utenti che utilizzavano versioni piratate dell’applicazione Spotify per ascoltare musica a illegalmente si sono incazzati perché l’azienda ha deciso di tutelarsi bloccando tutte le versioni a scrocco. È vero anche che tra chi grida “onestà!” c’è quello che ritiene normale una raccomandazione, una spintarella o piccolo piacere personale per saltare le liste d’attesa, per ottenere un lavoro o addirittura compie le stesse identiche azioni per cui condanna gli altri al rogo. È anche vero che l’insicurezza percepita è smentita dai numeri nettamente in calo per omicidi, scippi e rapine ed è matematicamente incontestabile che l’evasione delle multinazionali e la corruzione nella politica abbia costi giganteschi rispetto alle briciole che richiede l’accoglienza.

Però molta gente non lo sa. Volendo immaginiamo anche uno scenario peggiore: non lo capisce. In un momento storico in cui la complessità e lo studio sono rovinosamente passate di moda (solo ieri ho ricevuto tre inviti per sottoscrivere appelli a Mattarella perché nomini qualcuno presidente del consiglio senza curarsi di sapere che serve una maggioranza parlamentare, per dire) sembra sfuggire a molti (soprattutto a sinistra) che la sfida sta nel ristabilire la realtà (e la propria agenda delle priorità) piuttosto che deridere i cittadini. Per capirsi: ieri in molti hanno grevemente ironizzato su chi sta cercando informazioni per ottenere il reddito di cittadinanza promesso in campagna elettorale da Luigi Di Maio (con la razzista equazione terroni=fannulloni come il Salvini d’antan) piuttosto che occuparsi di una propaganda che non è stata inchiodata da giornalisti che facessero davvero i giornalisti (a proposito: Il Fatto Quotidiano ci ha informato che la proposta di Di Maio è economicamente insostenibile, a urne chiuse) oppure piuttosto che interrogarsi sull’assoluta inefficacia delle smentite da sinistra. Magari, volendo strafare, ci si potrebbe interrogare anche sulla progressiva demolizione della scuola e della “cultura” in generale che ci ha portato ad avere un terreno così facilmente fertile per le mirabolanti promesse che impunemente vengono propinati da decenni (parzialissima analisi del voto: chi vota M5S spesso semplicemente crede che sia giusto “dare un’occasione” a questi visto che gli altri, deludenti, sono più o meno gli stessi).

Dare dei cretini agli elettori no, non è una grande idea. Irridere gli elettori non è la strategia giusta per riconquistarli. E forse il risultato elettorale ci dice che non funziona nemmeno sbizzarrirsi nel perculamento degli avversari politici. Se Di Maio bussa per chiedere un appoggio al suo eventuale governo non si risponde trafugando i suoi congiuntivi sbagliati ma si coglie l’occasione di segnalare le incompatibilità di programma e (magari, proprio per osare un po’) si chiarisce come si farebbe quello che vorrebbero fare loro. Per rifiutare l’ipotesi di un’alleanza non si dice “e ma anche voi quell’altra volta” e nemmeno “no mi sono offeso” ma si stende una risposta politica (magari discussa e approvata in quei passaggi democratici che fanno di un partito un “partito”) in cui si elencano (assumendosene le responsabilità) i motivi dell’insuperabile incompatibilità. Si fa politica, insomma, praticando serietà piuttosto che appuntarsela al petto. Se la sinistra è ai minimi termini forse sarebbe il caso che si interroghi sui propri dirigenti, piuttosto che sugli elettori.

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/03/09/cittadinielettori-lequazione-che-sfugge-alla-sinistra/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«Se quello della sicurezza diviene un terreno da coltivare, anziché una questione da risolvere, occorre fare molta attenzione»

Davvero non c’è una spiegazione alle stragi d’Italia, agli omicidi eccellenti, alle collusioni pericolose? Davvero sono passati troppi anni dagli eventi per capire, per sapere, per ricordare? Davvero non c’è soluzione alle questioni del presente, che ci attanagliano ogni volta che parliamo del triangolo tra criminalità, politica e giustizia? Una croce a cui il nostro Paese sembra inchiodato da decenni senza molte possibilità di riscatto, con protagonisti che – a tutt’oggi – occupano le pagine dei giornali e portano i nomi di politici notissimi e faccendieri incarcerati, di imprenditori e amministratori della cosa pubblica che hanno raccolto scabrose eredità del passato, perfino di imbelli candidati alle elezioni prossime venture.

Ci interessa ancora la verità dei fatti o siamo rassegnati, ormai, a farci bastare la loro apparenza? Magari perché questa verità è scomoda da accettare o troppo complessa da esaminare, mentre la post-verità – che ne è la ’narrazione’ superficiale e banalizzata, come ricordano gli Oxford Dictionaries – grazie ad abbellimenti e sottrazioni riesce a distorcerla, trasformandola in qualcosa d’altro, più facilmente ricevibile? A evitarci, insomma, tutte quelle domande a cui non sappiamo dare risposta, riuscendo così a schivare anche le conseguenze che le risposte comporterebbero.

Il tema della post-verità, che non liquida la verità ma la rende superflua e irrilevante, è sotteso – fin dal titolo – al libro ”La verità sul processo Andreotti”, uno svelto volumetto (pp. 87, Editori Laterza), appena uscito in libreria, denso di nomi, fatti e date ma, soprattutto, di chiarimenti. È scritto da due magistrati, Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, che hanno deciso di analizzare quel procedimento dal loro osservatorio privilegiato.

Dottor Caselli, affermate di voler ristabilire una prospettiva corretta contro il negazionismo.

L’idea del libro scritto con Lo Forte, collega della Procura di Palermo e pm nel processo Andreotti, nasce dalla constatazione che la verità sul processo è stata fatta a brandelli. La Cassazione ha confermato in via definitiva la sentenza della Corte d’appello di Palermo, che ha dichiarato “il reato di associazione a delinquere [con Cosa nostra] commesso fino alla primavera del 1980”, ma prescritto per decorso del tempo. Eppure un’ossessiva campagna di fake news – a tutti i livelli – ha truffato il popolo italiano (in nome del quale le sentenze vengono pronunciate), facendogli credere che l’imputato sia stato pienamente e felicemente assolto. Non esiste in natura un imputato assolto per aver commesso il fatto! È un’offesa alla logica e al buon senso. Eppure, ancora recentemente ho letto che Andreotti non fu condannato “perché non si riuscì a dimostrare che si fosse mai adoperato personalmente per favorire Cosa nostra”. Invece è scritto a tutto tondo nella sentenza della Corte d’appello – confermata in Cassazione – che l’imputato “con la sua condotta […] ha non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo, manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. E tutto questo sulla base di un elenco dettagliato di fatti gravi, tutti provati. Non fu condannato solamente in quanto il reato commesso era prescritto. Senza che l’imputato avesse rinunciato alla prescrizione, come avrebbe potuto.

Una vicenda emblematica del processo Andreotti?

Tra i tanti fatti gravi provati, ne ricordo uno in particolare. La partecipazione a due incontri con Stefano Bontade e altri boss (presenti Lima e i cugini Salvo) per discutere di fatti criminali riguardanti Piersanti Mattarella, l’onesto presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980. Senza che Andreotti abbia mai denunciato, a nessuno, gli elementi utili a far luce su tale delitto che pure conosceva, in quanto derivanti dai diretti contatti avuti coi mafiosi.

Esistono somiglianze con l’attuale processo sulla trattativa Stato-mafia?

Lo Forte ed io abbiamo pensato che potesse essere utile nel caso Andreotti chiarire le vicende processuali in sé, anche per comprendere meglio alcuni aspetti essenziali della storia del nostro Paese. Lo sviluppo della trattativa Stato-mafia (su cui è ancora in corso un delicato processo a Palermo, attualmente in gran parte a giudizio in primo grado, con alcune posizioni trattate in “abbreviato”), nel libro viene inquadrato nell’ambito della politica di “relazioni esterne” con la società e lo Stato, che caratterizza tutta la storia di Cosa nostra. Un susseguirsi di rapporti – a seconda della stagione – di coesistenza o di compromesso, di alleanza o di conflitto: dalla strage di Portella della Ginestra al Golpe Borghese; dagli omicidi politici mafiosi degli Anni Settanta/Ottanta alla stagione del pool antimafia e del maxiprocesso; dalla strategia stragista degli anni ‘92-’93, con la cornice appunto delle “trattative”, fino agli scenari attuali.

Come valuta la recente riforma delle intercettazioni?

Il mio giudizio coincide con l’intervento di Roberto Scarpinato, che MicroMega ha pubblicato integralmente. Vero è che il ministro Andrea Orlando ha promesso una sorta di “monitoraggio”, con riserva di modificare la riforma all’esito ove le perplessità di Scarpinato e altri risultassero riscontrate in concreto. Ma non sappiamo chi sarà il nuovo ministro della Giustizia. Se fosse ancora Orlando, secondo me, ci si potrebbe fidare. Ma se non fosse lui? Se fosse, per esempio, l’avvocato Giulia Bongiorno (una delle possibili candidate del centro-destra) avrei qualche perplessità in più. Non tanto per la sua posizione nel merito della riforma (anche Bongiorno ha espresso alcune critiche), quanto piuttosto per quel che dell’avvocato si può leggere nelle prime due pagine dell’introduzione al nostro libro sul processo Andreotti. Una questione di metodo, spoglia di profili “personali”.

Il tema della legalità è uno dei grandi assenti di questa campagna elettorale.

Paradossalmente viene da dire: meglio così! Che in campagna elettorale non siano inflitti ulteriori colpi a un vocabolo – quello della legalità – che soffre da tempo. Che va protetto e usato con parsimonia per evitarne la strumentalizzazione da parte di personaggi impresentabili, che hanno scelto di convivere (se non peggio) con il malaffare. La speranza è che nella nuova legislatura si parli di legalità non più come slogan, ma come obiettivo vero. Da perseguire senza cedere a quell’altra tentazione tipica di certa politica: l’evaporazione dei fatti, la cancellazione del mondo reale che ci circonda. Il mondo reale, oggi, parla di una grandissima quantità di risorse sottratte dall’illegalità economica (evasione fiscale, corruzione e mafia). Una rapina che si traduce nel colossale impoverimento della nostra collettività. Senza risorse, la qualità della vita è fatalmente destinata a peggiorare. Perciò la legalità non è solo questione di “guardie e ladri”, ma costituisce per tutti un vantaggio, una diretta convenienza. La buona politica dovrebbe muovere in questa direzione. Non correre con occhi bendati in direzioni di cui s’ignora il senso oppure in una direzione conosciuta e utile sempre e soltanto ai “soliti noti”.

Cos’è più urgente fare per migliorare la situazione della giustizia in Italia? Quali misure dovrebbe attuare un futuro governo?

Diciamo prima quel che non si dovrebbe fare mai. La separazione delle carriere fra pm e giudici, che invece tanto sta a cuore a molti avvocati e a Silvio Berlusconi, il quale va ancora raccontando la storiella dei magistrati che prendono il caffè insieme e quindi per ciò stesso farebbero… pastette. La separazione sarebbe una vera jattura, perché in tutti i paesi in cui c’è separazione, il pm di fatto prende ordini o riceve direttive vincolanti dal governo. Dovremmo, in Italia, rinunciare all’indipendenza dei pm e darli in pasto a certa politica, quella che – ripeto – è fatta anche di impresentabili? Sarebbe un vero e proprio suicidio per la prospettiva di una giustizia che punti alla eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Quanto alle misure da attuare in positivo mi limito a due punti essenziali: la riforma della prescrizione (siamo l’unico paese al mondo, in cui essa non si interrompe mai) e la riforma dei gradi giudizio. Se proprio non si vogliono ridurre (anche in questo caso siamo l’unico paese al mondo con un rito processual-penale di tipo accusatorio che tollera una pletora di gradi), almeno si introducano dei severi filtri di grado in grado, per impedire i ricorsi inutili, pretestuosi e dilatori. Altrimenti il processo non finisce mai! È ipocrita lamentarsi poi se tutto ciò comporta una giustizia denegata al posto della giustizia.

Sta emergendo un fenomeno nuovo di cui si parla ancora poco: le mafie organizzate da immigrati nel nostro Paese, ad esempio quelle nigeriane.

Le mafie di “importazione” (dalla Nigeria come dall’Est europeo) vanno contrastate con la stessa determinazione con cui si combattono le organizzazioni “indigene”. Forze dell’Ordine e magistratura già lo fanno. Probabilmente servirebbero strumenti legislativi (un aggiornamento del 416 bis) specificamente mirati su queste nuove realtà.

Mafie, criminalità, immigrazione senza regole alimentano un clima di tensione, aggressività e timori incontrollati, utilizzati a volte per fini politici distorti e dalla cattiva informazione. È esagerato parlare di governo della paura?

Paura e insicurezza sono problemi seri da affrontare e possibilmente da risolvere. Invece sempre più di frequente si rivelano occasioni da sfruttare. Questi mali da sanare, sembrano essersi trasformati in opportunità d’investimento politico e massmediatico. Prima si accresce la paura – che c’è per cause obiettive – ma ci si lavora su per espanderla. Poi, invece di governarla, si finisce per restare governati dalla paura, nel senso che è la paura che oggi (molte, troppe volte) sembra dettare le scelte della politica e dei media. Con rischi evidenti di deriva democratica.

Come si comporta una società che ha paura?

Qui ‘rubo’ una formula al mio amico, don Luigi Ciotti: la sicurezza rischia di trasformarsi in una specie di killer. Nel senso che (intesa in un certo modo) cancella o, quantomeno, pregiudica decenni di lavoro sulle radici della violenza. Se la paura è un’opportunità di investimento, facilmente avremo non riforme vere, ma più che altro gesti simbolici, rassicuranti, un’indignazione che spesso può essere in prevalenza strumentale. Inoltre (forse non ce ne rendiamo conto, ma è sempre più così) impariamo a vivere nell’ostilità contro tutto e tutti, specie quando non si va oltre il recinto delle nostre individualità, degli interessi particolari o personali. Tuttavia vivere immersi nella cultura del sospetto non è più vita: succede che si modifica, in negativo, la qualità della nostra esistenza. Anche perché si comincia così e poi non si sa dove si va a finire. Oggi i rom, domani chissà.

Ma la sicurezza non è argomento più che valido, tanto più per chi – come lei – ha trascorso una vita da magistrato?

Se quello della sicurezza diviene un terreno da coltivare, anziché una questione da risolvere, occorre fare molta attenzione: i timori si autoalimentano. Le risorse a disposizione saranno prevalentemente, se non esclusivamente, convogliate su controlli e sempre più controlli (tipica la richiesta di impiego dell’esercito), su forme di repressione, nuovi reati e così via. Sempre meno, invece, saranno le risorse impiegate per scuole, ospedali, alloggi, più lampioni in periferia, trasporti pubblici meno degradati, politiche di inserimento e integrazione. Col risultato che, nel medio-lungo periodo, la criminalità invece di diminuire rischia di aumentare o rimanere sui livelli che già la caratterizzano. Il che comporta un aumento dell’insicurezza. Ecco il cortocircuito, pericoloso quando non si superano i luoghi comuni. Quando non si cerca di ragionare con la testa anziché con la pancia.

www.micromega.net , 1 marzo 2018

Una dirigente comunale e un prete: le “entrature” della mafia a Milano

Ci sono anche una dirigente del Comune di Milano (fino a febbraio 2017) e un sacerdote tra i destinatari delle prime 15 sentenze a ruota degli arresti nel maggio 2017, quando la Direzione distrettuale antimafia dei pm Ilda Boccassini e Paolo Storari ottenne dal gip Giulio Fanales anche l’amministrazione giudiziaria di 4 direzioni generali dei supermercati Lidl, e il commissariamento delle società del gruppo Securpolice che sorvegliava il Tribunale.

Giovanna Afrone, dopo gli arresti domiciliari dimessasi da responsabile del «Servizio gestione contratti trasversali con convezioni centrali committenza», è stata condannata in primo grado con rito abbreviato (e attenuanti prevalenti sulle aggravanti) dalla giudice Giusi Barbara a 3 anni per corruzione: cioè per aver promesso — in cambio delle prospettive del proprio passaggio al settore Bilancio della Provincia e del trasferimento di una cugina al settore informatico del Comune — una via privilegiata sugli appalti delle pulizie delle scuole sotto soglia di 40.000 euro di valore. La funzionaria, secondo l’inchiesta del pm Storari, era uno dei contatti procurati ad alcuni referenti del clan catanese Laudani da Domenico Palmieri, cioè dal sindacalista pensionato (dopo molti anni in Provincia) che, «grazie a questa lunga militanza nella pubblica amministrazione, aveva messo una serie di relazioni a disposizione dei fratelli Alessandro e Nicola Fazio, di Luigi Alecci, Emanuele Micelotta e Giacomo Politi», intermediazione retribuita mille euro al mese. Palmieri ieri ha patteggiato per associazione a delinquere e traffico di influenze 3 anni e 4 mesi, quasi quanto (3 anni e 3 mesi) l’altro ex sindacalista e dipendente della Regione accusato dello stesso tipo di «facilitazioni», Orazio Elia.

La dipendente comunale è stata condannata anche a risarcire con una provvisionale di 10 mila euro i danni di immagine al Comune di Milano parte civile, mentre 60 mila euro è stata la provvisionale accollata in solido ad Antonino Ferraro (che per altre vicende e reati, tra cui l’associazione a delinquere, è stato condannato a 5 anni e alla confisca di 181.000 euro), a Vincenzo Strazzulla (3 anni e 4 mesi) e a Alberto Monteverdi (3 anni). La pena più alta tra quelle emesse ieri è stata di 5 anni e 4 mesi per Antonio Saracino, mentre Antonino Catania ha avuto 4 anni come Giuseppe D’Alessandro, 2 anni Luigi Sorrenti, 1 anno e 4 mesi Ivan Zaccone (ex dirigente Lidl), 10 mesi Rosario Spoto. Salvatore Esposito ha patteggiato 1 anno e 10 mesi, F. G. 1 anno e 5 mesi. Anche un prete figura tra i condannati: don Giuseppe Moscati, più noto per le sue esibizioni canore di tema religioso, ha avuto un anno e 2 mesi per aver emesso, quale amministratore unico delle Edizioni musicali Il Millennio srl, 12.000 euro di fatture false per far evadere le tasse a una società riconducibile ad alcuni degli imputati. Tra i 13 rinviati a giudizio anche l’ex n.2 del Foggia Calcio, Massimo Curci, per una evasione di 31 milioni, e l’ex dirigente Lidl Simone Suriano.

(fonte)

Due, tre domande alle attrici del “manifesto” contro “il sistema” della molestie

Le attrici italiane (non in ritardo, perché sono mesi che cerchiamo di spiegare che ogni denuncia ha i suoi tempi naturali) riescono finalmente a produrre un documento sul cinema italiano e sul tema delle molestie (fino a ieri sembrava che solo qui da noi l’industria cinematografica fosse un parco giochi di nuvole sorridenti) e scrivono una lunga lettera in cui accusano il «sistema» e dichiarano di essere «quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo». Scrivono cose sensate e il fatto che abbiano deciso di scriverle è una cosa positiva. Pare però che scrivano come se fossero esterne. Osservatrici. E questo distacco è abbastanza impressionante. Ecco perché questa lettera non emoziona, non tocca nessuna corda in particolare.

È un primo passo, dice qualcuno, rispetto al mortificante silenzio di questi ultimi mesi (o ancora peggio: il mortificante sostegno ai presunti molestatori piuttosto che alle vittime) ma dentro il documento ci sono alcune questioni che forse sarebbe la pena porre.

«Non appena l’ondata di sdegno si placa, – scrivono le 120 attrici – il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare». Bene. È possibile sapere perché siete mancate durante «l’ondata di sdegno»?

Poi. «Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse». È sempre piuttosto facile essere solidali con tutti perché, come diceva quel geniaccio antipatico di Dario Fo, poi è come non essere solidale con nessuno. Questo documento quindi dice che è vero ciò che hanno raccontato Asia Argento, Miriana Trevisan, le diverse ragazze su Brizzi (e poi Giorgia Ferrero, Giovanna Rei, Alessandra Ventimiglia e tutte le altre)? E perché non citarle? È stato importante il lavoro de Le Iene e di Dino Giarrusso? E, soprattutto, hanno quindi cambiato idea Nancy Brilli e Cristiana Capotondi che nella furia di difendere Brizzi (basta leggere qui, per citare un articolo a caso) scrivevano «assisto con dolore alle accuse che stanno rivolgendo in queste ore a Fausto Brizzi» o «non può essere la paura che ti venga bloccata la carriera a non farti parlare»? E che dicono quelle che se la prendevano con chi denuncia «senza metterci la faccia» ora che invece preferiscono non accusare il singolo ma piuttosto il «sistema»?

«Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo “molestatore”. Noi contestiamo l’intero sistema», scrivono, nel Paese (ricordiamolo) in cui tutti sottoscriverebbero un manifesto per dire che “la mafia è brutta” ma sempre troppi pochi fanno i nomi dei mafiosi, nel Paese in cui si dice che “la politica fa schifo” ma si è sempre timidi a specificare quale politico, nel Paese in cui la corruzione “è il male” ma guai a fare i nomi dei corrotti. Hanno letto, le sottoscrittrici della lettera, come è stato “rovesciato” il mondo del cinema (e gli altri) negli Usa e negli altri Paesi (civili) del mondo? E soprattutto: se è vero che loro sanno i nomi e i cognomi sono convinte davvero che gli orchi smetteranno di essere orchi solo grazie a questa lettera che archivia il passato? E, ancora, che ce ne facciamo delle vittime che sono state? A posto così?

È un primo passo, dicono in molti. Tardivo e poco coraggioso, dico altri. Eppure sarebbe stato bellissimo (sarebbe quasi un Nuovo cinema paradiso) avere il coraggio di ammettere di avere paura. Scrivere nero su bianco che fare i nomi costa. C’è più forza nell’ammettere la paura che nel proclamarsi paladine di una battaglia che nasce già piuttosto spuntata.

Se è il primo passo di un cammino, bene. Se è l’unico passo allora ha l’odore di un condono.

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/02/02/due-tre-domande-alle-attrici-del-manifesto-contro-il-sistema-della-molestie/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.