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corruzione

Rinvio a giudizio per 16 ex consiglieri regionali del PD

Eppure con Cota in Piemonte in Regione Lombardia urlarono tutti la propria indignazione. Sulla Regione Lazio invece si coglie un certo abbassamento di voce. Ecco la notizia de Il Fatto Quotidiano:

 

Con i soldi del gruppo in consiglio regionale si sono pagati pranzi, cene e persino sagre del tartufo. Con questa accusa saranno processati 16 ex consiglieri regionali del Pd nel Lazio. Lo ha deciso il gup Alessandra Boffi accogliendo le richieste dei pm Alberto Pioletti e Laura Condemi. I reati contestati a vario titolo sono peculato, abuso d’ufficio, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e truffaLe accuse si riferiscono al periodo 2010-2013 e riguardano l’utilizzo dei fondi regionali anche per l’acquisto di servizi in realtà mai effettuati dalle società coinvolte.

Rinviati a giudizio nel processo che inizierà il 22 gennaio del 2017 ci sono esponenti importanti del partito di Matteo Renzi. A cominciare dall’ex capogruppo del Pd in Regione e attuale sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, nome di punta dei dem romani. Alla sbarra ci sono anche gli attuali senatori Bruno Astorre, Claudio Moscardelli, Daniela Valentini, Francesco Scalia e Giancarlo Lucherini, più l’ex capo della segreteria di Ignazio Marino, Enzo Foschi. Sarà processato anche il deputato Marco Di Stefano, che nell’aprile del 2016 aveva già incassato il rinvio a giudizio con le accuse di abuso d’ufficio, truffa e falso per presunti illeciti legati a un mega affare immobiliare.

L’indagine nasce dalle condotte contestate a Mario Perilli, originario di Rieti, che con i soldi destinati al funzionamento del gruppo avrebbe offerto ad amici e simpatizzanti pranzi e feste dagli 8 ai 20mila euro. Tra le storie documentate dagli inquirenti c’è per esempio quella dei 25 fagiani frutto di una battuta di caccia a Fiumicino, messi a tavola ma anche sul conto. Gli ex consiglieri sono accusati di aver pagato con soldi pubblici le multe, i biglietti aerei e pure gli addobbi per l’albero di Natale. C’è chi ha messo in conto una bottiglietta d’acqua da 45 centesimi ma anche chi ha finanziato una sagra del tartufo con 5.000 euro e spacciandola come convegno.

 

Il sindaco di Seregno, lo zerbino dei mafiosi: le carte dell’inchiesta

Dopo «7 anni» di indagini sulla ‘ndrangheta in Lombardia «posso dire che c’è un sistema» fatto di «omertà» e di «convenienza da parte di quelli che si rivolgono all’anti Stato per avere benefici». Così il procuratore aggiunto della Dda di Milano Ilda Boccassini ha commentato il maxi blitz avvenuto all’alba di martedì: 24 arresti – tra cui il sindaco di Seregno Edoardo Mazza e un dipendente della Procura di Monza, Giuseppe Carello – nelle province di Monza, Milano, Pavia, Como e Reggio Calabria, nell’ambito di un’inchiesta su infiltrazioni della ‘ndrangheta nel mondo dell’imprenditoria e della politica in Lombardia, inchiesta che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente della Regione Mario Mantovani. Boccassini ha commentato che oggi, a 7 anni dell’operazione Infinito, «è facile» per le cosche «infiltrarsi nel tessuto istituzionale». L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Monza e dalla Procura Distrettuale Antimafia di Milano. In tutto, 27 le misure cautelari: 21 in carcere, 3 ai domiciliari e 3 interdittive, firmate dai gip Pierangela Renda e Marco Del Vecchio. Le accuse: associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi, lesioni, danneggiamento (tutti aggravati dal metodo mafioso), associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale.

In particolare, un terremoto giudiziario scuote l’amministrazione di Seregno. Agli arresti domiciliari per corruzione è finito il sindaco in persona, il forzista Edoardo Mazza. Sotto accusa i suoi rapporti con il costruttore Antonino Lugarà (in carcere), considerato uomo vicino ad esponenti della ‘ndrangheta. L’imprenditore, come notato dagli inquirenti che hanno ascoltato le intercettazioni, trattava il sindaco come «uno zerbino». L’ipotesi sostenuta dai pm di Monza Giulia Rizzo e Salvatore Bellomo è che Lugarà abbia ottenuto la concessione di un’area del Comune brianzolo, la cosiddetta area «ex Dell’Orto», sulla quale realizzare la costruzione di un supermercato, come contropartita del sostegno e consenso elettorale procurato al sindaco di centrodestra durante la campagna elettorale del 2015. «Ogni promessa è debito», gli dice infatti il sindaco in un’intercettazione. Agli arresti domiciliari anche un consigliere comunale di Seregno, e inoltre sono state emesse tre misure interdittive all’esercizio di pubblici uffici, una delle quali riguarda l’assessore Gianfranco Ciafrone.

Avvocato civilista, 38 anni, Edoardo Mazza è stato eletto nel 2015 nelle fila di Forza Italia alla carica di sindaco di Seregno, paese di 45mila abitanti in provincia di Monza. Per la sua elezione Lega e Forza Italia si sono compattate per sostenerlo. Molto attento ai social network, Mazza ama comunicare servendosi di Facebook. In alcuni di questi interventi, si è distinto per aver preso in mano un paio di forbici quando parlava degli stupratori di Rimini, o per le sue campagne contro i mendicanti, invitando i suoi cittadini a non dare l’elemosina per scoraggiare il loro arrivo in città.

La solidità della coalizione di centrodestra ha mostrato i primi scricchiolii tra maggio e giugno di quest’anno, con le dimissioni del leghista Davide Vismara da segretario di sezione, alle quali sono seguite quelle della collega di partito Barbara Milani da assessore alla Pianificazione territoriale ed all’edilizia privata e poi quelle di due consiglieri comunali, anch’essi del Carroccio. Una «fuga» che alla luce dell’esecuzione della misura cautelare emessa nei confronti del primo cittadino dal tribunale di Monza per corruzione, suona oggi come una presa di distanza preventiva.

L’inchiesta dei carabinieri, partita nel 2015, e che porta la firma dei pm monzesi Salvatore Bellomo, Giulia Rizzo e del Procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti e dei pm della Dia Alessandra Dolci, Sara Ombra e Ilda Boccassini, rappresenta una costola dell’indagine «Infinito», che nel 2010, sempre coordinata dalle procure di Monza e Milano, aveva inferto un duro colpo alle «locali» ‘ndranghetiste in Lombardia.

Anche un dipendente dell’ufficio affari semplici della Procura di Monza, Giuseppe Carello, è stato arrestato in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari con l’accusa di rivelazione di segreti d’ufficio. Il procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti ha riferito: «Attraverso le sue credenziali accedeva alla nostra banca dati e rispondeva alle domande dell’ imprenditore di Seregno indagato. Viene ascoltato mentre elenca gli indagati davanti alla nostra schermata, poi abbiamo una fotografia che inquadra l’imprenditore con il nostro dipendente». Il procuratore poi ha aggiunto: «Giuseppe Carello, ai domiciliari, ha violato la fiducia del procuratore e del personale giudiziario ed amministrativo che sono totalmente estranei ai fatto. Ha violato il giuramento alle istituzioni».

Come riferito da Boccassini, «è stata individuata una delle persone che era rimasta fuori» dagli arresti dell’operazione Infinito del 2010, e che partecipò in quell’anno al noto summit in un centro intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino a Paderno Dugnano. Sono stati identificati i boss della locale di Limbiate, ed è stato sgominato un sodalizio dedito al traffico di ingenti quantitativi di cocaina, con base nel Comasco, composto prevalentemente da soggetti originari di San Luca (RC), legati a cosche di ‘ndrangheta di notevole spessore criminale. Nel corso dell’indagine sono stati ricostruiti, ha spiegato Boccassini, «episodi brutalmente e stupidamente violenti». Per esempio, un cittadino di Cantù che andava al lavoro alle 5 di mattina fu colpito con il calcio di una pistola ma non ebbe il coraggio di denunciare: «Non me lo chiedete perché ho paura e so che sono pericolosi», disse agli inquirenti.

«La ‘ndrangheta è l’associazione mafiosa più pericolosa perché si insinua nel tessuto economico e ha rapporti con le istituzioni. Bisogna scoprire questi legami e tagliarli di netto»: così il presidente della Lombardia, Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno ha commentato la maxioperazione in Lombardia. «Chi rappresenta il popolo nelle istituzioni – ha spiegato Maroni ai microfoni di Radio 24 – deve ovviamente stare lontano e rifiutare ogni rapporto con queste persone. Se poi qualcuno ci casca, è giusto che venga estromesso immediatamente dalla politica alle istituzioni».

Mario Mantovani, consigliere regionale lombardo di Forza Italia ed ex vicepresidente della Lombardia, già arrestato due anni fa in un’altra inchiesta, è indagato per corruzione (non gli vengono contestati reati di mafia) in un filone dell’indagine. Da quanto si è saputo, l’accusa riguarda i suoi rapporti con l’imprenditore Antonino Lugarà, lo stesso che ha intrattenuto rapporti con il sindaco di Seregno. Mantovani ha scritto su Facebook: «Avvenuta perquisizione questa mattina presso i miei uffici in relazione ai fatti (su cui indaga la procura di Monza) di cui nulla so, che apprendo dai media di stamane e che sono lontanissimi dal mio agire politico e personale. Nulla è emerso. Sempre a disposizione della trasparenza e della legalità». Secondo la ricostruzione delle indagini, Lugarà avrebbe dato «la disponibilità e l’impegno a procurare consenso elettorale e l’appoggio politico» durante la campagna elettorale del maggio e giugno 2015 a favore di Mazza «nonché assicurando l’appoggio di Mantovani». «Ciao Mario ti ringrazio molto per la vittoria di Seregno è anche merito tuo, quando puoi ti vorrei incontrare», scriveva Lugarà in un sms.

(fonte)

L’ordinanza completa:

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Piccola storia dall’università italiana

Chissà quante volte è capitato nelle università italiane che un bravo ricercatore dovesse fare un passo indietro per lasciare il posto al raccomandato di turno o al parente di un barone. Da Firenze oggi arriva la notizia che il tentativo di far ritirare la candidatura a un ricercatore non sono non è finita a buon fine, ma ha portato a un’inchiesta che vede iscritti nel registro degli indagati ben 29 persone. Il gip ha firmato gli arresti domiciliari per sette docenti mentre per altri 22 ha deciso l’interdizione allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi.

Nei confronti di altri 7 docenti universitari, il giudice per le indagini preliminari di Firenze, Angelo Antonio Pezzuti, si è riservato la valutazione circa l’applicazione della misura interdittiva dopo l’interrogatorio. E così questa mattina oltre 500 militari della Guardia di Finanza hanno eseguito anche 150 perquisizioni per corruzione e in abitazioni private e studi professionali. In totale gli indagati sono 59.

L’indagine, coordinate dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal pm Paolo Barlucchi, ha permesso di stabilire, al momento, che candidato al concorso per l’Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento nel settore del “diritto tributario”,  avrebbe dovuto “ritirare” la propria domanda,  per favorire un terzo soggetto in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, in cambio allo studioso sarebbe stato promesso che gli indagati si sarebbero adoperati con la competente Commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata.

“Gli approfondimenti investigativi hanno consentito di accertare sistematici accordi corruttivi tra numerosi professori di diritto tributario – si legge in una nota – alcuni dei quali pubblici ufficiali in quanto componenti di diverse Commissioni nazionali (nominate dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) per le procedure di Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento nel settore scientifico diritto tributario – finalizzati a rilasciare le citate abilitazioni secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi”.

(fonte)

Vittoria, arrestato l’ex sindaco PD. Quello che parlava di “macchina del fango”.

Ne scrive (tra gli altri) La Spia ma sono molto contento per chi, da tempo, denunciava i fatti ed è stato isolato. Un abbraccio a Paolo. Lui sa.

 

Mafia: sindaco di Vittoria indagato per corruzione elettorale =

 (AGI) – Catania, 21 set. – E’ indagato anche l’attuale sindaco di Vittoria (Ragusa), Giovanni Moscato, nell’ambito dell’indagine “Exit poll” della Guardia di finanza, coordinata
dalla Procura di Catania. Il primo cittadino, per il quale non e’ prevista misura cautelare, risponde di corruzione elettorale. Moscato, 40 anni, avvocato, con la sua elezione nel
giugno 2016, a capo di liste civiche ed esponente del centrodestra, aveva fatto segnare una svolta storica a Vittoria, un comune che per 70 anni e’ stato retto da un esponente della sinistra. Secondo gli inquirenti, l’ex sindaco Giuseppe Nicosia e il fratello consigliere Fabio, tra i sei arrestati di oggi per scambio elettorale politico-mafioso, nel turno di ballottaggio si sarebbero schierati per Moscato, il quale avrebbe promesso la stabilizzazione dei 60 dipendenti della ditta che si occupa dei rifiuti.
Un patto scellerato che ha gestito le sorti elettorali, politiche e amministrative di Vittoria,
grosso centro della provincia di Ragusa, per almeno un decennio, garantendo appalti, affari, lauti profitti alle organizzazioni mafiose. Una regia sciagurata che ha dato
sostanza all’inquietante e consolidato intreccio tra politica e boss.
E’ quello che emerge dall’operazione “Exit Poll” della Guardia di finanza, coordinata dalla Procura di Catania, culminata con l’arresto per scambio elettorale politico-mafioso, di sei persone, tra amministratori e boss, per fatti collegati alle elezioni comunali di Vittoria del
giugno 2016. 
Ovvero: Giuseppe Nicosia e il fratello Fabio, attuale consigliere comunale, Giovambattista Puccio e Venerando Lauretta, entrambi gia’ condannati per associazione mafiosa, Raffaele Giunta e Raffaele Di Pietro.
UN EX SINDACO ARRESTATO, UNO IN CARICA INDAGATO 
Tra i destinatari della misura cautelare degli arresti domiciliari l’ex sindaco del Pd Giuseppe Nicosia, primo cittadino per due mandati consecutivi dal 2006 al 2016; e il fratello Fabio, 51 anni, eletto consigliere comunale a Vittoria nella tornata elettorale del 2016. E risulta indagato per corruzione elettorale l’attuale sindaco Giovanni Moscato.
Il primo cittadino, avvocato di 40 anni, per il quale non e’ prevista misura cautelare, con la sua elezione, a capo di liste civiche ed esponente del centrodestra, aveva fatto segnare una svolta storica a Vittoria, un comune che per 70 anni e’ stato retto da un esponente della sinistra. Secondo gli inquirenti, l’ex sindaco e il fratello, nel turno di ballottaggio si
sarebbero schierati per Moscato. 

Applicata, inoltre, la misura interdittiva della sospensione dai pubblici uffici nei
confronti dell’assessore al Bilancio dell’epoca, Nadia Fiorellini, per falsificazione delle autenticazioni delle sottoscrizioni delle liste elettorali.
Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Catania, sono state svolte dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza che ha eseguito gli arresti
anche a carico di Giombattista Puccio, 57 anni, detto “Titta u ballerinu”, di cui e’ stata accertata nel 2003 la contemporanea appartenenza a Cosa nostra e Stidda, coinvolto in diverse operazioni contro il clan stiddaro “Dominante – Carbonaro” (Operazioni Squalo nel 1994 e “Flash Back” nel 2006) ed e’ indicato da piu’ collaboratori di giustizia quale attuale
esponente di spicco della Stidda; Venerando Lauretta, 48 anni, gia’ condannato per la sua appartenenza al clan “Dominante – Carbonaro”; Raffaele Di Pietro, 55 anni, e Raffaele Giunta, 55 anni, entrambi con vari precedenti penali; i due risultano aver svolto un ruolo di intermediazione attiva nell’accordo criminale stretto tra politica e mafia.

LO SCELLERATO INTRECCIO LUNGO UN DECENNIO
Le Fiamme Gialle hanno effettuato intercettazioni telefoniche, perquisizioni, sequestri e acquisizioni documentali. Un contributo notevole e’ stato fornito anche dalle dichiarazioni
di alcuni collaboratori di giustizia da cui e’ emerso con chiarezza l’intreccio affaristico-politico-mafioso che, nella citta’ di Vittoria, sostengono gli inquirenti, “ha condizionato e orientato le scelte elettorali anche prima delle elezioni amministrative del 2016”. Il quadro delineato dai collaboratori di giustizia e’ infatti molto ampio ed evidenzia come i fratelli Nicosia abbiano ricevuto a Vittoria il sostegno elettorale della “Stidda” sia nelle amministrative del 2006 e 2011, sia nelle regionali e nazionali del 2008 e 2012. Il
convogliamento dei voti, secondo quanto accertato, e’ stato ricompensato dal sindaco Giuseppe Nicosia con l’assegnazione di appalti e posti di lavoro a favore degli attuali coindagati Giunta e Di Pietro. In questo inquietante scenario le attivita’ dei finanzieri del Gico del Nucleo di Polizia Tributaria di Catania hanno consentito di tracciare i contatti tra i fratelli Nicosia ed esponenti di vertice della Stidda, particolarmente attiva in area vittoriese nella gestione economica di interi settori quali la raccolta della plastica e la produzione degli imballaggi per i prodotti ortofrutticoli.

Quello che ha da dire Marco Lillo sul caso Consip (e sul presunto “golpe”)

E vale la pena leggerlo. Almeno per mettere in fila i fatti.

 

di Marco Lillo

Per smontare il teorema del ‘complotto’ contro Matteo Renzi costruito dal Noe dei Carabinieri con la complicità del pm Henry John Woodcock e del Fatto è molto utile una semplice cronologia.
Quando il capitano Gianpaolo Scafarto, ai primi di settembre del 2016, avrebbe fatto alla pm di Modena Lucia Musti la confidenza generica su un’indagine non meglio precisata (“Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi”) erano già accaduti alcuni fatti. In particolare un signore toscano amico di Tiziano Renzi di nome Carlo Russo era già entrato più volte nell’ufficio di Alfredo Romeo per parlare degli appalti che interessavano all’imprenditore. Non solo in Consip ma anche in Grandi Stazioni e in Inps. Stando alle informative di Gianpaolo Scafarto di quel periodo erano già accaduti questi eventi: il 3 agosto Romeo aveva chiesto a Russo di incontrare il padre del premier di allora perché aveva problemi con il suo amico amministratore di Consip, Luigi Marroni, per una serie di appalti del valore di centinaia di milioni di euro. Russo aveva proposto allora di fare una bisteccata a casa di Tiziano Renzi con lo stesso Marroni. Il 31 agosto Romeo era tornato alla carica e Russo aveva riferito così la risposta di Tiziano: “gli ho detto che … dobbiamo fare sto passaggio con Marroni! M’ha detto dice: ‘Fammi finire sto casino prossima settimana ci mettiamo’”.
Quando Scafarto avrebbe fatto la sua profezia, Romeo aveva già proposto a Russo il famoso ‘accordo quadro’ che poi sarà precisato meglio il 14 settembre nel famoso foglio che – secondo l’interpretazione dei Carabinieri – reca l’offerta di 30 mila euro al mese per Tiziano Renzi in cambio di un incontro al mese con Luca Lotti e con Luigi Marroni per propriziare un occhio di riguardo su Romeo da parte della Consip guidata da Marroni.
La confidenza di Scafarto (‘scoppierà un casino arriviamo a Renzi’) quindi non è la prova del movente delle sue macchinazioni contro Tiziano e Matteo ma un annuncio abbastanza prevedibile (e certamente scorretto se vero) sulla base di indizi già raccolti.
Prima però ricordiamo come è nata la teoria che piace tanto ai grandi giornali, alla politica e ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura vicini a Renzi.
Il teorema (ben descritto ieri in un pezzo di Carlo Bonini su Repubblica) vuole connettere due fatti che non c’entrano nulla: lo scoop del Fatto del luglio 2015 sulla telefonata di Matteo Renzi con il generale Michele Adinolfi e lo scoop del Fatto del 2016-2017 sul caso Consip. Ebbene il teorema è delineato nel libro del segretario del Pd Avanti.
Renzi ricorda così il nostro scoop della telefonata tra lui e il generale della GdF Adinolfi, nella quale i due sparlavano di Enrico Letta, intercettata nel 2014 e pubblicata dal Fatto il 10 luglio 2015. “È la prima volta – scrive Renzi – in cui faccio la conoscenza del Noe, Nucleo operativo ecologico dell’Arma dei carabinieri, che su incarico di un pm di Napoli, il dottor Woodcock, mi intercetta. Apprenderò dell’intercettazione mentre sono presidente del Consiglio, grazie a uno scoop del Fatto Quotidiano firmato da un giornalista che si chiama Marco Lillo. Segnatevi mentalmente questo passaggio: Procura di Napoli, un certo procuratore, il Noe dei carabinieri, il Fatto Quotidiano, un certo giornalista. Siamo nel 2014, non nel 2017, sia chiaro. Che poi i protagonisti siano gli stessi anche tre anni dopo è ovviamente una coincidenza, sono cose che capitano”.
L’insinuazione che Il Fatto abbia ottenuto le notizie per i due scoop nel 2015 e nel 2016-7 sempre grazie al Noe e al pm Woodcock è falsa e diffamatoria ma trova subito una grancassa nelle istituzioni.
Il libro esce il 12 luglio e sembra il canovaccio delle domande poste al pm Lucia Musti di Modena appena cinque giorni dopo dal presidente della prima commissione del Csm. L’avvocato Giuseppe Fanfani, ex sindaco Pd di Arezzo, amico di Maria Elena Boschi e già legale del padre, ascolta con i suoi colleghi del Csm il procuratore di Modena nell’ambito del procedimento contro Henry John Woodcock finalizzato a capire se il pm di Napoli che ha osato intercettare il padre del leader Pd debba essere trasferito per incompatibilità.
La pm Lucia Musti ha ricevuto per competenza nell’aprile del 2015 le carte del fascicolo Cpl Concordia, istruito da Woodcock, nel quale era contenuta l’intercettazione di Matteo Renzi con il generale Adinolfi. La telefonata è divenuta pubblica nel luglio 2017 perché non era più segreta e Il Fatto – come la Procura di Napoli ha ricostruito già nel 2016 – l’ha avuta da fonti non investigative in modo pienamente lecito. E non era più segreta per una svista non del pm Woodcock ma degli uffici dei pm dell’antimafia che l’avevano ricevuta per competenza di materia da Woodcock proprio come la dottoressa Musti l’aveva avuta a Modena.
I pm di Napoli nel 2015-2016 indagarano i carabinieri del Noe che avevano aiutato il personale di segreteria, oberato di lavoro, a effettuare la scansione delle pagine senza avvedersi che l’informativa depositata non era quella omissata ma la versione precedente, che non conteneva gli omissis. Così quelle due pagine così delicate con i giudizi sprezzanti di Renzi su Letta sono finite nel computer della Procura accessibile a tutti gli avvocati del procedimento. Tre avvocati (almeno) ne vennero in possesso e così Il Fatto ha potuto acquisire tutte le carte pubbliche del fascicolo, compresa quella che doveva restare segreta. Questo tragitto è stato accertato con certezza dai pm e dai loro periti informatici grazie anche alle perquisizioni ai danni dei giornalisti del Fatto e in particolare al sequestro e all’analisi del computer del collega Vincenzo Iurillo che ha firmato quello scoop con chi scrive questo articolo.
I carabinieri del Noe furono indagati e interrogati ma i pm Alfonso D’Avino e Giuseppe Borrelli ne chiesero l’archiviazione a febbraio 2016 perché “E’ da escludersi che la scansione integrale della informativa del 15.10.2014 sia stata intenzionalmente effettuata dai militari al fine di renderla ostensibile attraverso il suo inserimento al TIAP (il sistema informatico della Procura, ndr)”; 2) “la pubblicazione degli atti era avvenuta ad opera del cancelliere (incolpecole anche lui, ndr) addetto alla segreteria del pm dell’antimafia Cesare Sirignano”.
L’audizione della dottoressa Musti al Csm doveva essere diretta ad appurare le responsabilità dei magistrati in quella fuga di notizie. Woodcock in questo caso non aveva alcuna responsabilità ma il pm Musti ne approfitta per fare due dichiarazioni contro la polizia giudiziaria preferita dal pm napoletano: i carabinieri del Noe.
La prima riguarda il fascicolo Cpl Concordia del 2015 e l’allora vicecomandante del Noe dei Carabinieri Sergio De Caprio, alias Ultimo.
Questa è la ‘la seconda versione’ del verbale pubblicata dal quotidiano Repubblica (diversa da quella del giorno precedente) riguardo all’incontro Ultimo-Musti per le carte dell’indagine Cpl Concordia del 2015: “Il presidente Fanfani chiede: «Chi glielo disse?». Musti: «Il colonnello De Caprio mi disse: “Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”». Fanfani: «Ma in riferimento a cosa?». Lei: «Ma cosa ne so? Cioè, io non lo so perché erano degli agitati. Io dovevo lavorare su Cpl Concordia, punto, su quest’episodio di corruzione. Dissi ai miei, “prima ci liberiamo di questo fascicolo meglio è”».
Musti quindi sta dicendo al Csm che Ultimo quando consegnò il fascicolo Cpl Concordia a Modena disse che era una bomba. Il fascicolo non era centrato su Renzi ma sulla coop emiliana e conteneva intercettazioni del 2014 riguardanti: 1) i rapporti tra Massimo D’alema e la Cpl Concordia; 2) la Fondazione Icsa fondata da Marco Minniti ma lasciata dall’ex sottosegretario nel 2013; 3) intercettazioni su altri personaggi del Pd tra cui anche Matteo Renzi ma non solo lui.
Dal testo del secondo (e probabilmente vero) verbale pubblicato da Repubblica ieri si evince chiaramente che il pm Lucia Musti non dice e nemmeno insinua mai che ‘la bomba’ a cui faceva riferimento Ultimo fosse l’intercettazione di Renzi con Adinolfi.
La seconda cosa che dice il pm Lucia Musti al Csm riguarda il fascicolo che nel 2016 vedeva il solito Noe, sempre sotto la direzione del pm Woodcock, impegnato sul versante Consip. Così sempre Repubblica (sempre nella seconda versione del verbale ieri) riferisce la versione del pm Lucia Musti su un suo incontro con il capitano Scafarto ai primi di settembre del 2016: «Lui mi ha parlato del caso Consip, un modo di fare secondo me poco serio, perché un capitano, un maresciallo, un generale sono vincolati al segreto col loro pm, non devi dire a me che cosa stai facendo con un altro. Quindi, quando lui faceva lo sbruffone dicendo che sarebbe “scoppiato un casino”, io dentro di me ho detto “per l’amor di Dio”. Una persona seria non viene a dire certe cose, quell’ufficiale non è una persona seria». Fanfani vuole dettagli: «De Caprio ha detto “Ha una bomba in mano”, mentre Scafarto “succederà un casino”?». Musti risponde: «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi».
E’ evidente dalla lettura di questa versione del verbale l’inesattezza di quanto pubblicato il giorno prima. Lucia Musti non ha mai dichiarato che Ultimo e Scafarto le dissero: ‘Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi’.
Una cosa è la bomba Cpl Concordia di cui parla Ultimo senza alcun riferimento a Renzi e alla sua conversazione con Adinolfi poi pubblicata dal Fatto.
Altra cosa è quel generico “scoppierà un casino arriviamo a Renzi” che sarebbe stato detto nel settembre 2016 dal capitano Scafarto quando aveva già in mano indizi pesanti su Tiziano Renzi.
La scorretta rappresentazione della realtà fatta dai grandi quotidiani insinua che la bomba di cui parlava Ultimo a Lucia Musti nel 2015 fosse l’intercettazione Adinolfi-Renzi. Non basta. la grande stampa e il Pd al seguito forzano anche il senso della frase di Scafarto per insinuare un intento complottistico del Noe contro Renzi nel 2016.
Scrive sul punto Il Corriere della Sera di venerdì “Il fatto che l’ex capitano del Noe abbia detto a Musti, quattro mesi prima di consegnare l’informativa e anche prima che fosse registrata la famosa frase «Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato» falsamente attribuita a Romeo («assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano», scrisse Scafarto nel rapporto), potrebbe far immaginare che l’obiettivo dei carabinieri fosse proprio il padre dell’ex premier. Come se fosse un possibile movente della successiva manipolazione dell’intercettazione. E chi volesse ipotizzare che quello fosse lo scopo dei falsi contestati a Scafarto (…) ora avrebbe un motivo in più per sostenerlo”.
La rappresentazione di un colloquio in cui Scafarto parla con Musti prima di avere nelle mani gli indizi e le registrazioni che inguaieranno Tiziano Renzi ha permesso al Pd Michele Anzaldi di presentare un’interrogazione al Governo e ha fatto parlare di ‘fatti di gravità inaudita’ all’ex segretario Pd Dario Franceschini e di “complotto” al capogruppo Pd Luigi Zanda. Grazie a questo modo di fare informazione non è apparsa ridicola la visita di Matteo Renzi a Rignano così raccontata in un pezzo dal titolo “Consip, Renzi subito a Rignano dal padre. Con lui il faccia a faccia della pace”.
Il pezzo è uscito il 14 settembre, proprio nel primo anniversario del giorno del famoso pizzino. Il 14 settembre 2016 infatti Alfredo Romeo scrisse su un foglietto ritrovato il giorno dopo nella spazzatura dal Noe e interpretato come un’offerta nero su bianco al ‘compare di Tiziano Renzi, Carlo Russo, di 30 mila euro al mese, destinati a ‘T.’ che secondo la tesi accusatoria sarebbe Tiziano Renzi.
Al di là delle conseguenze politiche della strumentalizzazione delle frasi della pm Musti, c’è una conseguenza giudiziaria di non poco conto. Alla Procura di Roma sono state trasmesse dal Csm le dichiarazioni della pm di Modena perché i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi valutino se inserirle nel fascicolo contro Woodcock. Non solo. Lunedì prossimo la solita prima commissione del Csm presieduta dal solito Giuseppe Fanfani convocherà i due pm di Napoli, Giuseppe Borrelli e Alfonso D’avino, che si sono occupati del’indagine sulla pubblicazione da parte del Fatto dell’intercettazione Renzi-Adinolfi.
In pratica il presidente della commissione del Csm convoca i procuratori aggiunti di Napoli e trasmette carte alla Procura di Roma perché finalmente si indaghi a fondo nella direzione del collegamento tra i due scoop del Fatto, proprio la direzione auspicata dal leader Matteo Renzi nel suo libro.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Ops, dice la Pm di Modena sul caso Consip che le “vengono attribuite frasi mai dette”

Forse prima di gridare al “golpe” converrebbe aspettare. Forse. Ecco l’articolo del Fatto Quotidiano:

 

Due nuovi fascicoli aperti per rivelazione di segreto d’ufficio. Sono quelli aperti dalla procura di Roma in relazione alle fughe di notizie che hanno riguardato il contenuto di audizioni sul caso Consip avvenute davanti al Consiglio superiore della magistratura. I due fascicoli fanno riferimento a due distinti episodi di notizie coperte da segreto apparse sui quotidiani e sono al momento contro ignoti.

Appena venerdì scorso il Corriere della Sera e Repubblica avevano pubblicato il contenuto dell’audizione del procuratore di Modena, Lucia Musti, davanti alla prima commissione Csm. Il magistrato ha riferito che l’allora capitano dei carabinieri Gianpaolo Scafartol’ufficiale del Noe indagato per falso e rivelazione del segreto, le disse: “Dottoressa lei se vuole ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba, scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi“. Il colloquio avvenne all’inizio di settembre 2016 poco meno di quattro mesi prima del deposito delle informative in cui Scafarto, secondo l’ipotesi degli inquirenti, avrebbe inserito false informazioni come quella in cui la frase “l’ultima volta che ho incontrato Renzi” (Tiziano, cioè il padre dell’ex premier) viene attribuita all’imprenditore Alfredo Romeo (arrestato per corruzione e tornato libero ad agosto, ndr), mentre invece era dell’ex parlamentare Italo Bocchino, e riferita al figlio Matteo.

A tre giorni dalla pubblicazioni di quelle frasi, però, il pm Musti fa marcia indietro. E contattata dall’agenzia Ansa – che l’aveva già sentita venerdì scorso per un commento, ottenendo in cambio un no comment  – smentisce il contenuto di quell’audizione a Palazzo dei Marescialli. “Rilevo che mi vengono attribuite alcune affermazioni, anche virgolettate, che io non ho fatto ovvero che, per come riportate, non rendono in modo fedele quanto da me riferito al Csm in audizione non pubblica, conseguente a convocazione”, ha detto il magistrato aggiungendo: “Sono a disposizione del procuratore della Repubblica di Roma”. Una strana smentita quella di Musti, sopratutto perché arriva con almeno 72 ore di ritardo.

Nel frattempo, tra l’altro, proprio sulla base delle dichiarazioni accreditate a Musti, anche la procura militare ha cominciato a seguire la vicenda Consip. Allo stato, secondo quanto si è appreso, si tratta solo di un monitoraggio delle fonti aperte – in primis proprio le notizie pubblicate dai media – finalizzato a a verificare se sussistono ipotesi di reato di competenza della procura militare. Nella sua audizione – sempre secondo quanto riportato sulla stampa – Musti ha tirato in ballo anche il colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo noto soprattutto per l’arresto di Totò Riina, all’epoca comandante del Noe. Anche De Caprio avrebbe usato la stessa terminologia di Scafarto: “Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”. Al Consiglio superiore della magistratura Musti ha dichiarato di aver pensato che quei carabinieri erano degli “esagitati”. Affermazioni smentite da Ultimo.  “Non ho mai parlato di Matteo Renzi né con la dottoressa Musti né con altri”, ha detto il militare venerdì scorso. Tre giorni dopo ecco la strana smentita del magistrato di Modena.

 

Caporalato agropontino: denunce e aggressioni nell’articolo di Marco Omizzolo

Marco Omizzolo è una delle voci più preparate e autentiche sul fenomeno del caporalato. Questo suo articolo (scritto per Articolo21) è un quadro impietoso della situazione in provincia di Latina che ben racconta come il fenomeno dello sfruttamento non appartenga solo alla Puglia e, soprattutto, come l’emergenza non abbia bisogno di vittime per essere tale.

 

In provincia di Latina per molti giornalisti, ricercatori e attivisti non è facile lavorare. È infatti usanza consolidata di alcuni politici denunciare chi studia e racconta le mafie, la corruzione, l’urbanistica e l’ambiente per ostacolarne il lavoro. Se poi si riprendono, descrivono e raccontano anche i luoghi e i personaggi che praticano lo sfruttamento lavorativo, il caporalato e la tratta internazionale, allora dalle denunce temerarie si passa facilmente alle aggressioni, intimidazioni e minacce. È accaduto, ancora una volta, solo qualche giorno fa.

Il 5 settembre scorso, infatti, come faccio da anni, mi trovavo nelle campagne pontine a documentare, intervistare, raccogliere storie di vita di braccianti indiani per approfondire il tema dello sfruttamento lavorativo ad opera di alcuni imprenditori e caporali. Un lavoro affascinante e difficile, scomodo e spesso battistrada per individuare una serie di interessi criminali e metodi in sé mafiosi. Molte ricerche scientifiche e giornalistiche, italiane e straniere, ormai concordano nel riconoscere lo sfruttamento lavorativo, soprattutto quando associato ai migranti, insieme al caporalato e alla tratta internazionale, espressione di una criminalità più o meno dipendente dalla consorterie mafiose tradizionali.

Con me questa volta si trovava una troupe della Bbc, network tra i più importanti al mondo composta da Rahul, giornalista peraltro di origine indiana, e dal suo operatore, e Floriana Bulfon, giornalista de L’Espresso che sul grave sfruttamento lavorativo dei lavoratori indiani ha già pubblicato importanti inchieste, lì in veste di interprete.

Una combinazione di professionalità di livello internazionale e, grazie anche alle origini del giornalista della Bbc, che si è subito confrontata non solo con le testiminianze dei lavoratori da anni sfruttati da padroni italiani, caporali e trafficanti spesso loro connazionali, ma anche con le reazioni, minacce e intimidazioni di chi si ritiene legittimato a sfruttare e a non dar conto dei propri comportamenti.

Giunti intorno alle 09.00 del mattino a ridosso di un campo agricolo, restando sulla strada pubblica e dunque senza invadere proprietà privata alcuna, Rahul e il suo operatore iniziano a riprendere un gruppo di lavoratori indiani chini sui campi. Nulla di particolare, nulla di ambiguo. Una telecamera a ripredere ciò che nelle campagne pontine tutti vedono ogni giorno. E poi un giornalista che racconta la giornata di un lavoratore indiano, descrive quelle condizioni, non esprime giudizi ma approfondisce, come deve, ciò che nei giorni precedenti aveva raccolto in termini di informazioni mediante interviste fatte agli stessi lavoratori come anche ad alcuni rappresentanti istituzionali e delle forze dell’ordine.

Tanto però è bastato per essere fermati subito da un ragazzo italiano, probabilmente il padrone del campo e datore di lavoro di quei lavoratori. Dovevamo, secondo lui, interrompere le riprese. In pochi secondi siamo stati raggiunti anche da un’auto dalla quale è scesa una donna che ha subito fotografato la nostra auto (presa a noleggio) e chiesto spiegazioni, peraltro prontamente fornite con tanto di esposizione dei documenti e tesserini da giornalista. La tesi era “voi non potete riprendere senza il nostro permesso, non potete fare domande, i lavoratori sono tutti in regola, dovetre andare subito via o vi denuncio….ora chiamo i carabinieri”. Intanto sono arrivate altre due auto che parcheggiano a poca distanza da noi dalle quali scendono due uomini. Capiamo che rischiamo di restare lì tutto il giorno e decidiamo di andare via evitando di cadere nelle provocazioni. Riprendiamo a girare per le campagne di Sabaudia e dopo soli dieci minuti veniamo fermati un’altra volta. In questo caso ad intimarci l’alt è la polizia municipale di Sabaudia. Accostiamo sul ciglio della strada. Alla nostra destra e sinistra solo campi pieni di lavoratori indiani piegati a raccogliere. Accanto a loro, in piedi, qualche italiano e altri indiani. I primi erano i “padroni” e i secondi i “caporali”. Ci sarebbe piaciuto intervistarli ma non è stato possibile per il prontissimo intervento della celere municipale. Bene, è dovere loro controllare e lo fanno con attenzione certosina. Ci chiedono i documenti. Ognuno presenta il proprio, compresi i tesserini da giornalisti. La telecamera intanto riprende i braccianti indiani piegati nei campi e i caporali che ridono. I controlli sono così accurati che non so se esserne lieto o demoralizzarmi. Il vigile annota tutto con scrupolosità: i nostri nomi, i numeri dei nostri documenti, il contratto di noleggio dell’auto, l’effettiva revisione della stessa, l’assicurazione e infine guarda se l’auto ha qualche problema. Alle sue domande rispondiamo con educazione mista ad ironia, forse per alleggerire la tensione. Intanto l’operatore, di origine egiziane e con una lunga esperienza internazionale, ci dice che neanche quando è stato in Egitto, Libia o in Siria gli era mai capitato di vivere una tale situazione. Ma è solo l’inizio. Il vigile ci comunica che tanta solerzia è dovuta al pericolo terrorismo. La sua attenzione è indispensabile perchè “è un periodo difficile e il pericolo di attentati può esserci ovunque”. Un po’ la cosa fa ridere, un po’ invece no. Intanto alla sua destra e sinistra i lavoratori indiani continuano a lavorare sotto padrone e caporale. Padrone e caporale che dovrebbero essere perseguiti, addirittura arrestati, stando alla recente nuova legge contro il caporalato (lex 199/2016). Loro invece restano lì, in piedi, a controllare il lavoro dei braccianti, a chiedere loro di fare più in fretta per una retribuzione oraria che non arriva ai 4 euro (nella migliore delle ipotesi) a fronte dei 9 lordi circa che la legge prevede. Non vengono rispettate le misure a tutela della loro salute. Lavorano anche 12 ore, con pause brevi. Il datore di lavoro in alcuni casi si fa chiamare padrone. Il caporale li insulta. Se un lavoratore indiano si infortuna viene allontanato o portato in prossimità di un Pronto Soccorso e poi abbandonato. Abbiamo decine di referti di aggressioni o malatti legate allo sfruttamento. Ma il vigile, giustamente, controlla la revisione della nostra auto e il contratto di noleggio quale strategia per contrastare il terrorismo internazionale. Il giornalista della Bbc ride, io un po’ meno.

Finito ogni controllo, pensiamo di andare via. L’aria si è fatta pesante. In solo un’ora siamo stati avvicinati da vari datori di lavoro, presi in giro da caporali e padroni, controllati dalla polizia municipale. Ci pare abbastanza.

Decidiamo di trovare una location adatta per farmi intervista. Suggerisco il Mof di Fondi, ossia uno dei maggiori mercati ortofrutticoli d’Europa. Già al centro delle cronache giudiziarie e giornalistiche d’Italia, il Mof è il luogo ideale in cui raccontare il rapporto tra mafie, sfruttamento lavorativo, tratta internazionale e caporalato. Proprio in  prossimità dell’entrata di quel Mercato si ritrovavano, come ho già avuto modo di scrivere per Articolo21, Gaetano Riina, fratello di Totò Riina, e Nicola Schiavone, figlio di Carmine Schiavone detto Sandokan, tra i fondatori del clan dei Casalesi. Le indagini portarono alla luce il sodalizio criminale tra i casalesi, i Mallardo e i corleonesi per la gestione di vari mercati ortofrutticoli dalla Sicilia a Fondi. I clan campani fungevano da service per trasporti e logistica mentre i mafiosi siciliani fornivano i prodotti agricoli con il beneplacido interessato della ‘ndrangheta. Camion che trasportavano ufficialmente la frutta e la verdura prodotta nelle campagne pontine dai braccianti nascondevano e trasportavano anche armi, droga e forse anche denaro frutto di rapine, estorsioni e traffici illeciti di varia natura.

Prima di arrivare spiego la storia criminale del pontino che ho provato a ricostruire, almeno per una parte della sua genesi, con una mia recente pubblicazione (http://www.tempi-moderni.net/prodotto/la-quinta-mafia/). Gli racconto delle estorisioni, delle mancato scioglimento dell’amministrazione comunale di Fondi, della reazione della politica al potere, dei silenzi e dell’operato lodevole delle forze dell’ordine della magistratura. In auto c’è silenzio interrotto da qualche battuta per stemperare la tensione.

Anche in questo caso arriviamo a ridosso dell’entrata del MOF. Restiamo però ancora sulla strada. Parcheggiamo e l’operatore, con Rahul, si posizione su un’aiuola. Si tratta di suolo pubblico. In lontananza si vede l’enorme scritta del MOF. Iniziamo l’intervista. La prima domanda riguarda il mio interesse per le agromafie e lo sfruttamento lavorativo e da qui arrivo all’uso indotto di sostanze dopanti da parte dei lavoratori indiani per reggere i ritmi imposti al lavoro e lo sfruttamento, tutto documentato  da un dossier (Doparsi per lavorare come schiavi) pubblicato da In Migrazione.

Ancora una volta veniamo interrotti. Questa volta è la guardia giurata del Mof. Ci chiede le generalità e lo scopo del nostro lavoro. Siamo ovviamente collaborativi. Floriana è paziente. L’essere una giornalista di giudiziaria de L’Espresso e trattando il tema mafie e terrorismo da anni, riesce a gestire adeguatamente la situazione. La guardia giurata ci ricorda che per stare lì dobbiamo chiedere l’autorizzazione. Non importa se il suolo è pubblico e se siamo distanti dal Mof. Serve l’autorizzazione. Sembra di vivere in un film comico. Avendo saputo che si tratta della Bbc, la guardia chiama la direzione che gli intima di lasciarci lavorare. Sono evidentemente più astuti dei padroni agricoli pontini.

Riprendiamo l’intervista ma dopo due minuti arriva un altro controllo. Si ferma un’utilitaria. Nessun logo sulla fiancata, nessun lampeggiante o titolo in evidenza. Scende un uomo sui 55 anni. Ci sorride e non interviene subito ma ci scatta con il cellulare alcune foto. Io mi fermo perchè avverto quella presenza come inquietante. Floriana gli si avvicina e torna a spiegare, per la quarta volta in due ore, che lei è un’interprete, che si tratta della Bbc (cosa che quest’uomo sapeva già), cosa stavamo facendo e perché eravamo lì. In questo caso la nostra percezione è diversa da quelle passate. Quell’uomo così gentile ferma subito Floriana e le dice che sa perfettamente che lei non è solo un’interprete ma una giornalista. Poi ci spiega, sempre sorridendo, che dobbiamo avere un’autorizzazione sia per stare su quell’aiuola sia per filmare ma che ci concede, bontà sua, di continuare. Floriana lo avverte che non stavamo facendo un servizio sulle mafie nel Mof e lui, astutamente, non risponde. Fotografa però ancora la nostra auto e mi scatta una foto da distanza abbastanza ravvicinata. Non ci dà spiegazioni sulle ragioni della sua presenza, sul suo ruolo e attività. Non è affatto arrogante. Ad alta voce, per farsi sentire distintamente da tutti, dice però di fare attenzione perché “potrebbero improvvisamente attivarsi gli annaffiatoi” e aggiunge che quello in cui eravamo è un posto pericoloso perché passano molti camion. Qualcuno, afferma, soprattutto quando è carico, potrebbe “perdere il controllo e venirci addosso” facendo una strage. Si preoccupa per noi. Floriana ed io restiamo per qualche secondo in silenzio. Continua affermando che quei camion hanno già perduto il controllo in passato salendo varie volte sull’aiuola dove ci trovavamo. Lo informiamo che staremo ancora solo due minuti e lui dalle foto passa al video. Ci riprende qualche secondo e va via, salvo nascondersi dietro una curva dalla quale poteva tenerci d’occhio.

Finisco l’intervista parlando di sfruttamento, doping, mafia, di tratta internazionale, caporalato e del bisogno che abbiamo di giustizia e diritti. L’entrata del Mof è alle mie spalle. Alla nostra destra, lontano qualche centinaio di metri, quell’ometto basso e sorridente che si preoccupava della nostra salute. La minaccia io e Floriana l’abbiamo capita benissimo. Stare attenti e soprattuto stare lontanti, dal Mof, da certi temi, da certi campi.

Torniamo a Sabaudia per continuare il nostro lavoro, ben sapendo che esistono interessi e luoghi che non devono essere ripresi ma che proprio per questo, ne siamo convinti, meritano di essere descritti, indagati, studiati.

La sensazione che si vive è di pressione e ostacolo costante al nostro lavoro da parte di chi sfrutta, di criminali vari, di alcune istituzioni che sembrano refrattarie a qualunque impegno volto a ristabilire legalità e giustizia, di personaggi non meno precisati che si sentono così forti da minacciare direttamente un giornalista della Bbc, il suo operatore, una giornalista de L’Espresso e il sottoscritto. Si ha la certezza che lavorare nel Pontino raccontando le storie degli ultimi, degli sfruttati, dei migranti obbligati ad abbassare la testa dinanzi al padrone di turno, procura problemi e intimidazioni. La Bbc ha capito bene come stanno le cose e ad ottobre manderà in onda il servizio a livello mondiale e da Londra a New York, da Calcutta a Roma, tutti vedranno e sapranno. Non c’è stato dunque bisogno di usare troppe parole. È bastato fargli vivere l’esperienza diretta di chi prova a raccontare puntando il dito, l’obiettivo e la penna negli angoli bui di questa provincia dove poco si vede e meno si sa. Poi arrivano padroni, caporali, vigili, guardie giurate e anonimi personaggi sorridenti a domandarti chi sei, cosa fai e soprattutto a raccomandarsi di stare attento alla salute che qui ci vuole poco a farsi male. Intanto tutto intorno braccianti, indiani e spesso anche italiani, si spezzano la schiena per pochi euro al giorno, i caporali comandano, i padroni ordinano e fanno i soldi e i padrini fanno politica e filmini con il cellulare. Ma le cose prima o poi cambiano ed è per questo che continueremo ad analizzare, raccontare e descrivere decidendo ogni giorno da che parte stare e contro chi combattere.

Quella brutta storia del capo dei vigili di Milano

La racconta bene Luigi Franco per Il Fatto Quotidiano:

Una scelta definitiva il sindaco Giuseppe Sala non l’ha ancora presa. Ma per ora il comandante dei vigili di Milano Antonio Barbato è salvo. Di ulteriori approfondimenti è stato incaricato il comitato per la Legalità del comune presieduto da Gherardo Colombo: “Solo a valle di tutto ciò – spiega il sindaco in una nota – sarò in grado di valutare la posizione del comandante”. Il nome di Barbato è finito, seppure da non indagato, nelle carte dell’inchiesta dei pm della Ddadi Milano che lo scorso maggio ha portato a scoperchiare, tra l’altro, presunteinfiltrazioni in appalti relativi alla vigilanza privata a palazzo di giustizia. Dalle carte depositate in questi giorni sono venute a galla alcune conversazioni tra Barbato e Domenico Palmieri, ex dipendente provinciale e sindacalista della Uil finito agli arresti in quanto accusato di avere svolto un ruolo di “facilitatore per il clan catanese dei Laudani.

I pm hanno appurato come Palmieri abbia offerto a Barbato la possibilità di fare pedinare un vigile-sindacalista “nemico” del comandante dalla società di vigilanza privata di Alessandro Fazio, anche lui finito agli arresti. Scopo dei pedinamenti, poi non eseguiti, sarebbe stato controllare come il vigile-sindacalista utilizzava le ore di permesso sindacale. Mentre la contropartita sarebbero state informazioni su appalti del comune legati alla sicurezza, a cui era interessato Fazio, presentato a Barbato da Palmieri. Quando un mese fa i pm hanno sentito Barbato come testimone, gli hanno domandato: “Le pare normale che lei accetti la proposta di far seguire un suo dipendente sostanzialmente dalla polizia privata di Fazio che era comunque interessato a gare in tema di sicurezza bandite dal Comune?”. Ed ecco la risposta messa a verbale: “Sono perfettamente consapevole che in funzione del mio incarico non sarebbe stato convenienteeticamente corretto (…). Infatti anche se ho accettato la proposta di Palmieri non se ne è fatto mai niente”.

Barbato non è stato indagato, ma rimane aperta la questione dell’opportunità di quegli incontri. Da una parte ci sono le critiche delle opposizioni a Palazzo Marino e i dubbi della stessa maggioranza, con il capogruppo del Pd Filippo Barberis che ha chiesto “un chiarimento sufficiente per l’amministrazione a considerarlo ancora adeguato all’onorabilità che richiede l’incarico di comandante dei vigili”. Dall’altra parte la difesa sinora garantita a Barbato dai sindacati, mondo da cui proviene lo stesso comandante. Ex sindacalista della Usb, Barbato ha alle spalle un licenziamento dal corpo, seguito da reintegro, quando nel 1998 criticò un’ordinanza anti prostituzione dell’allora sindaco Gabriele Albertini. In passato ha anche tentato il salto in politica, candidandosi per due volte al consiglio comunale nelle liste di Rifondazione comunista. Dopo essere stato promosso vice comandante della polizia locale sotto la giunta Pisapia, a inizio 2016 ha preso il posto del dimissionario Tullio Mastrangelo.

Oggi la sua posizione è stata al centro di due distinti incontri. Il primo tra lo stesso Barbato e l’assessora milanese alla Sicurezza Carmela Rozza, che aveva chiesto al comandante la presentazione di una relazione scritta. Il secondo tra l’assessora e Sala. Come detto, la decisione per il momento è stata quella di confermare il comandante al suo posto. “Non possiamo prendere decisioni solo su notizie di stampa – ha commentato Rozza al termine dell’incontro con il sindaco – ma ci deve essere un percorso chiaro. Io e il sindaco abbiamo ritenuto giusto inviare la relazione di Barbato alla commissione Legalità perché possa approfondire i fatti. Sul piano formale e sostanziale non c’è nessuna illegalità, ma c’è una questione legata a un punto di vista etico e gestionale, che è giusto approfondire. Il comandante non aveva preso sul serio questa proposta di pedinamento e anche il magistrato a quanto sembra si è fatto l’idea che non c’è reato”.

Barbato non è l’unica figura legata a Palazzo Marino su cui l’inchiesta della dda ha gettato ombre. Nelle carte, infatti, è finito anche l’ex assessore al Commerciodella giunta Pisapia e oggi consigliere comunale delegato al Bilancio della Città metropolitana, Franco D’Alfonso. Il suo nome, a differenza di quello di Barbato, è stato addirittura iscritto nel registro degli indagati per corruzione, ma la sua posizione è stata successivamente destinata a una richiesta di archiviazione. Restano però anche per lui le questioni di opportunità, considerate le conversazioni con Palmieri in cui D’Alfonso si era detto interessato alle prossime elezioni regionali, per le quali l’imprenditore Arcangelo Giamundo, a detta di Palmieri, avrebbe potuto garantire un pacchetto di voti. E tra i discorsi fatti, i due avevano parlato anche di un appalto relativo all’Idroscalo, di competenza della Città Metropolitana, a cui era interessato Giamundo.

Gli amici dell’abusivismo? I Comuni. Collusi.

“Inefficienza”. “Collusioni”. “Inadeguatezza”. Qual è il vero ruolo della politica nel proliferare degli abusi edilizi e nell’incredibile lentezza che contraddistingue le demolizioni? FQ_L’inchiesta in questa quarta e ultima puntata sul fenomeno dell’abusivismo prova a guardare il fenomeno dalla prospettiva della magistratura. Qualche esempio. Se in Calabria, negli ultimi 25-30 anni, l’abusivismo è cresciuto in maniera così esponenziale è colpa dei Comuni. Sindaci, assessori e dirigenti degli uffici: sono loro i primi nemici della lotta all’abusivismo. A spiegarlo è il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Che non ha dubbi: “Questo fenomeno, in realtà, è legato all’inefficienza, alla collusione e all’inadeguatezza degli uffici pubblici che nel corso degli anni non sono stati in grado di imporre il rispetto delle regole”. Insomma, tutto ruota attorno alla relazione tra abusivi e amministratori comunali, ed è proprio nelle pieghe di questo rapporto che si trovano le ragioni di un fenomeno dinanzi al quale, troppo spesso, piuttosto che pretendere il rispetto della legge, la politica e alcune istituzioni fanno spallucce. Non vedo, non sento, non demolisco. Reggio Calabria, dal 2014 scoperte 700 sentenze mai eseguite Paci cerca di spiegarlo in maniera semplice: “Diciamo che i Comuni raramente subiscono l’abusivismo edilizio. Il più delle volte semplicemente lo tollerano, non esercitando i controlli che dovrebbero esercitare”. Non si tratta di affermazioni di carattere generale. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria va nel dettaglio: “Abbiamo verificato – spiega Paci – che immobili abusivi costruiti per fini industriali, a Bagnara Calabra come a Reggio, posti in una posizione visibile a tutti, sono stati utilizzati per anni, senza che nessuno mai svolgesse alcun controllo”. Non stiamo parlando della casetta per l’estate, ma di capannoni industriali, venuti su e utilizzati senza alcuna difficoltà. “È chiaro – continua Paci – che c’è una compiacenza, quantomeno degli uffici tecnici comunali e della polizia municipale, che sul territorio deve fare controlli, verificare e denunziare le situazioni di abuso”. È da oltre un anno ormai che il procuratore Federico Cafiero De Raho ha affidato all’aggiunto Paci il compito di occuparsi dell’abusivismo in provincia di Reggio Calabria, dove le demolizioni sono praticamente nulle se si escludono, appunto, quelle disposte, negli ultimi mesi, dalla Procura in seguito alle sentenze definitive. Sulla sua scrivania c’è un report dettagliato sulle sentenze del Tribunale che ha disposto l’abbattimento di immobili abusivi: “Abbiamo verificato che, a partire dal settembre 2014, oltre 700 sentenze di demolizione passate in giudicato non erano mai state eseguite”. Mai eseguite. “Eppure, da un punto di vista generale – sottolinea Paci – i comuni non dovrebbero incontrare difficoltà. È vero che questa attività comporta delle spese, ma vengono sostenute da una legge dello Stato, che ha stanziato un fondo di 50 milioni di euro gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti. All’amministrazione comunale non rimane altro che accedere a questo fondo, rivalendosi poi sul proprietario abusivo”. Questo però non avviene. E il motivo è semplice. La lotta all’abusivismo è impopolare. E non porta voti. Anzi, rischia di farteli perdere.

Con gli abbattimenti si perdono voti e consenso. E le imprese convocate dalle procure si rifiutano di demolire “Demolire l’immobile di una persona che ha commesso un abuso edilizio – aggiunge il magistrato reggino – significa comunque inimicarsi per chi la dispone (soprattutto se è legato al territorio da un mandato di tipo politico-elettorale) quel tipo di elettore o addirittura quel tipo di elettorato”. Ecco perché, per la Procura, piuttosto che con i sindaci, è più facile lavorare con i commissari dei Comuni sciolti per mafia: “Loro non sono legati al territorio da un mandato di tipo politico-elettorale. Devono svolgere un’attività per il ripristino della legalità”.

Ma non si tratta dell’unica difficoltà. Paci descrive un vero e proprio percorso a ostacoli. Il motivo? Non è facile trovare la ditta che dovrà demolire. Non tutte le imprese che si iscrivono nella white-list delle prefetture, infatti, sono poi disposte ad effettuare le demolizioni: “Manifestano delle indisponibilità, talvolta allegando preventivi di spesa particolarmente onerosi. Altre volte ci sono dei rifiuti veri e propri, perché non vogliono impegnarsi nella demolizione di immobili costruiti abusivamente. Ecco – è lo sfogo del procuratore aggiunto – il nostro lavoro, almeno in questo settore, avviene in perfetta solitudine. Ed è osteggiato, neppure tanto velatamente, proprio da parte di chi dovrebbe sostenerlo”. E non esistono soltanto i furbetti convinti di farla franca. A volte c’è anche la criminalità organizzata: “Dentro questo fenomeno, chiaramente anche la ’ndrangheta ha avuto i suoi interessi e il suo tornaconto. Diverse famiglie mafiose, anche di un certo spessore, hanno operato con la compiacenza delle amministrazioni che dovevano controllarne e inibirne le manifestazioni criminali. Hanno realizzato immobili abusivi che poi, comunque, sono stati confiscati e diventati patrimonio dello Stato”. Dalla Calabria spostiamoci in Campania.

L’analisi del procuratore di Napoli. “In Campania amministrazioni compromesse con gli abusi” Nella provincia di Napoli, dal 1991 al 2016, l’83 per cento dei comuni commissariati lo è anche per il diffuso abuso e la corruzione dell’edilizia: il 77 per cento a Caserta e l’81 per cento in tutta la Campania. Sempre a Napoli, negli ultimi 11 anni, su 16.837 ordinanze di demolizione ne sono state emesse solo il 4 per cento. E non soltanto perché possono compromettere il loro bacino elettorale.

Per il procuratore generale del tribunale di Napoli, Nunzio Fragliasso, la motivazione è che “spesso le amministrazioni comunali sono compromesse con gli abusi e anche per questo le pratiche rimangono inevase”. Il problema, come abbiamo visto, è complesso e riguarda anche le procedure che coinvolgono comuni e procure. I primi sono gli unici interlocutori con la Cassa Depositi e Prestiti per accedere ai fondi necessari per le demolizioni delle strutture abusive, possibilità che non hanno le procure che, anzi, denunciano la mancata presentazione, da parte dei comuni, delle domande di accesso ai fondi. E se non bastasse, la classe politica al Governo, annunciando di volerci mettere una pezza, presenta un decreto legge – presentato dal senatore di Ala, Ciro Falanga – che secondo i Verdi e le associazioni ambientaliste rischia di trasformarsi in un codono permanente.

In attesa di approvazione definitiva alla Camera, la proposta di legge stabilisce per le procure dei criteri di priorità per la demolizione: in cima alla lista ci sono gli immobili costruiti in aree demaniali, o in zone soggette a vincolo ambientale, paesaggistico, idrologico, archeologico o storico artistico. Poi quelli che costituiscono un pericolo per l’incolumità. Infine quelli in uso ai mafiosi. Ma il nodo centrale della questione sono gli “abusi di necessità” e, in questo caso, la legge stabilisce che avranno la priorità gli immobili di titolari appartenenti a nuclei familiari che dispongono di altre abitazioni, escludendo quelli che ne hanno una. Se questo è l’apporto della politica, ecco cosa ne pensa la magistratura che, nel marzo 2016, viene chiamata dal Governo a dire la sua sulla legge.

Durante l’audizione in commissione Giustizia, il procuratore generale della corte di Appello di Napoli, Luigi Riello, spiega: “Passare per i comuni non è producente, perché sono loro i veri dominus e le demolizioni sono iniziate grazie all’autorità giudiziaria”. Per Riello, il ddl Falanga comporterebbe “la proliferazione degli incidenti di esecuzione, mentre un procedimento dovrebbe essere rapido”. E sulla rapidità, il nostro sistema non è di certo un modello, visto che, nella maggior parte dei casi per i reati di abusivismo, non si arriva nemmeno al primo grado di giudizio. Mentre l’abbattimento è previsto solo con la certezza della pena. Anche se si dovesse arrivare alla condanna, subentra il problema dei fondi necessari per la demolizione, quindi la palla ritorna ai comuni, che il ddl lascia come unici interlocutori con la Cassa Depositi e Prestiti. E i comuni, per usare le parole del procuratore Fragliasso, spesso “sono latitanti e di regola non eseguono le ordinanze di demolizione”.

Da Marsala a Terrasini. Quell’emendamento M5S che può invertire la rotta Leonardo Agate, scrivendo a red. inch. @ilfattoquotidiano.it, segnala il caso di Marsala: “Anche i sindaci siciliani avrebbero dovuto ingiungere la demolizione agli abusivi. A Marsala cominciarono nel 2012, e ne sono state abbattute, dagli stessi privati, o dal Comune per loro inerzia, poche decine su un totale di circa 400. Il ritmo delle demolizioni è di poche unità all’anno. La giustificazione accampata da sindaci e dirigenti comunali è che il bilancio non può sostenere la spesa delle demolizioni, che si aggira sui 10–20 mila euro per ciascuna, salvo abbattere il programma dei servizi essenziali. Giustificazione insostenibile: se il Comune demolisce, anticipa le spese della demolizione, che possono essere recuperate dall’abusivo con aggravio di spese, sanzioni e denuncia all’autorità penale. Se la procura della Repubblica iscrivesse i sindaci e i dirigenti comunali nel registro delle notizie di reato e proseguisse l’azione penale, si avvierebbero i processi nei riguardi degli inadempienti per le omissioni di atti di ufficio. Così si innesterebbe un processo virtuoso, perché gli abusivi demolirebbero dopo l’ingiunzione per non dovere pagare dopo un anno il doppio della spesa, e in ogni altro caso il Comune rientrerebbe in possesso delle spese fatte”. E in effetti, qualcosa si può fare, per obbligare i comuni ad eseguire le demolizioni. Per esempio, come accaduto a Terrasini, in provincia di Palermo, è possibile rimuovere i dirigenti che non adempiono ai loro doveri. E per farlo è sufficiente applicare una norma presentata dalla parlamentare del M5S Claudia Mannino.

Il punto di partenza è semplice: “I funzionari che non adempiono e rispettano i tempi previsti – spiega la deputata siciliana del M5S Claudia Mannino – sono suscettibili di causare un danno erariale”. Un anno dopo l’approvazione della sua norma Mannino è ritornata sul punto: “Ho presentato un esposto a tutte le procure siciliane, e a tutte le sedi regionali della Corte dei Conti, affinché si attivassero per far rispettare la norma e per evitare danni erariali agli enti locali”. E appena 5 giorni fa, nel comune di Terrasini, in provincia di Palermo, un dirigente comunale è stato temporaneamente rimosso dal suo incarico proprio perché – tra le altre contestazioni – ha tenuto “condotte omissive” che, oltre a determinare “un grave ritardo”, nei procedimenti che riguardano i “manufatti abusivi”, hanno provocato “un danno all’ente”. (da il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2017)

Se aprissimo tutte le frontiere del mondo?

Un articolo che sembrerebbe una provocazione ma non lo è. Da The Economist.

 

Per terra c’è un biglietto da cento dollari. Un economista cammina e non se ne cura. Un amico gli chiede: “Non hai visto i soldi?”. L’economista risponde: “Mi è sembrato di aver visto qualcosa, ma ho pensato di averlo immaginato. Se ci fosse stato un biglietto da cento dollari per terra qualcuno lo avrebbe raccolto”.

Se una cosa sembra troppo bella per essere vera, probabilmente non è vera. A volte, però, lo è. Michael Clemens, economista del Centre for global development, un centro studi sulla povertà di Washington, è convinto che ci siano “banconote da mille miliardi di dollari per terra” e che una politica apparentemente molto semplice potrebbe raddoppiare la ricchezza del mondo: aprire i confini delle nazioni.

I lavoratori sono molto più produttivi quando si spostano da un paese povero a uno ricco. Improvvisamente possono entrare in un mercato del lavoro con un grande capitale, aziende efficienti e un sistema legale non arbitrario. Le persone abituate a guadagnarsi da vivere zappando la terra cominciano a guidare i trattori. Quelli che fabbricavano mattoni di fango a mano cominciano a lavorare con gru e scavatrici. Quelli che sanno tagliare i capelli trovano clienti più ricchi che pagano meglio.

Esaminare l’ipotesi dell’apertura
“La manodopera è la risorsa più preziosa del mondo, eppure a causa delle regole sull’immigrazione gran parte di questa risorsa viene sprecata”, spiegano Bryan Caplan e Vipul Naik in A radical case for open borders (Una tesi radicale in favore dei confini aperti). I lavoratori messicani che emigrano negli Stati Uniti guadagnano in media il 150 per cento in più. I nigeriani non qualificati guadagnano il 1.000 per cento in più. “Costringere i nigeriani a restare in Nigeria è una scelta economicamente insensata come lo sarebbe costringere gli agricoltori a coltivare l’Antartide”, scrivono Caplan e Naik. Anche i benefici non economici sono evidenti. Negli Stati Uniti un nigeriano non può essere schiavizzato dagli islamisti di Boko haram.

I potenziali vantaggi dei confini aperti fanno impallidire quelli di un mercato libero e naturalmente anche quelli degli aiuti internazionali. Eppure l’idea viene generalmente considerata irrealizzabile. Nella maggior parte dei paesi del mondo la percentuale delle persone favorevoli non supera il 10 per cento. Nell’epoca della Brexit e di Donald Trump, proporla sarebbe un suicidio politico. Ciononostante vale la pena chiedersi cosa potrebbe accadere se i confini venissero effettivamente aperti.

Per chiarire, “confini aperti” significa che le persone sarebbero libere di spostarsi per cercare lavoro. Non significa “abolire i confini” o “abolire lo stato-nazione”. Al contrario, il motivo per cui la migrazione è così allettante è proprio che alcuni paesi sono gestiti nettamente meglio di altri.

Per abbandonare il proprio paese servono coraggio e resistenza

I lavoratori dei paesi ricchi guadagnano più di quelli dei paesi poveri perché sono più istruiti, ma soprattutto perché vivono all’interno di società che nel corso degli anni hanno sviluppato istituzioni che favoriscono la prosperità e la pace. È difficile replicare le istituzioni canadesi in Cambogia, ma è molto facile per una famiglia cambogiana trasferirsi in Canada. Il modo più rapido per eliminare la povertà assoluta sarebbe permettere alle persone di lasciare i luoghi dove questa povertà sopravvive. La loro povertà diventerebbe più visibile per i cittadini del mondo ricco – che vedrebbero molti più liberiani o bengalesi servire ai tavoli delle loro città – ma anche molto meno grave.

Quante persone deciderebbero di partire se i confini fossero aperti? L’istituto di sondaggi Gallup ha rilevato che 700 milioni di persone – il 14 per cento della popolazione mondiale – sceglierebbero l’emigrazione permanente se potessero, e un numero ancora maggiore sceglierebbe l’emigrazione temporanea. Circa 147 milioni di persone sceglierebbero di trasferirsi negli Stati Uniti, 35 milioni nel Regno Unito e 25 milioni in Arabia Saudita.

In realtà i numeri di Gallup potrebbero essere sovrastimati. Non sempre le persone fanno quello che dicono di voler fare. Per abbandonare il proprio paese servono coraggio e resistenza. I migranti devono dire addio ad amici e parenti, alle tradizioni familiari e alla cucina della nonna. Molti preferirebbero non fare questo sacrificio, anche rinunciando a una grossa ricompensa materiale.

In Germania gli stipendi sono il doppio rispetto alla Grecia e in base alle regole dell’Unione europea i greci sono liberi di trasferirsi in Germania, ma solo in 150mila lo hanno fatto dall’inizio della crisi economica, su una popolazione di undici milioni di persone. A Francoforte il clima è orribile e nessuno parla greco. Disparità ancora maggiori, abbinate alla libertà di varcare i confini, non hanno portato ad alcun esodo. Dal 1986 i cittadini della Micronesia possono vivere e lavorare senza un visto negli Stati Uniti, dove il reddito pro capite è venti volte più alto rispetto al loro paese. Due terzi scelgono di restare in Micronesia.

Dipende dai percorsi
Nonostante queste precisazioni, però, è molto probabile che i confini aperti alimenterebbero un forte flusso di migranti. La differenza tra i paesi ricchi e quelli poveri al livello globale è molto più grande rispetto a quella tra i paesi ricchi e quelli poveri in Europa, e i paradisi nel Pacifico come la Micronesia non abbondano. Molti paesi poveri sono anche violenti o caratterizzati da governi oppressivi.

Inoltre la migrazione è, in linguaggio tecnico, “dipendente dai percorsi”. Comincia sempre al rallentatore: di solito la prima persona a spostarsi dal paese A al paese B arriva in un luogo dove nessuno parla la sua lingua o sa cucinare i noodles come si deve. Ma il secondo migrante – magari fratello o cugino del primo – avrà qualcuno che potrà fargli fare un giro e farlo ambientare un po’. Mentre si sparge la voce che il paese B è un bel posto in cui vivere, un numero sempre maggiore di persone parte dal paese A. Quando arriva, il millesimo migrante trova un intero quartiere di compatrioti.

In questo senso le cifre di Gallup potrebbero anche essere sottostimate. Oggi al mondo vivono 1,4 miliardi di persone nei paesi ricchi e sei miliardi nei paesi non ricchi. Non è difficile immaginare che nel giro di qualche decennio, un miliardo (almeno) di queste persone possa emigrare se non ci saranno ostacoli legali al movimento. Evidentemente una migrazione di questa portata trasformerebbe i paesi ricchi in un modo imprevedibile.

Una fiera del lavoro per rifugiati a Berlino, l’8 giugno 2017.  - Sean Gallup, Getty Images

Una fiera del lavoro per rifugiati a Berlino, l’8 giugno 2017. (Sean Gallup, Getty Images)

Di solito gli elettori dei paesi di destinazione non si preoccupano troppo per un po’ di immigrazione, ma temono che l’apertura dei confini porterebbe “un’invasione di stranieri” che peggiorerebbe la loro vita e magari minaccerebbe il sistema politico che ha reso appetibile il loro paese. Hanno paura che la migrazione di massa porti un aumento dei crimini e del terrorismo, stipendi più bassi per i locali, un peso insostenibile per lo stato sociale, uno sconvolgente sovraffollamento ed effetti culturali nefasti.

Se un numero enorme di persone migra dalla Siria sconvolta dalla guerra, dal Guatemala in mano ai criminali o dall’instabile Congo, porta il caos nei paesi di destinazione? È un timore comprensibile (e naturalmente sfruttato dai politici contrari all’immigrazione) ma a sostenerlo ci sono soltanto congetture e prove aneddotiche. Certo, alcuni immigrati commettono reati e sconvolgenti atti di terrorismo. Ma negli Stati Uniti i figli degli stranieri hanno un quinto delle possibilità di essere incarcerati rispetto agli altri. In alcuni paesi europei come la Svezia, i migranti hanno più probabilità dei locali di finire nei guai, ma solo perché è più probabile che siano giovani e maschi. Uno studio dei flussi migratori condotto tra il 1970 e il 2000 su 145 paesi dai ricercatori dell’università di Warwick ha stabilito che l’immigrazione tende più a ridurre il terrorismo che ad aumentarlo, soprattutto perché la migrazione incoraggia la crescita economica.

L’immigrazione su larga scala peggiorerebbe la situazione economica dei paesi di arrivo? Finora non è successo. Rispetto agli autoctoni, gli immigrati portano più spesso idee nuove e avviano un’attività commerciale, in molti casi assumendo anche personale del posto. In generale i migranti hanno meno possibilità di attingere alle finanze pubbliche, a meno che le leggi locali non gli impediscano di lavorare, come accade ai profughi che chiedono asilo nel Regno Unito. Un forte afflusso di lavoratori stranieri potrebbe ridurre leggermente gli stipendi locali con qualifiche simili, ma la maggior parte degli immigrati presenta capacità diverse. I medici e gli ingegneri stranieri risolvono il problema della carenza di alcune qualifiche. I migranti non qualificati si occupano dei bambini e degli anziani, permettendo agli abitanti del luogo di svolgere mansioni più redditizie.

L’apertura dei confini provocherebbe un sovraffollamento? In città come Londra, probabilmente sì. Ma la maggior parte delle città occidentali potrebbe costruire più in verticale di quanto faccia adesso, creando più spazio. Inoltre la migrazione di massa renderebbe il mondo meno affollato in generale, dato che il tasso di natalità dei migranti si riduce rapidamente avvicinandosi molto più alla media del paese ospite che a quella del paese di origine.

L’immigrazione di massa cambierebbe la cultura e la politica dei paesi ricchi? Senza dubbio. Pensate a come gli Stati Uniti sono cambiati (in meglio) passando dai cinque milioni di abitanti in prevalenza bianchi del 1800 ai 320 milioni di oggi, con etnie e culture diverse. Questo, però, non dimostra che le future ondate migratorie sarebbero sicuramente benigne. I nuovi arrivati provenienti da paesi illiberali potrebbero portare con sé tradizioni indesiderate, come la corruzione politica o l’intolleranza verso i gay. Se arrivassero in numero consistente, potrebbero votare un governo islamista o uno che aumenti le tasse per gli abitanti del posto favorendo i nuovi arrivati.

Un pensiero creativo
È innegabile che esistono rischi concreti se l’apertura dei confini fosse immediata e non accompagnata dalle politiche necessarie per assorbire il flusso. Ma un po’ di pensiero creativo potrebbe mitigare quasi tutti i rischi e superare le obiezioni più comuni.

Se la preoccupazione è che gli immigrati possano sfruttare la possibilità di votare per imporre un governo non gradito agli abitanti locali, si potrebbe impedire agli immigrati di votare per cinque anni (o dieci, o addirittura per sempre). Potrebbe sembrare una presa di posizione dura, ma è comunque meglio che non lasciarli entrare. Se la preoccupazione è che i migranti del futuro non possano contribuire economicamente, perché non aumentare il prezzo del visto, o far pagare una tassa extra, o limitarne l’accesso allo stato sociale? Questi strumenti potrebbero essere usati per regolare il flusso di migranti, evitando ondate improvvise e sproporzionate.

Sembrano concetti terribilmente discriminatori, e lo sono. Ma per i migranti uno scenario simile sarebbe comunque meglio dello status quo in cui sono esclusi dal mercato del lavoro dei paesi ricchi a meno di pagare decine di migliaia di dollari ai trafficanti, per poi lavorare in nero e rischiare la deportazione. Oggi milioni di migranti lavorano nei paesi del golfo Persico, dove non hanno alcun diritto politico. Ciononostante continuano ad arrivare, nessuno li costringe.

“I confini aperti renderebbero gli stranieri molto più ricchi, di miliardi di dollari”, scrive Caplan. Un elettore consapevole, anche se disinteressato al benessere degli stranieri, non dovrebbe dire “e allora?”, ma “sul tavolo ci sono miliardi di dollari, cerchiamo di fare in modo che i miei concittadini possano accaparrarsene una fetta. I governi usano continuamente tasse e trasferimenti per ridistribuire le risorse dai giovani agli anziani e dai ricchi ai poveri. Perché non usare gli stessi strumenti politici per ridistribuirle dagli stranieri ai locali?”. Se un mondo caratterizzato dal libero movimento sarebbe più ricco di miliardi di dollari, i liberali dovrebbero essere pronti ad accettare grandi compromessi politici pur di realizzarlo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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