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corruzione

«Non uno ma tre Rolex»: e Gentiloni che fa?

La sottosegretaria al Ministero dei Trasporti Simona Vicari è finita indagata in una brutta storia di presunta corruzione in cui, tra le altre cose, è accusata di avere ricevuto “in regalo” un Rolex per “agevolare” alcune pratiche. Al di là del fatto che, qualora le accuse siano poi riscontrate, ne uscirebbe una classe dirigente che ormai non si vende più per ingenti finanziamenti al proprio partito e bustarelle di quelle che cambiano la vita ma ormai è disposta a diventare servile per un orologio, la risposta della Vicari al Corriere della Sera mette i brividi:

«Ho letto sulle agenzie che sarei accusata di corruzione. Ma di che parliamo? – ha detto al Corriere della sera – Quell’orologio riguarda rapporti con le persone che uno ha a prescindere. Dalle intercettazioni si capisce benissimo che si tratta di un regalo di Natale. Poi sì, io ho chiamato per ringraziare. Ma se lo avessi fatto per corruzione, secondo lei avrei ringraziato?». L’addio della Vicari potrebbe non essere indolore per il governo. Dopo essersi difesa, l’ex sottosegretaria passa all’accusa e che accusa: «Voglio dirle un’altra cosa – ha aggiunto al Corriere – anche se può suonare un po’ antipatico. Ci sono ministri che hanno preso non uno, ma tre Rolex e sono ancora in carica».

In pratica, dice la Vicari, nel Consiglio dei Ministri siede almeno una persona che è esattamente come lei, solo con un po’ più “fame”.

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Rolex e bambini dell’asilo al governo

La sottosegretaria al Ministero dei Trasporti Simona Vicari risulta indagata per un Rolex. E la notizia fa già ridere così, per la goffaggine e la tragicità di una classe dirigente che si scioglie di fronte a un orologio. Ma già che colpisce e va riportata è la frase della Vicari (che si è dimessa) ai giornalisti:

“Ho letto sulle agenzia che sarei accusata di corruzione. Ma di che parliamo? – ha detto al Corriere della sera – Quel’orologio riguarda rapporti con le persone che uno ha a prescindere. Dalle intercettazioni si capisce benissimo che si tratta di un regalo di Natale. Poi sì, io ho chiamato per ringraziare. Ma se lo avessi fatto per corruzione, secondo lei avrei ringraziato?”.

L’addio della Vicari potrebbe non essere indolore per il governo. Dopo essersi difesa, l’ex sottosegretaria passa all’accusa e che accusa: “Voglio dirle un’altra cosa – ha aggiunto al Corriere – anche se può suonare un po’ antipatico. Ci sono ministri che hanno preso non uno, ma tre Rolex e sono ancora in carica”.

Ecco.

Conoscere per deliberare: l’ordinanza d’arresto dei Laudani (LIDL e vigilantes). Operazione Security.

Ecco qui. C’è dentro anche qualche politico, noto. Cercate bene.

ordinanza-lidl

(questo l’articolo di Repubblica Milano)

MILANO – Le mani del clan catanese Laudani sulla società di vigilantes che lavora in tribunale a Milano, ma anche sulla catena dei supermercati Lidl e sugli appalti nelle scuole. E’ il bilancio dell’ultima operazione del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del pm Paolo Storari, che ha fatto finire ai domiciliari anche una dirigente del Comune di Milano, Giovanna Rosaria Maria Afrone, responsabile del Servizio gestione contratti trasversali. “A Milano la corruzione è un fenomeno dilagante”, dice Boccassini.

I soldi alle famiglie del clan. Le ordinanze di custodia cautelare sono 15 – sono firmate dal gip Giulio Fanales – e parlano di associazione a delinquere, favoreggiamento e corruzione. “Sono stati seguiti i passaggi di denaro – precisa Boccassini – il denaro raccolto a Milano veniva consegnato alla famiglia Laudani, ritenuta il braccio armato di Nitto Santapaola”. La presunta associazione per delinquere avrebbe funzionato “da serbatoio finanziario del clan”: i soldi delle attività al Nord servivano per aiutare economicamente le famiglie dei detenuti, cui veniva chiesto di sottoscrivere “una ricevuta”.

Gli arrestati. Cinque imprenditori di origine siciliana, da anni residenti al Nord, avevano creato consorzi di cooperative nel settore della logistica e della vigilanza privata, alle quali la Lidl Italia ha appaltato commesse per gli allestimenti e la logistica dei punti vendita sia al Nord sia in Sicilia, e che avevano vinto gare per gestire la sicurezza anche del tribunale di Milano. In carcere, in particolare, sono finiti Luigi Alecci, Giacomo Politi e Emanuele Micelotta, titolari del consorzio Sigi Facilities da 14 milioni di fatturato nel 2014 (poi Sicilog srl), che aveva vinto una serie di gare con il colosso della grande distribuzione tedesco. In manette sono finiti anche i fratelli Nicola e Alessandro Fazio, titolari del gruppo Securepolice, che oltre a lavorare con Lidl, si era anche aggiudicato ad esempio  il contratto con il Comune di Milano per la sorveglianza del tribunale.

I supermercati. In particolare sono state poste in amministrazione giudiziaria quattro direzioni generali della società di grande distribuzione Lidl – una in Lombardia, due in Piemonte e una in Sicilia, a Misterbianco – cui afferiscono circa 200 punti vendita. La società non risulta indagata e il meccanismo dell’amministrazione giudiziaria punta a ripulirla da infiltrazioni mafiose. Nell’ordinanza il gip Fanales parla di “stabile asservimento di dirigenti Lidl Italia srl, preposti all’assegnazione degli appalti, onde ottenere l’assegnazione delle commesse, a favore delle imprese controllate dagli associati, in spregio alle regole della concorrenza con grave nocumento per il patrimonio delle società appaltante”. Precisa Boccassini: “Sapevano quali fossero le persone giuste da corrompere, pescavano in un laghetto sicuro”.

La società dei vigilantes del tribunale. Nel mirino degli investigatori della Dda ci sarebbero anche alcune società del consorzio che ha in appalto la vigilanza privata del tribunale di Milano, si tratterebbe di società che forniscono i vigilantes del Palazzo di giustizia. La società è indagata per la legge 231. Sarebbero emersi stretti rapporti tra alcuni dirigenti delle società coivolte (e messe, anche in questo caso come per le 4 sedi Lidl, in amministrazione giudiziaria) e alcuni personaggi ritenuti appartenenti alla famiglia dei Laudani. Le indagini della Dda non avrebbero, allo stato, pregiudicato la sicurezza del Palazzo di giustizia o delle sue attività. Parlando del provvedimento di amministrazione giudiziaria preso nei confronti della società, i magistrati hanno precisato: “Abbiamo chiesto l’amministrazione giudiziaria proprio per tutelare i 600 dipendenti”.

I contatti con la politica. Tra i filoni dell’inchiesta ce n’è anche uno che riguarda un ex dipendente della Provincia di Milano, Domenico Palmieri, con una lunga esperienza nella pubblica amministrazione. Per i pm, sarebbe stato lui a mettere a disposizione dei referenti del clan Laudani una serie di rapporti con esponenti di amministrazioni pubbliche. Il compenso si aggirava intorno ai mille euro al mese. Proprio lui aveva contattato la funzionaria del Comune di Milano Giovanna Afrone, che oggi è finita agli arresti domiciliari.

La dirigente del Comune ai domiciliari. La dirigente, si legge in un passaggio del provvedimento del giudice, si sarebbe impegnata ad aggiudicare agli imprenditori coinvolti, tramite la procedura di affidamento diretto, la gara da 40mila euro per le pulizie degli edifici scolastici comunali, per avere in cambio un posto di lavoro presso il settore bilancio della Provincia di Milano nonché il trasferimento della cugina al settore informatico sempre di Palazzo Marino. Giovanna Afrone, 53 anni, entrata in Comune nel 2003, ha una carriera tutta interna fino all’attuale ruolo di funzionario nella Direzione facility management come responsabile della gestione amministrativa e contratti.

Gli altri coinvolti. Figure di spicco per facilitare gli appalti della Sigi logistica, controllata attraverso prestanome dal boss Orazio Salvatore Di Mauro, sarebbero stati Orazio Elia e Domenico Palmieri, “associati” all’organizzazione e “soggetti già facenti capo della pubblica amministrazione sanitaria e provinciale”. I due, secondo l’accusa della Dda e del pm Storari, “sfruttano a pagamento, le proprie relazioni con esponenti del Comune di Milano, di sindaci e assessori, al fine di ottenere commesse e appalti da proporre ai propri clienti”. Tra i nomi elencati nell’ordinanza dal gip vengono elencati i presunti contatti dei due. I nomi sono – oltre a quello di Afrone – quelli di Alba Piccolo, settore Servizi generali del Comune di Milano, Graziano Musella, sindaco di Assago, rieletto con Forza Italia nel 2014, Angelo Di Lauro, consigliere comunale a Cinisello Balsamo e, infine, Franco D’Alfonso, “consigliere comunale in Comune a Milano”, ex assessore della giunta Pisapia, che non sarebbe comunque nell’elenco degli indagati.

Mentre tutti guardano il mare la ‘Ndrangheta (e un prete) si mangiano i rifugiati sulla terraferma

Forse è che alla fine ci consola avere nemici estranei e quindi assistiamo a dibattiti che si infiammano per il pericolo straniero mentre per i corrotti e corruttori di casa nostra dobbiamo accontentarci al massimo di qualche ordinanza d’arresto (e dei processi che ne seguono) ma stamattina, dopo la giornata di ieri passata a leggere i dettagli dell’operazione Johnny che ha svelato la bava della ‘Ndrangheta sui soldi dell’accoglienza, viene da chiedersi perché su questa turpe storia non si accapiglino tutti come invece è successo per i dubbi mai provati delle settimane scorse.

Anche per la ‘Ndrangheta i migranti del CARA di Isola Capo Rizzuto (il secondo più grande d’Europa, secondo solo al CARA di Mineo) sono semplicemente dei “negri”: «Questi negri girano per Isola Capo Rizzuto… di conseguenza tutto ciò che li riguarda è competenza nostra» dice intercettato Antonio Poerio, l’uomo che avrebbe dovuto occuparsi dell’alimentazione dei rifugiati e che serviva come pasto “cibo per maiali”. Poi c’è il ras Leonardo Sacco (governatore della Confraternità della Misericordia di Isola Capo Rizzuto e già vicepresidente nazionale della confraternità con sede in Toscana) e i suoi rapporti con il clan Arena e, per chiudere in bellezza, il parroco don Edoardo Scordio che intascava 132 mila euro all’anno per offrire “assistenza spirituale” ai migranti che disprezzava in privato. Sullo sfondo, ovviamente, la potente cosca degli Arena. Don Eduardo, tra l’altro, è un altro souvenir dell’antimafia di plastica che dispensa omelie di fuoco contro i mafiosi in pubblico per poi slinguazzarli in privato.

 

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«Supermercati che sono solo soldi camuffati da supermercati»: ora tocca al clan Laudani

È un passaggio del mio spettacolo “Mafie maschere e cornuti” e ogni volta che lo recito in scena dalla platea arrivano cenni di approvazione. Ovviamente si tratta di un’iperbole drammaturgia ma la questione della grande distribuzione e dell’infiltrazione mafiosa è qualcosa di terribilmente serio che forse andrebbe analizzato con coraggio. E così, dopo tre giorni di spettacoli in giro per l’Italia, escono notizie così:

Le mani del clan catanese Laudani sulla società di vigilantes che lavora in tribunale a Milano, ma anche sulla catena dei supermercati Lidl. E’ il bilancio dell’ultima operazione del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del pm Paolo Storari. Le ordinanze di custodia cautelare sono 15 – sono firmate dal gip Giulio Fanales- e parlano di associazione a delinquere, favoreggiamento e corruzione.

I supermercati. In particolare sono state poste in amministrazione giudiziaria quattro direzioni generali della società di grande distribuzione Lidl – una in Lombardia, due in Piemonte e una in Sicilia, a Misterbianco – cui afferiscono circa 200 punti vendita.La società non risulta indagata e il meccanismo dell’amministrazione giudiziaria punta a ripulire la Lidl da infiltrazioni mafiose. Nell’ordinanza il gip Fanales parla di “stabile asservimento di dirigenti Lidl Italia srl, preposti all’assegnazione degli appalti, onde ottenere l’assegnazione delle commesse, a favore delle imprese controllate dagli associati, in spregio alle regole della concorrenza con grave nocumento per il patrimonio delle società appaltante”.

La società dei vigilantes del tribunale. Nel mirino degli investigatori della Dda ci sarebbero anche alcune società del consorzio che ha in appalto la vigilanza privata del Tribunale di Milano, si tratterebbe di società che forniscono i vigilantes del Palazzo di giustizia. La società è indagata per la legge 231. Sarebbero emersi stretti rapporti tra alcuni dirigenti delle società coivolte (e messe, anche in questo caso come per le 4 sedi Lidl, in amministrazione giudiziaria) e alcuni personaggi ritenuti appartenenti alla famiglia dei Laudani.

I rapporti con la politica. Figure di spicco per facilitare gli appalti della Sigi logistica, controllata attraverso prestanome dal boss Orazio Salvatore Di Mauro, sarebbero stati Orazio Elia e Domenico Palmieri, “associati” all’organizzazione e “soggetti già facenti capo della pubblica amministrazione sanitaria e provinciale”. I due, secondo l’accusa della Dda e del pm Storari, “sfruttano a pagamento , le proprie relazioni con esponenti del Comune di Milano, di sindaci e assessori, al fine di ottenere commesse e appalti da proporre ai propri clienti”. Tra i nomi elencati nell’ordinanza dal gip vengono elencati i presunti contatti dei due, in Alba Piccolo, settore Servizi generali del Comune di Milano, Giovanna Afrone, “responsabile gestione contratti”, “Graziano Musella, sindaco di Assago”, “Angelo Di Lauro, consigliere comunale a Cinisello Balsamo”, e infine “Franco D’Alfonso, consigliere comunale in Comune a Milano”, ex assessore della giunta Pisapia, che non sarebbe comunque nell’elenco degli indagati.

(fonte)

La bella idea di confiscare i beni anche ai corrotti

Tra le buone leggi che ci teniamo a mente e di cui possiamo andare fieri in giro per il mondo la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni ai mafiosi forse è una delle più splendenti per la sua funzione di manifesto senza mediazioni del contrasto alla criminalità organizzata.

Pare, da queste parti, che compito il compito di certa politica sia quello di imbellettarsi in occasione della commemorazione di La Torre e di sfoderare una certa retorica per magnificare il passato.  Nel 1982, quando la politica decise che le ricchezze guadagnate con il sangue fossero illegali e quindi da ritornare allo Stato, la svolta legislativa fu anche l’inevitabile inizio di un sferzata culturale e morale sul tema delle mafie. Uno di quei dibattiti che, nel bene o nel male, impedisce ai protagonisti di chiamarsene fuori.

Tra le impolverate carte del Parlamento giace da tempo una proposta di legge che chiede di estendere la normativa antimafia di sequestro dei beni anche ai casi di corruzione.

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A che punto siamo con l’inchiesta Consip (e perche il padre di Renzi aveva paura di essere arrestato)

ANDREA ORLANDO: “CONTRO I MAGISTRATI, RENZI SI CERCHI UN ALTRO MINISTRO”

Estratto dell’intervista di Fabrizio D’Esposito per il “Fatto quotidiano”

[…] Renzi, meglio, qualche renziano pretendeva un’ attenzione maggiore (sul caso Consip).

Precisiamo: qualche renziano. Io non ho girato la testa dall’ altra parte, ho scritto al procuratore generale per eventuali anomalie nell’ attività della polizia giudiziaria: non ho azionato l’ attività ispettiva perché non emergevano profili disciplinari. Tutto questo, come sempre, l’ ho fatto senza alcun carattere intimidatorio. Se i renziani che mi hanno criticato pensavano che utilizzassi i poteri ispettivi come una clava contro l’ autonomia della magistratura hanno sbagliato persona.

I VERBALI DEL SINDACO DI RIGNANO: «”TEMO CHE MI ARRESTINO” MI CONFESSÒ BABBO RENZI»

Giacomo Amadori per “la Verità”

Anche se Matteo Renzi nei giorni scorsi, scortato dalla fanfara entusiastica dei giornali, sembrava aver già assolto suo padre Tiziano Renzi dalle accuse di traffico di influenze illecite nella vicenda Consip, gli inquirenti romani stanno preparando il secondo round. In particolare nella prossima fase i pm della Capitale potranno far conto sulle perquisizioni e sugli interrogatori svolti a marzo, prima che scoppiasse il caso dei presunti falsi del capitano del Noe, Gianpaolo Scafarto, che hanno fatto calare il sipario mediatico sull’ inchiesta.

Infatti, a quanto risulta alla Verità, qualche buona cartuccia contro Renzi senior è rimasta in tasca ai magistrati. In particolare viene considerata rilevante la testimonianza del sindaco di Rignano sull’ Arno, Daniele Lorenzini, ritenuto sino a quelle dichiarazioni un renziano di oro zecchino. Così renziano da difendere babbo Tiziano in ogni occasione. Ma non al punto da mentire davanti ai pm, mettendo a rischio la propria fedina penale. Venerdì 3 marzo è stato sentito in due tornate dal pm di Roma, Mario Palazzi, e da quello di Napoli, Henry John Woodcock.

Nell’ occasione ha confermato quanto già svelato dalla Verità il 6 novembre scorso sulle fughe di notizie, ma vi ha aggiunto un particolare clamoroso. Ha detto che nell’ autunno scorso «Tiziano Renzi aveva paura di essere arrestato». Il verbale è stato compilato da Palazzi e riletto a Daniele Lorenzini dallo stesso pm.

Renzi senior aveva convocato Lorenzini nel suo ufficio e lo aveva reso partecipe della sua preoccupazione per un’ inchiesta napoletana «riguardante una persona che avrò visto una volta». Il personaggio in questione era Alfredo Romeo, poi arrestato per corruzione lo scorso 1 marzo su richiesta della procura di Roma. Lorenzini ha riassunto così con la Verità il passaggio cruciale del suo verbale: «Mi parlò della Procura di Napoli senza fare il nome del pm Woodcock e mi disse con tono angosciato “mi stanno controllando” o qualcosa di simile, tanto che mi fece lasciare il telefonino in ufficio. Ci recammo a parlare nel piazzale esterno, quello che si affaccia sul fiume». Per Lorenzini quel giorno l’ amico «era preoccupatissimo». Insomma l’ inchiesta, che ora per tutti i giornali è una semplice bolla di sapone, tra settembre e ottobre scorso aveva agitato a tal punto babbo Renzi da fargli temere le manette.

Per un inquirente contattato dalla Verità questo non è un dettaglio trascurabile, visto che tradirebbe la coscienza non proprio pulita dell’ indagato. «Tiziano Renzi aveva paura che, se la notizia dell’ inchiesta fosse uscita prima del referendum, il figlio avrebbe perso la consultazione», ha aggiunto Lorenzini con i magistrati. A mettere ansia al babbo dell’ ex primo ministro erano anche le continue fughe di notizie a suo favore effettuate da investigatori infedeli. La prima sarebbe avvenuta a settembre, quando l’ apprendista faccendiere Carlo Russo, inquisito nell’ inchiesta insieme con Renzi senior, rinviò con Romeo «l’ accordo quadro» che avrebbe dovuto garantire a babbo Tiziano 30.000 euro al mese e 5.000 bimestrali allo stesso Russo per il loro lavoro di lobbing nei confronti dell’ amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.

Il 7 dicembre l’ ex autista del camper di Matteo Renzi alle primarie, Roberto «Billy» Bargilli, telefona a Russo e gli dice con tono d’ intesa: «Scusami ti telefonavo per conto di babbo mi ha detto di dirti di non chiamarlo e di non mandargli messaggi». Nell’ audio (anche se Bargilli in una conferenza stampa aveva dichiarato trattarsi di un sms) il tono di Billy è amichevole e Russo dà l’ idea di intendere al volo il senso del messaggio, annuisce e attacca. Fughe di notizie gravi quasi quanto i reati contestati che avrebbero chiaramente potuto portare a un arresto per inquinamento probatorio.

Per questo probabilmente Tiziano già a ottobre aveva esternato all’ amico e medico personale Lorenzini le sue palpitazioni. Oggi il sindaco è stato espulso dalla cerchia ristretta degli amici del Giglio magico per presunto alto tradimento, dopo che, secondo babbo Renzi, era diventato «il problema». Ma le soprese potrebbero non essere finite. Infatti nei prossimi giorni il capitano dei carabinieri del Noe, Gianpaolo Scafarto, accusato di falso dalla Procura di Roma, consegnerà la sua memoria difensiva che potrebbe ribaltare alcune sentenze già scritte dai giornali, garantisti con babbo Renzi, ma colpevolisti nei confronti del militare «nemico» della famiglia dell’ ex presidente del Consiglio.

Infatti, a quanto risulta alla Verità, l’ ufficiale spiegherà in modo circostanziato come siano stati possibili i due errori inseriti nell’ informativa finale del 9 gennaio scorso, quella in cui veniva attribuita a Romeo una frase del suo consulente, Italo Bocchino, e la presunta pista farlocca dei servizi segreti. Proprio sul ruolo degli 007 nelle possibili fughe di notizie, l’ investigatore del Noe sarebbe pronto a fare nuove rivelazioni.

Intanto Tiziano Renzi e Carlo Russo continuano a impegnarsi in politica. Quest’ ultimo è interessato alle primarie del Pd e sebbene abbia smesso di scrivere su Facebook, ha inserito tra gli eventi da non perdere proprio la consultazione del 30 aprile e il confronto tv tra Matteo e i suoi contendenti. I gruppi di cui fa parte non lasciano dubbi su chi gli faccia battere il cuore: si va da «In cammino con Matteo Renzi» al «Popolo del Sì», da «Primarie sempre e comunque» a «Informazione libera con Renzi e il Pd» a quelli intitolati a «Matteo presidente» in tutte le sue declinazioni.

Unico nemico, i grillini: «Contro Movimento 5 stelle lotta democratica» è uno dei gruppi selezionati. Anche Tiziano è indaffarato ad allestire la campagna elettorale contro l’ ex amico Lorenzini per la poltrona di sindaco di Rignano. In paese sono attesi i comizi del ministro Maurizio Martina e dello stesso Matteo Renzi. Ma se Tiziano è concentrato sulla sua vendetta, i magistrati continuano a indagare, nonostante l’ indifferenza dei media, su di lui, sui suoi vecchi collaboratori e su alcune aziende con cui è stato in affari. Nessun giornalista ha ritenuto interessante che babbo Renzi nel 2014 abbia provato a cedere l’ azienda di famiglia a una società il cui socio occulto era in quel momento un suo coindagato per bancarotta fraudolenta.

Non ha suscitato curiosità neppure l’ inchiesta della Procura di Cuneo su un’ altra bancarotta e su una presunta truffa ai danni dell’ Inps contestate, tra gli altri, a due stretti collaboratori di Tiziano Renzi, Mirko Provenzano ed Erika Conterno, soci e compagni di vita. La Eventi 6 della famiglia Renzi, attraverso le società della coppia, la Direkta Srl (per il cui crac procede la Procura piemontese) e la Kopy 3, veicolò ricchi prestiti a una società in dissesto finanziario, «operazione fatta risultare – scrivono i pm – come “affitto azienda” dalla Web & press edizioni Srl di Firenze», l’ azienda che aveva incamerato finanziamenti per le campagne elettorali di Matteo Renzi, compreso quello di Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita condannato a 7 anni per appropriazione indebita.

Nell’ inchiesta piemontese è coinvolta pure Miriam Mammoliti, storica organizzatrice della Leopolda renziana: la donna è sospettata per lo «sbianchettamento» dei bilanci della Direkta e della Kopy 3. Ebbene, nei giorni scorsi un sottufficiale del nucleo operativo del fruppo Firenze 2 della Guardia di finanza ha chiesto al curatore fallimentare cuneese Alberto Peluttiero le carte sugli scambi commerciali tra Direkta e Kopy 3 (le società di Provenzano e Conterno).

Che cosa c’ entrano queste due aziende piemontesi con Firenze? Forse la richiesta è legata agli affari intercorsi con la Eventi 6? Scambi così interessanti che nel procedimento della Procura di Cuneo i pm hanno depositato anche le intercettazioni tra Conterno e i genitori di Matteo Renzi, Tiziano e Laura. L’ ennesima notizia che sugli altri giornali non ha avuto nemmeno l’ onore di una breve in cronaca.

E ora Cantone smutanda il Governo

Corruzione, mafie e malaffare hanno bisogno di una tensione tenuta sempre alta per essere combattute. La storia ci insegna che ogni volta che lo Stato (ma non solo, c’entra anche la tensione della società civile) hanno allentato la presa, più o meno consapevolmente, i poteri criminali ne hanno approfittato per assestare colpi che poi abbiamo scontato per anni.

Persi tra le sceneggiate popolari e populiste di queste settimane “l’affare Cantone” (con la sciagurata seduta del Consiglio dei Ministri da cui l’ANAC è uscita depotenziata) è stato messo nel cassetto delle ripicche come se non fosse il grave segnale che invece è: che sia stato per uno sgambetto (di Renzi o a Renzi) o per altro si tratta comunque di un attacco frontale (e pubblico) all’efficienza anticorruttiva dell’azione di governo.

Ieri Cantone, ospite di Giovanni Minoli, sulla nuova legge per gli appalti all’inizio è stata fatta “una rivoluzione copernicana” solo che poi “si è fatta retromarcia su molte cose e non si è data la possibilità di attuare il codice. Credo – ha detto Raffaele Cantone – che fosse una buona riforma e il fatto di andare avanti e indietro è un classico del nostro Paese. E ci sono tante opere incompiute. Il problema vero è che qualcuno ha pensato che bisogna consentire di realizzare opere pubbliche per smuovere l’economia ma non perchè servano davvero. E non smuovono nulla”.

In un Paese normale e responsabile, capace di riconoscere e rispettare le priorità, una dichiarazione del genere provocherebbe un terremoto politico, una sollevazione popolare e un unanime coro dalle associazioni impegnate nell’azione antimafia.

E invece niente.

Buon lunedì.

Cade anche foglia di fico di Cantone (il buongiorno che oggi non leggerete su Left)

(Tempi duri a Left, come potete leggere dal comunicato di redazione qui. E forse saranno tempi duri anche per il buongiorno che moltissimi di voi hanno seguito, commentato e condiviso in questi anni. Intanto quello di oggi lo appoggiamo qui.)

Dicono che per sbaglio, lo dicono i ministri di governo, hanno cancellato un comma che depotenzia l’azione di Raffaele Cantone e dell’ANAC nel controllo degli appalti. Per sbaglio, dicono loro, hanno “reciso” l’uomo che Reni ci aveva presentato come soluzione a tutti i mali, la faccia che avrebbe dovuto essere la garanzia di una seria lotta alla corruzione. Però dicono che rimedieranno l’errore quanto prima e l’Autorità Nazionale Anticorruzione potrà tornare in sella. Sembra una barzelletta, scritta così.

Raffaele Cantone è un magistrato che ha fatto moltissimo nella lotta alla camorra. Qualche anno fa, anche lui, ha ceduto alle lusinghe del corso renziano sempre in cerca di facce più che di sostanza accettando di presiedere l’ANAC convinto probabilmente di poter mettere al servizio della politica l’esperienza acquisita sul campo: non sapeva, Cantone, che la corruzione è più forte (troppo spesso) anche della propaganda.

Chi ha scavalcato il Parlamento cancellando quel comma fondamentale dalla nuova legge degli appalti durante il Consiglio dei Ministri? Si potrebbe fare come si fa con i bambini: se non viene fuori il colpevole allora fuori tutti, tutti in punizione.

È primavera ma cadono le foglie. Di fico.

Buon venerdì.

Verrà la storia a presentarci il conto. E ce ne vergogneremo

Lisa Bosia Mirra è una deputata del Gran Consiglio del Canton Ticino in Svizzera ed è stata condannata per “ripetuta incitazione all’entrata, alla partenza e al soggiorno illegale”. Il reato di solidarietà (che ha percentuali di condanna che fanno invidia ai reati di mafia e corruzione) si sarebbe consumato nell’agosto-settembre scorso quando Como era diventato un accampamento a cielo aperto di rifugiati bloccati alla frontiera.

Lei sulla sua pagina Facebook scrive:

«Sono stata zitta a lungo ma adesso sono pronta a raccontare a chiunque abbia la voglia e il tempo di ascoltare quello che ho visto a Como: delle ferite ancora aperte, delle donne stuprate, dei minori respinti. Di come quel parco antistante la stazione si sia trasformato nella dimostrazione più evidente della fine di qualunque umanità. E di come fosse impossibile fare diversamente da come ho agito. Perché quello che pesa, infine, più dell’ingiustizia, è il privilegio. Il privilegio di quel passaporto che permetteva a me di tornare a casa, a me che non ho fuggito la guerra, che non ho mai patito la fame, che non ho rischiato la vita nel deserto. Io tornavo a casa e loro restavano al parco. Anche quella ragazza il cui fratello era morto nel naufragio dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano entrambi; anche quell’uomo che aveva trascorso dieci mesi attaccato ad un muro da una catena. Non la tiro lunga, sono a Belgrado, anche qui disperata umanità senza diritti. È come sempre più utile fare che parlare ma sono pronta a raccontare, ma non è una bella storia.»

 

(continua su Left)