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dario fo

Grazie Dario. Però che male.

Ci sono persone che sai che sono prossime all’andarsene eppure non trovi la chiave inglese per avvitare il dolore e prepararlo al momento. Niente. Ci sono persone, nella vita, che ti mangeresti il cervello per non avergli detto una parola che avresti dovuto pronunciare: ci sono persone che forse non hai ringraziato abbastanza o che per soggezione e ebete pudicizia non gli hai detto quanto ti abbiano cambiato la visione del mondo.

Quando mi dissero che avrei potuto lavorare con lui rimasi come un bambino davanti al primo ciuffo di zucchero filato nella vita. Per chi è cresciuto studiando e indossando le maschere Dario era l’inarrivabile scellerato capace di non avere bisogno né di maschere né di orpelli: Dario era una maschera. Il piego della bocca, l’andar su e giù degli occhi, i cerchi con le mani e quel passo strascicato e truffaldino hanno aggiornato il catalogo dei giullari: Arlecchino, Zanni, Pantalone, Colombina e Dario. Dario Fo.

A casa sua c’era la storia del teatro italiano. Ho sempre pensato che se avessimo dovuto dare un forma al teatro fuori dal teatro, se avessimo dovuto disegnarlo senza palcoscenico, se dovessimo pensare al teatro che si fa casa ecco avrebbe avuto quella forma lì. Il suo salotto che sputava copioni, locandine e quadri, le pile di giornali e tutt’intorno che si faceva scena. Mi tremavano le gambe quando mi chiese di sedersi di fianco a lui. Oh, sì, quanto ci fa bene confrontarci con il mito nei momenti in cui ci riesce tutto in modo fin troppo facile. Quanto mi è servito scoprire che lui, Dario, aveva ancora quella curiosità che a noi attori di solito si spegne per accidia o per egocentrismo.

La sua, in realtà, non fu nemmeno una regia nel senso più classico del termine. Non ci perdemmo nel contare spostamenti o dare il tempo alle battute: il mio provino con Dario Fo fu la più densa chiacchierata sul senso della risata che mi capitò mai di fare. La più lunga riflessione sul sorriso come puntuta arma contro il potere che ha bisogno di fare il prepotente per riuscire a governare perché incapace di farlo secondo le regole e sulla forza catartica dello smutandamento dei prepotenti. Il riso è sacro, mi disse raccontandomi di quanto nerbo ci voglia per vigilare sul sorriso: come tutti i gesti liberatori anche ridere è guardato con sospetto da chi aspira al controllo del popolo. Dario Fo era allo stesso tempo un condottiero e una vestale: se il ridere ci è arrivato ancora così vivo e in salute lo dobbiamo a uomini come lui.

Andai in scena qualche mese dopo con il suo “Benvenuta catastrofe” al Festival del Teatro di Napoli. Dario e Franca non avevano potuto partecipare alla prima perché la malattia cominciava a intorpidire lei e lui cominciò ad aver paura di restare monco. Fui orfano per la seconda volta nella vita. Quando lo spettacolo arrivò a Milano fummo costretti a cancellare le date in programma per il ritrovamento di alcuni proiettili prima del debutto. Prepotenza, merda, teatro e parole tutte insieme: non un gran periodo per me. E come mi capitava spesso fui tentato di ammalarmi del mio cattivo spavento. Fu lui, Dario, ad aprire invece la serata “Aperti per mafia” che molti colleghi milanesi vollero mettere in piedi in fretta e furia per starmi vicino. “Hai sbagliato a non andare in scena – mi disse – il teatro è sacro e non si interrompe per niente al mondo”. Aveva ragione: avevo pensato troppo a me e vegliato troppo poco sulla risata. Chiesi scusa alla satira e a lui ché in questo Paese per anni sono stati la stessa cosa.

Ci capitò di incontrarci anni dopo per politica. Era il solito Dario ma la partenza di Franca gli aveva steso sul viso un velo di malinconia. Eppure era lì, sul palco, a gridare che il re è nudo. Comunque. Perché Dario è stato il cialtrone più professionale che abbia mai conosciuto: aveva trovato, nella vita, il mestiere in cui poter professare tutti i suoi valori. Tutti. “Noi teatranti facciamo in scena il lavoro che avremmo dovuto fare nella vita”, diceva e lui in scena era il pittore e l’architetto che avrebbe potuto essere: gli archi, i capitelli, i colori e i materiali erano impastati nella sua fantasia a betoniera che miscelava le parole. “Senza mai prendersi troppo sul serio. Mai.”

Ci sono persone che sai che sono prossime all’andarsene eppure non trovi la chiave inglese per avvitare il dolore e prepararlo al momento. Niente. Ci sono persone, nella vita, che ti mangeresti il cervello per non avergli detto una parola che avresti dovuto pronunciare: ci sono persone che forse non hai ringraziato abbastanza o che per soggezione e ebete pudicizia non gli hai detto quanto ti abbiano cambiato la visione del mondo. È che Dario, oggi, in mezzo a tutti questi salamelecchi ci prenderebbe comunque tutti per il culo perché non c’è niente di più barboso e ridondante di un elogio funebre.

Grazie, maestro. Però che male.

(scritto per Fanpage)

Franca Rame secondo Eugenio Barba

Ci sono maestri del teatro che si sanno raccontare così puntigliosamente solo tra di loro:

AMICIZIE DI UN ALTRO MILLENIO
DARIO FO E FRANCA RAME

Franca RameProprio perché non vuole e non può avere come bersaglio l’intimità e il mistero dell’individuo, ma la persona, l’uomo come animale sociale non può prescindere dalla posizione di coloro che ridono.
Il giullare che recita davanti agli uomini di potere, anche se li deride o li attacca, anche se non cambia nulla del suo repertorio, per il fatto stesso d’essere accolto o tollerato si trova in poco tempo trasformato dal contesto: non è più un giullare, diventa un buffone. Per mantenere la propria integrità è allora costretto a far scandalo.
L’arte dello scandalo (è infatti una vera e propria arte) ha un’escalation terribile, perché ogni vittoria è anche una sconfitta che obbliga a provocare nuovi scontri. Quindi conduce alla distruzione chi la pratica continuativamente. Dario Fo – come Grotowski – conosce molto bene l’arte e la tecnica dello scandalo. Per questo sa che dopo un colpo deve poter tornare nei propri territori, altrimenti si trova costretto o all’inefficacia divenendo accettabile, o a tirare un colpo dopo l’altro, fino ad esaurire i margini della tolleranza circostante.
Il comico riguarda la dimensione orizzontale della realtà, il che però non vuol dire che si limiti alla sua superficie. Non scava nell’individuo. Scava negli interstizi della società, nelle sue contraddizioni. Dario Fo ne era e ne è la dimostrazione vivente. Può esserlo, perché in termini professionali ha affrontato il problema dei contenuti e dello stile assieme al problema di piazzare il proprio teatro in ben precisi contesti, sfuggendo alla casualità che nel normale mercato teatrale regola l’incontro fra gli attori e gli spettatori.
Appena conclusa l’esperienza de La Signora è da buttare, Dario Fo e Franca Rame avevano abbandonato l’orizzonte dei grandi teatri, e cominciato a crearsi un proprio territorio teatrale indipendente. Volevano farsi capire, e quindi avevano scelto un contesto con il quale condividere, per lo meno in linea generale, l’orientamento politico. Avevano deciso di far spettacoli e tournées secondo le proprie regole, rinunciando agli agi e alle costrizioni dell’organizzazione teatrale predeterminata.
Il loro passare da un’orbita all’altra del teatro fu talmente mirato da apparire estremistico. Fu la scoperta che il teatro poteva vivere in condizioni assai lontane da quelle abituali. Erano quei mesi del 1968, ’69, ’70 che oggi vengono raccolti sotto l’etichetta generale del “Sessantotto”. Anche il teatro, è ovvio, ebbe il suo Sessantotto, a volte un terremoto profondo, dalle lunghe conseguenze, a volte solo una serie di vibrazioni velleitarie e superficiali. In quel panorama di mutamenti, la presa di posizione di Dario Fo e Franca Rame fu uno degli esempi più significativi, ebbe l’evidenza della concretezza, fu letteralmente un prendere posizione, uno spostarsi da un luogo all’altro. Recitavano nelle fabbriche, nei locali delle associazioni culturali e politiche, fondarono “La Comune”, che non era più una semplice compagnia, ma un gruppo che interveniva in appoggio alle fabbriche in sciopero e per la difesa dei perseguitati politici. […]

Ebbero coraggio. In seguito, quando Dario e soprattutto Franca subirono aggressioni e violenze da parte di neo-fascisti, quando furono sottoposti a controlli polizieschi e a minacce da parte delle autorità, il loro coraggio fu esemplare. Ma qui vorrei sottolineare, accanto al coraggio, l’intelligenza della loro presa di posizione. Chiaroveggenza da professionisti del teatro capaci di non restare prigionieri dei loro spettatori e di non lasciarsi incantare dai fiori di carta dei primi successi.
In fondo, è sempre una questione di ambizione: gli artisti coraggiosi e intelligenti sono tali perché hanno grandi ambizioni e non si soddisfano dell’ammirazione e del consenso che li saluta all’inizio della strada che hanno intrapreso. Non si accontentano di piacere. Vogliono incidere la memoria, la mente, le emozioni dei loro spettatori. Vogliono restare, non confondersi con la natura effimera degli spettacoli.
Talento e ambizione spesso non vanno d’accordo. Quando la seconda è sproporzionata la situazione non è così triste come quando si verifica l’inverso, ed un grande talento si unisce ad un’ambizione ristretta all’immediato. Allora si sente odore di tradimento. Tradimento di se stessi, spesso inconsapevole.
Per mostrare a quale destino Dario e Franca abbiano voltato le spalle, riuscendo a non tradire la propria lungimirante ambizione, debbo fare un passo indietro, tornare per un momento agli anni Cinquanta.
Ho detto d’aver incontrato per la prima volta Dario Fo a Ivrea, nel 1967. Ma non era quella la prima volta che lo vedevo. La prima volta fu Franca Rame, in realtà, a calamitare la mia attenzione e la mia ammirazione.
Nella primavera del 1954, avevo 17 anni e studiavo al collegio militare della Nunziatella a Napoli. Nelle vacanze di Pasqua stavo a Roma, dove abitava mia madre. Mio fratello volle invitarci ad uno spettacolo teatrale che i giornali definivano particolarmente raffinato. Era un cabaret francese in tournée, si chiamava “Contrescarpe”. Ci vestimmo eleganti. L’intero pubblico era elegante. Mentre aspettavamo l’inizio, un sussurro percorse la platea, tutte le teste si voltarono a guardare una coppia entrata all’ultimo momento: un giovane alto, dinoccolato, con il viso da ragazzo più buffo che bello, e una donna splendente di bellezza, dalla lunga chioma biondo platino, chiusa in un abito elegantissimo e ampiamente scollato. Sembravano sicuri di sé, lanciavano sorrisi e saluti, per nulla imbarazzati dalla curiosità che li circondava. Si muovevano in quell’ambiente come pesci nell’acqua. Chi era quella splendida giovane signora, così gentile e provocante? Gli spettatori eccitati e curiosi mormoravano due nomi: “Franca Rame e Dario Fo”. Non sapevo chi fossero. Mio fratello mi informò.
Avevano già salito i primi scalini della fama. Erano famosi nelle cronache del teatro, come molti altri il cui nome è svanito. La cronaca è molto lontana da ciò che fa storia.
Franca Rame era davvero una delle più belle fra le attrici che calcavano, in quegli anni, i palcoscenici del teatro cosiddetto “leggero”. Che faceva della sua bellezza, sulla scena? Il giovane regista e critico Flammio Bollini, che pochi anni dopo scrisse di lei sulla grande Enciclopedia dello Spettacolo italiana, nel decimo volume, quello degli “aggiornamenti” (il nome di Dario Fo in quell’Enciclopedia non c’era) notava l’intelligente contraddizione a cui Franca Rama sottoponeva la sua bella apparenza: “alta, procace, biondissima, la Rame sembra incarnare l’erotismo ottimista dei cartelloni pubblicitari, ma lo unisce ad un gusto sfrenato per la caricatura”. La definiva cosi: “un tipo, quasi una maschera, un Capitan Fracassa del sex appeal borghese”.
Sarà proprio lei, quel Capitan Fracassa, fra il ’68 ed il ’69, a trasformarsi in vera combattente, ed a spingere con particolare determinazione il teatro suo e di Dario fuori dal teatro “legittimo” e dalle sue cronache.
Quando Dario Fo ha ricevuto il premio Nobel, ha detto che premiava sia lui che Franca Rame. Non era gentilezza di marito e di compagno d’arte. Era, ancora una volta, desiderio di opporre alla storia superficiale del teatro la verità della sua storia sotterranea. […]

Sono passati più di 40 anni dalla prima volta che vidi, senza conoscerli, Dario Fo e Franca Rame. Dopo il Nobel del ’97 è scoppiata la letizia fra i teatri oscuri, quelli di cui non si scrive né cronaca né storia, che vivono fuori dell’orbita del teatro che Julian Beck chiamava, con un po’ di disprezzo, “rispettato”.
Benché Dario Fo sia uno dei vertici del teatro contemporaneo; benché venga insignito del Nobel per la letteratura, lui che non si considera certo un “letterato” e che molti non consideravano neppure meritevole dell’epiteto di “scrittore”; benché abbia ricevuto la nobilitazione più grande, molti attori dei teatri “senza nome” si sono sentiti implicati in prima persona, riconosciuti. Mentre dall’Odin Teatret spedivamo a Dario e Franca i nostri telegrammi esultanti, all’Odin arrivavano i fax di molti gruppi e di molte persone che abbiamo incontrato nei nostri giri, soprattutto dall’America Latina. Dicevano tutti più o meno la stessa cosa: è come se avessimo ricevuto il Nobel anche noi.
Dario Fo ha fondato una tradizione. Mistero buffo è uno dei testi contemporanei più rappresentato nel mondo. Compare a volte anche nei cartelloni dell’establishment teatrale, ma viene soprattutto rappresentato sulle piazze, tradotto in diverse lingue, adattato a diversi ambienti. È divenuto l’emblema di un modo di far teatro indipendente, colto e popolare allo stesso tempo, che permette all’attore di non asservirsi alle condizioni commerciali e di far teatro senza nessun altro strumento che il proprio bagaglio professionale. Il giullare, che fino ad alcuni decenni fa era una figura che si studiava nelle università e di cui si parlava nei libri, è divenuto uno dei punti di orientamento del teatro d’oggi, una potenzialità in vita.
Fondare una tradizione vuol dire lasciarsi “derubare”. Molti hanno “rubato” a Dario Fo l’invenzione di un teatro comico e pugnace che si sviluppa attraverso il racconto d’uno o di pochi attori e che non ha bisogno di niente, che si può fare dovunque, sui marciapiedi, in un’aiuola o in un grande edificio teatrale tradizionale. Molti gli hanno “rubato” il segreto di come mischiare clownerie e polemica, memoria storica e perorazione politica. E soprattutto hanno potuto servirsi della nobilitazione che la fama di Dario Fo ha conquistato per i generi di un teatro considerato “minore”.
Anche Dario Fo afferma di aver “rubato”. Confesso che questo verbo non mi piace applicato all’artigianato artistico. È un uso metaforico, ma mi sembra inutilmente denigratorio o autodenigratorio. Oppure venato di furberia, che è il peggior carattere della maschera dell’”italiano” in commedia.
Ma il verbo “rubare” Dario Fo lo usa molto frequentemente, non solo in quel titolo famoso Chi ruba un piede è fortunato in amore, ma soprattutto quando parla della sua esperienza e del suo apprendistato. Credo di intuire il perché: l’utilità del verbo “rubare” applicato al mestiere dell’attore consiste nel concentrare l’attenzione non sull’atto di sottrarre qualcosa a qualcuno (nell’arte, quando si prende da un altro non gli si toglie proprio nulla, di fatto), ma sull’azione di chi “ruba”. Come dire che l’attore deve saper scrutare i colleghi con maggiore esperienza non fermandosi alle apparenze, cercando di indovinarne le intenzioni e le ricchezze aldilà dei modi in cui esse si presentano, con la concentrazione, l’ansia, la tecnica e la profonda calma del pickpocket (come nel film con questo titolo di Robert Bresson), sapendo che dalla sua azione dipendono il suo sostentamento e la sua libertà.
Così, nell’orbita dell’arte, i risultati dell’azione del “rubare” non sono furti, ma invenzioni. È il connotato delle tradizioni “povere”, che non usufruiscono di scuole e di accademie e si basano sull’autoditattismo. […]

Ho incontrato molte altre volte Dario Fo, nel corso degli anni. È tornato ad Holstebro trionfalmente, e mentre una gran massa di spettatori applaudiva lui e noi dell’Odin che l’avevamo invitato, invece di godersi semplicemente gli applausi ha voluto ricordare al pubblico i primi tempi in cui ci aveva conosciuto, quando la maggioranza ci guardava con sospetto e ci rifiutava. È venuto alla sessione dell’ISTA nel 1981 a Volterra, in Toscana per spiegare e lasciarsi “rubare” i segreti dell’improvvisazione. Nell’84, quando è venuto a festeggiare con noi i 20 anni del nostro teatro, ha ricordato il valore della “resistenza”, di non cedere alla tentazione di smettere, quando tutte le mete che da giovani ci facevano sognare sembrano raggiunte. Ed altre, viste con occhi maturi, sembrano irragiungibili.
Ho potuto toccar con mano la forza della sua “resistenza” quando è venuto a Copenaghen, durante la sessione dell’ISTA, nel maggio del ’96, e doveva dire solo poche parole, non si doveva stancare, doveva aver cura del muscolo del cuore, che gli aveva dato recentemente avvisaglie di grave pericolo. Ma uno come Dario proprio non riesce a pensare al cuore come a un muscolo. Parlò, cominciò a spiegare, dalla spiegazione passò agli esempi, dagli esempi alla recitazione. Come al seminario di Holstebro vent’anni prima. Questa volta Franca ed io dovemmo salire in palcoscenico per fermalo. Alcuni dei presenti ci giudicarono male. Era impossibile vedere il dispendio di energie di quell’attore che sembrava lavorare in souplesse, come se recitare fosse per lui la cosa più facile, più naturale e riposante del mondo.
Sembrava il Dario Fo di vent’anni prima perché continuava ad inventare, a mutare. Ripeteva i suoi pezzi famosi e ripetendoli li variava. E passava a cose nuove, “fresche”, non ancora messe a punto del tutto.
Resistere significa non smettere di mutare.
La lunga carriera di Dario Fo è un lungo viaggio esemplare. Vediamo le tracce del punto di partenza, del teatro di “rivista”. E vediamo i punti di arrivo. Fra i due estremi vi è – circostanziata in azioni concrete, efficaci, sapienti di mestiere – la rivolta. In questo arco di storia ha eroso i confini fra il teatro scritto e il teatro orale, fra il teatro “minore” e il “maggiore”, fra il teatro “serio” e quello “buffo”, fra il pagliaccio e il testimone del proprio tempo. […]

Un numero vale l’altro, eppure non c’è niente da fare, l’imminenza dell’anno 2000 acquista un valore simbolico al quale è impossibile sottrarsi. In qualsiasi discorso sul futuro, in ogni programma per i prossimi anni, scivola fra le parole il termine “millennio” dove fino a poco tempo fa ci accontentavamo di “anno”. Quel numero 2000 spinge irresistibilmente a pensare in grande.
La storia del Novecento giustifica il fatto che pensando il teatro lo si pensi in grande. Mai come nel XX secolo, il teatro è stato così marginale fra gli spettacoli. Eppure questo secolo è una delle età dell’oro del teatro. L’oro in questo caso non è la bellezza, né la pace, ma il valore di una dissidenza. Mai, come nel XX secolo, il teatro è stato un luogo in cui nutrire la rivolta. Bisogna essere in grado di trasmettere la sete della rivolta e la tecnica della dissidenza nel prossimo millennio. Ne avranno bisogno. E come sempre accade agli assetati, sul principio non avranno la minima idea di come fare.
Programmo il lavoro del mio teatro come il lavoro di un fantasma. Cerco di fare in modo che il fantasma possa infiltrarsi in quel terzo millennio al quale non apparteniamo e che non possiamo immaginare. Il fantasma è il paradosso della presenza assente. Qualcosa di molto concreto, se si bada alle conseguenze.
C’è una tecnica, non solo una mitologia, del fantasma. Bisogna preservare il valore degli incontri che configurano la storia sotterranea del teatro.
Come fare in modo che altri possano ancora “rubare”? Si può “rubare” ai fantasmi?
Non era forse un fioco fantasma, quasi muto e trasparente, fino a poco tempo fa, la figura del giullare?

Eugenio Barba, 1997, DIDASKALIA

Franca

Quando sono entrato in casa Fo mi tremavano le gambe. Avevo tenuto il mio primo e unico “provino” al cospetto di Dario per convincerlo di meritarmi il diritto di recitare la sua “Apocalisse rimandata“. Ricordo come cambiava l’espressione del viso e degli occhi insieme all’intonazione della voce parlando di Franca. Come maestra, compagna, regina, confidente e ultima certificatrice di ogni scelta. Franca Rame era un manuale di teatro, di diritti e di esser donna. Mancherà e mancherà a quello sguardo e a quella intonazione del maestro.

Moderati e rivoluzionari

Moderato è il termine con cui si indica nei tempi della musica l’allegro ma non troppo. Moderato vuol dire sotto tono. In latino “in medio stat virtus”. Moderato vuol dire sopravvivere. Il moderato aborrisce il fantastico. Il moderato non esce dalla consuetudine. Il moderato non è rivoluzionario, è contro la rivoluzione. A me non piace come termine perché è il contrario di impeto e coraggio. (Dario Fo)

Il Dario furioso

«Sento arrivare il grande crollo. Non c’è solo Formigoni. In questi giorni assistiamo a mosse e mossette. Maroni dice votiamo ad aprile? Allora lo anticipo, dice l’altro, votiamo a gennaio! No, febbraio. La Lega dentro? La Lega fuori? Tutto un far battute da opera buffa. E i sorrisi, ha visto quanto sorridono, tutti quei maneggioni? Un linguaggio da “Le Roi s’amuse”, il Re si diverte, il buffone denuncia, e poi arriva la censura. Le Roi s’amuse, eccome se s’amuse. Ma io dico che è finita la cuccagna». Dario Fo parla di Formigoni, Lombardia e solidarietà: la sua intervista qui.

 

 

Franca e Dario

Sono stata io a invitarlo dopo le prove a mangiare qualcosa in una trattoria, la prima volta. Dario sembrava non accettare volentieri l’invito. Poi, giacché io insistevo, mi svelò la ragione della reticenza: “Non ho un soldo, per liberarmi dal lavoro e venire alle prove ho dovuto licenziarmi dallo studio di architettura”. E io, allegra: “Mi fa piacere, adoro nutrire randagi, gatti abbandonati e disoccupati affamati”. Andammo in una trattoria lì all’angolo e ordinammo due porzioni di salame, pane e una birra. Poi ci accompagnammo l’un l’altra a casa. Tram non ce n’erano più, ci avviammo a piedi. Ci raccontavamo delle nostre vite, lui del suo lago, il Maggiore, e dell’Accademia; io della compagnia di papà. Ci scoprimmo a ridere come ragazzini alle reciproche ironie. Lo trovavo spassoso, quello spirlungo strabordante racconti assurdi e festosi. Una sua frase mi sorprese: “Spesso parlo con qualcuno e mi sento a disagio, le cose che mi sembrano intelligenti e spiritose che dico non vengono raccolte, e mi convinco di non possedere fantasia né spirito. Invece ora sento apprezzare le mie immagini, e ne ricevo altre da te, che mi incoraggiano a lasciarmi andare nel fantastico”.

Franca Rame si confessa sui suoi primi momenti in Dario Fo. Da leggere.

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Formigoni secondo Fo

L’intervista di Oriana Liso oggi su Repubblica:

Dario Fo: mi ricorda sant’Ambrogio che diceva basta a chi si definisce da solo un santo

“Sta venendo fuori il marcio il governatore ammetta e lasci”

MI­LA­NO — Pre­mio No­bel, uo­mo di tea­tro e lom­bar­do doc. Da­rio Fo, co­sa pen­sa del­le vi­cen­de giu­di­zia­rie che coin­vol­go­no il go­ver­na­to­re For­mi­go­ni?

«Pri­ma di tut­to mi di­ca: con­ti­nua ad as­si­cu­ra­re di non es­se­re in­da­ga­to? Con­ti­nua a di­re che lui non ha fat­to pro­prio nien­te?».

Già.

«Nel quar­to se­co­lo avan­ti Cri­sto il gran­de scul­to­re Fi­dia fu in­ca­ri­ca­to di rea­liz­za­re una sta­tua di Ate­na ma par­te del­l’o­ro che ser­vi­va per la do­ra­tu­ra del­la sta­tua — rac­col­to con il con­tri­bu­to di tut­ti gli ate­nie­si, an­che dei più po­ve­ri — fu ru­ba­to. So­spet­ta­to, pro­prio Fi­dia. Che al le­gi­sla­to­re So­lo­ne ri­bat­te: “Quan­do avre­te le pro­ve cer­te che ho ru­ba­to quel­l’o­ro,al­lo­ra po­tre­te ve­ni­re a di­stur­bar­mi. Nes­su­no dei vo­stri giu­di­ci può in­di­car­mi co­me col­pe­vo­le, quin­di la­scia­te­mi tran­quil­lo”».

Il ri­fe­ri­men­to sem­bra chia­ro.

«Ri­spon­de So­lo­ne a Fi­dia: “la gen­te ha in­tui­to che tu sei col­pe­vo­le di fur­to ai dan­ni del­la po­po­la­zio­ne in­te­ra. Tu hai la pos­si­bi­li­tà e l’a­bi­li­tà per men­ti­re, ma sai co­sa ac­ca­drà? Tut­ti ti co­no­sco­no co­me un gran­dis­si­mo ar­ti­sta, ma se ti com­por­ti co­me un fur­bo qual­sia­si, nien­te po­trà sal­var­ti dal per­de­re la tua glo­ria. Sce­gli tu, a me fai tan­ta pe­na”. A que­sto pun­to Fi­dia scop­pia a pian­ge­re e di­ce: so­no col­pe­vo­le».

Si aspet­ta che il pre­si­den­te For­mi­go­ni fac­cia lo stes­so?

«Mi pia­ce­reb­be ve­de­re For-mi­go­ni am­met­te­re sem­pli­ce­men­te: “sì, so­no col­pe­vo­le”. Sen­za ar­ro­gan­za, sen­za que­ste iro­nie con­ti­nue, que­sto mo­do sprez­zan­te di ri­ven­di­ca­re fe­ste, pran­zi, ba­gni. Di­ce: “so­no pu­ro co­me l’ac­qua di fon­te”. Ma nean­che Ge­sù ha mai det­to una co­sa co­sì pre­sun­tuo­sa. Quel­lo su Fi­dia è un rac­con­to di­men­ti­ca­to dal­la sto­ria: em­ble­ma­ti­co an­che que­sto di co­me la no­stra cul­tu­ra ab­bia per­so per stra­da va­lo­ri co­me l’o­ne­stà, la tra­spa­ren­za, la cul­tu­ra stes­sa».

Cre­de che le ec­cel­len­ze lom­bar­de — co­me la cul­tu­ra, ap­pun­to, non so­lo la sa­ni­tà — ri­schi­no il de­cli­no?

«Ma lo so­no già, in de­cli­no. Per an­ni ci si è van­ta­ti di una re­gio­ne ai pri­mi po­sti nel pro­dur­re cul­tu­ra, la­vo­ro, ope­re pub­bli­che e tan­to al­tro. Ma è co­me se per an­ni si­fos­se ster­ra­ta so­lo la su­per­fi­cie del ter­re­no, la­scian­do che sot­to pro­li­fe­ras­se il mar­cio. E il mar­cio ora sta ve­nen­do fuo­ri: quan­to so­no gli in­da­ga­ti, in Re­gio­ne? Sia­mo go­ver­na­ti da una strut­tu­ra di cor­rot­ti che re­sta­no at­tac­ca­ti di­spe­ra­ta­men­te al­le lo­ro pol­tro­ne men­tre sta an­dan­do tut­to in ro­vi­na. An­zi, pro­prio chi ci go­ver­na sta man­dan­do tut­to in ro­vi­na».

È una vi­sio­ne mol­to pes­si­mi­sta, la sua. Non c’è mo­do di fer­ma­re que­sta fra­na?

«Bi­so­gne­reb­be riu­sci­re a cac­cia­re i fan­ta­smi, co­me li chia­ma­va San­t’Am­bro­gio. Che di­ce­va, di Mi­la­no: ba­sta con que­sti uo­mi­ni che si tra­ve­sto­no da san­ti, che si de­fi­ni­sco­no da so­li, dei san­ti. Non sem­bra­no le pa­ro­le di For­mi­go­ni, que­ste?».

Il caso Fiat visto dal genio di Fo

A volte leggi alcuni suoi lampi e credi proprio che non ci sia altro da aggiungere.