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Niente Coppi senza i Carrea

In morte di Andrea Carrea, detto Sandrino forse per affrontare con un diminutivo la solennità del suo corpaccione contaidno, 89 anni, nato a Gavi ma cresciuto a Cassano Spinola, si è ricordato l ultimo gregario storico di Fausto Coppi e quindi di un certo ciclismo. Il penultimo ad andarsene era stato, poco più di un anno fa, Ettore Milano, 86 anni, anche lui di quella provincia di Alessandria che ha dato allo sport italiano campioni enormi di ciclismo e calcio, con una concentrazione di talenti che forse meriterebbe un qualche studio serio: Girardengo, Coppi, Baloncieri, Giovani Ferrari, Rivera

Milano, erre “roulée” alla francese proprio come Rivera e come tanti di quella provincia (idem per Parma), era in corsa il paggio psicologo di Coppi, Carrea era il suo diesel da traino e spinta.

Scelti entrambi, per aiutare il Campionissimo, da Biagio Cavanna detto l orbo di Novi Ligure, il massaggiatore cieco che tastava i muscoli e indovinava le carriere (e a Milano diede pure la figlia in sposa).

I due non avevano vinto mai in prima persona, Fausto vinceva anche per loro che lavoravano per lui portandogli in corsa acqua,panini,conforti vari, tubolari, amicizia. Un giorno al Tour de France del1952 Carrera si trovò, ”a sua insaputa”come uno Scaiola del ciclismo, in maglia gialla.

Un gendarme lo pescò in albergo per portarlo alla vestizione. Carrrea si scusò con Coppi per eccesso di iniziativa, avendo fatto parte di un gruppetto, teoricamente innocuo, di fuggitivi non ripresi.

Il giorno dopo il suo capitano gli prese, come da copione, la maglia gialla scalando l Alped Huez e arrivò da dominatore a Parigi. Un cantante ciclofilo, Donatello, che ha fatto anche Sanremo, ha composto una canzone splendida che è un sogno di bambino e dice: “Un giorno, per un giorno, vorrei essere Carrea”.

Il gregario nel ciclismo non c è più, almeno nel senso classico: libertà di rifornimento continuo dalle ammiraglie, licenza per ogni assistenza tecnica in corsa, severità della giuria quando, specialmente in salita, ci sono troppe spinte per i capisquadra, che facevano chilometri senza dare una pedalata, hanno procurato dignità aduna collaborazione che non è più umiliante e servile, e che consiste soprattutto nel pedalare con accelerazioni giuste al momento giusto, nell aiutare, aprendogli un tunnel nell aria, il capitano quando è il momento di tirare per rimediare aduna sua défaillance o rafforzare una sua iniziativa. Nello sport tutto i gregari sono di tipo nuovo.

Diceva Platini genio del calcio: “Importante non è che io non fumi, è che non fumi Bonini”. Il quale Bonini gli gocava dietro, riempiva il campo del suo gran correre, cercava palloni per servirglieli. Adesso i grandi gregari del calcio, alla Gattuso, guadagnano bene, sono stimati, cercati. Coppi lasciava comunque ai gregari tutti i suoi premi, e così li ha fatti ricchi.

Chi è adesso il gregario? Nell automobilismo il pilota che esegue gli ordini di scuderia, lascia passare il compagno che ha bisogno di punti, fa da “tappo” mettendosi davanti a chi lo insegue, e al limite “criminoso” sbatte fuoripista il concorrente pericoloso.

Nel ciclismo è ormai quello che sa propiziare il sonno al campione nelle dure prove a tappe, sa dargli allegrie o comunque distensione in corsa. Nel mondo dell atletica il gregario si chiama lepre, ed è pagato, nelle corse lunghe,per tenere alto il ritmo nella prima parte, sfiancando gli avversari e propiziando un tempo di finale di eccellenza: poi può ritirarsi. Sta sul mercato, è ingaggiabile anche al momento, per una corsa sola.

Nella scherma magari è quello che tiene per il campione il conteggio delle vittorie regalate in tornei di ridotta importanza o comunque prospettanti al campione stesso una eliminazione ormai sicura, gli fa il calcolo dei crediti e dei debiti così messi insieme nel rapporto con avversari importanti, gli dice quando è tempo di “passar vittoria”.

Il gregario nuovo può anche arrivare a sperimentare su se stesso il prodotto dopante o il prodotto coprente, correndo dei rischi. Ma la sua funzione diventa sempre meno materiale. E si deve ricordare che il prototipo altamente psicologico del gregario che dà serenità, oltre a procurare una buona compagnia negli allenamenti, tiene quattro gambe anzi zampe. E un cavallo: si chiamava Magistris, era un quasi brocco, ma senza di lui vicino, in pista come nella stalla,il favoloso Ribot era nervoso, tirava calci e nitriva di rabbiosa tristezza.

Sì, lo voglio

Lui avrà avuto forse trent’anni, quasi quaranta, sicuramente non più di quarantacinque. Portati male, comunque. Di troppo o troppo poco.

Stavano a Roma in un ristorante troppo imbucato per non essere scientificamente un ristorante costruito apposta con quella forma lì per inghiottirsi tutti i viaggiatori con una predisposizione all’imbuco. Tavolini fuori, sì, ma con siepi altissime, come un cubo di edera. Camerieri riservati da sembrare timidi da almeno un paio di secoli. Nessun orario di apertura o chiusura: se apri un ristorante così introvabile soffri l’orario dei mondi paralleli, degli alieni per salvarsi, dei non-luoghi senza bisogno di aerei o centri commerciali. Insomma un ristorante che esiste solo se si incrociano perfettamente gli appuntamenti: luogo, ora, imprevisti e tutto quel cumulo delle probabilità.

Lei deve essere stata accondiscendente tutto il pranzo. Lo scalino più irto era stata la scelta del vino. Cosa da poco. Hanno finto di metterci la testa per quell’abitudine alle complicazioni come una malattia.

Poi lei deve avere fatto una di quelle domande definitive. Perché lui si è guardato in giro. Per sbaglio ha incrociato anche uno dei riservatissimi camerieri dalla riservatissima postura. Che per poco non ha rischiato il lavoro per quell’errore di mira di sguardi.

Poi si è bloccato. Ha pagato il conto come se dovesse morire ogni secondo e lasciare le cose a posto. Lei ha sorriso prima. Poi si è indispettita. E alla fine si è alzata mentre il rumore di elettrocardiogramma sputava lo scontrino. Dietro l’angolo della strada si sono incrociati di nuovo. Ciechi a tutti. Un sciogliersi di ombre a forma di macchia sul marciapiede per quel sole così matematicamente verticale.

Sono giovani, mi ha detto un carabiniere. Non hanno ancora imparato a non pensare al domani. Un ‘sì, lo voglio’ come il rosario prima di andare a dormire.

La ‘ndrangheta condannata da Dio

“La ‘ndrangheta non è cultura calabrese. La ‘ndrangheta è ignoranza. La ‘ndrangheta è sottosviluppo. La ‘ndrangheta è sofferenza. La ‘ndrangheta è male, nel senso morale e cristiano del termine.” Le parole sono di don Tonino Vattiata. Prete ed esponente di Libera a Vibo Valentia. Loro gli hanno bruciato l’auto, lui ha risposto con l’arma della parola. A vederlo da qui hai vinto tu, don Tonino.

Radio Mafiopoli 30 – Il sorriso di Bruno Caccia

Mafiopoli, provincia d’Italia, è il paese dove siamo maestri a cominciare le storie sempre dalla fine. Senza una fine certificata non siamo capaci di leggere una storia, senza il brivido finale. Ci siamo disabituati a raccontarle le storie, siamo diventati maestri del confezionamento, facciamo i pacchetti con nastri e ceralacca più belli del mondo, abbiamo professionisti sempre in tourné che ci raccontano i morticome fossero un arcobaleno perché il bianco e nero invece ci dicono che è vecchio, il bianco o nero è addirittura troppo radicale, e si sa che a Mafiopoli c’è da essere chic.

Questa storia è una storia che inizia con la fine il 26 giugno, di domenica a Torino. Se fosse in bianco e nero il 26 giugno 1983 sarebbe grigio come la menta che è appassita, una domenica che ti suda addosso come una doccia fatta troppo di fredda. È la passeggiata aggrappata al marciapiede di un uomo, un guinzaglio e il cane. E che interesse può accendere una camminata dopo cena in bianco e nero con un cane? Per questo siamo dovuti andare a riprenderla nel cestino del corridoio.

Lui cammina mentre slappa il sapore fresco del caffè tra il palato e la lingua, il cane annusa la sua passeggiata che gli insegna che è sera e forse questo asfalto che cerca di scollarsi ci dice che è fine giugno. Le passeggiate dopo cena sono sempre un fruscio degno, un vento tra le orecchie e il cuore anche se non c’è vento, una sigaretta per assaggiare il retrogusto di anche oggi cos’è stato, una pausa con la parrucca della sigla di coda. Se fosse in bianco e nero quella passeggiata sarebbe un battere di palpebre.

Chissà cosa pensava, Bruno Caccia, quella sera, sempre così sacerdote delle giornate bianco o nero, mentre si sedeva con gli occhi sull’altalena del guinzaglio e della coda; se pensava al gusto stringente di chi ha deciso che è domenica, e la domenica sera con il cane appoggiando per un secondo sul comodino la scorta dovrebbe essere un diritto anche delle solitudini più malinconiche, o se pensava a come fosse a dormire comodo questo nord di Mafiopoli che succhia l’osso dell’immunità narcotizzato dalla sua stessa presunzione. Come un coccodrillo sdentato che si prende il sole. Chissà se aveva ancora voglia di pensarci, a quell’ora che si mette sul cuscino perché è poco prima della notte, a quei vermi liquidi che zampettavano sulle gambe e sulla schiena del Piemonte addormentato, sdentato e fiero che tra il bianco e il nero aveva scelto la cuccia e la catena.

A Mafiopoli ci insegnano sempre che è di cattivo gusto fare i nomi. Caro Bruno, hanno cercato di consigliartela spesso la buona educazione di Mafiopoli. Non fare i nomi. E allora facciamo finta che non ci siano intorno a questa storia che è passata come un brodino con un dado artificiale, facciamo finta che non ci siano a sapere e ascoltare i mastri della ‘Ndrangheta che si attaccano seccati alla suola delle scarpe di una regione a forma di coccodrillo, facciamo finta che non siano né gli Agresta, né i Belcastro, o Bonavota, Bruzzaniti, D’Agostino, Ilacqua, Macrì, Mancuso, Megna, Morabito, Marando, Napoli, Palamara, Polifrone, Romanello, Trimboli, Ursino, Varacolli, Vrenna. In ordine alfabetico, messi in fila per matricola: come lo scarico dei capi al mercato dei suini secondo la marca pinzata all’orecchio. E lasciando fuori, per adesso, i Belfiore, che in questa storia di marciapiede, bianco o nero, sono il concime.

Chissà se ci pensava Bruno Caccia a quanto marciapiede avrebbe dovuto mangiare per svegliare il coccodrillo e urlargli dentro i buchi delle orecchie che era tempo di cominciare a grattarsi, a farle scivolare queste zecche marce che succhiano e si nascondono tra i peli. Chissà se ci pensava il magistrato Caccia, mentre sul marciapiede seguiva il passo soffice del cane e del suo collare, a com’è impudicamente nuda una città con un palazzo di giustizia che è un arcobaleno acido di caffè, mani strette e corna pericolose. Lì dove uno dei capi dei vermi, quel Domenico Belfiore che nella storia è un tumore che appassisce, chiacchericcia con il procuratore Luigi Moschella. Un bacio umido con la lingua al sugo tra ‘Ndrangheta e magistratura. Chissà se non gli si chiudeva lo stomaco a Bruno Caccia, sempre così fiero del bianco o del nero.

Siamo al primo lampione, cane e padrone, sotto quella luce di vetro che solo Torino sa riflettere così grigia.

Se ci fosse la colonna sonora da destra a sinistra sarebbe: il cuscinettìo delle zampe del cane, lo spelazzo della coda, il cotone della solitudine intesta alla sera di lui e più dietro, quasi fuori quinta, una 128 che cigola marinaia come tutte le fiat il 26 giugno del 1983.

Chissà che pensieri evaporavano dentro i sedili di plastica di quel marrone secco della 128. Chissà se erano fieri a sganciare la leva del cambio anoressica e zincata, per questa missione da bracconieri della dignità. Chissà come brillava la faccia a Domenico Belfiore mentre ordinava quella 128 e la polvere da sparo come si ordina una frittura per secondo, chissà come si erano sniffati la potenza di avere ammaestrato i catanesi alla ‘ndrina, di avere preso anche Cosa Nostra come cameriera, chissà come avevano riso pensando che proprio loro, con Gianfranco Gonnella, alzavano la saracinesca del caffè sotto il tribunale, in una colazione che serviva a mischiare rapporti per l’interesse di stare sempre nel grigio, vendendosi il crimine e la giustizia e mischiare tutto con il cucchiaino.

Mi dico che forse Bruno Caccia non riusciva a fumarseli nemmeno nella passeggiata di coscienza alla sera quei nomi che aveva deciso di tenersi bene a mente, come succede per un titolo che rimane anni incastrato nel portafoglio perché prima o poi ci può servire. Ecco, forse, mi viene da pensare, Bruno Caccia è un magistrato con la schiena dritta ma soprattutto un uomo di memoria, ma la memoria attiva quella vera che ormai qui a Mafiopoli è andata fuori produzione. Quella che serve per leggere le storie mentre succedono e se hai un po’ di fortuna immaginare di prevedere anche la mattina di domani. Mica quelle memorie in confezioni da 6 da accendere come le candeline in quelle storie che si cominciano a raccontare partendo dalla fine. Una memoria in camicia e con un cane sotto il secondo lampione.

Chissà se avranno pensato di spararci anche al cane, quei manovali disonorati nel costume mai credibile degli uomini d’onore mentre si avvicinavano a Bruno Caccia, il suo cane e per stasera niente scorta, chissà come schizzava olio quel soffritto nel cervello per sentirsi capaci di meritarsi anche stasera un pacca dal boss, quella 128 farcita di codardi che 25 anni dopo non sono ancora stati pescati. Chissà se pensano di essere impuniti dimenticando di avere prenotato in una sera il posto riservato nell’inferno dei picciotto e degli omuncoli.

14 colpi ad ascoltarli di seguito in una sera di 26 Giugno in via Sommacampagna a Torino sono una fanfara della codardia che tossisce. 14 volte di sforzi dallo stomaco di un rigurgito a pezzettoni. La risata di potenza di Mimmo Belfiore e suo cognato Palcido Barresi che apre lo sfintere. 14 spari in una serata d’estate suonano come una canzone d’amore suonata con le pietre. Chissà cosa avrà pensato il cane, nel vedere quegli uomini a forma di stracci mentre scendono per finire con tre colpi Bruno Caccia, il suo padrone, e ripartire veloci a prendersi gli applausi della grande famiglia di vomito e merda. Chissà a che punto era arrivato il magistrato a passeggio a pensare a tutti i fili dei nei di una regione che dormiva.

Tutto proprio sotto al secondo lampione. Dicono che Torino ogni tanto sia funebre: quella sera era a forma di cuore schiacciato da una ruota all’incrocio.

Mafiopoli, provincia d’Italia, è il paese dove siamo maestri a cominciare le storie sempre dalla fine. Senza una fine certificata non siamo capaci di leggere una storia, senza il brivido finale. Ci siamo disabituati a raccontarle le storie, siamo diventati maestri del confezionamento, facciamo i pacchetti con nastri e ceralacca più belli del mondo, abbiamo professionisti sempre in tourné che ci raccontano i morti come fossero un arcobaleno perché il bianco e nero invece ci dicono che è vecchio, il bianco o nero è addirittura troppo radicale, e si sa che a Mafiopoli c’è da essere chic.

Che il magistrato Bruno Caccia sia stato ucciso il 26 Giugno 1983 da ignobili ignoti è rportato in qualche foglio tarmato scritto probabilmente con una stampante ad aghi. Ma gli avvoltoi tra le macerie della memoria si sono subito messi in tasca i soprammobili di quella storia con questa fine così cinematografica da non farsi scappare. E ti hanno regalato la memoria, caro Bruno, quella memoria di polistirolo buona per le sfilate per appiccicarci un nome al cartello bianco con sfondo bianco di una via. In questa Mafiopoli dove tutto va al contrario e bisogna prendersi la responsabilità di sperare in una fine certificata perché almeno si mettano a cercare cosa era successo prima.

Mi chiedo Mimmo Belfiore, cosa starai pensando adesso. Se un po’ non ti disturba che quella memoria che pensavi di avere rapinato tutta oggi è diventata una preghiera laica e quotidiana ogni mattina. Proprio qui, proprio dentro casa tua, nella tua cascina senza porcilaie ma che è stata piena di porci. Mi chiedo se ti brucia, mentre in carcere recitavi la parte dell’invincibile avere detto a Miano che Caccia l’avevi fatto ammazzare tu. Chissà come ci sei rimasto male, tradito da un infame e da un infermiere che il coraggio lo praticano per amore e non per una puttana a forma di maestà. Chissà quando te lo raccontano che a casa tua piano piano i guardiani del faro stanno strofinando via l’odore della tua famiglia e della vergogna. Chissà che magari, come tutti i tuoi compari non preghi di essere messo nelle mani di Dio e lui non ti aspetti sotto un lampione su una 128. Chissà se un giorno a voi mafiosi per un allineamento degli astri non vi succeda che riusciate ad avere un sussulto per vedervi allo specchio così anoressici d’indignità. Chissà se ci hai creduto davvero che tuo fratello Sasà riuscisse a continuare impunito mentre faceva girare in 4 anni 11 quintali di cocaina. Dal Brasile poi in Spagna fino a Genova e Torino nell’ennesimo giro del mondo dei soldi in polvere. E chissà se non ti dispiace che tuo fratello Beppe invece non sia proprio all’altezza, lui che si è buttato sul gioco d’azzardo e alla fine si è azzardato troppo anche se aveva le spalle coperte dalla ‘ndrina Crea. Chissà come ti suona stonato sentire suonare una memoria libera proprio qui nel tuo cortile dove travestito da boss del presepe ti compravi la benevolenza con le ricotte. Chissà se un po’ non hai sorriso sapendo che alcuni tuoi compaesani di San Sebastiano Po temevano i disagiati per la “sicurezza pubblica”, impauriti dai disagiati del gruppo Abele dopo che ti avevano lasciato pascolare e sporcare per tutti questi anni. Vorrei chiederti, caro Mimmo, se non stai pensando che si avvicini la data di scadenza del tuo onore.

Bruno Caccia e il suo cane sono quei due sotto al secondo lampione.

A Mafiopoli le storie si cominciano a raccontare dalla fine. Bruno Caccia doveva finire il 26 giugno, che dico, per uno scherzo del destino il 26 giugno io ci sono pure nato. Oggi c’è un cortile, un cortile scippato ai Belfiore, un cortile che è stato rapinato al rapinatore, un cortile che vuole diventare da grande un giardino e una memoria che con le unghie sta rompendo il guscio. E il magistrato severo, sono sicuro, non riuscirebbe a trattenere un sorriso.

Cinquecento euro e stai messo a posto. (mettiamo l’attak al pizzo)

folla2Il testo è stato scritto e recitato in Piazza Mangione a Palermo il 15 Maggio per la 4 Festa di Addiopizzo

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

Non si riesce nemmeno a scriverla una scena teatrale per come rimbomba la frase. Chissà se almeno rimbalza sugli scaffali o si impiglia tra le gambe della sedia alla cassa, chissà come si stende o sta seduta. “Cinquecento euro e stai messo a posto” non è una frase per farci un pezzo di teatro in piazza, “cinquecento euro e stai messo a posto” è una bava. Una bava che scivola fuori dalla bocca del fallito, si secca sul  pavimento come una macchia mica dignitosa che non va più via e rimane a guardarti lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato mezza giornata e la domenica ti accompagna in tasca a portare fuori i bambini. Mano nella mano, vestito della festa, gelato e anche questo mese la dignità a posto. Un pompino da cinquecento euro alla dignità che, anche se si vende tutti i mesi, è una prostituta che costa. Un negozio con una macchia per terra e un postino fallito con la dignità degli altri rapita dentro la busta non sono personaggi che ci meritano un pezzo di teatro: sono personaggi appiattiti in una lettera. E allora eccola la lettera di questo mese. Francobollo con lo sputo, timbro a forma di cerchio e ve la leggo qui. Così per questo mese vi portate via anche la mia.

Caro picciotto, o se preferisci, visto che hai imparato a pettinarti e vestirti pulito, caro estorsore, o, se preferisci, caro esattore. E poi caro al tuo capo ufficio, quello che sta seduto a contare i soldi quando alla sera raccoglie le mesate del mandamento, quei soldi che vi auguro che vi marciscano in mano. E poi cari a tutti i falliti, perché è da falliti mangiare sulla metastasi della paura degli altri, oppure, per capirsi meglio, cari a tutti gli uomini d’onore, così ci capiamo meglio, così vi prendiamo dentro tutti e entriamo subito in tema.

Sono un commerciante di parole, a volte me le pagano bene, e arrotondo sempre il peso prima di chiudere la vaschetta. Non ho mica un negozio dove potete ballare felici la vostra danza della paura, mentre lasciate la scia del vostro onore di merda sulla serranda o tutti fieri correte dopo aver acceso il fuoco del vostro segnale da vigliacchi; sono un ambulante, non so come vi organizzate in questi casi, ma siete mediamente capaci di intercettarci. Questa sera apro la saracinesca fuori orario e vi vengo a cercare io, ma mica per i cinquecento euro così sto messo a posto, ma perché avrei, dico almeno, un paio di domande, una cosa da niente, mica per capire dove non c’è niente da capire, ma per togliermi il peso. Il peso di una curiosità che alla fine cercate sempre di farci pagare nel mercato della vigliaccheria di cui siete i detentori.

Nonno Cleto mi diceva che bisogna pagare il giusto, mio nonno Cleto era uno che portava in giro le bombole del gas con la vespa che si arrampicava in montagna. Pensava solo alle cose fondamentali, impegnato com’era a mettere in prima, seconda e fare bene la curva. Ma questa storia del pagare il giusto se la ricordava ogni volta che stava per due minuti al semaforo rosso con la frizione tirata. Non diceva pagare poco, mica diceva pagare tanto. Diceva pagare giusto. E allora, cari ricattatori delle minacce pagate a rate, cosa c’è, cosa pensate a mettervi in mano la paura in moneta? Quanto vi costa un regalo ai vostri figli con i soldi dei figli degli altri?  Quanto vi sentite uomini a rosicchiare i torsoli come i vermi con le mele appena marcite? Com’è lavorare al mercato infame della minaccia?

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e voi continuate a stare falliti. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

L’altro, nel negozio, chiuderà a chiave senza troppa attenzione. Anche questo mese ha pagato l’affitto ad una civiltà a rate. Poi sarà sera davanti al tavolo, la famiglia, l’educazione e la responsabilità stuprata anche questo mese. Tanto è il sistema, tanto è il nostro sistema per godersi il negozio e poi chi me lo fa fare di stare a fare il rivoluzionario. Tanto la mesata la pagheranno gli altri un pezzo al giorno. Tanto è la città intorno che sconta  la macchia a forma di crosta sul pavimento dov’è coagulata anche questo mese la sua voglia di stare tranquillo. E per il resto del mese si impara subito ad alzare la serranda con la leggerezza che sia tutto meravigliosamente normale e di seta. È un gioco da ragazzi: per dimenticarti un giorno del mese hai tutte le settimane di resto. Come sarebbe triste una città, una regione, una nazione con la gente che smette di essere gente, con il cielo che si stinge, con un tumore che sottovoce esce in nero dalla cassa una volta al mese. È un angelo che balla smutandato ciclicamente, è un liquido che si secca e che non lascia impuniti. Non sarete impuniti per quel cerotto che si aggiunge di nascosto.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e voi continuate a stare falliti. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

I falliti risalgono in macchina, con i soldi che si ristropicciano nella tasca perché  comunque c’è da essere svelti. Svelti per partire, svelti per arrivare a finire il giro prima che si chiude. Svelti perché la combriccola disonorata dei falliti d’onore possa contare, appuntare, mischiare per le mani più in alto. Con questi 50 euro che si appiccicano alle mani, che si impiastricciano sul cuore. Con questi 50 euro che puzzano così che bisogna aprire i finestrini per riuscire a starci dentro. È un brodo di sangue e letame cucinato una volta al mese per pagare l’organizzazione. Un piatto unico a prezzo fisso per il banchetto del re nudo del mandamento. I falliti con il sorriso dei falliti sulla macchina veloce e con il sorriso che si svitano alla sera prima di entrare in casa a fingere male di poter essere persone onorate.

Cinquecento euro e questo mese è a posto.

Mi piacerebbe chiedere al governatore della paura che senso danno al tatto quei mucchi sistemati male di soldi. Se non sono ruvidi di quel conato che non si lava nemmeno a stare cento volte sotto l’acqua corrente del lavandino. Mi piacerebbe vedervi in faccia mentre vi leccate il dito per contare quanto valete questo mese. Mi piacerebbe starvi in tasca per registrare le risate fiacche.

Perché sono sicuro che la sentite questa febbre che vi spaventa. Questa normalità di un no davanti alla cassa che mette in buca il vostro onore di gomma piuma.

Cari postini del re, c’è una favola che ogni tanto si racconta nelle scuole di Mafiopoli. È la favola di un formichiere che si tira su per il naso, in un paese lontano, le formiche a pranzo e le formiche a cena. Un formichiere con le formiche e il muco in testa che galleggia da imperatore per le strade del paese mentre sotto è una scia di percorsi di corsa di formiche, ognuno per conto suo che si sommerge per salvarsi. Ed ogni pranzo ed ogni cena è un flipper di zampe per sfuggire almeno per oggi al naso del despota. Raccontano nella favola che un giorno passava una zanzara, una zanzara che non era mica niente di speciale, ma che come tutte le zanzare riusciva a vedere dall’alto e mica all’altezza di un buco come il resto delle formiche abitanti della città. E come sia bastato così poco perché al mattino dopo il solito formichiere, dopo essersi lavato e i denti ed essere uscito dal suo appartamento a forma di buio, il solito formichiere trovò fuori dal suo zerbino un fiume nero, con il dorso lucido e compatto che camminava in linea. Credette fosse un incubo ma era semplicemente un gruppo. Che cominciò a salire dalle gambe per spolpargli la pancia e stringergli il collo.

Perché sono sicuro che la sentite questa febbre che vi spaventa. Questa normalità di un no davanti alla cassa che mette in buca il vostro onore di gomma piuma. Perché sono sicuro che cominciate a sentirlo questo plotone di schiene che hanno deciso di stare dritte.

Caro postino fallito, questa sera ti mando una lettera da portare al piano di sopra perché mi piacerebbe avere almeno due risposte: una lettera senza i biglietti da cento piegati dentro. Una lettera per passare un po’ il tempo senza farcelo passare dagli altri. Una lettera per sentirsi vivi. Tutti i giorni di tutto il mese.

Sono passati poco meno di 20 anni. Poco meno di 20 anni che Libero Grassi vi scriveva “…volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.

Sono passati poco meno di vent’anni, e ne sono cresciuti di liberi se non di nome liberi per aggettivo. Sono passati poco meno di vent’anni.

Caro estortore, mentre decidi che negozio incollare appena comincia a fare notte  rimettiti pure le mani in tasca.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

Caro estortore, ti mando questa lettera con il bollo tutto sputacchiato. Senza soldi, sto a posto. Stiamo a posto.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

Sappiamo i nomi, sappiamo le facce, vi ascoltiamo mentre decidete di incollare tutta vi dei Mille o mentre strisciate su a Milano in via Verdi. In un ponte di vermi che si spalma sull’Italia. Sappiamo dove state e sappiamo da che parte stare. Qual è il nostro di posto. Ambulanti ma con la parte chiara, la parte dove stare. Al massimo, per uscire a fare un giro, dico per divertirci, dico per stare un po’ insieme in questa notte così piena di corrispondenze, ci travestiamo da picciotti con l’onore dei clown e scendiamo anche noi, così magari ci incontriamo, tutti insieme a metterci il lucchetto e l’attak alla saracinesca del pizzo.

Radio Mafiopoli 28 – Lo strano caso dell’ingegnere Lo Verde

Alla fine ce l’hanno insegnato loro che il trucco sta tutto nel leggere i segnali. Sarà per questo, forse, che a qualcuno fa tanto comodo farceli arrivare sempre spaiati i segnali convincendoci poi che siano i modi dell’informazione.

C’era una volta l’Italia dell’ingegnere Lo verde. Non è l’inizio dell’ennesima fiction sugli ingegneri in corsia o una puntata di Fantozzi che latita tutti, l’ingegnere Lo verde è una delle chiavi di quel bordo scivoloso del 1992 su cui a Mafiopoli si è costruita la seconda repubblica. Una repubblica a forma di buccia di banana. L’ingegnere Lo verde telefonava abitualmente a don Vito Ciancimino, e questo sarebbe di per sé abbastanza normale. Ciancimino era il re Mida ingegneristico di Palermo, l’unico uomo che riusciva anche per un vaso di gerani a farsi dare l’abitabilità. Quell’artista futurista incompreso che aveva buttato giù dei vecchiardi e inutili palazzi liberty per sostituirli con delle belle case a forma di pacco, molto meno ricchione. Molto più moderne e meno ricchione. Anzi Vito Bros Ciancimino si incontrava con un certa regolarità presso la sua abitazione Roma con l’ingegnere Lo Verde. E tutti e due sul tappeto della sala progettavano con i mattoncini del lego un’Italia a forma di sbriciola. Chissà che ridere. Ma c’è un però. Dietro le spoglie del metafisico ingegnere Lo Verde c’era una temibile prostata con attaccato Binnu Provenzano tutto intorno. La prostata più ricercata d’Italia. Quella che si dice un prostata latitante (e qui i doppi sensi si sprecherebbero). Ci raccontano di questi amplessi adulteri e furtivi nel processo Gotha a Palermo, di cui a Mafiopoli nessuno parla perché sono tutti impegnati a recensire l’ultimo modello di bambola gonfiabile del re. Le malelingue (che a Mafiopoli sono necessarie come il buco in fondo alla schiena) dicono che non si può dare credito ad un testimone solo perché è omonimo Ciancimino di Don Vito Bros, e solo perché suo figlio, e solo perché ha pianto a lungo mentre l’ingegnere Lo Verde gli rubava la gru dei Playmobil con la cicoria tra gli infissi dei denti. “Del resto – dice il principe cacchiavellico durante l’inaugurazione del ponte da Messina a Pattaya – solo con una libera circolazione di soldi, papelli e di persone si può affermare di essere un popolo libero! E giù un applauso scrosciante come lo sciacquone del cesso.

Intanto le forze dell’ordine (nonostante sia in discussione nel parlamento mafiopolitano di provvedere ad una loro veloce sostituzione con le nuove “truppe di Barbarossa” che finalmente risolveranno una volta per tutte il problema dei gattini sugli alberi) hanno arrestato prima “Cicciotto ‘e Mezzanotte” Raffaele Bidognetti figlio del boss Francesco, Bidet-Gnetti se ne stava mellifluo in quel di Castel Volturno, assorto a finire una partita al cubo di Rubik iniziata nel 1986.

Passa il tempo di uno starnuto e nella settimana del “gomorra libera tutti” viene arrestato Diana, nonostante il cognome, un bel ragazzone di 54 anni masculo al 100%. Dicevano che si fosse trasferito al nord e invece Raffaele Diana detto anche Rafilotto o 2 Cavalli se ne stava a Casal di Principe. Ma siccome è scaltro come una faina latitava in via Torino per confondere le indagini che però non si sono confuse. Sul comodino tenve in bella vista i vangeli, il libro di Padre Pio, la bibbia di Riina ‘u Curtu e gli scritti apocrifi de “Il Padrino”. Il cubo di Rubik no, l’aveva sparato dopo 13 anni che non riusciva a finire il lato rosso. Diana è accusato, tra l’altro, di danno morale alla regione Emilia Romagna per aver fatto sparare il 7 maggio 2007 a Giuseppe Pagano in quel di Riolo di Castelfranco Emilia. Un danno morale incalcolabile per una regione dov’era appena stato messo per iscritto che la mafia non esiste. L’azienda turistica si costituirà presto parte civile. Il ministro alla Sensazione della Sicurezza esulta trionfante in conferenza stampa, poi qualcuno gli sussurra all’orecchio che il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo si dimette perche “troppo solo di fronte alla camorra””. Il ministro si scurisce in volto, interrompe il party per un secondo e ordina di spedire anche a lui una bambola di lattice. Bum bum.

Oliviero Toscani, assessore all’omino del cervello del sindaco Sgarbi di Salemi, mette in vendita accendini e magliettine del nuovo marchio brevettato M.a.f.i.a. Qualcuno giù a Mafiopoli si indigna, lui risponde che crea più danni il Grande Fratello. La vecchia storia dell’asino che dice cornuto al bue. Intanto il sindaco Sgarbi dichiara di essere stato minacciato. Sì, dal buongusto.

Ad alcuni amici dei Lo Piccolo per gli amici Lo Pippolo sono stati sequestrati 300 milioni di euro. Nel carcere duro si è passati dal proverbiale champagne per le gemelle Kessler di Cosa Nostra a del più modesto Pinot in offerta.

Intanto, dopo il terremoto abruzzese, in molti con faccia immacolata promettono che nella ricostruzione non arriverà la mafia da sempre esperta nel demolire le ricostruzioni. Errore. Loro ci sono già. Non è mica vero che nel 1999 proprio qui ad Avezzano era stato arrestato Giovanni Spera figlio del boss Benedetto Spera Bel Rosso di Sera? Non è mica vero che, guarda un po’, il Giovannino lavorava nel calcestruzzo? Non è mica vero quel che si dice che i latitanti mafiosi svernino nelle coste adriatiche quando d’inverno le città si svuotano e tranquillizzano? A Mafiopoli la frase “non arriverà la mafia” ormai suona più o meno come “arriverà Babbo Natale”. Amen.

Il senatore Lumia ha ricordato che l’investigatore che “Emanuele Basile è stato un grande servitore dello stato”. In parlamento durante l’applauso tutti a cercare su google.

Per una prevedibile settimana, alla “memoria corta”.

FONTI

http://www.ansa.it/site/notizie/regioni/emiliaromagna/news/2009-05-04_104358329.html

http://napoli.repubblica.it/dettaglio/Camorra-colpo-ai-Casalesi-preso-in-bunker-il-boss-Diana/1627486

http://www.rassegna.it/articoli/2009/04/30/46463/labruzzo-rischia-tra-mafia-e-camorra

http://www.corriere.it/cronache/09_aprile_27/castevolturno_sindaco_dimissioni_7bde7e28-3355-11de-b34f-00144f02aabc.shtml

http://www.ansa.it/site/notizie/awnplus/italia/news/2009-05-04_104363612.html

http://www.ansa.it/site/notizie/regioni/sicilia/news/2009-05-05_105353144.html

http://www.libero-news.it/adnkronos/view/112105

http://www.rainews24.rai.it/notizia.asp?newsid=116991

Radio Mafiopoli 15a puntata: “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” In memoria di Beppe e Pippo

La memoria vien di notte. Con le scarpe tutte rotte. Una memoria imbefanita, al saldo, memoria in recessione. Mafiopoli è maestra di lesinare memoria in modo inversamente proporzionale all’impacchettamento degli eroi. – il rinnovamento degli eroi è il successo dei consumi! Urla il Principe di Mafiopoli durante l’inaugurazione del ponte da Messina alle coscienze impermeabili. Stiamo varando un decreto legge per una finanziaria della memoria 2009. Una legge che sarà un successo di senso e di consenso! Continua il principe. Vareremo nel privè del palazzo della regione una nuova memoria a misura del nostro uomo: una memoria ad alta velocità, una memoria sparente, memoria nuova con filtro antiparticolato che potrà girare anche nei giorni di memorie alterne e che soprattutto eliminerà quanto prima la memoria passata. La memoria vecchia che urtica perché stride con la nostalgia. E la nostalgia non è proprio un sentimento da città moderna che deve infettarsi al tempo di un jazz. Mafiopolitani, smettete di lottare! Urla il Ministro Per La Tranquillità al saldo per pochi spicci, perché lottare quando c’è già il ricordo in prima serata in pay per view? Tutto il popolo, ai piedi del campanile del palazzo, acconsente, annuisce e annichilisce; in un budino marrone e fermo per la distrazione del buon governo.
Ricordare – parla l’uomo con il piattino per le offerte – ricordare è un esercizio per non dover ricominciare!
E tutti da sotto il campanile a cercare l’anagramma con la faccia che non scuoce.
Ricordare – parla l’uomo con il piattino per le offerte – la lotta contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio diceva Kundera!
E tutti da sotto il campanile a scartare la coscienza in allegato alle patatine.
Ricordare- parla l’uomo con il piattino per le offerte – diceva Borges che siamo la nostra memoria, siamo quel chimerico museo di forme incostanti, quel mucchio di specchi rotti.
Borges? Urlò il principe Macchiavellico con il cappello da cacciatore e il piede sulla pelle di giustizia, – Borges che si preoccupi di arrivare puntuale agli allenamenti!
E tutti da sotto il campanile a scommettere, lo danno 10 a 1, se l’Istat mette la memoria nel paniere.
Pippo e Beppe, se vi arriva Radiomafiopoli, non perdonateglielo. Noi nemmeno.
[ricordo di Sonia Alfano]

Radio Mafiopoli 14 – Discorso di Fine Anno

Assessore alla segreteria degli affari dei segretari.

Cari e meno cari concittadini dei cittadini amicali per gli amici, cari. Anche quest’anno è finito. E la giunta congiunta di mafiopoli come tutti gli anni vuole augurarvi e malaugurarvi i propri auguri per l’anno che se ne va. Grazie prego tornerò bumbum. E con grande onore che introduco il discorso annuale ed è con grande onore che il mio pensiero rivolgo a tutti quelli che non possono essere qui con noi. Rapiti da uno stato giustizialista e condannati nelle diverse carceri a dover ascoltare dietro le sbarre i botti degli altri. Che è la peggior condanna. Chissà bumbum bagarella come gli prudono le mani. O peggio ancora i nostri compari rapiti da una politica giustizialista che li costringe ad ascoltare i botti degli altri alla bouvette del parlamento. Chissà a cuffaro come gli prude il cannolo. Rubo l’ultimo minuto per augurarvi un anno pieno di collusioni, compromessi, pittoresche intimidazioni, coscienze prostituite e panelle ben cotte. Grazie prego tornerò bumbum.Leggi tutto »Radio Mafiopoli 14 – Discorso di Fine Anno