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Il giusto prezzo delle donne

Il 61,5% delle donne che lavorano non vengono pagate per niente o non adeguatamente, contro il 22,9% degli uomini. Ogni giorno, una donna lavora 512 minuti contro i 453 di un suo collega mentre la disoccupazione è più alta tra le donne (12,8% contro il 10,9%) così come le persone senza lavoro scoraggiate (40,3% contro il 16,2% degli uomini). Succede in Italia, proprio qui, dove la consuetudine di banalizzare le denunce delle donne consiste sempre nell’imbrigliarle ciclicamente in questo o quello scandalo senza volere allargare lo sguardo a una situazione che no, non è da spremere nei casting cinematografici o nelle palpate di qualcuno.

Il mancato rispetto della dignità delle donne non è forse è piombato all’82 esimo posto su 144 posizioni complessive, dietro anche alla Grecia, per dire, che sta al settantottesimo posto: dal 41esimo posto in cui eravamo nel 2015, abbiamo perso 32 posizioni per quanto riguarda il gender gap, ossia la discrepanza in opportunità, status e attitudini tra i due sessi. L’anno scorso eravamo al 50esimo: in un anno, il calo è stato di ben 22 posizioni. Specificatamente parlando di salario, siamo al 126 esimo posto nel divario di genere: gli uomini insomma guadagnano più delle donne, e questa non è una novità, ma dalla ricerca emerge anche che il gentil sesso lavora di più.

In pochi sanno che da noi esiste una normativa al riguardo (il Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”) che dice: “Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta”. Qualcuno ne ha notizia? Perché, a proposito della prossima campagna elettorale, ecco qui qualcosa di cui parlare.

Buon mercoledì.

(continua su Left)

«Ecco perché io non ho denunciato. Perché si riaprono continuamente le tue gravi ferite»

Una storia raccontata con cura gentile dalla penna di Linda Laura Sabbadini per La Stampa:

 

È difficile per una donna parlare di violenze subite, soprattutto se stupri. Marianna mi ha chiesto di farlo, vuole parlarne perchè la sua esperienza possa aiutare altre donne. Marianna ha subito uno stupro dal suo fidanzato. Aveva 22 anni, era felice, solare come tante ragazze della sua età. Studiava all’Università, amava molto l’architettura.

 

Conosce un ragazzo, si fida di lui, comincia una storia d’amore, almeno così lei credeva. All’inizio tutto sembra andare per il meglio, ma con il passar del tempo la situazione peggiora. «Non voleva che mi vestissi con le gonne corte. Poi mi vietava di frequentare alcuni amici». Tu sei mia diceva. La storia degenera un giorno, quando Marianna si rifiuta di avere un rapporto sessuale, e con sua terribile sorpresa viene stuprata dal suo fidanzato. Una esperienza dolorosissima. «Non sono riuscita a reagire in quel momento. E non potete capire quanta rabbia ho ancora dentro per questo. Ero senza forze, senza energie. E dopo non volevo parlarne con nessuno». Qualche giorno dopo succede di nuovo. E allora, completamente svuotata, distrutta, riesce a trovare la forza di scappare dai suoi fratelli.

 

 

La fuga

«Ma non me la sentivo di denunciarlo, troppo doloroso raccontare, troppo pesante spiegare tutto,dimostrare che non ero consenziente». Chiede ai fratelli di tenere lontano il fidanzato, «Lo lascio per telefono, lui urla, strepita, piange, si dispera, ma io non accetto l’ultimo appuntamento e dopo pochi giorni me ne vado distrutta in un’altra città, ospite di una mia lontana parente, per evitare di incontrarlo. Ma non ero più la stessa». Violata nel profondo,violata nell’anima, nel cuore, violata nella più profonda intimità. Si sentiva annullata. «L’ansia mi assaliva continuamente, pianti disperati, incubi la notte, l’insonnia, la nausea permanente, la rabbia dentro di me, i tremori , avevo paura di tutto e poi, non mi fidavo più di nessuno. Sembra non ti interessi più nulla della vita… Tu sei il nulla». Lei, con un carattere sempre aperto al mondo, si rinchiude in se stessa, diventa timorosa, fragile. Non si apre con nessuno, chiusa nel suo guscio. «Volevo dimenticare. All’inizio pensavo che fosse la cosa migliore, ma più stavo in silenzio, più stavo male, il silenzio mi isolava dagli altri. Ho incontrato anche ragazzi carini, gentili, ma non riuscivo più a fidarmi di loro. E ancora non riesco a innamorarmi. Ho paura». A un certo punto decide di tornare nella sua città, si sentiva troppo sola, e di raccontare tutto alle sue amiche con cui non aveva più avuto contatti.

 

La rinascita

«E’ stato l’inizio della mia rinascita. Trovare loro così vicine, così comprensive, così piene di complicità e di umanità, è stata la cosa più bella della mia vita. Mi ha dato tanta forza per ricominciare. Loro mi hanno convinto ad andare da una psicologa, con loro ho cominciato a rivivere momenti spensierati, anche se lo stupro ti lascia un segno indelebile di morte nel cuore». La vicinanza di altre donne è fondamentale dopo uno stupro. Ridà la forza di vivere quando tutto sembra finito, Per questo i Centri antiviolenza tengono molto a questo aspetto. Marianna non ha denunciato il suo ex fidanzato. «Non ce l’ho fatta, mi sono risparmiata il doloroso iter delle denunce, delle pressioni che una donna subisce anche dalla famiglia per ritirarle, dei processi. Lo so, così il mio fidanzato non è stato né denunciato, né condannato. Ma non potevo soffrire ulteriormente». E mi racconta di Adele, che lei ha conosciuto dalla psicologa ed è diventata sua amica: «Quando si è recata al commissariato del suo paese per denunciare gli stupri ripetuti di suo marito non è stato facile per lei. La sua famiglia la pressava per non denunciare, per rimettersi insieme a lui. L’appuntato le chiedeva se era proprio sicura di quello che diceva, che in fondo era il marito. Adele si sentiva sola contro tutti. E il processo… i dettagli, le domande indiscrete, gli ammiccamenti… le pressioni a ritirare la denuncia… un vero incubo. Ecco perché io non ho denunciato. Perché si riaprono continuamente le tue gravi ferite. Nessuno può capire realmente quanto tu possa soffrire».

 

Parlare, parlarne, in continuazione, fra donne, con gli uomini, tanto con i figli e con le figlie, senza paure, senza vergogna, parlare anche se non e’ toccato a te, né alla tua famiglia, ma ad una che non conosci. Tessere una rete di solidarietà femminile, di valori condivisi, di stigmatizzazione sociale inappellabile, di ogni per quanto piccolo atto di sopraffazione del bimbo sulla bimba, del ragazzo sulla ragazza, dell’uomo sulla donna. Dai piccoli atti di prevaricazione, di non rispetto dell’altra, quelli su cui in genere si soprassiede germina e si ramifica la subcultura della pretesa superiorità maschile, e della donna come sua proprietà, quella che porta molti ad oltrepassare la soglia della violenza, e alcuni dello stupro. Su questo terreno siamo indietro uomini e donne, ed è ora che a partire dalle donne il nostro sguardo esprima con chiarezza la nostra collera. Marianna e le donne colpite ce lo chiedono.

(fonte)

Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

(continua qui)

Due figli per donna: la “politica generativa” al meeting di Comunione e Liberazione

Ecco. Le parole giuste le ha trovate Giulia Siviero per Il Post:

Le donne come soggetti politici autonomi (e che stanno al centro del tema che i sindaci stessi si sono scelti perché, piaccia o no, alla fine sono loro a decidere se mettere al mondo un figlio) non sono mai state nominate. La parola “donne” è stata pronunciata meno di dieci volte e solo di passaggio. Ed è anche un problema di linguaggio perché parlare di “fiducia”, “paura” o “futuro” o di “famiglia” mette al centro del discorso delle idee astratte e porta altrove, evidentemente da nessuna parte. Dopo il Fertility Day, il dipartimento mamme di Matteo Renzi, il sostegno alle madri per salvare la pura razza italica si è arrivati senza grandi giri di parole a pretendere che le donne si debbano riprodurre con più efficienza, in modo più intensivo. Perché è quello che loro (non loro donne, ovviamente) “vogliono” e quello a cui “si deve arrivare”, in linea con i diversi regimi autoritari del Novecento, che invitavano a fare figli per servire meglio la patria.

In tutto questo non c’è nessun accenno alla maternità come scelta consapevole, né ai motivi concretissimi che possono portare a una scelta diversa. Nulla sulle condizioni reali in cui una donna si ritrova a fare bambini senza aiuti e spesso senza il sostegno dei nonni che diventano un altro soggetto di cui farsi carico; nulla sul lavoro precario e sul fatto che la maternità sia un “problema” innanzitutto per il mercato del lavoro così come è stato pensato; nulla sul fatto che fare figli è diventato un lusso, un affare privato e che le madri sono tenute ai margini come improduttive, o sul fatto, infine, che il proprio desiderio di maternità, quando c’è, deve essere contrattato con la politica, con i propri capi, con il proprietario di casa, con la banca. Ciò che manca, soprattutto, è la libertà da quell’eredità, addirittura rivendicata, del paternalismo. Non pretendete dalle donne che facciano più figli perché voi lo volete. Pretendete innanzitutto da voi stessi, a partire da quando prendete parola, di essere generativi. Come persone competenti che fanno politica e non “come buoni padri di famiglia”: generativi di nuove soluzioni e di un mondo differente.

L’articolo completo è qui.

Le donne? Per reggere gli ombrelli

Sì, lo so. Ci sono cose più importanti e gravi. Funziona sempre così: quando si discute di diritti e di parità di generi c’è sempre qualcuno che ci accusa di non occuparci d’altro. Forse davvero dovremmo accontentarci delle desinenze e non rompere. Quindi sgomberiamo il campo: ci sono cose più importanti ma ho il privilegio di scrivere qui un po’ di quello che ci pare, di incaponirci anche sulle cose minime. De presto se avessimo aspettato che i diritti fossero mainstream per poterne parlare saremmo ancora al secolo scorso. E, a proposito di secolo scorso, ecco una foto:

 

Siamo all’abbazia di Sulmona e va in scena una due giorni di “idee per lo sviluppo dell’Abruzzo” organizzata dalla Regione Abruzzo (nella persona del governatore Luciano D’Alfonso) e che ha visto la partecipazione del ministro alla Coesione territoriale Claudio De Vincenti.

Cotante teste di cotante idee sono tutte formalmente piantate in corpi maschili (tutti, tutti uomini) che discettano amorevolmente con alcune donne (tutte donne) utilizzate nel sontuoso ruolo di copri teste. Sembra la partenza di una Gran Premio di Formula 1 solo che questi, a differenza dei piloti, dovrebbero (e vorrebbero) cambiare in meglio il Paese. Mica puntare al podio.

Il (cattivo) gusto della foto l’ha descritto bene Alexandra Coppola (badate bene: dirigente del PD locale) che ha scritto: «Troviamo queste foto che ritraggono delle ragazze in funzione parasole e parapioggia che agevolano il dibattito di uomini beatamente seduti. Mi chiedo ma dove vogliamo arrivare?? Nella mia militanza ho fatto di tutto, attaccato manifesti, preparato sale che avrebbero ospitato ospiti importanti, ecc. ma mai nessuno mi ha chiesto di riparare dal sole compagni di partito. Queste immagini sono raccapriccianti. Mi fanno male vederle e mi fa male pensare che nel mio partito nessuna donna dirà nulla. Ora voglio capire chi è responsabile di questo messaggio maschilista».

Ma non è finita qui. Se volete inorridire potete leggere il comunicato stampa che ha sciorinato il portavoce del presidente: «Il presunto “caso degli ombrelli” accaduto a Fonderia Abruzzo è davvero una non-notizia, una boutade estiva giustificabile solo da una domenica senza la possibilità di andare in spiaggia. Nel dettaglio: durante due dei dibattiti svoltisi ieri alla Badia celestiniana di Sulmona, nel corso di Fonderia Abruzzo 2017, è stato necessario l’improvviso utilizzo di ombrelli per riparare i relatori dalla pioggia (al mattino) e dal sole (nel pomeriggio) poiché il palco era scoperto. Non appena si è verificata l’emergenza, alcuni volontari dotati di ombrello si sono attivati autonomamente. Giampiero Leombroni ha provato a coprire il ministro De Vincenti – presente al dibattito del mattino – con i fogli di un giornale locale ma non sono stati resistenti. Nell’apprendere di queste polemiche, per la prossima edizione di Fonderia Abruzzo D’Alfonso ha ironicamente pensato ad un capitolato d’appalto nel quale sia prevista una voce riguardante i portatori di ombrelli in caso di sole e di pioggia, tutti rigorosamente di sesso maschile, magari capitanàti da Leombroni. Il Presidente ha anche confidato: “Disponevo di un cappuccio nella giacca ma non l’ho usato per non passare per affiliato alla massoneria”. Scherzi a parte, la natura strumentale di questa polemica è lampante. I commenti di chi ha visto in questa vicenda un affronto alla parità di genere sono davvero fuori luogo o comunque frutto di disinformazione. Per il resto, c’è chi si attacca ad un ombrello pur di avere un po’ di visibilità mediatica».

Che ridere. Vero?

Buon lunedì.

(continua su Left)

«Io, mamma lavoratrice, non ce l’ho fatta»

(C’è una lettera sul Corriere della Sera che vale al pena leggere perché parla di donne, madri, lavoro e del diritto al tempo. È stata inviata a Severgnini e l’autrice ha chiesto di rimanere anonima)

“Caro Beppe, dopo giorni di lacrime e dubbi scrivo a te, rendendoti destinatario di un flusso di coscienza ma anche di una dichiarazione di fallimento. Prima di entrare nel merito dello sfogo, ti racconto però un breve aneddoto che ti farà sorridere… Ho sempre sognato di fare la giornalista, fin da bambina, e ti ho sempre letto; quando al liceo ci assegnarono un tema sui nostri miti, mentre i miei compagni parlarono di Che Guevara o di Bob Marley, io parlai di te… Scrissi di volermi occupare di cronaca di costume perché l’unica cosa in cui ero brava era osservare la gente e il mio maestro eri tu… Son passati 20 anni da quel tema e la realtà è che non sono diventata giornalista. Mi sono iscritta a giurisprudenza perché, figlia di magistrato, ho seguito il consiglio paterno, quel genere di consigli che ti pesano come macigni ma che ti sembrano ineluttabili, perché non riesci a contraddire la persona che per te è l’essenza della ragionevolezza. Son finita a fare l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio fallimento.

Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose.

Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche (che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possibilmente sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come sei da tanti pensieri.

Ma i sensi di colpa non sono solo questi.

Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini;

Ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»;

Ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel piatto di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto pressione.

E poi ti guardi intorno e vedi donne ammazzate, donne vilipese, donne aggredite fisicamente e verbalmente, sul web o in televisione. Ma non trovi conforto neppure negli incontri quotidiani con uomini per bene, evoluti e sensibili, i quali (chissà perché) dimostrano sempre una impercettibile sfumatura di diversità nel trattare con una donna o con un uomo. Sono stanca, caro Beppe.

Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito.

Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state incapaci di realizzarlo. Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non abbiamo nessun aiuto dai Comuni, dallo Stato, nessuna comprensione (se non di facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi. Anche tra mamme lavoratrici, millantiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre pronte a giudicarci vicendevolmente. Ho il nodo alla gola da giorni e non vedo soluzione, se non una nuova chiave di lettura di questa ormai esasperata condizione.

Spero tu possa trovare il tempo di rispondermi e di regalarmi il tuo (per me) prezioso punto di vista. Ti prego di non pubblicare il mio nome, perché, avendoti scritto col cuore, ho inserito troppi riferimenti personali e professionali.”

Nel merito. Che c’entrano le donne con la riforma (Boschi esclusa)

Un gran pezzo di Giulia Sivierio:

Lo sfruttamento del femminismo come strategia di marketing non è un fenomeno recente: è stato usato per far cominciare le donne a fumare, per vendere trucchi, parrucchi, vestiti e persino libri, ma continua a produrre e a inventare nuovi modelli e obiettivi. L’ultimo dei quali è davvero stupefacente, visto il “prodotto” e visto che è stato usato in modo strumentale da chi dovrebbe stare ben lontana da questi trucchi. Questa è la conclusione: parto dall’inizio.

Maria Elena Boschi è ministra delle Riforme Costituzionali ed è anche delegata alle pari opportunità. Martedì 18 ottobre a Roma il PD ha organizzato l’incontro “Le ragioni delle donne per il Sì”. Il video integrale sta qui. La riunione è stata introdotta dicendo che «le donne hanno scelto di esprimersi e hanno deciso di dire sì». Le donne, non quelle che stavano lì al tavolo, non quelle in sala, non quelle del PD o altre fuori, tante o poche io non lo so. Le donne, dicevano. Molte, non l’hanno invece presa bene.

Ho scritto a delle amiche (il fatto che la delegata alle pari opportunità fosse intervenuta per piegare la questione femminile, o maschile, alla propria campagna elettorale a favore della riforma costituzionale, mi sembrava una cosa spregevole), ho pensato subito che le donne dovrebbero semmai essere più consapevoli della difficoltà di avere il diritto di voto e che quindi dovrebbero essere più sensibili ogni volta che una scheda (come quella del Senato non più elettivo) viene loro tolta di mano, poi ho cercato di non puntare la pistola, come mi dice spesso qualcuno, ho ascoltato e ho studiato la riforma da una prospettiva femminista.

La premessa è ovviamente che non ci sono argomenti da uomini e non ci sono argomenti da donne: ci sono semmai argomenti su cui la libertà delle donne è direttamente in gioco e su cui le donne si mobilitano maggiormente o sono più attente. Ecco, il referendum costituzionale è uno di questi?

(continua qui su Il Post)

Anche le donne guidano il taxi

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A proposito di caste e diritti, ne scrive Illarietti qui:
Zahida ha 19anni, e fino all’anno scorso non aveva mai indossato dei pantaloni. È una dalit, o “intoccabile”: il suo posto nel sistema indiano delle caste è (doveva essere) quello dei suoi genitori, che per guadagnarsi da vivere puliscono latrine pubbliche nella baraccopoli di Baljit Nagar, periferia di New-Delhi. Invece Zahida indossa un’uniforme, studia, e frequenta una scuola guida dove è stata intervistata dal Guardian. 
La sua storia è la stessa di 450 ragazze indiane, selezionate nei mesi scorsi da un’agenzia governativa per un programma speciale. Lo scopo: formare delle taxi-driver al femminile. Zahida e le sue compagne – tutte provenienti da tre slums della capitale indiana – al termine del corso riceveranno un diploma e un posto di lavoro.
Ad assumerle UberPop e Ola, un servizio taxi molto diffuso in India. Le due aziende hanno siglato a maggio un accordo con il governo di New-Delhi per facilitare l’inclusione sociale delle giovani “fuori casta”. Durante il corso di sette mesi, le aspiranti tassiste ricevono lezioni di guida ma anche di lingua inglese e auto-difesa, oltre a un rimborso spese di 1500 rupie (circa 20 euro) al mese.
«Non è stato facile convincere la mia famiglia» ha spiegato Zahida al quotidiano britannico. «Per mio padre la sola idea di una tassista donna era inconcepibile. Ma mi sono impuntata. Ho minacciato di andarmene di casa. Alla fine – conclude la 19enne – anche loro hanno capito che sarebbe stato un supporto importante per la famiglia».
«Non è la prima volta che in India delle donne ricevono la licenza da tassiste. Ma si tratta di un enorme passo in avanti dal punto di vista numerico e dell’inclusione sociale» spiega Ranjana Kumari del Centre for sociale research (Csr) di New-Delhi. Il progetto, infatti, è indirizzato
«a giovani provenienti da un contesto sociale in cui le barriere di genere e di casta sono ancora molto forti».

Quelli che usano la ‘notte di Colonia’ per allungare gli orli delle gonne

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Quello che è accaduto a Colonia è il segno dell’inadeguatezza delle forze di polizia e della politica che le amministra: i primi a finire in manette per le aggressioni alle donne tedesche sono ragazzi di una gang sulla quale da un anno e mezzo è aperto un fascicolo di indagine. E del resto anche i responsabili degli attentati in Francia dell’ultimo anno non erano degli immacolati cittadini sconosciuti agli inquirenti: erano tutti ben noti, segnalati e controllati. Quindi, perfavore, non venite a fare per l’ennesima volta a noi donne la paternale veteromaschilista dell’allunga l’orlo e gira a occhi bassi. Perché noi gli orli li accorciamo e allunghiamo un po’ come ci pare e gli occhi li usiamo per guardarci intorno e scoprire il mondo. Perché non è riducendo le nostre libertà che vivremo più sicure a casa nostra. È educando al rispetto e punendo chi non ce lo porta che la nostra società potrà compiere un saltello oltre la fossa in cui pare essere di nuovo crollata. È educando gli uomini (chiunque essi siano, qualunque dio preghino, qualunque lingua parlino) che si salvano le donne.

Da leggere il post di Deborah Dirani qui. Oltre alle solite chiacchiere.

Donne e Mattarell(a)

295926_340287862729703_1737151009_nHo ascoltato le parole del Presidente della Repubblica Mattarella in occasione della festa della donna per radio, molto velocemente e devo dire che non mi avevano colpito per modernità (beh, direte voi, da Mattarella e in effetti avete anche ragione) ma credo che la sensazione che ho provato l’abbia descritta benissimo Cristiana Alicata nel suo blog:

In nessuna parte del suo discorso – mai – compare un impegno a cambiare questa condizione per cui le donne sono dedite alla cura e alla professione e, silenziosamente, ce la fanno. L’ammirazione che i maschi (che in contrapposizione alle donne quindi sono di solito presi da se stessi e dal potere e non ce la farebberp poverini a fare tutto, quindi…non lo fanno) rivolgono alle donne assume una caratteristica tipicamente maschilista: voi donne siete regine del focolare, svolgete i vostri doveri in modo umile senza vantarvi, noi maschi invece facciamo la guerra, ostentiamo il potere e senza di voi saremmo perduti.

Ecco a me la matrice del discorso di Mattarella appare in assoluto contrasto con la cultura della parità che vorrei che il mio Paese promuovesse e mi sembra invece in linea, pur forse non volendolo, con il movimento reazionario degli invasati di “sposati e sii sottomessa” versione maschilista e sorella stretta delle molto omofobe sentinelle in piedi. Nella adulazione dei ruoli svolti dalla donna, scorgo anche una certificazione della loro giustezza. Il discorso di Mattarella, in sostanza, non è stato politico, ma culturale. Non c’è stato alcun impegno a modificare lo stato delle cose che per la maggior parte, possiamo anche ammetterlo, sono esattamente come il Presidente le racconta, anche se io sono assolutamente convinta che una nuova generazione di maschi attenta alle cosiddette dinamiche di cura sia già nata, esista ed è un errore ignorarlo.