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Memento Draghi semper

Finita la buriana delle elezioni vale la pena tornare su questo refrain che ci ritroviamo praticamente tutti i giorni soffiato da diversi capi di partito che insistono nel dirci che la cosa migliore che potrebbe capitarci sia un Draghi dopo il 2023, perfino dopo il 2028 e chissà forse fino al 2050.

La politica italiana, soprattutto la parte più miope, serba questo desiderio, quasi un riflesso incondizionato, di trovare il modo più indolore per fermare tutto com’è, congelare lo scorrere dei problemi e dei desideri e quindi riuscire a non doversi impegnare per un Paese che cambia continuamente nei bisogni e nelle decisioni. Non serve certo in fine analista politico per intendere che i capi partito e parlamentari eletti anelano all’errore zero confidando in un certo immobilismo. Nel dire “teniamoci Draghi” c’è tutta l’inettitudine di chi crede che basti il nome senza nemmeno sforzarsi di dirci “per fare cosa”.

Draghi in questo è utilissimo: prende decisioni che i partiti non avrebbero mai il coraggio di prendere e comunque guida un governo sostenuto da partiti che possono in continuazione farci sapere di non essere d’accordo con ciò che fa il governo di cui sono parte. Praticamente sono saliti su un pullman con l’unica preoccupazione di fare delle belle foto ricordo del viaggio e con l’impegno di ricordarsi di fare le pipì durante le soste.

La democrazia è molto più semplice di come qualcuno si sforza di raccontarla per renderla ostica: se Draghi ha intenzione di continuare a fare il presidente del Consiglio gli basterà trovare una coalizione (o un partito unico, che renderebbe meglio l’idea) che lo sostenga alle prossime elezioni rinunciando ai proprio giochetti di segreteria e soprattutto che si prenda la responsabilità di un’agenda di interventi che non può fingere che sia capitata per caso o per emergenza.

Forse vale la pena anche notare come i sostenitori del Draghi dopo Draghi siano in gran parte gli stessi che ci rifilano sonori pipponi sull’astensione e sull’allontanamento della gente dalla politica: quanta voglia vi verrebbe di votare in un Paese in cui i segretari di partito si fanno fintamente la guerra tra di loro e poi in ogni intervista ci confessano di sognare di farsi altri 5 anni di gita insieme deresponsabilizzati dalla presenza di un taumaturgo che sono riusciti a travestire da agente esterno della politica?

Negare la politica per autopreservarsi è l’atteggiamento più fastidioso che si possa cogliere in un partito, in un periodo politico, in un governo: possiamo tranquillamente dire che in questi mesi stiamo assistendo a un capolavoro del genere.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il Pd ha vinto le amministrative, ma non può pensare di restare appiattito sul governo Draghi

Il centrosinistra vince dicono dalle parti del Partito Democratico e hanno ragione ad esserne soddisfatti. Fino a qualche mese fa la cavalcata di Salvini e Meloni, con Berlusconi al traino, sembrava essere inarrestabile e nemmeno il più incauto degli ottimisti avrebbe potuto pensare che in queste elezioni amministrative il PD potesse festeggiare un risultato che immediatamente lo proietta come riabilitato alla corsa e punto centrale della possibile prossima coalizione.

L’avvento del governo Draghi e le mosse tutte sbagliate in casa Lega (non ultimo l’affare Morisi) ha determinato la possibilità di nuovi equilibri prima inimmaginabili e anche lo sgonfiamento del Movimento 5 Stelle (questo sì assolutamente atteso, sarebbe bastato non esserne ciechi tifosi) pone Letta in posizione di assoluta superiorità.

Il centrosinistra ha vinto le amministrative (nonostante Giorgia Meloni veda un “pareggio”, beata lei) ma il futuro del centrosinistra continua a essere piuttosto nebuloso e conoscendo bene le attitudini da quelle parti non viene difficile immaginare che la tattica del “lasciare tutto così” sia molto popolare tra qualche dirigente del partito.

Negli ultimi anni è accaduto spesso che la strategia ritenuta vincente fosse quella di non toccare niente, di non spostare niente, di non dire niente pensando (male) che la politica sia una zattera inerme che deve solo farsi trascinare alle prossime elezioni.

Eppure se c’è una condotta suicidaria in questo momento è proprio quella di appiattirsi sul governo Draghi facendosi notare il meno possibile, chiamando l’immobilismo senso di responsabilità e limitandosi a ratificare decisioni che l’idolatria diffusa continua (e continuerà) a mettere in capo a Draghi. Fare i camerieri, semplicemente, non porterà lontano, no.

Il Partito Democratico in questi ultimi mesi si è intestato le battaglia di diritti individuali (a partire dal Ddl Zan) che a fatica troveranno luce ma non può pensare di prendere voti senza prendere una posizione decisa (che non si limiti solo a qualche timido tweet) sui diritti dei lavoratori (schiacciati da una certa narrazione imperante, dalla congiuntura postpandemica e dall’enorme peso che Confindustria esercita su questo governo), sulla transizione ecologica (che no, che non può essere un burocratico impegno da espletare senza coglierne le opportunità), e dalla costruzione e manutenzione di uno stato sociale evidentemente sotto attacco (le guerra ai sussidi sta vivendo un’epoca fiorente e diffusa).

Il Partito Democratico non può permettersi di subire battaglia lontane dal suo ruolo e dalla sua natura che per di più sono già nel paniere di un centro liberale che si sta formando in questi ultimi mesi.

Insomma, il PD potrebbe cogliere l’occasione per fare il PD, senza paura. Perché il serbatoio di voti va coltivato e perché anche queste amministrative hanno dimostrato che, nonostante il bombardamento di certi leader e di certi media, questo è un Paese che ci tiene eccome ai diritti e all’uguaglianza. Se non ora, quando?

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Confindustria vuole Draghi anche dopo il 2023, ma la Costituzione non è un prodotto commerciale

Nonostante in molti si ingegnino a dimostrare il contrario (di solito sono quelli che vorrebbero sembrare “vicini al popolo” continuando indisturbati a servire i padroni, sono facili da riconoscere) la politica è molto semplice: si gioca tutto sull’equilibrio, da trovare il più misurato e intelligente possibile, tra gli interessi dei lavoratori e gli interessi di chi ha a cuore solo il fatturato.

Anni passati a demolire il concetto di “lotta di classe”, umiliandolo e sterilizzandolo se non addirittura buttandolo tra i concetti pericolosi eppure siamo sempre qui, alla disputa tra i ricchi con il terrore di non poter diventare ogni anno più ricchi e i poveri che devono accettare le condizioni dei ricchi e stare buone e perfino ringraziare.

Per questo l’accoglienza del Presidente del Consiglio all’assemblea degli industriali, con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi a celebrare tutto barzotto gli onori di casa ci dice una cosa chiara e semplice: questo governo che vorrebbe rivendersi come apolitico è in realtà politicissimo e sta piacendo moltissimo agli imprenditori e molto meno ai sindacati dei lavoratori. È un fatto legittimo ma fingere di non vederlo è un abuso di creduloneria.

Così accade che Bonomi ci tenga a farci sapere che “ogni tanto la storia delle istituzioni italiane ci ha riservato un terzo tipo di uomini. Gli uomini della necessità. Personalità che avvertono il dovere di rispondere ai problemi della comunità italiana, prima che lambizione di restare a qualunque costo al suo timone. Ecco, Mario Draghi è uno di questi uomini, uomini della necessità”.

Tutti felici. Peccato che in pochi si accorgano che se Draghi è il terzo tipo di uomini gli altri due siano quelli democraticamente scelti e eletti e che svolgono i ruoli definiti dalla Costituzione. Ma Bonomi, si sa, ragiona così: se un prodotto fa vendere allora significa non solo che è un buon prodotto ma che è addirittura legittimo poiché solo il fatturato ne certifica la bontà. E Draghi è il prodotto più affidabile che sarebbe mai potuto capitare a Confindustria e compagnia cantante. 

E infatti non è un caso che proprio a Draghi Bonomi si permetta di chiedere soldi alle imprese per la “transizione ecologica” (che sembra sempre di più il salvadanaio da cui pescare senza sensi di colpa, perfino con velleità ambientaliste) e ventila “rischi di chiusura o delocalizzazione” come sottile ricatto da avanzare ogni volta mentre definisce “velleitari” gli obbiettivi del ministro Cingolani.

Poi Bonomi, di fronte a Draghi che lo ascoltava sornione, ha ribadito che “il blocco dei licenziamenti è stato una sciagura” (verrebbe da chiedere: per chi?) E ha avuto il coraggio di affermare che non ci sia stata nessuna emorragia di posti di lavoro quando è stato rimosso (peccato che si sia dimenticato di dire che le persone che sono state riassunte hanno dovuto farlo con contratti più da sfruttati e con meno diritti).

Poi, con la consueta poca contezza del proprio ruolo, si è permesso di esprimere un delicato giudizio su Quota 100 (“è stata un furto ai danni dei soggetti fragili del nostro welfare squilibrato”) e chissà che ne pensa Matteo Salvini.

Insomma ascoltando Bonomi la sensazione è che questa Confindustria abbia la netta sensazione che questo governo potrà portare soddisfazioni ancora maggiori. E non stupisce vedere Bonomi augurarsi di vedere Draghi alla guida del governo il più a lungo possibile, “anche dopo il 2023”. Del resto per Bonomi ritirare dal mercato il prodotto Draghi è un errore commerciale. Peccato davvero che esista quell’inquinamento del libero mercato che si chiamano elezioni.

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La pericolosa deriva degli ultras di Draghi: “Se cade Mario, vogliamo i militari”

L’ultimo è Marcello Sorgi su La Stampa di oggi, giovedì 29 luglio 2021, ma sommessamente anche su queste pagine lo stiamo ripetendo da un po’. La venerazione per il taumaturgo Draghi riesce addirittura a spingere Sorgi a ipotizzare (seppur come ipotesi remota) un governo “perfino militare, come accaduto con il generale Figliuolo per le vaccinazioni. A mali estremi, estremi rimedi”.

Il male estremo, ovviamente, è l’ipotesi di una caduta di un governo, come sono caduti decine di governi nella storia della Repubblica e com’è caduto il governo precedente in piena pandemia.

L’ostinata e stupida divinizzazione di Mario Draghi sta facendo passare gli editoriali servili e le marce sincronizzate dei lacchè come delle semplici simpatiche manifestazione di affetto politico. Eppure, se ci pensate bene, sono gli stessi editorialisti particolarmente sensibili ogni volta che arriva una critica educata, quelli che gridano da qualche mese “al ritorno del terrorismo” se ci si permette di scrivere di salario e di lavoro, sono gli stessi sempre pronti a giudicare “antidemocratiche” o “violente” le dichiarazioni degli altri.

L’uscita di Sorgi (che è semplicemente più appuntita di tante altre uscite che compongono comunque questa aria di consenso unico obbligatorio) tra l’altro è due volte sbagliata. Prima di tutto perché non fa altro che danneggiare proprio la credibilità di Draghi, che non ha mai cercato (né mai voluto) una bava continua che ne riduce l’autorevolezza, come se avesse bisogno di essere sostenuto. E in secondo luogo è altamente inopportuna in un momento di tensione sociale in cui le scelte del governo vengono contestate e accusate di essere prove di autoritarismo.

Invocare la dittatura sanitaria è già qualcosa di poco equilibrato. Rispondere evocando un governo militare in caso di crisi è semplicemente un moltiplicatore di tensioni. Forse un po’ dipende anche dal fatto, nonostante qualcuno si risenta quando lo scriviamo, che i poteri che aspettano con ansia le prebende dal governo con la valanga di soldi in arrivo dall’Europa non riescano proprio a trattenere, come degli adolescenti elettrizzati, la gioia per essere in una posizione di assoluto favore.

O forse questa è la temperatura di certa stampa che, da cane da guardia del potere, si è involuta nell’ambizione di essere il cane da compagnia accarezzato sul divano dal presidente del Consiglio. In tutto questo, poi, c’è un punto che rende tutto ancora più patetico: non c’è nessuna crisi all’orizzonte e c’è il semestre bianco alle porte. Insomma, solo una leccata, ma pericolosa.

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L’irresistibile tentazione di essere servi: quelli che santificano Draghi perché l’Italia ha vinto la coppa

Si fa fatica perfino a crederci. L’adorazione per il Draghi taumaturgo, l’irresistibile voglia di essere servi e l’appiattimento del dibattito politico schiacciato sull’adorazione guadagna un altro triste capitolo dopo la vittoria dell’Italia agli Europei sfiorando il nonsenso.

Saranno gli strascichi di euforia o la carenza di contenuti ma la tentazione di politicizzare un evento sportivo è fortissima sopratutto nei leader che levano grida quando si tratta di “non usare il calcio per fare politica” ma poi non riescono a trattenersi dall’inamidare il calcio con la loro politica. Curioso anche che siano gli stessi politici infastiditi dagli influencer a scendere per i loro caroselli sugli stessi social che contestano quando esprimono un’idea contraria: anche in questo caso vale la regola d’oro del “va tutto bene se siamo d’accordo”.

Del resto nel Paese in cui la politica è tifo non c’è nulla di meglio del tifo che irrompe nella politica, anche con risultati imbarazzanti come Mario Ajello che su Il Messaggero si lancia in uno spericolato editoriale in cui il cretino sillogismo ci dice che sarebbe merito di Draghi se Mancini è riuscito a portare la nazionale alla vittoria (“Effetto Draghi nel pallone. Super Mario aiuta Super Mancio“, scrive Ajello). “Un Paese così rinnovato nella considerazione degli altri”, scrive Ajello, “è un Paese attrezzato a vincere, e questa è stata la scommessa di Mario Draghi. Lui ha preparato il terreno, Roberto Mancini e i suoi ragazzi lo hanno calpestato da campioni e il gioco è fatto”.

Il leccaculismo del resto è una pratica nazionale diffusa (roba da giocarsi di sicuro una finale in eventuali campionati del mondo), ma se è vero che i servi sono sciocchi è pur vero che la qualità dei padroni si misura nell’amore che hanno nel farsi servire.

Lo smascheramento però almeno è completo: politici e pensatori che per mesi ci hanno sbriciolato con le loro lezioni sulla serietà e sul merito in politica oggi ci invitano a misurare lo stato di salute del governo attraverso la finale di Wimbledon, la vittoria agli Europei e perfino la vittoria dei Maneskin all’Eurovision.

Avrebbe dovuto essere il tempo della serietà contenuta e del “fare” e invece ci ritroviamo al panem et circenses. Nel 1948 la vittoria di Bartali al Tour servì per sedare gli animi dopo l’attentato a Togliatti, nel 2021 la vittoria all’Europeo per qualcuno deve bastare come “ristoro dei ristori”. Avete avuto la coppa, cosa volete di più? Ora tutti in fila a baciare la mano a Super Mario.

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La fine del blocco dei licenziamenti produrrà solo salari da fame. E Draghi e Confindustria lo sanno

In fondo è la sua natura. La natura di questo governo che poggia sulla formazione economica di Mario Draghi, l’appoggio entusiasta e incondizionato di tutti i liberisti (e pure degli pseudoliberisti) e su un arco parlamentare che comprende la destra oscena e sovranista, la destra che si finge moderata e perfino quei partiti di destra che insistono nel fingere di essere di centrosinistra.

Che il governo Draghi corra per eliminare il cashback, l’unica iniziativa presa negli ultimi anni per evitare i pagamenti in nero pur con tutte le sue lacune, è un messaggio politico che non può che rassicurare i furbi orfani di quel Berlusconi che senza remore si proclamo loro leader. Che Confindustria sia diventata un’irrinunciabile partner di Draghi e del suo governo è una soddisfazione perfino inaspettata: una riabilitazione così repentina senza passare dalle elezioni era qualcosa che albergava solo nei loro sogni più remoti (e quelli di Renzi).

Ma soprattutto siamo in dirittura d’arrivo di quel blocco dei licenziamenti pensato per evitare di rovesciare il costo della crisi sui lavoratori e che ora si dissolve sotto le martellate del “governo dei migliori”. Per farlo ovviamente hanno dovuto adottare una narrazione contraddittoria che sostengono senza nemmeno vergognarsi: mesi e mesi passati a dirci che la ripresa sarà fortissima e sarà bellissima, Confindustria che da settimane ci racconta che siamo alle porte di un miracoloso boom economico, eppure licenziare diventa un passaggio obbligato. Perfino il più analfabeta in economia si chiederebbe come sia possibile che in un periodo presumibilmente florido la libertà di licenziare sia un’urgenza da sostenere con foga.

La motivazione è semplice semplice: una parte del Paese vuole che la ripresa vada tutta a favore dei margini di profitto per le imprese che ora sono libere di licenziare per poi riassumere con contratti con salari da fame, più precari, senza garanzie e per riuscirci non c’è niente di meglio che mettere i lavoratori nelle condizioni di essere facilmente ricattabili.

Per aumentare il ricatto ovviamente si lavora anche all’eliminazione nel più breve tempo possibile dei sussidi e degli ammortizzatori sociali. A proposito di sussidi: quelli arriveranno direttamente nelle tasche delle aziende, solo che li chiameranno investimenti.

Così il gioco è fatto. Sullo sfondo resta la narrazione dei lavoratori che non hanno voglia di lavorare. Il che li rende ancora più fragili, per poterli pagare meno.

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Dopo 4 mesi possiamo dirlo: quello di Draghi è un governo di destra

Toh, che sorpresa. Il governo dei migliori, quello che avrebbe dovuto essere apolitico, tecnico, impolitico e uno a caso di quel milione di aggettivi che sono serviti per truccarlo da “superiore”, ora si scopre che ha una naturale predisposizione verso destra.

Era difficile prevedere che fare entrare nel governo Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e tutta la combriccola liberale avrebbe prodotto politiche di destra? Evidentemente sì, visto che tutti gli editorialisti si sorprendono.

Così siamo a 22 giorni dallo sblocco dei licenziamenti con la farlocca narrazione delle “aziende che corrono e devono essere libere di agire sul mercato”, che – tradotta (però c’è da dire che il governo dei migliori è fortissimo sulla narrazione) – significa che le aziende devono essere libere di licenziare.

La linea politica la detta, manco a dirlo, il presidente di Confindustria Bonomi, che accusa i sindacati di fare terrorismo mediatico e ci dice che siamo di fronte a un “miracolo economico” e parla di solo 100mila posti di lavoro in meno. Peccato che, secondo la Banca d’Italia, siano 550mila. Ma soprattutto: se siamo nel bel mezzo di un “miracolo economico” perché c’è bisogno di licenziare?

E poi: che dire dell’Anac svuotata dall’ultimo decreto del Consiglio dei ministri che ha trasferito i controlli anti-corruzione da un ente indipendente agli uffici governativi? Il controllato che diventa controllore è un classico del nostro Paese che ha sempre aperto le porte a mafie e corruzione.

Del resto c’è solo una valanga di miliardi in arrivo. E sarà proprio per questo che al governo hanno pensato bene di liberalizzare i subappalti, confondendo come al solito la legalità con la burocrazia per risultare efficaci e convincenti.

A proposito di lavoro: a parte i post su Facebook e i discorsi per il cerimoniale, vi viene in mente un’azione o una parola per evitare la strage? Niente, figurarsi. In compenso si sono versate parole per affossare qualsiasi dibattito sul salario minimo, considerato dalle nostre parti troppo di sinistra. Non vorrete mica disturbare il “miracolo economico”. Dai, su.

La caciara sulla tassa di successione è un altro capitolo degno dei berlusconiani di altri tempi. Ultimo ma non ultimo, questo insopportabile paternalismo sui giovani che non accettano di fare gli schiavi e che vengono additati come indolenti e fannulloni. Del resto, è sempre così: quando ci tengono a ripetere di non essere né di destra né di sinistra sono quasi sempre di destra. Anche se si fanno chiamare tecnici.

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Mentre in Italia Draghi boccia la tassa di successione, Biden negli Usa dice: “Riprendiamoci i soldi dei ricchi”

Dice Draghi che non è tempo di chiedere soldi ma di dare soldi. Quando qualcuno dalle parti del Partito Democratico ha finalmente pronunciato parole di sinistra, proponendo di tassare i patrimoni immobiliari dei ricchi (dei pochi ricchi che ci sono nel Paese che, chissà perché, sono protetti da una schiera di non ricchi che si agitano con loro), in Italia si è levato il solito strepito di chi vede comunisti dappertutto, di chi grida al golpe senza mai avere letto della tassazione progressiva scritta nella Costituzione e ha giocato a dipingere Letta (e tutti quelli che erano d’accordo su un incremento dell’imposta di successione sui patrimoni superiori al milione di euro) come un politico “fuori dal tempo” e “fuori dalla storia”.

C’è da dire che la crociata difensiva dei ricchi, come accade quasi sempre, è funzionata benissimo e si potrà seppellire l’argomento per un po’, fino alla prossima volta, quando si troverà un altro buon motivo, uno qualsiasi, per dire che “non è ora il tempo di parlarne” e “ci sono altre priorità”.

Eppure basterebbe trovare un paio di minuti per leggere le notizie che arrivano dagli Stati Uniti, da quel presidente Biden che non è certo un rivoluzionario zapatista, per rendersi conto che ciò che qui è considerato un delitto da quelle parti è il cuore della discussione politica in questo momento.

“Non abbiamo avuto problemi a far passare un piano fiscale da 2 trilioni di dollari che è andato all’1% più ricco ma ogni volta che parlo di tagli alle tasse per la classe operaia la reazione è sempre ‘oh mio Dio cosa faremo?’. Bene, ci riprenderemo parte di quell’1% di denaro”, ha detto ieri Biden a Cleveland.

Immaginate cosa accadrebbe qui da noi con una frase del genere. Provate anche a immaginare perché quelli che, quando torna comodo, ci portano sempre gli Usa come esempio in questi giorni siano così straordinariamente distratti.

Biden ha in mente di andare a prendere dagli investitori più ricchi i soldi che occorrono per il suo “American Family Plan”, un progetto da oltre mille miliardi di dollari in investimenti sull’infanzia e sulla scuola. Tra le proposte c’è l’aumento della tassazione sui profitti da capitale per chi guadagna più di un milione di dollari all’anno: dal 23,8% di oggi (a cui si aggiunge il 3,8% voluto da Obama) fino al 39,6% sulle rendite. Mica roba da poco. In più c’è un progetto per alzare di 7 punti l‘aliquota sugli utili delle imprese.

“I ricchi paghino la ripresa dei più poveri”, ha detto Biden. E ad ascoltarlo da qui sembra un’indicibile bestemmia.

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L’ipocrisia degli antipopulisti che ora incensano il Draghi “premier gratis”

Mettiamoci d’accordo: il populismo che tanto viene sventolato per irridere, fiaccare e sminuire gli avversari politici è un pensiero strutturato che vorrebbe mantenere saldi alcuni valori oppure è semplicemente il bordo di un tifo che legge gli avvenimenti in base all’utilità politica?

Il punto è sostanziale perché, se il fronte (legittimo e necessario) dell’antipopulismo si prefigge l’obiettivo di evitare le strumentalizzazioni e l’ipocrisia, avrebbe bisogno almeno di un minimo di coerenza, di identità e di credibilità. Da 24 ore i media e i social si sono in ginocchiati di fronte alla decisione di Mario Draghi di rinunciare al suo stipendio di presidente del Consiglio.

Per carità, ognuno è liberissimo di farcire di merito politico le scelte di Draghi, ognuno può intravedere del talento negli atteggiamenti che gli stanno più a cuore, ma osservare coloro che attaccavano (opinione personale: giustamente) il can can sui tagli degli stipendi ai parlamentari e oggi invece contribuiscono alla claque per opportunità politica è una scena disdicevole e misera.

Di più: è lo stesso identico populismo in salsa borghesotta con spruzzi di intellettualismo di facciata. Che Draghi rinunci al suo stipendio non ha nulla di eroico, così come non è un attestato di valore assoluto tagliarsi lo stipendio: ai politici attiene il dovere di essere all’altezza del proprio ruolo e di portare avanti le proprie idee con lealtà nei confronti del popolo italiano.

La deriva di volere pagare poco dei politici scarsi è un abbassamento di aspettative che non può che portare a politici ancora più scarsi, esattamente come accade per tutte le altre categorie professionali. Draghi, poi, può tranquillamente permettersi di rinunciare allo stipendio perché il benessere datogli dalla sua carriera professionale glielo permette: fare passare l’idea che per certi ruoli scegliere persone benestanti conviene attinge da una precisa linea politica, l’importante è esserne consapevoli.

È curioso anche che tra gli estasiati di queste ore ci siano proprio quelli che da sempre ci dicono che le competenze e i meriti devono essere giustamente pagati. Non si accorgono della contraddizione?

Conviene, quindi, fare un patto: politica è difendere alcune posizioni con la maturità di slegarle dall’opportunismo di partito. Entrare nel merito delle questioni con lucidità e competenza dovrebbe essere l’esatto opposto del populismo e non cadere nel tifo è il primo passo per restare fuori dal brodo della propaganda. La tentazione è facile, starne fuori è serio.

Leggi anche: 1. Draghi è un’occasione per la politica italiana, ma il “populismo delle élite” rischia di rovinarla / 2. Il populismo chic delle élite: la competenza come unica fede

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