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giornalismo

Ora anche l’uso pornografico dei verbali dello stupro

Ne scrive Annalena Benini su Il Foglio e credo ci sia poco da aggiungere:

Dall’altra notte i siti dei giornali, e da ieri anche le pagine di carta, sono piene dei particolari terrificanti degli stupri avvenuti dieci giorni fa sulla spiaggia di Rimini. Sapevamo già che era stata usata una ferocia assoluta, un accanimento spaventoso che la turista polacca e la transessuale peruviana non potranno mai dimenticare, e forse mai superare. Conoscevamo l’assenza di rimorso, il pentimento che dovrebbe mantenerci umani, dei presunti stupratori che adesso si scaricano addosso l’uno con l’altro le responsabilità dei loro reati, ma sono inchiodati dalle deposizioni di chi li ha riconosciuti nell’inferno di quella notte. Tutto il resto, tutti i particolari che adesso vengono rivelati allo scopo di intrattenere o di aumentare l’indignazione, è pornografia, è l’uso pornografico dei verbali della polizia.

 

Per mostrare la cattiveria del branco, e la brutalità non solo del suo capo, si stanno calpestando le vittime. Perché io devo sapere che cosa ha raccontato la turista polacca alla polizia, vincendo la vergogna e lo choc, e affidandosi all’Italia per essere protetta? Che cosa aggiunge a questa storia di orribile cronaca il fatto che l’abbiano trascinata dalla sabbia nell’acqua, e poi ancora nella sabbia, e poi di nuovo girata, e violentata in un altro modo? Certo dobbiamo sempre denunciare i carnefici, ma la certezza che finirà tutto, con i particolari e i numeri e le parti del corpo e le posizioni, nelle pagine di cronaca e in tutti i siti esistenti, non è rassicurante. Non è rispettoso. Quello che è successo alla ragazza e alla transessuale, che pure ha accettato di parlare alle telecamere, di spalle e coperta da una sciarpa, siamo purtroppo in grado di immaginarlo, dopo la quarta ginnasio, non è necessario indugiare sugli slip, sui “turni”, sulle domande brutali, e a pancia in giù e a pancia in su e di lato. Ci sono altri giornali e altri siti appositi, per questo.

 

Libero ha titolato: “Violenze disumane e doppia penetrazione”, e il Corriere della Sera ha pubblicato i verbali delle deposizioni sotto l’occhiello “Le carte” (che dà il permesso di fare tutto). Davvero sarebbe bastato: brutale aggressione e stupro. Non per reticenza, e nemmeno per inutile pudore, ma perché pubblicare quei dettagli è allo stesso livello di suonare alla porta di una madre a cui hanno appena ammazzato il figlio e chiederle: cosa prova?, ficcandole una telecamera in faccia. Un gesto insensato, guardone e compiaciuto, che non offre un’interpretazione né una soluzione, ma soltanto il piacere dell’orrore. Significa che non c’è interesse per le vittime, certo non quanto per gli aguzzini e il loro accanimento, e per la rabbia che va tirata fuori da lì.

(continua qui)

Lezioni di giornalismo: tre cronisti si sono dimessi dalla CNN per avere pubblicato un articolo infondato

Lo racconta il Post:

Tre giornalisti dell’unità investigativa di CNN – Thomas Frank, Eric Lichtblau e Lex Haris – si sono dimessi dopo che un loro articolo sui presunti legami tra un fondo d’investimento russo e Donald Trump era stato ritrattato dalla loro stessa testata. Dopo la pubblicazione dell’articolo, un’indagine interna di CNN aveva scoperto che alcuni dei processi editoriali del network per garantire giornalismo di qualità non erano stati rispettati. Questo genere di articoli deve passare attraverso il controllo di fact-checkers, di altri giornalisti esperti e anche di avvocati: sembra che nella pubblicazione dell’articolo sul fondo di investimento russo non sia stata rispettata la procedura.

L’articolo in questione era stato pubblicato sul sito di CNN e poi condiviso sui social network, ma il suo contenuto non era stato trasmesso in televisione. In un incontro che si è tenuto lunedì pomeriggio, ha scritto CNN, ai giornalisti coinvolti nella storia è stato detto che la ritrattazione non significa che le cose scritte nell’articolo fossero necessariamente false o sbagliate, ma che «l’articolo non era abbastanza solido da essere pubblicato così», visto che si basava solo su una fonte rimasta anonima. Dopo l’esito dell’indagine interna, l’articolo è stato rimosso dal sito di CNN e sostituito con una nota del direttore.

(continua qui)

Quando l’istigazione all’odio diventa un modello economico

Da leggere oggi Mantellini:

Il quotidiano Libero, da molto tempo, insieme a Il Giornale e a qualcun altro (a volte Il Tempo a volte La Verità) ha eletto l’odio razziale a modello di business. Evidentemente funziona: diversamente non si spiega come simili fogli continuino ad essere placidamente nelle edicole nonostante la qualità dei loro articoli. I lettori di Libero, o qualcuno che gli assomiglia molto, hanno festosamente animato i commenti di questo post di Filippo Facci, giornalista di Libero che l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha appena sospeso per 2 mesi per un articolo di un anno fa nel quale si scagliava contro l’Islam. L’articolo è un pezzo di giornalismo grossolano, chiaramente delineato dai toni accesi dell’odio contro i musulmani (che Facci, come tutti, per semplicità riunisce in un unico gruppo) e dalla vasta ignoranza dell’autore su questioni storiche e culturali evidentemente assai più grandi di lui. Ma è un articolo perfetto per il manicheismo di Libero, per le richieste dei suoi lettori e per i commentatori della sua pagina FB.

(continua qui, e chissà se all’Ordine dei giornalisti qualcuno ha qualcosa da dire)

A cosa serve un giornale secondo Umberto Eco

(un testo di Umberto Eco apparso sull’Unità del 28 marzo 2001, appena ritornata in edicola, dopo otto mesi di chiusura, con la direzione di Furio Colombo)

Quando nasce un nuovo giornale (e meglio ancora se rinasce in modo nuovo uno antico) si desidererebbe sempre che questo giornale ci dicesse le cose che gli altri non dicono, o dicesse altrimenti quelle che dicono. Certo dare consigli è presuntuoso, e sarebbe più cortese limitarsi agli auguri di rito, ma in fondo un futuro lettore ha pure diritto di dire che cosa vorrebbe. E’ così che mi permetto di fare io, partendo da un dato esterno (esterno ai miei desideri, dico), che mi serve a spiegare che cosa molti non vorrebbero.

Dunque, viene pubblicata negli Stati Uniti una rivista a cura del Council on Foreign Relation, che si intitola Correspondence. Sul numero dell’estate 2000, in una rassegna dedicata alla stampa nel mondo, appare un saggio di Alexander Stille sulla stampa italiana. Ora Stille (figlio del grande Ugo) è sì di padre italiano ma di
educazione americana, e soprattutto spiega quello che spiega (e nei termini in cui lo spiega) a un pubblico americano, e quindi la sua opinione può essere presa come quella di un americano che ci guarda da lontano.
Ora questo visitatore da un altro mondo così racconta la stampa italiana agli americani. È una stampa che appare come molto plurale, con uno spettro politico che va dall’estrema destra all’estrema sinistra. La qualità dei commenti (che
curiosamente appaiono in prima pagina e non nell’ultima) appare vivace in confronto a quelli americani. Vi collaborano (altro elemento curioso) intellettuali e professori universitari. Ma a una ispezione più accurata questa stampa appare
profondamente malata e, al di là della diversità ideologica, depresssivamente monotona.

In Italia la gente legge poco i giornali, se ne vendono meno di sette milioni di copie su sessanta milioni di abitanti circa, e una grandissima parte di copie è di giornali sportivi. I giornali più importanti di Roma o Milano hanno tirature di poco più 600.000 copie, per città di tre milioni di abitanti, e per vendere sono costretti a offrire gadgets, video e Cd. Malgrado le differenze politiche, se si vanno a leggere le cinque sei maggiori «storie» (come dicono gli americani) che appaiono in prima
pagina dei cinque e sei maggiori giornali, esse sono tutte identiche. Raccontano infatti le faccende dei principali leader politici di Roma. Una delle ragioni per cui i giornali italiani non riescono ad assicurarsi un nucleo di lettori fedeli è la loro strana relazione «simbiotica» col potere politico. Invece di praticare giornalismo, e cioè andare a vedere quello che accade nelle zone in cui il giornale appare, un gran numero di giornalisti attendono sui gradini del parlamento aspettando che appaia un uomo politico e faccia la dichiarazione del giorno. Le «storie» principali quindi consistono in un ping pong tra i leader politici.

Questa insistenza sull’arena politica risale forse al periodo in cui l’Italia era uno dei maggiore campi di battaglia della guerra fredda, quando la minima variazione di idee di un leader politico poteva avere conseguenze internazionali. Ma ora la posta in gioco sembra essere solo il potere personale. Così l’abilità giornalistica si è atrofizzata e i giornali spendono gran parte del loro tempo a riciclare acqua calda. La simbiosi tra stampa e potere politico deriva dallo stretto rapporto tra i proprietari dei maggiori giornali e la classe politica. Il mondo degli affari dipende dalle decisioni governative e recentemente il proprietario di un importante giornale ha detto che per essere protagonista in campo economico bisogna possedere un giornale.

A questo punto Stille racconta quello che sappiamo già, ma con una stupefazione che a noi fa difetto: spiega a chi appartengono i vari giornali e settimanali italiani, e
spiega come i potentati economici che li posseggono debbano talora difendersi dal governo per evitare inchieste sgradevoli, soffermandosi in particolare sugli attacchi alle «toghe rosse» fatti dai giornali del gruppo Berlusconi (ma non risparmia né Agnelli né De Benedetti); rileva che l’unico importante giornale economico, molto ben fatto – dice – dipende dalla Confindustria. Il paragrafo finale inizia con un aggettivo che ovviamente a noi lettori italiani (specie se sui giornali anche ci scriviamo) non fa molto piacere: parla di «balcanizzazione» della stampa italiana. Non sarà politicamente corretto, ma l’aggettivo è questo e vuole dire quello che vuole dire. L’aggettivo «balcanizzazione» intende sintetizzare tutte le caratteristiche elencate sopra, caratteristiche che appaiono tutte strane e incredibili a un lettore americano.

In ogni caso si dice che questa balcanizzazione dipende proprio della renitenza dei giornali italiani a scavalcare le frontiere ideologiche, e inviare i propri reportes non a commentare quel che accade nel Palazzo (come diciamo noi) ma quello che accade in giro nel paese. Tralascio il resto, e dico subito che questa deprimente analisi della stampa italiana non deve fare pensare che la stampa americana sia
sempre meglio. Ma, quando è peggio, lo è per le ragioni opposte, il giornale di uno Stato del Mildwest magari spende poche righe per dire che cosa accade a Washington, e cerca di dire tutto quel che accade nel Midwest. Non so quale tra i due mali sia il peggiore. Quando si legge un cattivo giornale americano si capisce perché poi vinca Bush. Ma, a parte che questi giornali, buoni e cattivi, appartengono a gruppi che non hanno connessioni dirette col potere economico e politico, anche i buoni parlano del presidente solo quando è in gioco una mossa importante, e non lo seguono nelle sue variazioni d’umore quotidiane, e non si sognano di intervistare ogni giorno dieci politici per sapere cosa pensano dei loro avversari (per poi chiedere agli avversari di rispondere, e così di seguito).
Aggiungerei che l’America non ha il Papa in casa, e parla di lui quando fa una affermazione importante, senza dedicare servizi a catena a ogni sua apparizione sul balcone di piazza San Pietro. Inoltre, in tutti questi casi, che il presidente abbia comandato un bombardamento in Medio Oriente, che il Papa abbia condannato le culture transgeniche o che il parlamento abbia votato una legge contro l’immigrazione (tutti fatti di grande importanza) appare un articolo che informa del fatto e basta (caso mai segue un commento nella pagina apposita).

Quello che colpisce nei giornali italiani è che su qualsiasi evento di qualche interesse (o cui si è deciso di creare interesse), sia esso il suicidio di una contessa o la rapina in una banca, appaiono di regola due pagine con almeno quattro articoli di quattro inviati diversi, e tutti dicono naturalmente la stessa cosa.
Veniamo allora ai miei desideri. Certo che voglio sapere se il governo ha fatto un accordo con gli scienziati o blocca la ricerca scientifica, se Berlusconi ha scelto come futuro ministro della Pubblica Istruzione Bossi o Maroni, ma vorrei che queste cose mi fossero dette quanto basta. Per il resto, gli avvenimenti romani potrebbero occupare una colonnina di stelloncini essenziali, che comprendano anche le due righe indispensabili se proprio si vuole sapere che il Papa ha ricevuto una delegazione di monache coreane. Ma basta un colonnino. Così quando ci sarà l’avvenimento veramente importante, quello che ci deve far saltare sulla sedia, ce ne accorgeremo perché, solo per quella volta, il giornale avrà fatto il titolo su più colonne.

Per il resto vorrei sapere tutto il resto. Tutto il resto che porta i giornalisti a fare i reporter in giro e non a passeggiare nel transatlantico. Sarà questo un modo di sfuggire alla balcanizzazione? Un giornale sbalcanizzato attirerà più lettori, oppure il lettore è ormai avvelenato, vuole il titolone con «rissa tra Amato e Fassino», quando in Consiglio dei ministri c’è stato invece uno scambio di opinioni divergenti su un problema all’ordine del giorno, come deve essere in ogni paese civile?
Io tuttavia vorrei che il vostro giornale tentasse; forse i lettori sono più svegli di quanto si crede, forse hanno bisogno del gadget perché non provano gusto a leggere un quotidiano che, se un ragazzo ammazza la propria ragazza, spende
almeno una pagina a intervistare i loro compagni di scuola i quali dicono (lo avreste immaginato?) che gli dispiace.

Scusate l’intromissione, ma a me quell’aggettivo «balcanico» ha dato noia. Volete provare?

Umberto Eco

A proposito di post-verità, Oliver Stone: «Il giornalismo ha fallito»

Chi è il responsabile della circolazione delle tante “fake news”, le notizie false in circolazione nel mondo? Oliver Stone non ha dubbi: non sono i canali non convenzionali ma, al contrario, le testate giornalistiche più prestigiose.

Presentando il documentario Ukraine on Fire, di cui è produttore e che racconta la rivoluzione ucraina del 2014, Stone ha voluto raccontare il suo punto di vista, secondo il quale a generare fake news sono prima di tutto i canali di stampa tradizionali e che quella rivoluzione, la cui responsabilità è stata attribuita alla Russia di Putin, è stata invece elaborata e finanziata dagli Stati Uniti per colpevolizzare la Russia e per giustificare ancora l’esistenza della Nato. Stone ha anche definito “ridicola” la teoria secondo la quale Donald Trump sarebbe stato eletto grazie alle interferenze di Putin.

Il documentario, presentato nel corso della prima edizione di Filming on Italy, evento di promozione dell’Italia quale set cinematografico, nato grazie ad un accordo tra Agnus Dei Production di Tiziana Rocca, l’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles e il Consolato Generale d’Italia a Los Angeles, è diretto dal regista ucraino Igor Lopatonok mentre Oliver Stone ne è il produttore e l’intervistatore dei protagonisti di questa vicenda, Vladimir Putin e Viktor Yanukovych, ex presidente ucraino, deposto a seguito di quella che è stata fatta passare per una rivoluzione partita dal basso ma che invece, secondo la teoria raccontata nel documentario, è stato un vero e proprio colpo di stato che ha goduto dei finanziamenti degli stessi Stati Uniti. “L’America ha un ruolo enorme e una grossa responsabilità e continua a negarlo – ha detto il regista, premio Oscar per Fuga di mezzanotte, Platoon e Nato il 4 Luglio – E’ una situazione dolorosa per la gente ucraina. Quello che noi raccontiamo non è la narrativa ufficiale, ma è quello che è accaduto. Non lo vedrete mai sui media americani, ma troveremo un modo di fare vedere in nostro documentario, sia pure su Youtube”.

Stone ha pesantemente attaccato la stampa americana, colpevole di accettare la versione governativa senza indagare, senza andare a fondo: “Dov’è andato il giornalismo degli anni Settanta, quello che ha portato allo scandalo del Watergate e ha mostrato la vera faccia della guerra in Vietnam? – si chiede Stone – Ad un certo punto ha smesso di avere senso critico. La funzione del giornalismo dovrebbe essere quella di analizzare le teorie delle fonti ufficiali e criticarle. Non lo sta più facendo e questo documentario mostra chiaramente che ha fallito.

New York Times, Washington Post e tutte le altre prestigiose testate americane non stanno facendo più il loro lavoro”. Stone ha commentato anche l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e bollato come ridicole le teorie di ingerenza russa nelle elezioni. “Sono gli Stati Uniti che hanno una lunga tradizione di ingerenza nella politica di altri paesi, non la Russia”.

Filming on Italy proseguirà il 7 febbraio con un incontro con l’attore, regista e produttore Riccardo Scamarcio, che porterà negli Stati Uniti Pericle il nero (2016) di Stefano Mordini, e con la giovane regista emergente Irene Dionisio, di cui verrà proiettato il documentario Sponde (2015). Sempre il 7 febbraio Cecilia Peck sarà ospite dell’evento per celebrare il centenario della nascita del padre Gregory Peck – indimenticabile protagonista di Vacanze Romane, cult movie ed emblema dell’Italia quale location cinematografica – con la proiezione del trailer “Gregory Peck and Italy”.

(fonte)

Il lato oscuro del giornalismo (di Fabrizio Feo)

(di Fabrizio Feo, da Liberainformazione)

“Solo contro una ciurma di miserabili, solo perché tutti gli altri colleghi del suo territorio- tranne una, Giada Drocker, corrispondente dell’Agenzia Italia – sembrano non preoccuparsi più di tanto dell’incubo che sta vivendo uno che ha il vizio di scrivere”.
Lo ha scritto senza giri di parole su Repubblica Attilio Bolzoni parlando  della vicenda di Paolo Borrometi cronista siciliano, sotto scorta dopo avere subito minacce e aggressioni. Parlando del processo al capo cosca che ha preso di mira Paolo Borrometi, si legge: “…Nell’Italia dei 30 giornalisti sotto scorta, delle tremila minacce ricevute e dei 30mila atti intimidatori subiti dal 2006 da chi fa cronaca, il processo contro lo ” zio Titta” alla sua seconda udienza ha segnato nuovamente la diserzione in massa dei cronisti locali nonostante la costituzione di parte civile degli Ordini regionali e nazionali dei giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa”.
È proprio questo il punto: la prima barriera difensiva di chi fa il cronista, in quelle periferie del Paese che sono frontiere – e ormai non più solo li – è la solidarietà attiva dei colleghi degli altri giornalisti. Innanzitutto quella dei colleghi del luogo. Solidarietà che si può manifestare, se si vuol farlo concretamente, in un unico modo: condividendo l’impegno di chi è minacciato. Impegnandosi nel racconto dei fatti scomodi, nella denuncia. Purtroppo però sono infiniti gli interrogativi su cosa vogliano dire oggi per molti di noi giornalisti parole come impegno, solidarietà, colleganza. E c’è da chiedersi perfino se, per molti noi, quelle parole abbiano – come dovrebbero – un senso.
E poi, su un altro versante, altrettanti interrogativi incombono su quale sia il senso, la misura di parole come deontologia, etica, regole, indipendenza, impermeabilità a condizionamenti di ogni genere. Tanto più se i condizionamenti vengono da ambienti contigui alle organizzazioni criminali o direttamente da esse. Non sono domande astratte.
Accade ad esempio una cosa strana: molti giornalisti ed organi di informazione – locali e non – pare non si siano accorti  di  quanto sia grave il contenuto  di  tre dei provvedimenti cautelari richiesti o emessi dalla Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria tra maggio e luglio scorsi.
Libera Informazione ne aveva già parlato in agosto. Eppure su questa vicenda negli ultimi sei mesi è sceso un silenzio pressoché totale. È come se la categoria, e i suoi organismi, colleghi di solito sempre attenti al contenuto degli atti della magistratura inquirente, fosse precipitata improvvisamente in una sorta di cecità o di amnesia collettiva.
Ecco il punto: si tratta dei numerosi riferimenti al ruolo svolto da alcuni giornalisti incrociati da polizia e carabinieri e Guardia di Finanza nel corso delle indagini sull’ex parlamentare Paolo Romeo e l’avvocato Giorgio de Stefano esponente di una storica famiglia di ndrangheta, nonché su molti politici, funzionari pubblici e affaristi, collegati alla “Mamma santissima”, la cosiddetta “Super cupola” della mafia calabrese.
Alcuni giornalisti, stando a quei documenti, sarebbero stati avvicinati per scrivere a favore o contro di questo o di quello. E ad avvicinarli sarebbe stato Paolo Romeo. Non uno sconosciuto, ma un ex parlamentare condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, protagonista in più di un’occasione di vicende non limpide e noto per i suoi stretti rapporti con figure di vertice di potenti famiglie della ‘ndrangheta, già prima delle inchieste divenute di pubblico dominio tra maggio e luglio scorsi.
I giornalisti, scrivono i magistrati di Reggio, sarebbero finiti negli atti d’indagine non solo perché erano direttamente in contatto con Paolo Romeo, “più volte a diposizione del Romeo, per le campagne di stampa che lo stesso organizzava”, perché da lui utilizzati per “diretti servigi“, ma anche per la “capacità d’influenzare ed orientare l’operato di altri inconsapevoli giornalisti, in funzione delle sue strategie. Per una “azione di infiltrazione” nel mondo giornalistico.
Parole pesanti.
E chi avrebbe dovuto almeno chiedersi perché non ha aperto bocca. Ma come? Tutti pronti a parlare di legalità, in astratto, e poi quando c’è da pretendere quanto meno chiarezza…muti. E silenziosi invece non si può rimanere: oltretutto i primi ad essere colpiti da una vicenda del genere sono i tanti giornalisti coraggiosi che in Calabria non si sono piegati e rischiano  grosso ogni giorno.
Una vicenda, quella di Reggio, che sorprende, ma fino ad un certo punto. Non è la prima volta che accade una cosa del genere.
Un esempio. Nove anni fa la procura di Catanzaro dispose numerosi arresti nei confronti dei presunti appartenenti ad un gruppo criminale accusato di aver trasformato il porto di Amantea in una cosa propria. Dagli atti di quella inchiesta (ordinanza di custodia cautelare “Nepetia”) emerse che il personaggio di vertice del gruppo criminale, Tommaso Gentile, condannato per reati di stampo mafioso, aveva incontrato, proprio nel porto, un giornalista. Il giornalista aveva fatto un accurato racconto su alcune vicende che gli stavano a cuore al boss, che a sua volta aveva fatto al giornalista confidenze sul suo rapporto con un politico locale. Tutto intercettato.
In un’altra occasione ancora – spiegavano i magistrati di Catanzaro – Gentile aveva contattato il medesimo giornalista per accertarsi che non venissero scritti articoli a proposito di un attentato. Anche qui tutto intercettato.
Ebbene non risulta che le circostanze abbastanza anomale – per usare un eufemismo – contenute nell’ordinanza di custodia cautelare Nepetia abbiano fatto saltare sulla sedia. Quanti ne erano all’oscuro e quanti voltati dall’altra parte?
Per non parlare dell’informazione on line locale: in Calabria ci sono testate che, ogni giorno, fanno il proprio dovere, e anche di più, con pochissimi mezzi e tantissimo coraggio. Ma ce ne sono anche altre che, per dirne una, attaccano con violenza il lavoro di chi osa occuparsi di vicende illecite, di interessi dei loro padroni palesi od occulti.
C’è chi ha perso la rotta, c’è anche chi non l’ha mai avuta, ma anche chi non fa nulla per sanzionare condotte che violano le regole e infangano un’intera categoria. E non accade solo in Calabria.
Nessuno si aspettava o si aspetta processi, tanto meno giudizi sommari. Del resto non si sa nemmeno se la magistratura abbia approfondito o intenda approfondire le  circostanze di cui abbiamo parlato.

Le parole sono importanti, come diceva quel tale.

Ha scritto l’Ansa ieri, parlando del doppio attentato in Nigeria presso il mercato di Naiduguri: “due baby kamikaze esplodono al mercato”. I “kamikaze”, dicono le agenzie di stampa, avevano sette e otto anni. Un bambino e una bambina di sette e otto anni: difficile credere che abbiano voluto o scelto di farsi esplodere, probabile forse che non sapessero nemmeno cosa stavano facendo. Due bambini imbottiti di esplosivo, insomma. Forse è qualcosa di diverso di baby kamikaze, forse.

Titola Repubblica Roma: “cinese morta a Roma, ricordo a Tor Sapienza”. Zhang Yao era una ragazza ventenne, studentessa dell’Accademia delle Belle Arti, di ottima famiglia, appena uscita dall’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma con il rinnovo del suo permesso di soggiorno per motivi di studio, scippata in un quartiere dimenticato dalla politica e con la voglia di non accettare il sopruso. È vero che i titoli hanno d’essere brevi ma “cinese” come parola contenitore di tutto questo, beh, no. Davvero. Bastava aggiungerci “studentessa”, ad esempio, come hanno fatto tutti gli altri. Sarebbe bastato poco.

Titola Libero di ieri su un articolo di Paolo Becchi (beh, direte voi, Libero più Becchi è miscela esplosiva, del resto): “la Raggi difende il marocchino ma scorda il disabile italiano”. Il marocchino in realtà non esiste: si tratta della famiglia che ha diritto a un alloggio (famiglia con figli piccoli) di cui non ha potuto usufruire perché illegalmente occupato da altri. Legalità contro illegalità, se volessimo banalizzare. E il disabile è solo uno specchietto per le allodole: nel pezzo si parla genericamente di cittadini “mandati via” tra cui, si dice, “un disabile con un figlio”. Razza contro razza, insomma. Anche qui. Come se “il marocchino” avesse cacciato “il disabile”: non hanno avuto il coraggio ma avrebbero voluto scriverlo così, c’è da giurarci.

Ci sono due macrocategorie di titoli brutti: quelli figli di un retro pensiero e quelli figli di incuria. Entrambi ottengono il risultato di nutrire gli istinti bassi; e questo non è un pezzo moralizzatore ma un invito a provare a prestare più attenzione, a prendersi cura delle parole per non diventare buoni alleati di quelli che combattiamo. Io per primo.

(il mio buongiorno per Left)

Giornalisti, sputi e potere. E, per fortuna, Tiziano Terzani.

Tiziano: Adesso sono curioso. No, non sono curioso, sono sereno, Folco. Sono sereno. Non mi aspetto assolutamente più niente.

Folco: Allora puoi finalmente riposarti.

Tiziano: La puoi mettere così, se vuoi.

Folco: Non devi più correre.

Tiziano: Questo è vero, perché un po’ ho sempre sentito che avevo delle responsabilità . Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Trovavo bello quello che ha detto Martin (Woollacott, del “Guardian” ndr) l’altro giorno, che io avevo un senso della moralità . Ma non ero io… era che non c’era niente di più importante nella mia vita, non c’era niente di più grande, sai… sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità , sì. Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili.

La più facile, te ne volevo parlare da tempo, è  il potere. Facendo questo mestiere la frequentazione del potere è  necessaria, indispensabile. Di ogni tipo di potere: il potere assassino, il potere giusto, il potere… il Potere. Perché è quello che determina le sorti del mondo e tu che sei là a descriverle devi andare dal potere a chiedergli come stanno le cose. Ecco, di nuovo senza che io me lo sia detto una mattina facendo un voto, senza che io ci sia arrivato attraverso constatazioni altrui, io ho sempre provato una ripulsione per il potere. Forse, nel fondo sono un anarchico, ma a me vedere un presidente, un ministro, un generale, tutti con la loro aria tronfia, tutti con la loro pillola da rivenderti, mi ha sempre fatto ribrezzo. Il mio istinto è sempre stato di starne lontano. Proprio starne lontano, mentre oggi vedo tanti giovani che godono, che fioriscono all’idea di essere vicini al Potere, di dare del “tu” al Potere, di andarci a letto col Potere, di andarci a cena col Potere, per trarne lustro, gloria, informazioni magari. Io questo non lo ho mai fatto. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità .

(La sua voce si abbassa)

Perché il potere corrompe, il potere ti fagocita, il potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui e parli con lui diventi un suo scagnozzo, no? Un suo operatore. Non mi è mai piaciuto. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Sono stato uno dei giornalisti che alle conferenze stampa del mondo era proverbiale per fare sempre le domande più provocatorie, quelle che non vedi più  fare oggi. Quelle che non vedi rivolgere alla Condoleezza Rice che l’altra sera diceva “Le Nazioni Unite ora ci stanno bene a mano”. Bastava che uno si riprendesse i giornali di due anni fa “Un momento! Lei il 14 maggio, alle cinque e quaranta alla CBS ha detto <<Le Nazioni Unite sono irrilevanti, sono piene di assassini e sono piene di dittatori>>. E ora le Nazioni Unite sono il toccasana? Ma ci piglia per il culo?!”

(Rido)

Questo è  il giornalismo. I giornalisti più orribili sono quelli che stanno nel Pentagono, nel ministero degli Esteri, sempre là, pronti a pigliare il caffè. Si annuncia “Conferenza stampa!” e loro accorrono. Arriva Bush o Rumsfeld che dicono “Allora John, tu che vuoi sapere?”

Ma che John?!

Folco: Cioè, uno dovrebbe sfidare il potere?

Tiziano: Questo è il mestiere. Scusa, le suddivisioni del potere nell’ambito dello Stato quali sono? Legislativo, esecutivo, giudiziario. E c’è un quarto potere: la stampa e i mezzi di informazione che controllano il giudiziario, l’esecutivo e il legislativo.

Folco: Li controllano?

Tiziano: Li controllano, prendono loro le misure, li prendono in esame per capire se non c’è qualche inghippo.

Folco: Se no cosa succede?

Tiziano: Non funziona il sistema.

Folco: Non funziona la democrazia?

Tiziano: Scusa, se la legge è sbagliata, chi lo va a denunciare? Nessuno. Se invece la stampa incomincia a protestare, a studiarne le conseguenze, acquista un’importanza enorme, diventa la voce della gente che non può parlare.

Folco: E che soffre di una legge fatta male.

Tiziano: No, io non sono mai stato amico di un potente. E’ molto importante questo senso della propria libertà, del non voler dipendere dal benvolere di nessuno, lo capisci?……

(* da “La fine è il mio inizio” – capitolo: IL POTERE  di Tiziano Terzani (a cura di Folco Terzani), pag.311,Longanesi editore, Milano 2006)

Su Corleone

Corleone sciolta per infiltrazione mafiosa ma Fabrizio Feo sottolinea anche altri (brutti) accadimenti recenti:

«Ma c’è qualcos’altro che non va sottovalutato. A Corleone, ancora una volta, negli ultimi mesi qualcuno, al grido di “vogliono criminalizzare una cittadina e una comunità”, ha fatto ricorso prima al vittimismo e poi a vere e proprie bordate contro chi raccontava i fatti. Un fuoco di sbarramento cominciato anche prima dello scioglimento del Consiglio Comunale, in occasione di una processione e della segnalazione fatta alla Procura dalle forze dell’ordine a proposito dell’inchino della statua di San Giovanni Evangelista davanti alla casa di Totò Riina e Ninetta Bagarella. Quando Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica, attento e coraggioso, profondo conoscitore del fenomeno mafioso, aveva pubblicato la cronaca della processione erano fioccate minacce di querela. Quando poi Dino Paternostro, giornalista e dirigente sindacale responsabile della Legalità per la Cgil di Palermo, aveva postato su Facebook l’articolo di Palazzolo erano volati anche gli insulti. Ed era sceso in campo anche il genero di Totò Riina, Tony Ciavarello, che aveva commentato: “Buffone lei e il suo collega che ha scritto l’articolo”. Un’uscita intollerabile, indecente.
E invece il lavoro di Salvo Palazzolo e dei giornalisti che come lui hanno tenuto gli occhi ben aperti su Corleone è un aiuto prezioso e insostituibile proprio per la stragrande maggioranza di cittadini onesti, che in questi anni hanno scelto se non di contrastare il fenomeno mafioso, almeno di prenderne le distanze tagliando i ponti con Cosa Nostra e con i mafiosi, quelli con tanto di pedigree e quelli che mostrano molte maschere, una per ogni occasione.»

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