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giornalismo

Il suicidio di Manu e quello che ci succede intorno

Dovrei scrivere un editoriale su ciò che succede. Avrei dovuto. Leggere la rassegna stampa, immaginare il tema prominente, studiare per costruirmi un’idea e poi prendere la penna che, tra l’altro, ha così poca poesia appiattita sulla tastiera di un computer. Poi avrei dovuto formare una visione cominciando da una storia minima per arrampicarmi su uno sguardo totale. Ecco. Il mio buongiorno, anche oggi, avrebbe dovuto essere così.

Invece è successo che un’amica, presenza di pomeriggi passati a casa mia, lei e la mia compagna nei pomeriggi passati a leggere insieme e poi noi a discutere del più o del meno (che è scienza popolare ma difficilissima e spesso esatta); insomma un’amica ha deciso di togliersi la vita. Suicidio. Che è una parola, il suicidio, che si tende a evitare come tumore, incidente, malattia o colpa. Una di quelle parole che attorciglia lo stomaco, chissà perché, qui da noi dove siamo abituati ala pornografia in tutti i settori.

Comunque è successo che una persona che incrociavo per casa, ultimamente sempre più silenziosa e persa, poi d’improvviso abbia smesso di essere. Così, di colpo. Si suicidano sempre quando molli la presa, le persone che conosci; come se giocassero ad allentare la corda tutto intorno per poi stringersela al collo. Ogni suicidio è un buco in un lago, un muro di traverso in un rettilineo di autostrada.

Mi domando, stamattina, se ci sia una modo di incastrare una cosa così in un lavoro, il mio, che consiste principalmente nel riordinare quello che mi succede intorno. E perdo, di fronte al suicidio di Manu. Non c’è senso, motivo, scrittura, filo rosso. Niente.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Il giornalista (secondo Miriam Mafai)

Foto da criticaletteraria.org
Foto da criticaletteraria.org

Scriveva Miriam Mafai:

«Sono entrata in un giornale perché “conoscevo qualcuno”, e questa resta ancora – a tanti anni di distanza – la strada principale di accesso alla professione. Le porte dei giornali si aprono solo all’interno: è inutile bussare o dare spallate se non c’è qualcuno da dentro che socchiude almeno uno spiraglio. Per questo si dice tra di noi che il primo consiglio da dare a un giovane che voglia fare il giornalista è di nascere figlio di giornalista, o figlio di un amico di un grande giornalista.»

Ora il suo saggio esce in nuova edizione in un libro da leggere. Lo trovate Qui.

Qui invece trovate un interessante articolo di Federica Privitera sul libro.

 

Quella brutta risposta de Il Manifesto

Che brutta la risposta de Il Manifesto ad un commento ricevuto in bacheca. Trovarsi in una situazione difficile è legittimo ma rivendicarlo in questo modo beh. Non so. Fate voi. Il commento è questo qui:12513588_10203819190839798_9061754486115056486_o

Sorpresa: il giornalismo non urlato funziona anche sul web

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Buone notizie per l’ecologia del web. Ne scrive Dario Mazzocchi per Gli Stati Generali:

Al numero 22 di Old Queen Street, a Londra, possono permettersi di stilare la lista dei famosi buoni propositi per il nuovo anno: a quell’indirizzo ha sede la redazione dello Spectator, settimanale politico e culturale conservatore che viene stampato dal 1828 e che pare goda di ottima forma ancora adesso, nell’epoca del giornalismo multimediale e legato al pianeta dei social network.

Il 2015 per lo Spectator ha infatti confermato una tendenza positiva, come ha raccontato il direttore Fraser Nelson: quasi 61.000.000 di pagine visualizzate e 20.000.000 di utenti per il sito, segnando una crescita costante dal 2012, quando i numeri erano in flessione in seguito all’introduzione di un paywall completo. Poi il compito di gestire il settore web è stato affidato a Sebastian Payne, il metodo di pagamento è stato modificato, subentrando solo dopo un certo numero di articoli consultati, e i numeri sono tornati a crescere.

Il risultato deve aver colpito anche quelli del Financial Times, che hanno assunto Payne affidandogli il ruolo di digital comment editor, con l’intenzione di inserire video e audio per quel settore on line del giornale della City. La stessa cosa, d’altronde, è andata in scena proprio allo Spectator, con l’introduzione del blog Coffee House e di contenuti podcast con la rubrica The View from 22.

Dal web alla carta: nella prima metà del 2015 la circolazione dello Spectator ha continuato ad allargarsi, per un totale di 62.718 lettori paganti (55.165 per l’edizione stampata, 7.753 per quella digitale), lasciando intendere alla direzione del settimanale che è possibile tornare a raggiungere il picco registrato nel 2008 di 76.952 copie: da allora la diffusione era calata (54.000 nel 2013), per ripigliarsi in seguito, come accaduto al sito.

Cifre di nicchia, se paragonate a quelle dei colossi News Corp., Condé Nast & Co., ma dopo tutto anche gli obiettivi sono diversi: lo Spectator è un magazine agile, snello, con poca pubblicità e senza fronzoli, le pagine sono interamente occupate da articoli, le foto restano concentrate nella sezione culturale per accompagnare le recensioni di libri, spettacoli e rappresentazioni teatrali.

Il resto è qui.

Il prurito per i giornalisti

È una buona notizia che il potere continui a non essere in cordiali rapporti con i giornalisti. La vedo così, semplicemente, come la normale dinamica funzionale tra il controllore e il controllato dove il giornalismo, quando è capace di rendersene conto, è un buon cane da guardia.

Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto.

(Horacio Verbitsky)

Tutti eccitati per la guerra

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Dal lunedì’ al venerdì ogni mattina ci troviamo per il buongiorno sul sito di LEFT. Ecco il buongiorno di ieri:

“Se noi non fossimo qui, se noi fossimo degli stranieri appena sbarcati in Italia e per uno strano caso qualsiasi ci capitasse stamattina di passare in un’edicola, davanti alle prime pagine dei quotidiani, oggi verrebbe da pensare che abbiamo dichiarato guerra a cannone battente e siamo nel pieno dell’ubriacatura da militarismo greve.

Le foto di Abdelhamid Abaaoud, nelle sue patetiche pose da Rambo in salsa orientale e la fierezza con cui viene annunciata la sua avvenuta uccisione (anche sul moderato Corriere della Sera) farebbero credere, a prima vista, non solo che il conflitto abbia ufficialmente sdoganato l’uso della violenza ma anche che ci sia una generale soddisfazione per questa guerra alla guerra fatta con la guerra. Un’avvincente partita a Risiko su scala mondiale in cui si fatica a trattenere l’esultanza per l’ultimo tiro di dadi e si espongono i trofei dell’ultimo ammazzato tra i cattivi. Ma davvero credono che noi si possa abboccare alla storiella che questi giovanotti in stitiche pose da soldati possano da soli giustificare l’orrore? Ma davvero le bombe francesi su Raqqa possono essere considerate l’inevitabile conseguenza?”

(continua qui)

L’orrore delle bugie su Parigi

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Arianna Ciccone e tutti quelli che scrivono per Valigia Blu hanno cominciato da tempo una battaglia per ottenere dal giornalismo anche un po’ di serietà. Sembrerebbe una questione simpatica scritta così se non fosse che sulle false notizie che rimbalzano su tutti i socialcosi del mondo stanno contribuendo a minare una credibilità già piuttosto pericolante dopo anni di servilismi e scendiletto. Per questo vale la pena investire qualche minuto nel post in cui si stila un veloce elenco delle bugie più grosse raccontate sui fatti di Parigi (che dovrebbero avere anche l’aggravante di apologia al lutto) e l’articolo (tradotto) di Claire Wardle sulla necessità di un debunking in tempo reale che i media devono riuscire a fare in tempo reale.

Sono riflessioni che farebbero bene a tutta la categoria.

Detto da un abusivo, poi. Che sono io.

Un nuovo reato: scrivere di Tav. Concorso esterno in disaccordo.

Se avete già piegato e inamidato la vostra solidarietà per Erri De Luca per favore correte a riprenderla subito nei vostri cassetti. La notizia di questi ultimi giorni è qualcosa che galleggia tra la “parola contraria” che ha usato lo scrittore e il diritto di cronaca che vorrebbero ammaestrare nelle corsie preferenziali: Davide Falcioni, un giornalista che ha il brutto vizio di guardare per raccontare, di esserci mentre avviene la notizia è indagato per “violazione di domicilio”. Anzi, peggio: “concorso in violazione di domicilio”.

Il mio articolo è qui.