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L’impolitica

La sola idea che basti il nome di Mario Draghi perché l’Italia torni a volare è il sintomo più lampante della decadenza di una classe politica che si è fatta implodere e di una classe culturale eternamente appesa al prossimo salvatore

C’è un’aria frizzante questa mattina tra politici e commentatori, quasi tutti felici per avere demolito l’esistente e tutti subito attaccati alle braghe del commissario, tutti con quella felicità della classe che ha appena scoperto che oggi ci sarà il supplente e quindi sicuramente non interroga, non controlla i compiti fatti a casa e forse se va bene non si fa nemmeno lezione.

La giornata di ieri del resto è stata una convulsa regressione verso il gnegneismo che si possa ricordare. Tutti in fila a dare il peggio di sé dentro una trattativa politica che è stata uno spettacolo indecente: i Cinquestelle con Vito Crimi (il pro tempore più duraturo nella storia delle reggenze politiche) issato a difendere perfino l’indifendibile, il Partito Democratico come spesso accade trascinato dalla corrente, Renzi e la sua ciurma a fare finta di trattare come a una recita di fine anno mentre alzava la posta in gioco ogni minuto che passava e divertendosi come un matto. Uno spettacolo indecoroso mentre là fuori morivano le solite 500 persone a cui ci siamo abituati come se fossero brina mattutina.

E così quelli che per settimane ci hanno sfrantumato dicendo che la politica si fa con le idee e non si fa con i nomi ieri sera sono andati a dormire tutti esultanti perché sono riusciti a demolire gli avversari e si sentono rassicurati dall’arrivo del nuovo logo Mario Draghi, come se bastasse un’etichetta per nobilitare un Parlamento farcito di capetti viziati e capricciosi che si sono litigati la merenda fino all’ultimo minuto dell’intervallo e che ora esultano per un probabile governo verde loden. La sola idea che basti il profumo di Draghi perché l’Italia torni a volare è il sintomo più lampante della decadenza di una classe politica che si è fatta implodere, di una classe culturale eternamente appesa al prossimo salvatore e di un giornalismo rassicurato dall’essere fedele al prossimo padrone.

Alla fine in mezzo ai bambini è arrivato il Presidente Mattarella che ormai appare l’unico adulto là dentro e che prova tutti i giorni a metterci una pezza a questa immatura inconcludenza. Ma è lo stesso Mattarella che ieri nel suo discorso ha parlato di un governo «che non debba identificarsi con alcuna formula politica» e vedere esultare la politica per un governo impolitico rende perfettamente l’idea della crisi di rappresentanza democratica che sforna soluzioni costituzionalmente legittime ma che sono tutt’altro che una vittoria. Mario Draghi inevitabilmente perseguirà, com’è nell’anima di ogni governo, interessi e valori che probabilmente riusciranno a cementare una certa idea di centro (tendente a destra) che tanto piacciono a Renzi, a Berlusconi, a Calenda e a tutta quella compagnia di giro ma forse in mezzo a tutta questa esaltazione varrebbe la pena ricordare che le scorie del governo Monti portarono all’esplosione del populismo e di certa destra salviniana. Esulterei un po’ meno, ecco tutto.

Se invece il gioco è quello di convincerci che peggio di com’eravamo messi non potrebbe andare e quindi bisogna esultare perché “un governo Draghi non può fare peggio di questo governo” allora si rientra nel campo del fideismo da tifoserie e nell’infantile speranza che riesce ad accendersi solo quando vede le macerie. E si torna al punto di partenza: un impolitico gioco di specchietti per le allodole. Manca la politica, appunto.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

A volte ritornano

Dove vuole arrivare Prodi quando strizza l’occhiolino al suo acerrimo nemico? Come mai il Pd non si scompone più di tanto di fronte all’ipotesi di una “alleanza” di governo con Berlusconi? Ecco perché le manfrine di Palazzo di queste settimane sono un (brutto) film già visto

Lo sapete cosa accade quando partiti hanno il terrore mettersi davanti allo specchio degli elettori, quando hanno paura di dover cominciare considerare i possibili effetti di un possibile voto e quando soprattutto cominciano a sentire che il governo in carica ha problemi di tenuta nella percezione popolare? Iniziano a frugare dentro, tra gli anfratti dello scacchiere parlamentare, si lanciano in merletti e alambicchi di strategia che da fuori appaiono come spericolate ipotesi senza capo e senza coda e tengono in mano la calcolatrice per immaginare altre pericolanti maggioranze che restino in piedi giusto il tempo di riorganizzarsi di nuovo. Una burocrazia di maggioranze che ottiene di solito l’effetto di disgustare ancora di più gli elettori (di qualsiasi parte politica) che per anni sono stati scagliati contro i giochi di palazzo e che fa schizzare i populisti nei sondaggi. Poi, quando accade, quando ci si mette tutti insieme in un’accozzaglia di partiti che hanno come unico punto quello della loro autopreservazione, insistono nel dirci che l’hanno fatto per senso di responsabilità, di solito mettono come presidente del Consiglio quello che si definisce un tecnico e di solito danno vita a tutte le misure impopolari che hanno succhiato la vitalità del Paese (il governo Monti, per dirne una facile facile, ve lo ricordate?).

Ecco, quello che sta accadendo in Italia in questi giorni convulsi in cui si torna a parlare di un possibile ingresso nel governo di Silvio Berlusconi corrisponde esattamente alla fase iniziale di un momento del genere, con parte del Partito democratico che non riesce proprio a trattenersi da un filo-destrismo che non riesce proprio a scrollarsi di dosso; con i renziani di Italia Viva che invece Silvio Berlusconi (o meglio: i moderati di destra) lo corteggiano da un bel po’ (quindi niente di nuovo sotto al sole) e con il Movimento 5 stelle che ancora una volta prova le vertigini che procura la sensazione di perdere il potere. Tutto parte da Romano Prodi, icona di un centrosinistra che ha bisogno di idoli in mancanza di classe dirigente, che nel suo ruolo di souvenir del centrosinistra che c’era ci fa sapere che non sarebbe «un tabù l’ingresso di Forza Italia». Dicendolo come ci ha abituato a dire le cose Romano Prodi, a lato di qualche altro evento o mentre viene incrociato per caso da qualche giornalista durante la sua passeggiata mattutina. L’innesco funziona perfettamente: è tutto un profluvio di riabilitazioni politiche e di venute in soccorso verso il Cavaliere caduto in disgrazia con frasi che superano la semplice circostanza e che addirittura mostrano una sfrenata volontà di riabilitare in fretta quella classe dirigente che fu senza l’impiccio del Movimento 5 stelle e senza i populismi di Salvini e di Meloni: il sogno di un centrosinistra e di un centrodestra che rimangano soli nell’arco elettorale e che fingano di farsi la guerra lavorando sotto traccia per la pace è il desiderio recondito di molti dirigenti che ancora non hanno fatto pace con ciò che è successo in Italia negli ultimi dieci anni. In mancanza di un vocabolario per leggere e per scrivere il presente preferiscono rimettere in piedi quel passato in cui nuotavano così agilmente.

Ma, seriamente, cos’è tutto questo baccano sulla riabilitazione di Berlusconi? Proviamo a fare due conti, passo passo, analizzando le diverse situazioni dei personaggi in commedia. Prodi, innanzitutto, è quello che nemmeno troppo segretamente aspira alla presidenza della Repubblica e sa benissimo che per riuscirci ha bisogno dei voti di un centrodestra che in tutti questi anni l’ha demonizzato e l’ha indicato come la causa di tutti i mali europei: per assurdo…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 luglio

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Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

cosa è cambiato in meno di un anno?

Il Sole24Ore (tipico quotidiano comunista, eh) ripercorre i passaggi dal Governo Letta al Governo Renzi. E le domande che ci poniamo anche noi:

Quasi un anno fa la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Renzi sull’Italicum e sul Colle, votava in una direzione del Pd un documento per sfiduciare Enrico Letta e portare a Palazzo Chigi l’attuale premier. In meno di un anno l’ennesima virata.

Era il 14 febbraio di un anno fa quando Enrico Letta si dimise da premier dopo una direzione del Pd che lo aveva sfiduciato. Furono 136 i voti a favore dell’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, una staffetta – si disse – per avviare una nuova fase del Governo e del partito e affrontare le europee di maggio. In quella direzione Pd, di fatto, a favorire il cambio di premier fu la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Matteo Renzi sull’Italicum e sul Quirinale. Tra quei 136 voti c’era tutta la minoranza bersaniana, cuperliana e dei giovani turchi, solo i 16 di Civati votarono contro e in due si astennero, Stefano Fassina e la bindiana Margherita Miotto. Insomma, la stessa corrente che contribuì alla fine dell’Esecutivo Letta e all’arrivo di Renzi oggi lo accusa di essere anti-democratico sull’Italicum, di fare patti oscuri con Berlusconi, di aver varato provvedimenti economici di destra come il Jobs act. Ma allora perché ne favorirono l’ascesa a Palazzo Chigi senza nemmeno passare per le urne?

Non si può usare l’argomento di un cambiamento di personalità del segretario Pd in questi ultimi mesi: le bordate alla Cgil le aveva lanciate durante le primarie, i primi provvedimenti sul lavoro li ha fatti prima delle europee, la rottamazione l’aveva compiutamente spiegata e applicata e il patto del Nazareno era già nato quasi un mese prima di quella direzione di febbraio. Dunque, non c’era nulla che non si sapesse di Renzi, neppure l’accordo con l’ex Cavaliere è stata una sorpresa.

La domanda resta: cosa è cambiato in meno di un anno? E a questa se ne affianca una più profonda che non ha a che fare solo con il premier ma con il Pd nel suo complesso. E cioè un partito di maggioranza relativa – quale è oggi il Pd – si può permettere di fare inversione di marcia ogni nove, dodici mesi? Si può permettere un’assenza di strategia a medio termine e continuare a bruciare leader e Governi come se niente fosse? Perché non è solo Renzi che è finito nel tritacarne. Prima di lui è toccato a Pierluigi Bersani, poi a Letta e ora a lui. In meno di due anni il Partito democratico, il più votato dagli italiani, ha messo alla graticola tre leader ma quello che è più grave è l’improvvisazione con cui crea e distrugge posizioni politiche. Il Pd, minoranza inclusa, ha votato il pareggio di bilancio e poi l’ha messo all’indice, dal 2011 al 2012 ha votato insieme a Berlusconi il Governo Monti e poi lo ha rinnegato. E soprattutto nella primavera 2013 ha votato le larghe intese insieme al Pdl di Berlusconi – che era nella maggioranza di Governo – mentre ora vuole stracciare il patto del Nazareno che è sulle riforme. Il risultato è la confusione, una assenza totale di criteri politici che vivano più di sei mesi. Una continua navigazione a vista.

La questione non è solo come andrà a finire sull’Italicum e, la prossima settimana, sul Quirinale. Non è la sopravvivenza o no di Renzi ma se il partito di maggioranza relativa, il Pd, non cominci a essere la vera mina vagante per le istituzioni e per il Paese. Una mina non solo vagante ma incomprensibile. Questo continuo cambiare giudizio su punti strategici di una legislatura sta portando il Pd a trasformarsi da partito a “movida”. Senza una bussola e con identità multiple. Altro che primarie, il problema è a Roma e in Parlamento.

L’educazione di lasciarli fare

Dopo alcuni giorni convulsi ho avuto modo di leggere il botta e risposta tra Eugenio Scalfari e Stefano Rodotà. Anzi: ho letto l’attacco bilioso di Scalfari a Rodotà in un editoriale “normalizzante” che ancora una volta lascia a Repubblica il diritto di decidere la dignità politica di qualcuno. Il passaggio di Scalfari che testimonia la temperatura dell’arroganza potrebbe essere questo:

L’Italia l’hanno fatta Mazzini, Cavour e Garibaldi, diversissimi tra loro ma oggettivamente complementari. E se vogliamo giocare alla torre e si deve scegliere tra Gramsci e Togliatti, scelgo Gramsci. E se debbo scegliere tra Andreotti e Moro scelgo Moro. Tra Togliatti e Berlinguer scelgo Berlinguer. Infine scelgo Napolitano perché, purtroppo per noi, non trovo altro nome da contrapporgli. Ti chiedo scusa, caro Stefano, con tutto l’affetto e la stima che ho verso di te, ma il nome Rodotà in questo caso non mi è venuto in mente.

La sensazione (terribile per una certa stampa politica che vorrebbe smarcarsi dalla “rete” e ci riesce solo per l’evidenza dei condizionamenti) è ancora una volta che si costruisca un’ipotesi di Governo e poi si cerchino le parole per una narrazione credibile di un percorso logico. Ma trovare una certa logicità al “niet” su Rodotà che non ha avuto nessuna spiegazione chiara e discutibile (cioè: da potersi discutere) lascia il terribile sospetto che alla fine sia successo ciò che non auguravo al centrosinistra italiano proprio qui.

Fin troppo facile per Rodotà rispondere (sempre su Repubblica):

Non contesto il diritto di Scalfari di dire che mai avrebbe pensato a me di fronte a Napolitano. Forse poteva dirlo in modo meno sprezzante. E può darsi che, scrivendo di non trovare alcun altro nome al posto di Napolitano, non abbia considerato che, così facendo, poneva una pietra tombale sull’intero Pd, ritenuto incapace di esprimere qualsiasi nome per la presidenza della Repubblica.
Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità.

Ma è la controreplica di Scalfari che chiarisce perfettamente lo status quo politico:

4. Resta il fatto che il governo che sta per nascere non deriva da una concertazione tra i partiti che lo appoggiano. Sarà un governo del Presidente e i voti per fiduciarlo verranno dati a quel governo. Un tempo si chiamavano “convergenze parallele” e questa credo sarà la natura politica del governo stesso, né più né meno come il governo Monti quando nacque nel novembre 2011.

5. Se il risultato sarà positivo ai fini dell’uscita dalla recessione ed anche dalla costruzione di un’Europa federale che è a mio avviso indispensabile in un mondo globalizzato, allora questo governo che a Rodotà sembra scellerato riconsegnerà il proprio mandato con un Paese finalmente rafforzato e solido. Chi verrà dopo  –  sempre che i risultati corrispondano alle aspettative  –  dovrà lodarlo insieme al Capo dello Stato che l’ha reso possibile ma, per l’esperienza che ho, posso fondatamente supporre che sarà invece ricoperto dai vituperi di chi senza essersi sporcate le mani riceverà un bel dono che non gli sarà costato sicuramente nulla.

Ecco, insomma: ci dicono lasciateci fare, come avete fatto con Monti in nome delle “convergenze parallele” senza rendersi conto che ci siamo stancati di non vederne la fine. E sospettarne il fine, però.

Il silenzio è SLA

E’ una protesta solo con gli occhi. Non è facile essere malati di Sla, nemmeno protestare, del resto. Eppure per richiamare l’attenzione del Governo Monti Sono più di 70 pazienti, tutti in condizioni gravi e gravissime, tracheotomizzati e allettati, che hanno deciso di accendere i riflettori sulla loro condizione per chiedere il diritto ad una vita decorosa. Perché quando si convive con patologie neurodegenerative progressive, come Sla, distrofia muscolare e sclerosi multipla, serve assistenza a ogni ora del giorno.

Un piano per l’autosuficienza. 
C’è chi vive a Roma, chi a Torino, chi a Cagliari. Eppure sono riusciti a superare la distanza e le difficoltà e a formare il Comitato 16 novembre. Fra le priorità di quest’associazione, c’è quella di realizzare al più presto un Piano nazionale per l’autosufficienza. “Il governo ha destinato parte dei 658 milioni della legge sulla Spending Review alla non autosufficienza, ma ancora non c’è un piano per la destinazione delle risorse – spiega da Grosseto Laura Flamini, malata di Sla e presidente del Comitato 16 novembre onlus -. Ora chiediamo che i tre ministeri Finanze-Welfare-Sanità ci incontrino per discutere di un piano organico e strutturale per l’assistenza ai non autosufficienti. Fra le nostre richieste c’è anche la disponibilità di una parte non definita dei 650 milioni del fondo destinato ai disabili gravi per assistenza domiciliare”.

Uno di loro, Alberto Damilano, tiene un diario su La Stampa e descrive il silenzio che c’è tutto intorno:

Sono sinceramente stupito dall’indifferenza dei media. Invece dei tecnici bocconiani che dispensano supposte venefiche e bon ton ho già detto ieri.

L’unica che ogni tanto dice quel che pensa è la Fornero, salvo educatamente adombrarsi quando gli altri dicono quel che pensano di lei.

Mi stupisco invece del silenzio dei grandi quotidiani e dei canali Rai e Mediaset. Intervista mia a parte, peraltro sul tg regionale, so che lunedì sia rai 3 che canale 5 hanno registrato analoghi servizi a casa di due altri malati, salvo poi non mandarli in onda. Qualcuno dei miei compagni di lotta pensa che sia un boicottaggio, un caro amico del mestiere mi ha spiegato che l’ambiente è «intorpidito», fa più notizia la gaffe di un ministro che 62 malati gravi che rischiano la vita (il numero di chi mette in atto lo sciopero cresce di giorno in giorno). Anch’io credo che le cose stiano così. Certo, cinicamente, se «ci scappasse il morto» tutto cambierebbe. Quel che non capiscono è che, poiché facciamo sul serio, «il morto ci scapperà».

Fortunato il paese che non ha bisogno di eroi, diceva Brecht. Aimè, non è il nostro caso.

 

Uccidere l’antimafia

Per avere un termine di paragone, basti pensare che nel 2001 erano iscritti a bilancio della Dia 28 milioni di euro. Ci si credeva, era la creatura di Giovanni Falcone, che per primo comprese l’importanza di avere un’unica struttura (polizia, carabinieri e finanza) per affiancare i magistrati impegnati nella lotta alla mafia. E invece oggi non solo il personale è sotto-dimensionato (mancano circa 200 unità), si creano gruppi interforze ad hoc per il controllo degli appalti (quando la Dia ha già, al suo interno, un Osservatorio centrale sugli appalti), e si decurta il Tea, ma quello stesso Tea non viene neanche pagato: sul Viminale pesa un ricorso presentato da 500 tra ufficiali e sottufficiali che non si sono visti corrispondere, come del resto tutti gli altri colleghi, l’indennità dal novembre 2011.

Lo scrive Il Fatto Quotidiano. La chirurgica, lenta ma continua distruzione della DIA prosegue senza intoppi e sopravvive ai cambi di governo. Ora è l’azione del Governo Monti. Se l’avesse fatto qualcun altro avremmo gridato allo scandalo. Saremmo scesi in piazza. Ecco. Facciamolo.

Fatelo voi. Fatelo per l’Italia non per voi stessi. Non perché siete ribelli, ma perché siete onesti.

La conversazione con Giambattista vira su altro, sull’ oggetto dei suoi studi, sulla politica, su temi specifici che interessano entrambi, sul suo prossimo libro, dedicato al gruppo parlamentare della sinistra indipendente. Non finiremmo mai di parlare e siamo come i clerici vagantes medievali, certi del valore della conoscenza e del sapere oggi come allora, quando quel sapere creò l’Europa che tutti inseguono senza saperne granché. Ci sentiamo però come degli anarchici, quando anarchici non siamo.  Siamo quelli che son tornati per rimanere. Io ho mollato, non faccio più ricerca, insegno a Palermo. Lui combatte a Catania e ha tutto il mio appoggio e sostegno. Forse nel mio caso il paese ci ha guadagnato un insegnante motivata, soddisfatta e fiera di quello che fa, piuttosto che un’esperta di arte barocca, ma quando guardo, come in questo istante, i libri della mia vita, nello scaffale accanto alla mia scrivania, subisco per intero il fallimento e il dolore di una vita che poteva essere diversa, perché la mia vita è quei libri. Anche se del fallimento ne ho fatto un’opportunità.

Oggi compio 45 anni e sono la Generazione Perduta, arrabbiata tanto da non volerne sentire parlare in modo inutile. Dico adesso a chi ha vent’anni, ascoltate Giambattista: denunciateli quando vi rubano il futuro in modo illecito. E’ inutile aspettare una legge che controlli,  punisca o verifichi in modo serio le irregolarità ovunque siano, non ve la faranno, non costoro. Fatelo voi.  Fatelo per l’Italia non per voi stessi. Non perché siete ribelli, ma perché siete onesti. 

L’amica Mila Spicola intervista Giambattista Scirè, il giovane storico catanese che ha denunciato l’irregolarità di un concorso universitario per un posto da ricercatore a tempo indeterminato. E la generazione perduta di cui con molta superficialità ha parlato Monti si rivela con le idee chiare sul tema del sistema di reclutamento universitario, sull mondo politico, quello della sanità, quello delle imprese, quello, più in generale, del lavoro in Italia. Da leggere. Qui.

La svolta, i confini, le idee. Appunto.

Giuliano Pisapia cassa l’idea del listone nazionalpopolare dei sindaci (Io la penso così: il compito dei sindaci è portare a termine il mandato che hanno ricevuto, dunque governare le città. Non esistono gli uomini della provvidenza, nemmeno gli unti del Signore, dice) e segna il confine. Molto bene, tra l’altro. Così, mentre qualcuno raglia, in fondo da Milano (e in Lombardia) si lavora. Con le idee chiare e non interpretabili.

Questa idea sembra condivisa oggi da Pd e Sel. Vede la possibilità che possa coinvolgere anche i centristi?
«Questo progetto non passa e non può passare con l`ingresso dell`Udc nella nostra coalizione. Il centrosinistra deve essere capace di rinnovarsi, di aprirsi alla cittadinanza, ai delusi e disillusi della politica. È necessario un cambiamento interno alla coalizione come
svolta, con le elezioni, rispetto all`attuale governo. Un`alleanza capace di governare ma profondamente alternativa al centrodestra e che faccia scelte di politica economica e sociale diverse da quelle del governo Monti, che comunque dobbiamo ringraziare per averci restituito credibilità internazionale ed averci evitato un collasso definitivo».

Però anche Casini sta all`opposizione e potrebbe essere importante per una futura maggioranza…
«Basta leggere la carta di intenti del Pd e le proposte di Sel per comprendere che Casini non è parte di questa coalizione. La sua posizione su temi sensibili e fondanti – non solo su temi eticamente sensibili, ma anche su temi economici e sociali – è diversa. Anche Casini, però, fa una proposta alternativa a quella di Berlusconi. Bene, questo significa che il centrosinistra in Parlamento potrà confrontarsi con il centro e cercare convergenze. Così come potrà avvenire con altre forze presenti in Parlamento non di destra. È indispensabile però che ci sia un denominatore comune condiviso tra chi vuol far parte della coalizione progressista che si candida al governo».

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