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Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

(continua qui)

Così i centri di accoglienza sono serbatoi di nuovi schiavi

Seguite terrelibere.org, comprate i loro libri. Perché di questi tempi la realtà raccontata con lealtà diventa rivoluzionaria e perché sono bravi e seri. E scrivono inchieste così, come questa del bravissimo Antonello Mangano:

I centri di accoglienza? Hotel dove migranti nullafacenti intascano 35 euro. È il luogo comune più diffuso tra gli italiani. Che si arrabbiano parlando di parassiti che mangiano e dormono. Di proteste per il wi-fi. Di soldi rubati ai bisognosi italiani.

Ma è davvero così? Un pezzo di realtà è rimasto nascosto. Troppi centri di accoglienza sono diventati serbatoi di manodopera a costo zero. Il fenomeno coinvolge tutta la penisola. Dalla Toscana alla Sicilia.

Il vino del Chianti

“Due profughi, ospiti nel centro di accoglienza, hanno avuto il coraggio di denunciare i propri aguzzini, assistiti dagli operatori che per primi si sono accorti delle anomalie e hanno dato il là alle indagini”, si legge nelle cronache locali di Prato. “I punti di raccolta dei braccianti, a decine ogni giorno, erano i giardini di via Marx. Da lì, ogni mattina all’alba, partivano furgoni e camion carichi di persone”.

L’inchiesta si chiama “Numbar Dar” e risale al settembre del 2016. È importante perché spiega che nel Chianti – tra fattorie storiche nate negli anni ’20, vigneti verdeggianti e dolci colline – le aziende ricorrevano alla manodopera a basso costo disponibile.

centri di accoglienza
Colline del Chianti @Alessandro Valli © Flickr CC

 

Quella dei centri di accoglienza, con i richiedenti asilo subsahariani in attesa dei documenti. Quella dei migranti già presenti sul territorio, che avevano bisogno di un contratto fittizio per non perderli, i documenti.

Era un sistema a stradi. Il caporale pachistano, i consulenti di Prato – abili a falsificare buste paga – e i titolari delle aziende vinicole, definiti dalla Procura “protagonisti e mandanti del sistema di reclutamento”.

Le vittime erano centinaia di migranti erano vittime del sistema. Lavoravano fino a dodici ore al giorno per 4 euro l’ora e venivano spesso picchiati.

Nelle giornate di picco della raccolta dell’uva, i viaggi da Prato a Tavarnelle Val di Pesa erano due al giorno. I caporali privilegiavano i connazionali pakistani: solo a loro era concesso del cibo e un po’ di acqua. Se occorrevano altre braccia, venivano chiamati a lavorare alla giornata anche richiedenti asilo africani, vittime di maggiori soprusi e trattamenti discriminatori. Ai “negri” – così venivano chiamati – non si dava da bere e li si lasciava lavorare a piedi nudi nei campi.

Il “capo villaggio” era richiesto da aziende nate negli anni ’20 nelle famose colline del Chianti

Il “capo” sarebbe un trentottenne pachistano che procurava la manodopera, gestendo ben 161 persone, quasi tutti connazionali, che risultavano alle dipendenze delle ditte aperte dal caporale. Le assunzioni fittizie erano comunicate a Inail e Inps, in modo da evitare i controlli.

Nella realtà, però, i miseri compensi erano pagati in nero. Tasse e contributi venivano evasi sistematicamente. I caporali inviavano subito in Pakistan i guadagni, per decine di migliaia di euro al mese. Non avevano alcun bene “aggredibile” dal fisco italiano, con l’eccezione di un’auto.

Per le aziende, però, erano la più efficiente delle agenzie interinali. Un bacino di manodopera inesauribile a prezzi stracciati. Pronto per l’uso.

Le pecore della Sila

Come si comportano i responsabili dei centri di accoglienza quando vedono movimenti strani intorno ai loro ospiti? Alcuni favoriscono le denunce. Altri fanno finta di niente. Altri ancora sono i caporali stessi.

Una trentina di ragazzi – senegalesi, nigeriani e somali – sono riconosciuti come rifugiati. A questo punto devono essere inseriti nella società italiana. Invece erano impiegati come braccianti e pastori nei pressi di Camigliatello Silano, provincia di Cosenza.

Dovevano inserirsi nella società. Invece facevano i pastori sugli altopiani calabresi

“Vestiti in maniera approssimativa nonostante il freddo inverno silano, i ragazzi erano obbligati a lavorare per oltre dieci ore al giorno nei campi di patate o di fragole come braccianti, o come pastori incaricati di badare agli animali al pascolo sull’altopiano silano. Un lavoro duro, pesante e retribuito meno di 15-20 euro al giorno”, scrive Alessia Candito su Repubblica dello scorso 5 maggio.

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L’ingresso del Cara di Mineo

 

“Formalmente, i ragazzi risultavano regolarmente presenti nei due centri di accoglienza, dove – recitano le carte – si svolgevano tutte le attività previste dai programmi di assistenza ai rifugiati. Ma era solo una menzogna. I ragazzi venivano di fatto doppiamente sfruttati. Come manodopera a basso costo nei campi e come pretesto per ottenere finanziamenti”.

Le arance dell’Etna

L’ex dittatore del Gambia ha praticamente evacuato il paese. Per anni la popolazione ha lasciato in massa uno tra i peggiori regimi africani. Dal 1994, Yahya Jammeh ha lasciato una lunga scia di cadaveri. All’inizio aveva 29 anni e la passione del wrestling. Poi decise di combattere l’omosessualità “come fosse la malaria” e affermava di aver trovato rimedi contro l’asma e l’Aids.

Marcus, lo chiameremo così, come tanti suoi connazionali ha deciso di lasciare il dittatore al suo destino di sangue. Il suo sogno non era l’Europa, ma la Libia.

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“Mi hanno detto che lì c’era lavoro ovunque, mentre la guerra era solo in zone circoscritte”. La prima notizia era vera, la seconda no. La guerra è ovunque, così come il razzismo. E anche sul piano del lavoro le cose non vanno bene. “I libici ti prendono per fare dei lavori ma alla fine non ti pagano, e se ti ribelli, ti puntano un’arma e ti minacciano”.

Tornare in Gambia è impossibile. L’unica via di fuga è l’Italia. Arriva a Lampedusa dopo un giorno di mare con il gommone. Giorni ad aspettare, poi deve lasciare le impronte. Un gesto che lo costringerà a rimanere in Italia.

Mi hanno detto che in Libia c’era lavoro e che non c’era la guerra

Lo portano a Mineo. Qui inizia la lunga attesa. Una lunga procedura burocratica in attesa di incontrare la commissione. Poche persone che decideranno del tuo destino.

I giorni passano sempre uguali. A volte danno un pocket money da 2,5 euro al giorno, a volte sigarette e una carta telefonica. “Ma io non fumo. Mi servono soldi da mandare ai miei genitori malati”, dice Marcus.

Tutti i migranti del centro hanno presentato richiesta d’asilo. Chi la ottiene avrà i documenti. Gli altri dovrebbero essere espulsi. Per avere una risposta possono servire anche due anni. Altrettanti per il ricorso in caso di diniego. Che fare durante tutto questo tempo? Dopo pochi mesi un richiedente asilo può avere un permesso temporaneo e lavorare regolarmente. Ma chi assume, in Sicilia, un africano che rischia l’espulsione?

Dunque si può scegliere tra limbo e schiavitù. Mineo è un’isola in un mare di aranceti. Basta un rapido giro per incontrare estensioni senza fine. Piccoli proprietari e grandi latifondi. Durante la raccolta, tutti hanno bisogno di braccia. I padroni senza scrupoli scelgono quelle a basso costo.

Ci danno da bere e qualcosa da mangiare durante il giorno e a fine giornata ci pagano 10, massimo 15 euro

“Ho comprato una bicicletta qui dentro per 25 euro. Ogni giorno, aspettiamo le otto. È l’orario di apertura, prima non si può. Stiamo dietro i cancelli, come in gabbia. Poi le porte si aprono e cerchiamo qualcuno per la giornata”, si legge nel rapporto “FilieraSporca 2016”. I padroni dei campi di arance cercano manodopera a costo zero. Gente ricattabile, che non ha documenti o ha documenti precari. E che ha bisogno di soldi.

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Recinzioni nei pressi del Cara di Mineo

 

Le condizioni di lavoro sono durissime. Ma non è questa la cosa più grave. Dove vanno a finire le arance raccolte dai rifugiati? Fanno parte di un circuito illegale parallelo? Oppure confluiscono nel normale flusso che porta al succo delle multinazionali?

Accanto al Cara ci sono i magazzini di conferimento, dove i produttori portano le arance. E ci sono le industrie di trasformazione. Che vendono ai maggiori marchi, dai supermercati alle multinazionali del succo.

Tra le arance che finiscono nel normale circuito distributivo possono esserci anche quelle raccolte dai richiedenti asilo del Cara? “Diciamo che può essere una realtà”, dice il presidente di una cooperativa che si trova nei pressi di Mineo. Noi siamo un punto di incontro per i produttori ma se qualcuno di loro mette al lavoro persone provenienti dal Cara non è nelle mie competenze verificarlo. Quello che posso fare io è sensibilizzare i produttori a una cultura del lavoro differente”.

Il pomodoro del ragusano

Nel giugno 2017 la polizia arresta alcuni imprenditori di Vittoria che utilizzavano operai gravemente sfruttati: 19 richiedenti asilo, 2 tunisini e 5 romeni. Questi ultimi vivevano in abitazioni fatiscenti nei pressi dell’azienda, 40mila metri quadri di coltivazioni. Si tratta di uno dei primi provvedimenti nati dalla nuova legge “anti-caporalato”.

Ma i segnali erano tanti. Basta girare per le campagne all’ora del tramonto per vedere decine di richiedenti asilo africani che tornano ai centri di accoglienza. È lì che è nato negli ultimi anni un nuovo caporalato. Il CAS (centro di accoglienza straordinaria) può essere un piccolo albergo, un posto per anziani, un casolare nel nulla. Qui i migranti attendono la risposta alla richiesta d’asilo. I più fortunati aspettano un anno, chi presenta ricorso anche quattro.

C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, c’è chi ha perso l’equilibrio mentale

In un centro sperduto nelle campagne incontriamo persone molto diverse tra loro. C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, chi ha perso l’equilibrio mentale dopo le torture subite in Libia. Tutti vogliono mandare i soldi a casa. Nelle campagne si prende quello che offrono i caporali. I numeri non sono enormi – si parla di un centinaio di persone – ma hanno abbassato ulteriormente il costo del lavoro.

centri di accoglienza
Migranti tornano dal lavoro nel ragusano

 

“Tanto hai da mangiare e da dormire”, dicono i padroni. Se qualche anno fa i tunisini sindacalizzati prendevano 50 euro al giorno, oggi siamo arrivati a 7-10 con gli africani in attesa d’asilo. A fine giornata, c’è gente pagata con una manciata di monete.

In tutta Italia, ci sono centri di accoglienza gestiti bene, da gente che ci crede. In ogni caso, i centri ospitano migranti arrivati in Europa per mandare soldi a casa. Subito. Così, chi si trova in città, a volte finisce per chiedere l’elemosina di fronte al supermercato. Chi viene sbattuto in campagna, facilmente diventa vittima dei caporali. In attesa di un pezzo di carta, di documenti che possano portare a riprendere in mano la tua vita e a giocarti le tue opportunità.

«Gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno»: lo dice l’INPS

Un articolo de La Stampa che vale la pena leggere (prima di commentare):

Quante volte l’avete sentito dire? Quante volte vi siete fatti irretire dalla rassicurante convinzione che gli immigrati rubano lavoro e futuro? Lo sospetta persino Bakari, uno dei giovani africani che ogni mattina pulisce le strade di Roma Nord nel timore di essere arrestato. Non ha bisogno di molto: una ramazza, una paletta, due pezzi di cartone con cui – quasi scusandosi per il disturbo – chiede in italiano qualche centesimo e una manciata di dignità. A Roma l’inefficienza dell’Ama ha raggiunto un livello tale da trasformare truppe di irregolari nel più straordinario spot a favore dell’integrazione. Bakari si aggira attorno a una grande struttura della Polizia, e nessuno sente il bisogno di distoglierlo dalla rimozione meticolosa delle ortiche ai lati di un marciapiede più simile a quelli di Accra che di una capitale europea. Meno male che Bakari c’è: secondo la più classica delle regole del mercato, colma la domanda inevasa di decoro di una città sull’orlo perenne del collasso finanziario.

Gli immigrati non rubano il lavoro agli italiani, né – se regolari – spingono al ribasso i salari. Non è l’opinione parziale di un romano o di anime belle. Lo dice con dati inoppugnabili una recente ricerca di tre studiosi: Edoardo di Porto dell’Università Federico II di Napoli, Enrica Maria Martino del Collegio Carlo Alberto di Torino e Paolo Naticchioni di Roma Tre. Non è l’unico studio sul tema, ma è il primo che censisce un intero campione di immigrati. Lo hanno fatto grazie ad una borsa VisitInps, il progetto voluto dal presidente Tito Boeri che mette a disposizione della ricerca l’enorme mole di dati dell’Istituto di previdenza. I protagonisti dello studio sono i 227mila lavoratori di 107.000 imprese private (esclusa l’agricoltura) emersi grazie alla più grande sanatoria mai effettuata in Italia, quella decisa a settembre 2002 dal secondo governo Berlusconi che regolarizzò 650mila persone. Le due sanatorie successive furono drasticamente inferiori: nel 2009 furono accolte 222mila richieste su 295mila, nel 2012 passarono appena 60mila richieste su 134mila. Il numero di extracomunitari in rapporto alla popolazione in Italia è volato in quindici anni: dall’1,7 per cento del 1998 all’8 del 2012. Oggi quella crescita è azzerata o quasi: gli immigrati censiti in Italia sono poco più di cinque milioni, due terzi dei quali extracomunitari. In Francia sono 4,3 milioni (ma con un altissimo numero di immigrati di seconda e terza generazione), in Germania i residenti stranieri sono ben sette milioni e mezzo.

Il crollo

Se una volta gli immigrati si fermavano in Italia per cercare fortuna, oggi la gran parte di loro si spinge verso nord. Fra il 2008 e il 2013 i permessi di soggiorno per lavoro sono passati da 738mila a 1.442mila, ma negli ultimi anni la progressione è calata fino ad azzerarsi: nel 2013 sono stati appena lo 0,46 per cento in più dell’anno precedente. Chi non ha potuto avere il rinnovo annuale del permesso è lentamente scivolato nel lavoro irregolare. Danesh Kurosh del dipartimento immigrazione Cgil spiega che la progressiva chiusura dei decreti flussi sta ingrossando il sommerso: oggi quelli che lavorano senza una regolare posizione contributiva sono almeno 500mila.

Cosa accadeva quando l’Italia era invece fra i principali Paesi di destinazione e accettava di buon grado le regolarizzazioni? La novità della ricerca Inps è nella precisione dei dati a disposizione: la sanatoria di fine 2002 imponeva alle imprese di assegnare a ciascun lavoratore emerso un codice rimasto negli archivi dell’Istituto.

I numeri  

A fine 2003, appena un anno dopo, nove di quei dieci immigrati lavoravano ancora in Italia. Dopo cinque anni erano ancora l’85 per cento. Ma la cosa ancora più sorprendente è che dopo due anni solo il 45 per cento di quel campione era impiegato nella stessa impresa, dopo cinque più di un lavoratore su tre aveva cambiato provincia. «I dati suggeriscono che queste persone erano e sono disposte ad una mobilità che gli italiani non hanno mai avuto», spiega Di Porto. Per intenderci: la probabilità di cambiare impresa per un lavoratore italiano negli ultimi trent’anni è stata appena del 15 per cento. Inoltre «la persistenza nel mercato italiano associata al rapido cambiamento di impresa e residenza dimostra un eccesso di domanda insoddisfatta per mestieri a bassa qualifica». Questi numeri confermano una tendenza che si noterà anche negli anni della crisi. Linda Laura Sabattini dell’Istat ha fatto notare che mentre i posti scendevano nell’industria, nell’edilizia, nel commercio, gli occupati stranieri aumentavano comunque nei servizi alle famiglie e nella ristorazione: riecco la domanda inevasa. L’evidenza dei numeri Inps non solo conferma l’utilità della forza lavoro immigrata, ma smonta un altro falso mito, ovvero la presunta spinta al ribasso dei salari. Nei dati il fenomeno emerge solo nei primi tre mesi: le retribuzioni medie degli emersi fanno scendere di circa il 16 per cento il salario delle imprese che li regolarizzano. Ma in meno di un anno quel gap si chiude. La sanatoria della Bossi-Fini produsse l’emersione di due-tre lavoratori a impresa nell’arco di tre mesi. Sei mesi dopo il numero degli occupati era lo stesso, a dimostrazione che la gran parte delle aziende, se nelle condizioni di farlo, non aveva interesse ad occupare irregolari.

Raccontare con dovizia di dettagli la storia di ieri aiuta a capire cosa fare oggi e domani. Il ministro dello Sviluppo tedesco Gerd Mueller stima che dall’Italia solo quest’anno potrebbero transitare fino a quattrocentomila persone, il doppio dell’anno scorso, venti volte quelle sbarcate nel 1997. La mera chiusura delle frontiere rischia di scaricare decine di migliaia di Bakari sulle strade italiane. Il ministro Marco Minniti propone di utilizzare i richiedenti asilo nei Comuni e per lavori di pubblica utilità, ma in mezzo a quelle decine di migliaia di persone ci saranno molti migranti economici. Dimenticate per un momento l’esodo di cinque milioni di siriani, o la tragedia della Libia orfana di Gheddafi. Sui barconi che dal Mediterraneo si spingono lungo le cose siciliane ci sono anzitutto migranti in cerca di fortuna. Giovedì scorso a Pozzallo sono arrivate su una nave 428 persone: più di trecento erano marocchini.

Gli emersi dalla sanatoria 2002 erano quasi per la metà (il 45 per cento) dipendenti in due settori, manifattura e costruzioni. Dopo cinque anni quella percentuale era salita al 60 per cento: una conferma in più della tendenza degli immigrati a compensare la scarsa offerta di manodopera. Liliana Ocmim è peruviana, vive in Italia da 25 anni, ha tre figli e fa la presidente del dipartimento immigrati Cisl: «Come è possibile che i giovani italiani all’estero siano disponibili ai lavori umili che qui rifiutano?» La risposta è amara, e dice molto dei problemi del Belpaese.

Immigrati mobili  

Negli anni della crisi la salvezza di quegli immigrati è stata ancora una volta la mobilità: «Molti sono rientrati nel proprio Paese dove hanno trovato il lavoro che qui avevano perso», racconta Mohamed Saady, edile e presidente della Anolf-Cisl. Ocmim allarga le braccia: «Questi numeri confermano quanto siano sbagliate le politiche di chiusura. Più il lavoro è irregolare, più aumenta la concorrenza al ribasso». La ricerca dice una cosa chiara: la sanatoria della Bossi-Fini non fu un regalo a persone poi tornate nell’illegalità, ma un riconoscimento a chi già lavorava in Italia ed è rimasto a lavorare in Italia.

Uno dei luoghi comuni sugli immigrati vuole che siano un salasso per lo Stato. E invece è vero il contrario. Pochi giorni fa a Biennale Democrazia Boeri ricordava che i lavoratori stranieri residenti in Italia versano otto miliardi di contributi sociali all’anno e ne ricevono tre in prestazioni. Vero è che molti di loro domani avranno una pensione, ma non tutti: l’Inps calcola che sin qui gli immigrati hanno regalato al sistema previdenziale 16 miliardi di contributi. Spiega Boeri: «Chiudere le frontiere produce solo tre risultati: più evasione contributiva, schiaccia i salari, aggrava i problemi sociali. Per far sopravvivere l’Europa occorre una politica comune dell’immigrazione, una gestione del problema dei rifugiati e la revisione della convenzione di Dublino. Ma è possibile crederci con i populisti al potere in cinque Paesi dell’Unione?».

(fonte)

Il mare, Nobel per la Pace

Ho provato ad affogare i miei dolori, ma hanno imparato a nuotare.

(Frida Kahlo)

Troppo liquido per sottostare alle perversioni architettoniche dei potenti che appendono le maschere del loro digrignar di denti a muri o fili spinati e troppo largo o lungo per essere piantonato da chi vorrebbe comprarsi tutte le strade per dettare i cammini degli altri: il mare premia gli esploratori con il cuore dolce nonostante i capelli infeltriti dal sale. Le onde di Lampedusa o di Lesbo indicano la via lattea dei soccorsi.

Il mare è antigovernativo perché in questi anni continua a bisbigliarci che non si possono incanalare i bisogni, ci insegna che la disperazione fugge ai recinti e che gli affamati muoiono di acqua nei polmoni piuttosto che lasciare vincere l’inedia. Se la politica rincorre decisioni stupide e inutili il mare se ne frega, continua a fare il mare. E il mare è così tanto che diventa ridicolo il tiranno quando, ubriaco da hybris, promette di asciugarlo per fargliela pagare.

Il mare e le sue coste hanno una legge non eludibile: si soccorre sempre, si soccorre tutti. Chissà quando è successo che una legge così semplicemente giusta sia stata buttata a mare e non ce ne siamo accorti. Il mare e i suoi abitanti l’hanno custodita per secoli e ce l’hanno portata fin qui.

E poi il mare è inesorabile: inghiotte i corpi che non siamo riusciti a salvare ma li sputa sulle coste. Sarebbe troppo semplice tenerseli in pancia: eccoli lì i nostri morti. Per avere cura della pace non bisogna avere pace delle nostre disaffezioni.

Ecco, io credo che stia facendo un gran lavoro, il mare. Lui, i suoi marinai e i suoi abitanti delle sue coste.

(il mio buongiorno per Left è qui)

Giovanni Falcone sulle gambe degli immigrati di Ballarò

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C’è un Paese con le fasce tricolori che inaugura vie, sale e monumenti. C’è un Paese per cui Giovanni Falcone è una tappa commemorativa obbligatoria tutti gli anni, come al Monopoli ogni volta che si passa dal via e si ritirano le ventimila lire. Parole e impegno che durano il tempo delle riprese dei telegiornali e poi si spandono in un effluvio di comunicati stampa tutti uguali, tutti gli anni, ogni anno.

Poi c’è una di quelle storie che ti viene da pensare che forse, a Falcone e Borsellino, avrebbero acceso un sorriso dello stesso sapore di quella foto di loro due che sorridono e che rimbalza dappertutto. Quando ridono, Falcone e Borsellino, hanno il sorriso luminosissimo di chi prende terribilmente sul serio il proprio mestiere: quel sorriso lì che fa il giro di tutta la faccia.

E l’alba di Ballarò, quartiere storico e maledetto di una Palermo impigliata tra i denti della mafia, ieri è stata un’alba da incorniciare, da farne un libro di storia: una decina di arresti tra gli esattori del pizzo nel quartiere. Soldatini prepotenti e scontati di una mafia che succhia la fragilità degli altri per farne sostentamento economico. In più le vittime questa volta non sono nemmeno italiane: commercianti arrivati dal Bangladesh che subiscono la violenza mafiosa con una punta di razzismo. Figurati se si ribellano ‘sti negri, avranno pensato questi quattro picciotti sgarrupati che vivono come zecche sulle schiene del lavoro degli altri.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

L’avamposto dell’accoglienza è italiano, sta a Lampedusa e ha la faccia di Giusi Nicolini

small_131021-143240_Bast211013Pol_0010-300x225Per questo ho voluto intervistare la sindaca di Lampedusa: “Noi siamo quelli normali e per fortuna oggi l’Europa se ne sta accorgendo. Dobbiamo imparare a emozionarci di fronte alle foto dei vivi piuttosto che dei morti”. E si augura “una grande, coraggiosa riforma dell’accoglienza” in questa “Europa che finalmente sta cedendo. A Lampedusa da anni l’organizzazione ha cancellato la paura”. Salvini “non intendo citarlo nemmeno”.

L’intervista è qui.