Vai al contenuto

informazione

Forse Valigia Blu è piena di buone notizie, per il giornalismo e non solo.

LogoHeader-VB-notextGli amici di Valigia Blu hanno proposto un questionario sul giornalismo e hanno pubblicato una prima analisi sui risultati qui. Ancora una volta è evidente come il giornalismo che i lettori sarebbero disponibili a pagare sia molto diverso da quello che sta come rumore di fondo in molti angoli della rete.

Del resto anche alcune esperienze internazionali ci indicano la strada dell’accuratezza come nuova via economicamente sostenibile. Ed, in fondo, è quello che ci auguriamo tutti. Ora rimane da vedere se i direttori e gli editori dimostreranno capacità di ascolto. O di lettura. Per rimanere in tema.

Informare gratis (purché si clicchi)

hand-pointer-iconCerto internet è bellissimo, è democrazia ed è libertà. Ma un riflessione sulla qualità dei contenuti (che poi mica vale solo per internet ma credo che oggi valga per qualsiasi professione, in questo Paese in cui è stata suicidata la meritocrazia) e penso che Luca Sofri abbia scritto un post sui cui valga la pena riflettere, qui.

Ora il giochetto è mischiare tutti: Tsipras, Farage, Salvini

Scritto per LEFT.

20150709_lepen_salvini-800x600Come volevasi dimostrare: dopo l’intervento di Tsipras al Parlamento Europeo il trucco è piallare le posizioni. Mentre il Corriere sottolinea gli applausi “dell’estrema destra e dell’estrema sinistra” si tenta di paragonare Tsipras ai sovversivi (e piuttosto banali) euroscettici.

La proposta di Tsipras (ne ha parlato anche nel suo discorso a Strasburgo di ieri) non è di uscire dall’Europa o dalla moneta unica e nemmeno di agire indisturbato senza responsabilità: l’Europa che ha in mente Tsipras è un’Europa che non passi dal falcidiare lo stato sociale ma anzi ne faccia una priorità, secondaria alle logiche finanziarie, se possibile.

Il Pse (come del resto avviene anche per il PD nazionale) ha bisogno di estremizzare le posizioni greche per condonare le proprie posizioni così compromesse: disegno orribilmente il mio avversario per ottenere almeno una certificazione di responsabilità.

Così la confusione fa gioco: sulla stampa Tsipras, Farage, Grillo e Salvini pari sono. Come dire: ci siamo noi che facciamo sul serio e gli altri che giocano a fare i rivoluzionari. Per questo continuo a credere che il momento europeo è anche una grande opportunità per condensare una sinistra (oggi piuttosto rarefatta) che si prenda la responsabilità di sradicare questa informazione disonesta. L’occasione è importante. Troppo importante.

Come dovrebbe essere

la-direttrice-shanno-e-il-redattore-vijay-588605_tn“Balaknama” o ‘“La Voce dei Bambini” è il trimestrale completamente scritto e gestito dai piccoli degli slum di New Delhi e letto da migliaia di persone. E’ scritto in hindi e si occupa delle storie dei minori che vivono e lavorano in strada, racconta della brutalità della polizia, dello sfruttamento e dei matrimoni forzati. Il sedicenne Chandni fa i reportage e sceglie  gli articoli da pubblicare insieme agli altri nelle riunioni.

Il quattordicenne Jyothi, che raccoglieva spazzatura, è un nuovo collaboratore, insieme a Shambhu, che di giorno lava le macchine e la notte lavora in un albergo. Shambhu dice che scrivere per il giornale è un sogno. Vuole pubblicare i nomi di tutti i bambini nella sua stessa situazione e spera che, come è capitato a lui, riescano a uscire dalla tossicodipendenza.

Shanno, la direttrice, ha 19 anni. Ha imparato a leggere grazie ad un’associazione benefica. Scrive lei le storie al posto di chi non è in grado di farlo ma vuole comunque farsi sentire.

In India vivono nelle baraccopoli ben 11 milioni di bambini. In 500.000, a New Delhi, vivono in terribili condizioni, senza accesso al cibo, alla sanità, all’educazione. Spesso non sono nemmeno censiti e non hanno documenti. Sulla carta, semplicemente non esistono. Le loro voci vengono raccolte da “Balaknama”. I giovani reporter non ricevono un vero e proprio stipendio ma una paghetta per coprire le spese. Dei costi di stampa se ne occupa la ONG “Chetna”, che vende le copie a una rupia l’una. I ricavi sono reinvestiti per migliorare le condizioni dei bambini di strada.

(fonte)

Caro collega, non ti chiedo l’eroismo, ma solo un po’ più di coraggio e di passione. (di A. Zanotelli)

Qualsiasi dominio dipende dai dominati. Anche quello dei media: lettori e giornalisti possono ogni giorno scegliere, possono ribellarsi.  Un appello di Alex Zanotelli ai giornalisti: “Mettete qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo”.  

Alex-ZanotelliCaro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari. Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti ,che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo.   Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale. Come missionario sono profondamente indignato per il pochissimo spazio dato alle gravi crisi che attanagliano il sud del mondo, in particolare dell’Africa, il continente più vicino a noi. (E solo grazie alle testate missionarie, che gira qualche notizia in più e non nel grande circuito dei media). Non riesco a capire come, per esempio, si parli così poco delle tragedie in atto in quel continente.   Penso all’ attuale guerra civile in Sud Sudan, con migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Penso alla drammatica situazione della Repubblica Centrafricana, dove si è innescata un’altra spaventosa guerra fratricida. Penso ai bombardamenti in atto nel Sudan contro il popolo Nuba, da parte dell’esercito di Khartoum. Penso a tutta la zona saheliana che vive una stagione di grave instabilità. Siamo di fronte a immensi drammi umani, a massacri di popolazioni inermi, a milioni di rifugiati che ora premono alle porte dell’Europa. E tutto questo in un incredibile silenzio stampa. Ricevo ogni giorno appelli di missionari che chiedono di far conoscere i drammi dei loro popoli . Ma è quasi impossibile far passare tutto questo nei media nazionali. Siamo di fronte alla ‘globalizzazione dell’indifferenza’, come ha detto papa Francesco a Lampedusa. Caro giornalista, mi appello a te, alla tua umanità, perché tu possa darci una mano a far conoscere il grido di dolore di tanti uomini, donne e bambini. Te lo chiedo perché porto, da una vita, nel mia carne, la loro sofferenza. Ma anche perché come giornalista, ho pagato caro l’aver detto la verità al potere. Caro giornalista, vorrei che anche tu potessi aiutarci, invitando i tuoi colleghi a fare altrettanto. Se tanti giornalisti della carta stampata, del web, della radio e della televisione dessero solo un piccolo contributo, avremmo un miracolo informatico. Caro collega, non ti chiedo l’eroismo, ma solo un po’ più di coraggio e di passione.

Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?

Io non so se ci si possa perdonare di non riuscire a sentire le guerre. Se davvero abbiamo il cuore così stretto e l’intelligenza così strabica da non occuparci di quello che succede in tutti i luoghi così dissimili da noi. Forse il nostro federalismo è una legittimazione di un egoismo che non vogliamo combattere perché ci risulta faticoso o forse perché la borsa delle preoccupazioni è già colma delle sole cose vicine.

Comunque: in Siria c’è la guerra. Guerra vera, guerra per strada senza armi troppo artificiali e con i bambini maciullati per terra. Guerra a morsi ma con troppo poco petrolio per diventare internazionale. Guerra raccontata come sappiamo s-raccontare noi quando vogliamo essere coccolati nella rassicurante idea collettiva delle guerre e della morte.

Francesca Borri, freelance in Siria, prova a chiedere una riflessione sulla narrazione della guerra e, sopratutto, sul ruolo dell’informazione:

Ma siamo reporter di guerra, dopo tutto, o no? Una band of brothers (e sisters). Rischiamo la nostra vita per dare voce ai senza voce. Abbiamo visto cose che la maggior parte delle persone non vedrà mai. Siamo un bel repertorio di storie per quando siete a tavola, gli ospiti cool che ognuno vuole invitare. Ma la sporca verità è che invece di essere uniti, siamo i nostri peggiori nemici; e il motivo per cui un pezzo viene pagato 70 dollari al pezzo non è che non ci sono soldi, perché ci sono sempre soldi per un pezzo sulle fidanzate di Berlusconi. La vera ragione è che se uno chiede 100 dollari, c’è qualcun altro che è pronto a farlo per 70. È la concorrenza più feroce. Come Beatriz, che oggi mi ha segnalato la strada sbagliata così sarebbe stata l’unica a coprire la manifestazione, e mi sono trovata in mezzo ai cecchini per colpa del suo inganno. Solo per coprire una manifestazione, come centinaia di altri.

Ma facciamo finta di essere qui per far sì che nessuno potrà dire “Ma non sapevo che cosa stava accadendo in Siria”. Quando in realtà noi siamo qui solo per ottenere un premio, per ottenere visibilità. Noi stiamo qui a competere l’uno contro l’altro come se ci fosse un Pulitzer alla nostra portata, quando invece non c’è assolutamente nulla. Noi siamo schiacciati tra un regime che ti concede un visto solo se sei contro i ribelli, e i ribelli che, se tu stai dalla parte loro, ti permettono di vedere solo quello che vogliono farti vedere. La verità è che siamo dei falliti. Due anni dopo, i nostri lettori a malapena si ricordano dove è Damasco, e il mondo istintivamente descrive ciò che sta accadendo in Siria come “quel caos”, perché nessuno capisce nulla di Siria — solo sangue, sangue, sangue. Ed è per questo che i siriani non ci possono vedere ora. Perché mostriamo al mondo foto come quella bambino di sette anni con una sigaretta e un kalashnikov. È chiaro che è una foto artefatta, ma è apparsa sui giornali e siti web di tutto il mondo a marzo scorso, e ognuno poteva urlare: “Questi siriani, questi arabi, che barbari!” Quando sono arrivata qui, i siriani mi fermavano e mi dicevano: “Grazie che state mostrando al mondo i crimini del regime”. Oggi un uomo mi ha fermato, e mi ha detto: “Vergognati”.

Se davvero avessi capito qualcosa della guerra, non avrei dovuto dimenticarlo cercando di scrivere di ribelli e lealisti, sunniti e sciiti. Perché davvero l’unica storia da raccontare in guerra è come vivere senza paura. Tutto potrebbe finire in un istante. Se l’avessi saputo, non avrei avuto così paura di amare, di osare, nella mia vita; invece di essere qui, ora, a stringere me stessa in questo angolo buio, rancido, a rimpiangere disperatamente tutto quello che non ho fatto, tutto quello che non ho detto. Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?

 

 

Il libro bianco per l’open data

Schermata 2013-03-26 alle 06.20.55L’Italia ha un grande bisogno di attivare fattori di crescita economica e sociale. La definizione di una solida e coraggiosa politica sulle informazioni del settore pubblico è forse, tra tutte, l’azione di governo in assoluto con il miglior rapporto costi-benefici, nonché quella che, tra tutte, dovrebbe registrare la più ampia convergenza tra tutte le parti sociali. Non di rado, attivisti open data e dipendenti pubblici volenterosi si offrono addirittura di iniziare progetti pilota su base volontaria: l’espressione di una volontà politica favorevole ai dati aperti è, spesso, tutto ciò che manca e l’investimento chiave da effettuare… per cui, non resta che provarci! Il processo di apertura dei dati è ancora all’inizio nel nostro paese. L’unica – provvisoria – conclusione è quella di citare Tim Berners-Lee, chiedendo “DATI – GREZZI – ORA!” e con licenze libere.

A proposito di open data (e del mio progetto di legge di cui scrivevo qui): Il Libro bianco per il riutilizzo dell’informazione del settore pubblico  redatto a cura di Federico Morando con il supporto di Raimondo Iemma e Claudio Artusio, al cui lavoro si aggiungono contributi puntuali di Mauro Alovisio, Eleonora Bassi, Juan Carlos De Martin, Alessandro Mantelero, Marco Ricolfi, Angelo Maria Rovati, Margherita Salvadori e Cristiana Sappa.

 

L’informazione si può fare quando ci si occupa della “casta”?

Beppe-GrilloScrivevo proprio qui qualche giorno fa delle normalizzazioni e delle strumentalizzazioni che Beppe Grillo (con la solita intelligenza utile) scrive per difendersi. Dicevo, appunto:  E’ la politica, bellezza. Stavate arrivando e ora siete arrivati.

Stefano Feltri riprende il tema (partendo proprio da qui) e lo sviluppa in modo interessante. Vale la pena leggerlo:

Benvenuto in politica, caro Beppe Grillo. Quando uno diventa un personaggio pubblico, specie se il più noto, deve dare per scontato che della sua vita tutto, ma proprio tutto, verrà analizzato e raccontato.
Sono le regole base dell’informazione e del giornalismo – quello più sano – che trova notizie e le racconta, lasciando poi al lettore il compito di farsi un’opinione. Funziona così, anche se chi magari vive soltanto sui blog, immune da ogni input sgradito, non se lo ricorda più.

L’Espresso, ormai lo saprete, ha rivelato che l’autista-factotum di Grillo, Walter Vezzoli, ha aperto diverse società in Costa Rica per costruire un fantomatico restort eco sostenibile mai realizzato, in compagnia della cognata di Grillo (all’epoca compagna di Vezzoli) e di un imprenditore accusato – e assolto – per traffico internazionale di droga.
L’inchiesta de L’Espresso, firmata da Vittorio Malagutti, Nello Trocchia e Andrea Palladino (il primo fino a poco tempo fa cronista finanziario di punta del Fatto Quotidiano, gli altri due collaboratori sia del Fatto che dell’Espresso) è, appunto, un’inchiesta. Che racconta una storia interessante, come dimostra il fatto che tutti ne stiano parlando, e che quindi meritava eccome di essere pubblicata.

La risposta di Grillo sul suo blog
 è, come prevedibile, la replica di un politico piccato, che non nasconde il suo disprezzo per i giornalisti (in questo Beppe ricorda Massimo D’Alema). E che non spiega nulla, non chiarisce e non replica a tono. E’ solo un Vaffanculo, difficile forse aspettarsi altro. Versione 2.0 del vecchio “Io sono io e voi non siete un ….”

Andiamo al sodo.

Grillo sfotte i giornalisti dell’Espresso invitandoli ad andare su Wikipedia per scoprire che “sociedad anonima” è l’equivalente di una semplice società per azioni. 
Visto che alcuni giornalisti hanno letto anche altro, oltre a Wikipedia, sanno che il punto non è questo: in Italia basta una semplice visura per scoprire chi c’è dietro a una società per azioni. Per esempio sul sito www.lince.it.
In altri Paesi – basti ricordare il caso di Santa Lucia e la vicenda dell’appartamento del cognato di Gianfranco Fini – invece è impossibile risalire ai soci. Quindi la società è davvero anonima, non soltanto nel senso che esiste come entità giuridica autonoma rispetto agli azionisti.

Per questo sono paradisi fiscali: perché quando una società non è riconducibile a nessuno, è libera di fare quello che vuole. Tutti i grossi scandali italiani, tipo quello del Banco Ambrosiano, sono passati per società di quel tipo.

Grillo richiama i cronisti alla “verifica delle fonti”, sostiene che la Costa Rica non è più nella lista dei paradisi fiscali dal 2011.
Ma Grillo, oltre alle fonti, dovrebbe leggere anche gli articoli: nell’intervista al Fatto Vezzoli dice che aveva aperto quelle società quando pensava di costruire un villaggio eco sostenibile nel 2007. Quattro anni prima che il Costa Rica passasse dalla black alla grey list dei paradisi fiscali.

Quindi le risposte di Grillo, oltre che un po’ supponenti, sono inutili
E le domande che solleva l’inchiesta dell’Espresso restano tutte in campo:

– Perché l’autista di Grillo apre 13 società in Costa Rica? Accettiamo la sua spiegazione: abitava lì e quindi ha seguito il diritto locale. Ma perché 13? A cosa servivano? Non ne bastava una? Chissà.
– Non so voi, ma se io pensassi di costruire un resort in un paradiso turistico, prima mi porrei il problema della fattibilità del progetto, poi cercherei i finanziatori e alla fine aprirei delle società.Perché Vezzoli fa il contrario? Una spiegazione ci sarà, ma lui, che al Fatto dice “non avevo un centesimo”, non la fornisce. E se “non aveva un centesimo”, chi ha versato il capitale sociale? Per 13 società ci vogliono alcune decine di migliaia di dollari.
– Grillo sapeva che il socio del suo autista era un tizio, Enrico Cungi, accusato di traffico internazionale di droga? Non è stato condannato, ma è stato estradato in Italia e condannato in primo grado per aver venduto due grammi di cocaina (non risultano condanne successive, quindi si immagina poi assolto). Nel link postato da Grillo si legge che il Costa Rica è uno degli snodi chiave del traffico internazionale di coca. Grillo si è mai informato sui rapporti tra il suo autista-factotum e Cungi? Non ce lo spiega.
– Quelle società sono poi state chiuse? In caso contrario, che senso hanno e che funzione hanno svolto? L’Espresso nota che la società Ecofeudo, per il progetto del mai realizzato resort, è ancora attiva. A che scopo, visto che Vezzoli dice che quel progetto è abbandonato? Tenere società opache in un (ex) paradiso fiscale ancora molto apprezzato dagli imprenditori per la riservatezza che garantisce non è un bel biglietto da visita per chi predica trasparenza in politica e vuole abolire le scatole cinesi in Borsa (Vezzoli era sul palco di piazza San Giovanni da cui Grillo urlava queste cose).

Nessuno sta facendo illazioni su Grillo (che pure qualche guaio con l’agenzia delle entrate ce l’ha, per una storia di Irap, ma non l’ha mai negato neppure lui). Ma in questi anni abbiamo passato al setaccio i collaboratori di tutti i protagonisti della scena politica (segretarie, portaborse, assistenti ecc.). Ora tocca anche a Grillo.

Ce lo concede, lui e i suoi sostenitori che inondano di insulti e spam chiunque non sia fedele alla linea del movimento, o l’informazione si può fare quando ci si occupa della “casta”?

*aggiornamento*

scopro di conoscere uno dei “fantomatici” soci: lo conosco e mi racconta. Il fatto in sé è una bufala buona per un dossier che duri qualche giorno. Ecofeudo è l’ennesimo sperimento di alcuni ragazzi (non li conosco tutti) molto “spericolati” nelle loro visioni. E’ un’idea, un sito e niente più. E una società che costa (lì) poco e niente di apertura e zero di mantenimento.