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11 settembre, dove siamo ora? Gli uomini che cadono dal cielo di Kabul ci hanno fatto tornare al punto di partenza

“11 settembre 2001, dove eravate?”, chiedono oggi moltissimi giornali. Si sa, l’aspetto emozionale è utile per sviluppare empatia facile ma è utile anche a chi ha bisogno di umanizzare la guerra per rivendere la vendetta come giustizia. 11 settembre 2001, dove siamo ora? È cambiata la percezione del terrore e del terrorismo, questo sicuro, e la paura è diventata un’arma di governo potentissima. Certo, come sottolinea con la solita puntualità l’Ispi, “nell’ultimo decennio il numero di attacchi terroristici di matrice jihadista è aumentato di 6 volte rispetto al decennio precedente” (quindi la lotta al terrorismo ha dato combustibile all’ingrossarsi del terrorismo) e 20 anni dopo (lo dice sempre Ispi) ci sono quasi quattro volte più militanti islamici sunniti oggi di quanti ce ne fossero l’11 settembre 2001 e restano inoltre attivi quasi 100 gruppi estremisti islamici.

I numeri però vanno usati e vanno osati: gli attacchi terroristi successivi a quello dell’11 settembre negli Usa hanno provocato 91 morti. Negli USA sono morte nel frattempo 566 morti per sparatorie di massa. Il processo di trasformazione della sensibilità per il terrorismo ha creato, come spesso succede, terrorismi brutti, sporchi e cattivi e terrorismi che invece non vengono raccontati. Sono passati 20 anni, siamo ancora qua.

Dove siamo oggi? Siamo alla resa dei conti per quanto riguarda la fallibilità dell’esportazione di democrazia: la forza militare americana (e la NATO) attraversano uno dei loro punti più bassi di credibilità. Sono morte 900mila persone nelle guerre post-11 settembre di cui almeno 335mila civili. Sono stati spesi dagli USA 8 trilioni di dollari: sempre Ispi sottolinea come “la guerra afghana è durata più delle due guerre mondiali e delle operazioni in Vietnam, con la perdita di 2500 soldati US, 67mila militari afghani e 47 mila civili”.

Cosa siamo oggi? Ci eravamo ripromessi di curare l’odio degli altri e intanto abbiamo concimato l’odio interno. I populismi di destra sparsi in giro per il mondo da quell’11 settembre hanno raccolto e manipolato barili di islamofobia per incendiare gli umori: Ispi sottolinea come “se nel 2000 ci furono solo 12 aggressioni anti-musulmane negli Stati Uniti segnalate all’FBI, nel 2001 divennero 93, e nel 2020 se ne contano 227”. Per toccare l’aria qui da noi basterebbe anche solo leggere i comunicati stampa e i tweet dei nostri leader più destrorsi. Anche “l’importazione della democrazia” non è andata benissimo, no.

In Afghanistan l’impertinente sceneggiatura della Storia ci ha lasciato uomini che cadono dal cielo, ancora, come se questi vent’anni avessero semplicemente fatto il giro per tornare al punto di partenza. Nel frattempo gli USA hanno speso 233 miliardi di dollari per l’assistenza sanitaria ai veterani di guerra in Afghanistan, 433 miliardi di dollari per l’aumento del budget del dipartimento della Difesa, 532 miliardi di dollari di interessi stimati sui prestiti di guerra, i 60 miliardi di dollari di budget afghano del Dipartimento di Stato e 1055 miliardi di dollari del dipartimento della Difesa. Tutto questo per lasciare un Paese più povero di com’era, con i talebani ancora al potere.

Dove siamo oggi? Quando gli Usa 20 anni fa invadevano l’Afghanistan (ripetendo il messaggio “non siamo venuti qui solo per catturare Osama Bin Laden, Al Qaeda e coloro i quali aiutano Osama Bin Laden”) venivano diffusi filmati in cui gli afghani si erano rasati barba e capelli, le donne si erano tolte il burqa e ballavano a ritmo di musica. Abbiamo passato 20 anni a tenere i riflettori su Kabul mentre nelle zone rurali i cittadini provavano la terribile esperienza della guerra. 20 anni dopo siamo sommersi dalla narrazione che ora la guerra sia “più sicura” grazie ai droni. Nel sud del Paese, nella provincia di Kandahar, il 7 ottobre del 2001 è avvenuto il primo attacco con droni nella storia dell’umanità. L’obiettivo era il leader dei talebani Mullah Mohammad Omar che però morì un decennio dopo per cause naturali. Fu solo il primo di una serie di casi: qualche settimana fa dopo la caduta di Kabul è riapparso Khalil ur-Rahman Haqqani, leader talebano della famigerata Rete Haqqani: lui, come Khalil ur-Rahman o suo nipote Sirajuddin (vice leader dei talebani), erano stati dichiarati “uccisi” dagli USA. Vengono chiamati “fantasmi” perché regolarmente riappaiono vivi e vegeti. E allora chi hanno ucciso quei droni? Nel 2014, il gruppo britannico per i diritti umani Reprieve ha rivelato che tra il 2002 e il 2014 in Pakistan e Yemen, i tentativi di uccidere 41 uomini tramite droni armati hanno provocato la morte di circa 1.147 persone. 20 anni dopo dovremmo sapere che no, che la guerra non è diventata buona e giusta e che i combattenti talebani sono capaci di nascondersi dai droni con successo a differenza dei civili agricoltori, negozianti o tassisti che ci rimangono uccisi. Anche qui siamo, ora.

Nel palazzo presidenziale di Kabul intanto ci ritroviamo comandanti che rivendicano la propria detenzione a Guantanamo e un ministro con un’enorme taglia sula sua testa per terrorismo. Dove siamo 20 anni dopo? Siamo qui. E chissà che non siano bastati 20 anni perché gli analisti e i politici abbiano imparato ad allargare lo sguardo.

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Il leghista Borghi non ha imparato la lezione di Kabul: guerre e morti non fermano il delirio anti migranti

Tutte le guerre sono inutili, inutili e dannose per tutti, tranne che per i signori della guerra che con le guerre ci guadagnano moltissimo. Eppure in uno slancio di ottimismo (per quanto sia difficile coltivare ottimismo in queste settimane così buie) sarebbe stato quasi lecito pensare che le immagini che arrivano a quintali da Kabul potessero davvero smuovere le coscienze, spostare l’angolo di osservazione a chi chiama “emergenza” l’accoglienza senza avere il vocabolario della fuga, della guerra e della paura.

Forse, mi è venuto da pensare, forse quei bambini che vengono passati di mano in mano come fagotti da fare scivolare velocemente fuori dal recinto dell’orrore, avrebbero potuto aggiungere parole nuove ai bambini che arrivano nel Mediterraneo cotti dal mare e dal sole, forse adesso sarebbe stato più facile riconoscere che hanno la stessa forma di bambini di quelli che sulla rotta balcanica si spaccano i piedi al gelo o di quelli che a Lesbo si nutrono come ruderi con gli avanzi marci di cibo e i fucili puntati sugli occhi. Forse anche i talebani avrebbero potuto essere utili, questa smania dell’Occidente di raccontarli in tutte le loro più feroci e appuntite sfumature, questa inaspettata attenzione per gli scricchiolii dei diritti mentre si sgretolano e tutti li avevano ormai dati per scontati, forse queste persone che sanno già di essere sul libro nero dei nuovi padroni avrebbero potuto raccontare perché si scappa, ci si imbarca o ci si incammina su percorsi che spesso paventano la morte eppure sono l’unica soluzione possibile per non morire di pallottole o perfino non morire di paura.

La dittatura, anche quella, anche la dittatura mi sono detto forse ristabilisce le giuste proporzioni delle cose, magari ci insegna a usare con più cautela le parole ché sprecare parole troppo grandi per drammi molto piccoli rischia sempre di sminuire i drammi veri e invece nemmeno i talebani che uccidono i musicisti e i comici, nemmeno i talebani che piantonano con i fucili in pugno i giornalisti mentre conducono il telegiornale, nemmeno i talebani che obbligano le donne a nascondersi, nemmeno i talebani che usano le ragazze come carne da macello, nemmeno quelli sono riusciti ad accendere un po’ di imbarazzo tra gli agitatori che vedono dittature dappertutto, nelle mense e nei ristoranti. Niente, di niente, nemmeno i morti e le guerre funzionano.

Ieri il deputato leghista Claudio Borghi (uno di quelli che con il cattivismo salvinista è riuscito a ottenere un po’ di luce) ha pensato bene di condividere una foto dei migranti sbarcati con un barcone a Lampedusa aggiungendo la frase “Mi raccomando, in Sicilia zona gialla quindi non più di quattro al tavolo al ristorante e mascherine all’aperto”. Avete capito bene? Dice Borghi che è davvero una vergogna che questi dopo essere stati stuprati, derubati, pestati, imprigionati e torturati si permettano di rischiare la vita senza nemmeno la mascherina e per di più assembrandosi su un barcone mentre i poveri siciliani devono sorseggiare il loro spritz nei tavolini all’aperto. Sembra incredibile ma l’ha proprio scritto così. Esattamente come continuano a farneticare di dittatura sanitaria coloro che vogliono esercitare il diritto di non vaccinarsi eppure vorrebbero anche esercitare il diritto di deridere e infettare pure quelli vaccinati.

Mentre a Kabul una famiglia è stata devastata dai missili (di un drone degli USA che esportano democrazie e vittime collaterali in scioltezza) questi riescono a immaginare una “guerra” che si giocherebbe con aghi e siringhe. Le proporzioni, appunto: l’obbligo di usare la mascherina confrontato alla perdita di diritto di opinione, di parola e di identità che avviene in questi giorni in Afghanistan si sperava che risultasse talmente inopportuno da essere perfino immorale e invece è un mantra che continua senza nemmeno scalfirsi.

C’era da sperare che almeno il dolore avesse svolto un ruolo pedagogico, che avesse potuto insegnare (anche poco) il senso della misura nelle diverse disperazioni. E invece niente. Intanto nel 2021 più di mezzo milione di afghani ha lasciato il Paese ed è in giro per l’Europa. L’Europa si prepara a essere ancora fortezza e perfino le parole normalmente ragionevoli del Presidente Mattarella (che sottolinea la solidarietà nei comunicati stampa che non sfocia mai nei fatti) lo fanno apparire uno statista. Avremmo potuto trarre almeno un piccolo insegnamento dalla guerra ma anche quella battaglia ormai è già bell’e persa.

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Kabul de neige

Vorrebbero sembrare degli statisti e invece sono solo dei cortilai. I cortilai sono dei miniaturizzatori che riescono a fare entrare nello spazio di un cortile questioni di enorme complessità come se fossero beghe tra vicini su un calzino steso che gocciola dal balcone di sopra. Hanno la fenomenale capacità di rendere tutto basso, gretto, infeltrito, campanilistico, provinciale, ottuso e nel tempo stesso di volerlo rivendere come un’apicale intuizione per costruire una chiave di lettura globale del mondo e della contemporaneità. Li riconosci, i cortilai, perché strepitano e si spruzzano scambiando la polvere per dibattito, banalizzano tutto convinti che qualsiasi loro unghia incarnita sia una questione mondiale e poi tra amici si vantano di avere «asfaltato» (dicono così, con la boria di una schiacciasassi arrugginita) l’avversario come se tutto intorno gli altri fossero barzotti per qualsiasi loro tweet.

I partiti sono una roncola da agitare contro le gang avversarie

I cortilai proliferano nel mondo e qui in Italia sono capi di partito, prìncipi ombelicali di partiti che sono ginecei completamente scollegati dal mondo in cui accadono le cose. I partiti, a proposito: anche i partiti nell’era del cortilianesimo si sono trasformati in una roncola da agitare contro le gang avversarie. I cortilai passano tutto il giorno abbarbicati sul loro ramo secco aspettando che il nemico possa compiere un errore, basta un errore qualsiasi, un termine sguincio, uno starnuto troppo slabbrato oppure una frase infelice e poi si buttano in picchiata per screenshottare la presunta vergogna e aizzare tutto il loro pollaio. Da lì in poi è tutta una guerriglia che accade solo sul web, l’esondazione di ciccine87 e fragolini52365 ingoiati come se fosse scoppiata una quarta guerra mondiale e anche se intorno poi le guerre scoppiano davvero entrambe le fazioni rimangono inchiodate lì, recintate nella loro disputa personalissima che più si accende e più si ingoffisce.

Se Conte diventa colpevole di concorso esterno in talebanismo

Accade che il tribolato leader dei grillini Giuseppe Conte, riferendosi alla situazione in Afghanistan inviti la comunità internazionale a «coltivare un serrato dialogo con il nuovo regime che appare, almeno a parole, su un atteggiamento abbastanza distensivo». Il fatto che l’ex Presidente del Consiglio usi l’aggettivo “distensivo” (buono per reclamizzare una tisana) in riferimento ai tutt’altro che distensivi talebani che poco prima avevano messo in scena una bruttina recita di fine anno con cui avrebbero voluto rasserenare il mondo, una conferenza stampa che sembrava una letterina a Babbo Natale recitata da Freddy Krueger. Apriti cielo. I primi a fiutare l’odore del sangue sono gli scherani di Italia viva, gente che subisce Conte come se fosse criptonite, che aizzano le tastiere vomitando una serie di improperi e di accuse come se Conte fosse il capo dei talebani appena entrato a Kabul mitragliando in aria.

Lo spettacolo da fuori è indecente ma soprattuto è immorale: mentre la gente muore e rischia di morire per molto tempo questi si tirano i capelli

L’equazione cortilaia è semplice: non si discute nel merito di proposte di azioni diplomatiche ma si fa sanguinare l’aggettivo per dimostrare che Conte è colpevole di concorso esterno in talebanismo e quindi loro che hanno contribuito alla sua caduta sono in sostanza la Primavera araba di cui avevamo assoluto bisogno. Nessun cenno alle madri che sono disposte a lacerarsi pur di lasciare in salvo i propri figli, nessun cenno alle centinaia di migliaia di afghani in un pericoloso limbo burocratico parcheggiati in Europa, nessun cenno a come fare uscire i disperati da lì e come poterli accogliere qui, niente di niente. Il dibattito diventa una sfida tra barzotti i cui toni farebbero impallidire il guerrigliero più smodato e i cui volumi potrebbero a far apparire il tutto come il prologo di una crisi planetaria. E invece è una rissa, una di quelle risse lente e storte dopo l’orario di chiusura del pub. Quegli altri, manco a dirlo, rispondono allineandosi subito alla modalità bassissima. Lo spettacolo, da fuori, è indecente ma soprattuto è immorale: mentre la gente muore e rischia di morire a lungo questi si tirano i capelli. Mica per niente arriva Draghi a dire semplicemente «basta» e risulta un gigante: basta poco, in mezzo ai nani.

Gli appelli alla diplomazia e alla comunicazione con i talebani

Fuori ci sono i fatti e i fatti oltre che tragici sembrano tragicamente irraggiungibili per questa classe dirigente: l’aeroporto di Kabul è diventato l’unico buco per sperare in un po’ di ossigeno ma è presidiato dai talebani che fungono di filtro otturato. C’è gente disposta a morire sulla banchina (o aggrappata ai motori di un aereo che decolla) piuttosto che imbarcarsi con Caronte. L’Afghanistan è diventato uno Stato in cui l’unica legge che vale è quella di un certo dio: legge pericolosissima perché non c’è niente di più pericoloso di uomini che declinano presunte divinità in regolamenti. Volendo vedere ci sarebbero anche le parole di Lakhdar Brahimi, veterano delle Nazioni Unite, che qualche giorno fa ha detto ad Al Jazeera che l’Onu dovrebbe intensificare gli sforzi diplomatici in Afghanistan: «È tempo di diplomazia». Ci sarebbe anche Lucia Castellina (una che viene trattata con riverenza perfino dai cortilai) che prova a ricordare che «politica significa anche dialogare con il nemico». C’è Josep Borell, il rappresentante della diplomazia Ue, che invita ad aprire un canale di comunicazione con chi ha vinto la guerra in Afghanistan senza che questo significhi riconoscere il nuovo Emirato, anche per non lasciare che Cina e Russia prendano il controllo. Il giornalista Nico Piro, uno che di Afghanistan ne sa parecchio, che ricorda che gli Usa in questi giorni stanno dialogando proprio con i talebani per provare a gestire le evacuazioni dall’aeroporto. Filippo Grandi, Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, in un’intervista al Corriere della Sera dice: «Non abbiamo altra scelta. Noi umanitari siamo abituati a essere molto realisti: non tutti i nostri interlocutori ci piacciono, ma sono quelli che abbiamo e dobbiamo lavorare con loro. In questo momento ci si appiglia, con un po’ di opportunismo, alle evacuazioni, ripeto dovute e sacrosante, ma fra poco finiranno. Dopodiché occorrerà costruire questa relazione e usarla per far pressione sulle cose a cui teniamo».

La vergogna di non provare nemmeno a essere coerenti

Insomma, c’è la complessità, quella che ai cortilai non interessa perché escono dal proprio pianerottolo solo per comprare le sigarette e leggersi nella rassegna stampa. Poi, volendo, ci sarebbero anche i tiranni con cui qualche cortilaio intrattiene fruttuosi rapporti amicali per convegni e conferenze e ci sarebbe la Libia che è l’amante ben pagata per talebanizzare il Mediterraneo e ci sarebbe perfino il dittatore «di cui non possiamo fare a meno» (come disse Draghi) Erdogan. Ci sarebbe anche la vergogna di non provare nemmeno a essere coerenti. Ma i cortilai non vedono al di là della staccionata, figurarsi se hanno la sensibilità di riconoscere la vergogna.

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Oggi piangete per l’Afghanistan ma chi fugge da Kabul non è così diverso da chi volete rimandare a casa

Saranno stati quegli uomini caduti come uccelli senza ali dalla carlinga di un aereo militare degli Stati Uniti in decollo, sarà stata la foto della pancia di quello stesso velivolo in cui si sono strette 640 persone disperate e in fuga come animali sull’Arca o sarà che la paura gocciola dalle voci e dalle immagini ma la caduta dell’Afghanistan in mano ai talebani ha riportato la guerra sugli schermi con una potenza impressionante, riattivando (per fortuna) uno scricchiolante senso di compassione collettivo.

Troppo vero quello scappare disperato per non smuovere un senso di cura che difficilmente avviene per le guerre degli altri, isolati come siamo in un sovranismo delle responsabilità che ci invita quotidianamente ad occuparci dei ristretti cortili personali e delle cose nostre. Così per naturale empatia (sempre dileggiata in questi anni) sono ore in cui è terribilmente trendy affannarsi per mostrarsi preoccupati.

Il rischio però è sempre lo stesso: che la sofferenza diventi combustibile per la narrazione finché tira e che la complessità del mondo rimanga schiacciata in una vicenda totalizzante nei media. Le telecamere sono puntate sui fuggitivi afghani eppure nel Mediterraneo due navi bollono in mezzo al mare con disperati ripescati tra le onde in attesa di un porto assegnato dal governo italiano; in Libia, nel Sahel, nel Tigray etiope la gente fugge per non finire ammazzata; c’è la guerra de Kashmir, il conflitto interno in Birmania, la storica guerra nella Striscia di Gaza, si spara in Siria, si muore in Somalia e in Donbass, in Yemen, nelle Filippine. Il mondo è peggiore di come lo immaginiamo.

L’ultimo rapporto dell’Agenzia ONU per i Rifugiati parla chiaro: «Nonostante la pandemia, nel 2020 il numero di persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni dei diritti umani è salito a quasi 82,4 milioni». Si tratta di un aumento del 4 per cento rispetto alla cifra record di 79,5 milioni di persone in fuga toccata alla fine del 2019. Oggi, l1 per cento della popolazione mondiale è in fuga e ci sono il doppio delle persone costrette ad abbandonare le proprie case rispetto al 2011, quando il totale era poco meno di 40 milioni.

E i dolori nonostante parlino lingue diverse e provengano da diverse latitudini sono gli stessi. Sono uguali le cicatrici, sono ugualmente cupe le paure: le persone che fuggono suonano tutte la stessa nota lacerante. E sono quelli a cui noi chiudiamo in faccia le porte, sono quelli che in Europa finiscono nelle discariche umane a cui abbiamo appaltato i confini (come la Turchia e come la Libia). Sono quelli a cui non facciamo caso o che addirittura sentiamo come respingenti. Lo sappiamo vero? Perché prima o poi la narrazione cesserà ma le guerre no.

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80 musulmani uccisi dall’ISIS. Che peccato, eh?

È il più grave attentato accaduto a Kabul negli ultimi cinque anni. A Kabul, dove difficilmente la serenità regna sovrana. Ottanta morti. Duecentotrentuno feriti. Sento già qualcuno ringhiare, fermi tutti: non sono i numeri che contano e non è un dolore che si possa pesare al chilo. Non è questo il discorso.

Il fatto è che quei morti erano musulmani. Sì, musulmani. E l’ISIS ha rivendicato l’attentato, tronfio come al solito, con quella lurida bava alla bocca che accompagna le sue macabre esultanze. E questi ottanta sono morti perché la differenza tra loro e l’ISIS non sta nella razza, come qualcuno si ostina a ritenere, ma nella visione della vita. Il corteo stava manifestando pacificamente contro la costruzione di un’importante linea elettrica che avrebbe tagliato fuori alcuni territori. Niente Allah, niente Maometto, niente Gesù, niente veli, niente religioni: la differenza tra chi rivendica un diritto giusto e chi strappa con il sangue una prepotenza.

Immagino che siano andati in tilt i cervelli di quelli che scrivono di “noi e loro” con la brama di semplificare i temi complessi e possibilmente di banalizzare il mondo per non essere costretti a dare troppe spiegazioni. Immagino che Salvini e compagnia bella non sappiano nemmeno che esistono diverse etnie non analizzabili secondo i canoni di Allah o contro Allah. Immagino che il fiore di giornalisti che ieri ha rilasciato opinioni prima ancora che ci fossero le notizie abbia sbuffato perché è una sfortuna avere tanti morti, in una geografia così complessa e per di più in piena estate sotto l’ombrellone.

Forse è per questo che oggi i saccenti non si scorgono in giro.