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Lavoro

#cosaseria un referendum serio

Quindi Idv, Fds e Sel raccoglieranno assieme le firme per il ripristino dell’articolo 18 varato da Monti e Fornero e per l’abolizione dell’articolo 8 dell’ultima manovra d’agosto di Berlusconi, quando il ministro Sacconi ha voluto mutilare la contrattazione nazionale e la democrazia sui luoghi di lavoro. Il partito di Di Pietro aveva già depositato alcuni dei quesiti in Cassazione replicando un’autoreferenzialità già percorsa in occasione dei referendum per la ripubblicizzazione dell’acqua e dei servizi. Stavolta, però, ha accolto l’appello a fare un passo indietro dopo un incontro dirimente stamattina con i metalmeccanici. I quesiti sul lavoro saranno ripresentati nuovamente da un comitato comune perché già era in corso da mesi una discussione tra giuslavoristi (da Gallino a Rodotà ad Alleva) e aree organizzate della sinistra politica e sindacale.

Sarà un caso che insieme si riesca a dire (e fare) cose di sinistra? Sarà un caso che oggi mi siano arrivate molte mail di elettori confortati da questa presa di posizione? Sarà un caso? O, forse, è una cosa seria, come avevamo suggerito un po’ di tempo fa? E un’ultima domanda, senza cattiveria: non manca qualcuno?

Io valgo perché avevo un sogno e continuo a scottarmi, a tagliarmi le mani e sudare affinché possa avverarsi

Roberta scrive una lettera. E vale la pena lasciare perdere i vecchi contro i giovani e leggerla con attenzione perché dentro ci sono le domande a cui dovremo rispondere. Con chiarezza. Prima delle elezioni.

Il mio nome è Roberta, ma potrebbe essere Lucia, Francesca, Samanta, Teresa, Michela o qualunque altro nome di donna. Ho quasi 22 anni e se dovessero chiedermi cosa farò da grande, la mia risposta è non lo so.  Il mio sogno è sempre stato uno: fare la scrittrice.
Avrei voluto studiare in una grande città, laurearmi, conoscere qualcuno che mi desse la possibilità di crescere e diventare brava, poi lavorare e rendere fieri di me prima i miei genitori, poi me stessa. Chiudo il libro delle favole e torno sulla terraferma, dove i sogni restano sogni e più che vivere bisogna sopravvivere. 

Qualche anno fa mi sono iscritta alla facoltà di lettere di Bari, non la migliore, ma la più accessibile almeno per le mie tasche. Ho frequentato il primo anno e non è andata male. Avevo una media alta, studiava, studiavo. Lo facevo per me.

L’anno successivo ho interrotto gli studi. Mio padre è un operaio, mia madre una casalinga. Una casa in affitto, tre figli sulle spalle. Mio padre ha perso il lavoro e allora ‘Arrivederci Università’. Facevamo la spesa con 15 euro al giorno, dove avrei potuto trovare 500 euro per la nuova iscrizione? Per il libri? Per fare la pendolare? I sogni restano nel cassetto e io sopravvivo.

Ho passato un anno in bilico su un filo pronto a farmi cadere. Non sapere cosa fare da grande a 20 anni era il problema più stupido, io volevo sapere se ce l’avremmo fatta. Volevo sapere se avrei mai più visto mio padre sorridere piuttosto che in depressione piangere senza un lavoro, avrei voluto vedere mia madre smettere di contare gli ultimi spiccioli per arrivare alla fine del mese.

Ho passato un anno ad osservare il mondo e capire che tanto non sarà mai come vorremmo, che la fatica è sempre per chi non se la merita e che l’ingiustizia sarà sempre sovrana. Ho capito che il futuro è il mio e la fortuna non è per tutti, allora se io non sono nata ”fortunata” come tutti i figli di papà del mondo, la fortuna me la creo da sola.

Ho fatto tre lavori al giorno: ho dato ripetizioni private, ho fatto la babysitter, ho lavorato in un bar, in un ristorante, ho distribuito volantini per le strade sotto la neve e con le mani prive di sensibilità a causa del freddo. 5 euro al giorno, a volte 8, al massimo 20.
Non mi interessavano i vestiti nuovi, le serate nei bar, la vita mondana e le cene. Io volevo il secondo anno di facoltà, io volevo la laurea.
”Roberta, qual è stata la tua più grande soddisfazione sino ad ora?” Se dovessero farmi questa domanda io risponderei: Aver lavorato, sacrificato me stessa, il mio sudore e la mia fatica.

Mi sono iscritta al secondo anno e l’ho anche terminato. Ho pagato la mia iscrizione, tutta da sola. Compro libri fotocopiati, per pagarli meno, a volta riesco anche a farmeli prestare. Vado a Bari solo quando è necessario, solo per dare gli esami. Anche il treno costa. Lavoro 12 ore al giorno per 35 euro, faccio la cameriera ed ho i calli alla mano destra perché spesso i piatti sono bollenti e una cicatrice sulla sinistra perché un bicchiere di vetro mi si è rotto tra le mani. Spesso studio di notte e lavoro di giorno. All’università ho chiesto una borsa di studio, ma non credo possa mai essere accettata a causa del mio anno di stop. Per l’università, quindi, sono una comunissima fuoricorso. Una fuoricorso come tante, ma con una vita che nessuno prova a considerare. Ho pagato quasi 400 euro per una Terza Rata ingiusta. Glielo spiegate voi ai Dottori che anche frequentare ha un prezzo, e la media del 30 ce l’ha chi nella vita riesce solo a studiare?
Troppe inutili domande che non avranno mai una risposta o una considerazione. La verità è soltanto una: la vita è ciò che ne facciamo, è il sudore e il sacrificio. I regali, le raccomandazioni, i soldi caduti dal cielo.. li lascio a voi.

Il mio nome è Roberta, ho quasi 22 anni e se dovessero chiedermi cosa farò da grande, la mia risposta è ancora non lo so. Non so se avrò una casa, uno stipendio, una pensione, una famiglia e una carriera. Lavoro 12 ore al giorno e sono felice. Felice di essermi sacrificata per la mia vita e per la mia famiglia. Felice perché io conto più di ogni politico, più di ogni avvocato figlio di avvocati, più di uno qualunque laureato in una università privata. Io valgo perché avevo un sogno e continuo a scottarmi, a tagliarmi le mani e sudare affinché possa avverarsi.

Roberta

La dignità dei morti sul lavoro

Mi scrive Claudio Messora:

L’Inail è l’Istituto Nazionale per gli Infortuni sul Lavoro. E’ una forma di assicurazione pagata da tutti per tutelare quelli che secondo l’Articolo 1 della Costituzione sono i pilastri del nostro Paese: i lavoratori. La pagano gli imprenditori, ma ogni costo aggiuntivo sulle aziende ricade inevitabilmente anche sulle buste paga, dunque la paghiamo tutti. L’Inail ha accumulato un tesoretto enorme. Nella tesoreria di Stato, depositati su un conto infruttifero, sono parcheggiati oltre 17 miliardi. Che lo Stato può utilizzare a suo piacimento se ha la necessità di far slittare qualche asta sui titoli.

Nel frattempo, mentre chi specula sul debito pubblico viene garantito dallo Stato – e questo nonostante il rischio sul deprezzamento del suo investimento sia già stato abbondantemente liquidato attraverso la pretesa di rendimenti da favola -, se un operaio muore non prende un soldo. Matteo, scomparso lo scorso 5 marzo mentre montava il palco di Laura Pausini, a Reggio Calabria, vale 1936,80 euro: il contributo funerario pagato dall’Inail a sua madre. Di più non si poteva fare, perché i genitori di Matteo non risultavano da lui mantenuti. Il “Testo Unico Assicurazione Obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali” è del 1965, ma nel frattempo l’Italia è cambiata. Anzi: tutto il mondo è cambiato. Le leggi si fanno per i cittadini reali, non per quelli immaginari. Se il Paese che paga è composto in buona parte da famiglie di fatto (che spesso sono più salde dei matrimoni la cui durata media non supera i 10/15 anni), la legge che vincola i risarcimenti, e le tabelle che stabiliscono le rendite da corrispondere alle vittime e alle loro famiglie, devono essere aggiornate. Un lavoratore che perda un piede sul luogo di lavoro prende, se gli va bene, 400 euro al mese. 400 schiaffi, mentre i 17 miliardi accumulati dalla sua assicurazione servono a pagare gli errori della politica e a tutelare i rendimenti di chi ha investito. Ma l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro, non su Bot e Cct. Il rischio non lo prescrive il dottore, ma lavorare sì! Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, ha lanciato una petizione per chiedere al governo di occuparsi di aggiornare il Testo Unico, e per chiedere che il tesoretto dell’Inail venga utilizzato per dare una vita dignitosa a tutte le vittime di incidenti sul lavoro e alle loro famiglie, che oggi ricevono rendite vergognose.

Per firmare, clicca qui: NON DERUBATE I MORTI!

Morto precario. Precario morto.

La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature.
(Franklin Delano Roosevelt)

Angelo Di Carlo è morto. Non è un nome famoso. Non ha riempito le cronache estive: l’11 agosto si era dato fuoco davanti a Montecitorio. Non è sopravvissuto alla propria precarietà. Non ha trovato un senso alla disoccupazione e, probabilmente, non vedeva una possibilità. La disperazione come sta scritto nella parola, tutta nel non riuscire a sperare. E senza speranza e senza lavoro forse diventa difficile sentirsi persona. Compiuta.

C’è da chiedersi se questo è un uomo. Se qualcuno riuscirà a trovare un nome al genocidio della speranza e del lavoro. Se ci sarà qualcuno della nostra classe dirigente che oggi si dedica (proprio oggi) ai meeting delle corporazioni così vicine (dicono) alla pietà cristiana. Come si coniuga la pietà di chi si è bruciato prima di essere cucinato da un paese sordo alle difficoltà che chiama “esodati” quelli che dovrebbero mettersi in pausa dalla propria socialità e dalla propria famiglia per non disturbare gli equilibri economici scritti a forza di sottrazioni e addizioni a tavolino; se non è sordo alle difficoltà un paese che chiede di avere fiducia alla disperazione ma la fiducia non riesce nemmeno a immaginarla, non sa dirci che colore ha, quando arriva, che forme.

Angelo Di Carlo è morto per non farsi ammazzare dalla vergogna che l’ha ustionato prima dell’11 agosto.

Quest’estate la torcia italiana non è per niente olimpica. E finirà in qualche trafiletto.

Peccato. Condoglianze. E tutti ad ascoltare l’orchestrina. Via, che si balla: com’è elegante questo Titanic sotto la bandiera della sobrietà.

 

Mamma, manager e la terza via

Una sincera, delicata ma decisa riflessione di una mamma tra le correnti ostinate del lavoro e della famiglia. E la rotta da tenere. E’ sul blog di Valentina. Con le parole che dovremmo adottare subito per farle crescere in politica.

Perché ci sono due tipi di conciliazione: quella materiale, fatta di orari, di incastri, di badge e di asili nido, e quella, molto più delicata perché solo mentale, fra quello che hai sempre immaginato di diventare dal punto di vista professionale e quello che realmente riesci ad essere quando al tuo essere manager si aggiunge l’essere mamma.
Perché avrei voluto tanto fare come molti mi consigliavano “tu alle 18 vai a casa, molla tutto e vai, ti dedichi a tua figlia e torni il giorno dopo”, ma il fatto era che da un certo livello di responsabilità in poi non funziona così: il tuo lavoro deve in qualche modo coincidere con la tua passione, e non riesci a staccare semplicemente spegnendo il pc.
Proprio perché l’azienda in cui ero è speciale, avrei anche avuto la possibilità di passare al part-time, ma ad un certo punto il tema, nella mia testa e nel mio cuore, era “che cosa voglio veramente? sono ancora così innamorata della carriera? Ma soprattutto, riuscirei, con il part-time, ad avere ancora il rapporto che ho sempre avuto con il lavoro? riuscirebbe ad essere ancora la mia passione?“. Mantenendo il paragone con la vita di coppia, mi sentivo come quella moglie che, capendo di non amare più il marito, e di essere attratta da un’altra vita, gli dice “rimaniamo insieme. ma vediamoci di meno. ah, e fra l’altro io adesso ti amo solo un po’”.
Perché se la carriera è sempre stato un tuo obiettivo, e se hai sempre amato sopra ogni cosa il lavoro, lo stress e la tensione degli obiettivi, e a quella dimensione hai sempre dedicato anima, cuore, giorni e ore della tua vita, quando ti rendi conto che tua figlia e i tuoi sogni cominciano a farsi largo e a reclamare tempo e spazio, in una realtà come quella italiana, dove la presenza fisica in ufficio (spesso oltre le 18) è ancora fondamentale, scappare alle 18 o addirittura avere una riduzione di ore non serve a nulla, anzi, spesso serve solo a farti sentire ancora più esclusa dai giochi, dalle decisioni, dai momenti importanti, e allora a volte ti ritrovi a pensare “o tutto o niente”. […]

Da settembre avrò una vita – spero – più flessibile. Che, se vogliamo, è sinonimo di precaria, ma mi piace pensare che sarò semplicemente più padrona del mio tempo.
Non farò solo la mamma, ma cercherò di dedicarmi ai tanti progetti che non ho mai potuto curare fino ad oggi.
Collaborerò con una realtà che mi piace tantissimo.
Scriverò, e credo non solo per me.
Cercherò di raccontare quelle storie che mi girano in testa da tanto tempo, e che hanno bisogno di essere messe su un foglio di word.
Capirò cosa vuol dire fare downshifting, dato che sì, ho la fortuna di poter rinunciare  temporaneamente ad uno stipendio fisso, ma non abbiamo vinto all’enalotto, e ora è tempo di smettere di sprecare (e non vedo l’ora di diventare una di quei cherry picker degli ipermercati, che tanto mi affascinavano quando li studiavo in ufficio).
Cercherò di passare più tempo con Guia perché oggi è il diciottesimo giorno che passiamo insieme 24 ore su 24, e mi rendo conto che i minuti passano velocissimamente e ti addormenti la sera con una bambina e ti svegli la mattina con una ragazzina che ragiona con te.
E, proprio perché dal mondo del lavoro e dei contratti a tempo indeterminato sono uscita in un modo un po’ atipico, continuerò a ragionare, su questo blog, sui temi di mamme al lavoro e conciliazione. Perché ho l’impressione che in Italia, in mancanza di leggi, ma soprattutto di una mentalità che faciliti la vita delle mamme che lavorano fuori casa, le soluzioni per essere felici dovranno per forza essere atipiche e creative.

Tra ILVA e guerra dell’ambiente contro il lavoro

Una delle osservazioni da cui partire potrebbe essere nelle parole di Asor Rosa su Il Manifesto:

Ora, un diverso modello di sviluppo non è affare dei capitalisti, i quali vedono e credono possibile solo quello che c’è: è affare dei governi, ed è questo ciò di cui noi parliamo, quando ipotizziamo che possa esserci un ragionevole tasso di sviluppo economico e produttivo senza provocare la distruzione dell’ambiente, del territorio e della salute, per noi e soprattutto per le prossime generazioni. Hic Rhodus, hic salta . La mia impressione è che il caso Ilva, con tutto il suo carico drammatico di conflitti, paure e tensioni, rappresenti tutto sommato un punto di svolta rispetto alle questioni di cui stiamo parlando, a patto, naturalmente, che nessuno pensi di fare un passo indietro dalla giusta e clamorosa denuncia che ne è stata fatta. Per esempio, per la formazione di una coscienza ambientalista, specifica e peculiare, della classe operaia italiana; ma forse anche per una visione più ampia e dialettica dell’ambientalismo, italiano, che spesso stenta a vedere la propria missione come un affare che riguarda la società nel suo complesso, e non solo alcuni suoi episodici e marginali aspetti. Neo-operaismo e neo-ambientalismo sono le categorie nelle quali collocherei, per farmi capire, il senso del mio discorso: stanno benissimo insieme.

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Morto a 14 anni. Ma sul lavoro.

Io non so se forse la cosa è troppo poco importante per un dibattito politico così nazionale e perso nelle sue alchimie. Non so se ormai con questo mito dei tecnici tutto ciò che non è analisi europea o secolare non è degno di essere raccontato.
Ma un bambino di 14 anni nel leccese è morto in un cantiere schiacciato da un sasso.
Negli ultimi 5 anni sono morti almeno 29 ragazzini sui cantieri.
Una legge seria sul tema non è mai stata scritta.
Qui parlano di grandi opere, di Expo e non riusciamo a difendere i tempi dei nostri figli: quelli per giocare a pallone e studiare.
Restiamo umani, avrebbe detto Vik.

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Le quote mamme

Conciliare lavoro e famiglia per le donne italiane è una pratica funambolica. Lo confermano gli ultimi dati Istat che disegnano uno scenario ormai noto. C’è uno scarto di 11 punti tra occupazione maschile e femminile in mancanza di figli (76% maschi, 65% femmine) e uno di ben 32 punti con l’arrivo del primo pupo (90% i papà, 58% le mamme occupate). La forbice tra maschi e femmine si allarga con il secondo bambino con solo il 51% delle donne che restano al lavoro (mentre il tasso di occupazione dei papà resta invariato) fino ad aprirsi sguaiatamente con l’arrivo del terzo o quarto bambino (in tal caso è il 34% delle donne a restare al lavoro contro l’85% degli uomini). Il congedo parentale obbligatorio per i papà di tre giorni, un altro degli atti simbolici del Governo attuale, resta un inutile ago nel pagliaio dell’inadeguatezza e totale insensibilità dell’esecutivo davanti alla questione. Perché se è vero che c’è un elemento culturale che vuole la donna italiana relegata nello stilema dell’angelo del focolare, c’è da dire che il tema è tutto fuorché una mera questione familiare. Un ruolo rilevante lo giocano in primis istituzioni – che hanno scaricato totalmente sulle donne la cura di bambini e anziani, e che con la chiusura dei rubinetti alle politiche sociali renderanno la pratica di sostituzione del sistema di welfare a carico delle donne insostenibile – e impresa dove, come afferma la giuslavorista Roberta Bortone sul Fatto quotidiano, “il lavoro è ancora apprezzato in termini tayloriani” e “vige la presunzione per cui un figlio finisce a carico delle cure femminili”.

Un articolo sulla genitorialità per ripensare l’organizzazione sociale. Perché tra questo chiasso di riformismo e riformisti un po’ di modernità, su questo punto, sarebbe una bella notizia.

Sì, lo voglio

Lui avrà avuto forse trent’anni, quasi quaranta, sicuramente non più di quarantacinque. Portati male, comunque. Di troppo o troppo poco.

Stavano a Roma in un ristorante troppo imbucato per non essere scientificamente un ristorante costruito apposta con quella forma lì per inghiottirsi tutti i viaggiatori con una predisposizione all’imbuco. Tavolini fuori, sì, ma con siepi altissime, come un cubo di edera. Camerieri riservati da sembrare timidi da almeno un paio di secoli. Nessun orario di apertura o chiusura: se apri un ristorante così introvabile soffri l’orario dei mondi paralleli, degli alieni per salvarsi, dei non-luoghi senza bisogno di aerei o centri commerciali. Insomma un ristorante che esiste solo se si incrociano perfettamente gli appuntamenti: luogo, ora, imprevisti e tutto quel cumulo delle probabilità.

Lei deve essere stata accondiscendente tutto il pranzo. Lo scalino più irto era stata la scelta del vino. Cosa da poco. Hanno finto di metterci la testa per quell’abitudine alle complicazioni come una malattia.

Poi lei deve avere fatto una di quelle domande definitive. Perché lui si è guardato in giro. Per sbaglio ha incrociato anche uno dei riservatissimi camerieri dalla riservatissima postura. Che per poco non ha rischiato il lavoro per quell’errore di mira di sguardi.

Poi si è bloccato. Ha pagato il conto come se dovesse morire ogni secondo e lasciare le cose a posto. Lei ha sorriso prima. Poi si è indispettita. E alla fine si è alzata mentre il rumore di elettrocardiogramma sputava lo scontrino. Dietro l’angolo della strada si sono incrociati di nuovo. Ciechi a tutti. Un sciogliersi di ombre a forma di macchia sul marciapiede per quel sole così matematicamente verticale.

Sono giovani, mi ha detto un carabiniere. Non hanno ancora imparato a non pensare al domani. Un ‘sì, lo voglio’ come il rosario prima di andare a dormire.

Dalla Fornero alla Società del Mulo

Perché non è vero – come recita ad esempio la retorica anticasta – che “ognuno vale uno”: alla base del principio personalistico c’è che il valore di un essere umano non può essere quantificato, se non in astratto. Se si dà un numero a quel valore, si crea la premessa perché la ragione possa intervenire in concreto sulla vita che lo incarna. Agli occhi del carnefice, per esempio, la vita della vittima ha un valore prossimo allo zero. All’amico cui è morta la persona amata è difficile dire “vabbè, valeva uno”.

Dunque la Società del Mulo ha un orizzonte radicalmente diverso da quello delineato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: forse va in direzione opposta, se valuta la legittimità di un diritto umano in base ai sacrifici che si è disposti a fare. Non pensate che sia per la crudeltà dei suoi aderenti, non è affatto così. Nella Società del Mulo, infatti, il posto del carnefice non spetta alle persone, ma a dei numeri alquanto capricciosi: lo Spread, l’Inflazione, il Btp, il Pil, e altri ancora. E chi comanda nella Società del Mulo è assai solerte nel consultare questi numeri con la saggezza di chi consulta un oracolo per il bene di chi compie sacrifici.

Matteo Pascoletti sulla Fornero e la Società del Mulo. Da leggere. Su Non Mi Fermo.